In uscita il 30/9/2014 (16,00 euro) Versione ebook in uscita tra fine ottobre e inizio novembre 2014 (6,99 euro)
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RICCARDO BIANCO-MENGOTTI
MOLOSSUS
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MOLOSSUS Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-766-7 Copertina: Immagine proposta dall’Autore
Prima edizione Settembre 2014 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale
Ai molti miei maestri
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Parte I Ai giorni nostri, Dallas, USA
Primo giorno, ore 17:38 Ogni giorno c’era qualcuno. Per lo più turisti, a volte solo un tizio deciso a dimostrare contro qualcosa ma più spesso persone normali che volevano partecipare alla storia, o almeno a un suo riflesso sbiadito. Per quasi tutte le guide era la principale attrattiva della città, descritta con composta solennità, anche se tra le righe a volte sembrava emergere quasi un orgoglio - provinciale - per essere stata il teatro di un avvenimento così importante. Un segno per terra nel punto esatto. Intorno lo scenario impresso nell’immaginario di una generazione, forse più piccolo visto dal vero e soprattutto incredibilmente colorato rispetto alle immagini in bianco e nero di quel 22 novembre 1963. 1 Elm street. Il teatro dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, uno dei primi eventi mediatici del mondo, seguito da milioni di persone, improvvisamente e inaspettatamente trasformato in un dramma vero e proprio con l’apertura tragica, i vari colpi di scena e l’epilogo, triste, del funerale del presidente. A Francis Di Maggio tutto questo non interessava; il responsabile della sicurezza del presidente era là per controllare i dettagli del dispositivo di sicurezza. Per l’ennesima volta. Chinò leggermente la testa verso il microfono pinzato al bavero della giacca nera. «Posizione 6, verificate il settore di tiro.» Dall’altra parte della strada, sul ponte della ferrovia, due uomini si accovacciarono vicino alla balaustra in cemento, in corrispondenza di un
6 piccolo balconcino decorato con dei motivi geometrici. Il primo si sistemò sulla spalla il calcio del suo HK416, una carabina di precisione in grado di piazzare un colpo a trecento metri entro un cerchio di due centimetri, mentre il secondo prese il binocolo appoggiandosi con i gomiti al cemento, di fianco al fucile. «Giallo-quattro-tre» fece Di Maggio «Ce l’ho» rispose seccamente per radio il tiratore «Giallo-quattro-due.» «Ce l’ho.» «Giallo-cima-due.» «Ce l’ho.» Giallo era il nome dell’edificio da coprire, i codici indicavano il tetto o piano e il vano della finestra da puntare nel più breve tempo possibile. E da colpire, se fosse arrivato l’ordine di fuoco. Poi Di Maggio cominciò a provare con un’altra squadra. «Rosso-tre-uno.» «Ce l’ho.» «Rosso-sei-sei.» Il tiratore impiegò oltre tre secondi a spostare la mira dal terzo piano alla sesta finestra del sesto piano. «Ce l’ho.» Di Maggio conosceva bene Rosso sei-sei, come tutti gli americani; era la sesta finestra del sesto piano, quella da cui aveva sparato l’assassino di Kennedy. Ed era un posto davvero troppo ovvio per rappresentare una minaccia. Ma gli uomini della sicurezza avevano imparato a non considerare nulla come ovvio. Ed erano pagati per non considerare nulla come ovvio. «Troppo lento, devi essere sul bersaglio che ti dico in due secondi. Capito? Due secondi.» Ogni coppia cacciatore-tiratore aveva ormai imparato la geografia delle facciate dei palazzi meglio della piantina di casa loro. Le posizioni erano state scelte in modo da non avere ostacoli sulla linea di tiro e a ogni possibile bersaglio era stato dato un nome; in questo modo tutti potevano segnalare in modo chiaro e rapido una possibile minaccia; la procedura prevedeva quindi il controllo del supervisore e il consenso al tiro in due secondi, quattro in totale dalla prima segnalazione. Di Maggio era ancora insoddisfatto. Gli edifici erano in fin dei conti facili da coprire. Il problema era la gente, in basso. Il presidente Newman aveva insistito per passare tra la gente su un’auto scoperta, o almeno questo era quello che il capo dello staff aveva detto a Di Maggio e a tutti gli altri
7 uomini del servizio di sicurezza durante il briefing di preparazione, cinque giorni prima. Il presidente Newman si era da poco insediato alla Casa Bianca, dopo una campagna elettorale particolarmente accesa in cui era riuscito a conquistare la nazione con la promessa di una svolta decisa per la soluzione di tutti i conflitti sia sul fronte interno sia - soprattutto - in politica estera, a cominciare dalla situazione in Medio Oriente. E non era un mistero il fatto che Newman si riferisse da sempre a Kennedy come al proprio maestro, anzi ciò era stato abilmente sfruttato durante la campagna elettorale e la decisione di recarsi in visita a Dallas subito dopo l’insediamento aveva suscitato nel paese una grande emozione. “Il ritorno del presidente in quel luogo ha un significato fortissimo” era stato detto al briefing. «Perfetto per l’attentato più sensazionale della storia» aveva detto sottovoce Di Maggio a Miller, il suo collega responsabile dei contatti con la polizia locale. Dopo quella riunione avevano anche avuto una discussione con Alberts - il capo dello staff presidenziale - a cui rispondevano. «Non abbiamo ancora annunciato il programma della giornata. Possiamo dire che dopo il discorso il presidente raggiungerà direttamente l’aeroporto in elicottero» aveva proposto Miller, sentendosi rispondere che il presidente non veniva a Dallas per tenere un discorso ma per passare da Elm street in macchina, in mezzo alla gente proprio come Kennedy. Del resto il discorso avrebbe ribadito i temi della campagna elettorale, ben noti in America e ormai sulla bocca della gente di mezzo mondo da quando la settimana precedente Newman stesso aveva anticipato la sua prima mossa in politica estera, un evento senza precedenti, ancora più clamoroso del viaggio a Dallas: aveva intenzione di visitare ufficialmente Israele e la Palestina. Mancava solo l’annuncio ufficiale. Quello non era ancora un problema di Di Maggio; a suo tempo avrebbe coinvolto lui, le forze di polizia del paese ospite e naturalmente i servizi segreti. Tornò a pensare al suo problema, la folla di fianco alla strada. La procedura prevedeva una coppia di agenti in borghese ogni cinquanta persone; secondo i manuali era sufficiente per controllare che nessuno estraesse un’arma e prendesse la mira contro un bersaglio in movimento. Lui però non temeva solo un cecchino ma anche un gesto dimostrativo e per questo aveva raddoppiato il numero di agenti tra la folla.
8 «Pensi che ci sarà qualcuno ad applaudire, oltre ai nostri?» lo prese in giro Miller mentre facevano i controlli delle radio degli agenti in borghese, che già da soli sembravano riempire i prati di fianco alla strada. Di Maggio tra una chiamata radio e l’altra riuscì anche a indirizzare un “fottiti” a Miller che sorrise bevendo rumorosamente con la cannuccia la sua soda da un bicchiere colorato. «Io non capisco» fece Miller alla fine dei controlli «come fai a preoccuparti così. Solo per la piazza abbiamo trentadue squadre di tiratori, più di cento agenti tra la gente, due elicotteri fissi sopra di noi. E questo è quello che vediamo.» Di Maggio lo guardava senza espressione. Miller continuò: «Poi per tutto il giorno tra qui e Fort Worth saranno in volo costantemente almeno quattro caccia. Love Field sarà chiuso per quasi tre ore, tutti i voli saranno spostati a Ovest e Dio solo sa quanti radar terranno d’occhio la zona. Per non parlare dei sei poveri cristi che stanno nella merda!» «Ecco, bravo, chiudi la bocca che dobbiamo finire il controllo proprio con loro» Di Maggio prese la radio «Delta Mike a Wet-One; mi ricevi?» «Forte e chiaro Delta Mike» gli rispose da sotto alla piazza uno degli uomini piazzati nella condotta delle fogne «basta solo che non tirate la corda, lassù.» Di Maggio si lasciò scappare una risata e diede per radio l’ordine di sgombrare. «E con questo abbiamo finito» disse a Miller «ancora un giorno e torniamo a casa.» Questi senza staccarsi dalla cannuccia disse: «Già, in tutto questo casino mi ero quasi dimenticato della visita del presidente, domani.» Miller era sempre ironico, anche dopo una giornata passata a tenere garbatamente lontana la polizia locale; con tutto il nervosismo che c’era in giro ci voleva un nonnulla per scatenare un episodio di fuoco amico e quindi gli uomini dello sceriffo erano stati piazzati a controllare le strade laterali. Da una di queste strade intanto entravano i van bianchi senza insegne per portare via gli uomini delle squadre. Nella piazza rimanevano solo quelli del turno di sorveglianza della notte, che l’avrebbero tenuta chiusa in attesa dell’indomani. Di Maggio diede un’ultima occhiata alla scena. Il corteo del presidente sarebbe arrivato da destra, passando in mezzo ai due prati pieni di gente e scendendo quindi verso il sottopasso della ferrovia. Oltre, in un ampio spiazzo, ci sarebbe stato ad aspettarlo il Marine One, l’elicottero
9 presidenziale, pronto per decollare verso l’aeroporto dove Newman si sarebbe imbarcato per Washington. * * * Primo giorno, la sera - Dallas Meno di un’ora dopo Di Maggio e Miller erano a cena nel ristorante dell’albergo, circondati negli altri tavoli da qualche uomo d’affari con la cravatta allentata e da una dozzina di altri membri del servizio di sicurezza troppo stanchi per unirsi ai colleghi per l’ennesima serata in qualche steakhouse di Uptown. «Devo trovare anche il tempo per portare qualcosa ai ragazzi» aveva detto Miller «che ne so, almeno un cappello da cow-boy o degli stivali.» Era della East Coast come Di Maggio e considerava il Texas ancora un po’ come il set di un film sul Far West. Di Maggio sorrise; conosceva i tre figli di Miller e se li immaginava vestiti da texani. «Tranquillo; domani, mentre qui sbaraccano tutta questa sceneggiata, ce ne andiamo a Fort Worth e dopo lo shopping ci facciamo una bistecca come si deve insieme ai ragazzi della squadra. Mi sono rotto di questa storia e non vedo l’ora di tornare a Washington.» Poi aggiunse: «Basta che domani tu te la sbrighi in fretta con quelli della Contea.» Pensò con una certa amarezza a se stesso; perché aveva voglia di tornare a Washington? Inutile nasconderselo, lo diceva ormai solo per amore di conversazione… non doveva portare souvenir a nessun figlio e da tre anni non doveva neanche più tornare da nessuno. Tre anni; ormai gli sembrava di non essere mai stato sposato, si era dimenticato della sua elegante e colta moglie. Sua moglie, l’avvocato in carriera della capitale che sembrava conoscere più persone nello staff presidenziale e nel governo di quante ne conoscesse lui stesso, la figura sempre all’altezza delle situazioni… la donna bellissima di cui era innamorato, finché non aveva scoperto che per lei il matrimonio non era che un’altra competizione e che in lui aveva trovato semplicemente un buon avversario - intelligente, testardo ma anche abbastanza stupido - per alimentare quel piccolo inferno quotidiano. Si erano lasciati in modo civile, come amava dire lei, dopo avere passato l’ennesimo fine settimana a fare a gara a chi sbagliava per primo. E così Di Maggio si era buttato ancor di più nel lavoro, col risultato che a distanza di
10 tre anni non aveva praticamente deciso come affrontare quell’aspetto della vita e che, appunto, non aveva nessuno da cui tornare. I suoi pensieri durarono il tempo di finire la sua birra, perché Di Maggio fu distratto da due uomini asiatici, forse coreani, che a un altro tavolo avevano iniziato a ridere rumorosamente alla battuta di un americano seduto con loro mentre più in là due camerieri sorvegliavano la sala pronti a portare via i piatti dei clienti. In un angolo un televisore col volume quasi muto stava dando il notiziario della sera; mostrava una foto del presidente seguita dalle immagini di Dallas con i preparativi della visita. Un giornalista si teneva un auricolare appoggiato all’orecchio mentre sembrava indicare proprio il luogo della morte di Kennedy, alle sue spalle. Poi comparve di nuovo la foto di Newman e infine una cartina della Palestina, con la scritta: “Peace Soon?”. «Meglio di uno spot pubblicitario, ci manca solo un’intervista a dei bambini che offrono dei fiori al presidente e siamo a posto. Mezzo mondo in diretta, domani. Che colpo di immagine!» commentò Miller. Era esattamente ciò che metteva a disagio Di Maggio. Una giornata con troppa carica simbolica, un’occasione troppo importante. Più tardi era salito in camera. Era appena uscito dalla doccia quando sentì il rumore, come un insetto intrappolato tra le tende e la finestra, ritmico. Sapeva bene cosa voleva dire; attraversò in fretta la stanza per prendere il cercapersone che vibrava nella tasca della giacca. Lo schermo riportava l’indicazione “Codice 7, settore B”. “Ci siamo” si disse “sospetti fermati presso il centro congressi.” In tre minuti era per strada, sulla macchina guidata dall’autista di turno e diretta verso il luogo della segnalazione. Sul posto c’era un furgone bianco senza insegne e due macchine; intorno, illuminate a mala pena dai lampioni e dai fari dei veicoli, una decina di persone vestite in giacca e cravatta, alcune con una radio in mano. Di Maggio guardò nel furgone dove erano trattenuti i due sospetti, due ragazzi bianchi dall’aspetto un po’ campagnolo, ammanettati con delle fascette di plastica spessa e sorvegliati da due militari. Su un ripiano metallico una borsa sportiva con una serie di bombolette di vernice spray. Non servivano troppe spiegazioni ma Di Maggio ascoltò comunque il rapporto dell’agente capopattuglia. I due si erano arrampicati sul muro di un parcheggio per dipingere un qualche slogan, ma in pratica non avevano neppure fatto a tempo a iniziare che la pattuglia del servizio di sicurezza li aveva intercettati e neutralizzati secondo la procedura. In realtà era poco più di una bravata ma la reazione mostrava quanto la sorveglianza fosse nervosa in tutti i settori. D’altra parte Di Maggio non
11 voleva che nessuno si rilassasse, quindi decise di soffiare un po’ sul fuoco, a rischio di sembrare maniaco. «Controllate tutta la zona e interrogateli alla centrale, non vorrei che ci fosse dietro dell’altro.» “Newman non è proprio amato da tutti” rifletté. Quei ragazzotti texani, probabilmente arrivati in città da qualche villaggio dei dintorni, non vedevano evidentemente di buon occhio la politica del nuovo presidente. E chissà quanti altri ce n’erano come loro. Rientrato in camera, mezz’ora dopo, si buttò sul letto vestito, maledicendo i due contestatori e augurandosi che non ci fossero altre sorprese. Quando si svegliò vide l’implacabile orologio digitale segnare le 4:44. Per un attimo nel dormiveglia trovò il tempo di pensare a quella strana combinazione di cifre, poi realizzò che aveva ancora un’ora di sonno. “Ancora un’ora senza sorprese, non chiedo altro.” Poi si addormentò. * * * Secondo giorno, ore 10:59 - Dallas “Ancora un’ora senza sorprese, non chiedo altro.” Senza volerlo ripeté quella stessa frase alle 10:59 del mattino, mentre si trovava ancora una volta in Elm street, all’inizio della discesa diventata famosa dal giorno dell’assassinio di Kennedy. Miller sorrise di fianco a lui; era filato tutto liscio e il presidente stava ricevendo il lungo applauso alla fine del discorso tenuto al centro congressi, pronto per il bagno di folla finale prima di lasciare Dallas. L’orario era stato scelto con cura; in tempo per consentire la diretta in Europa e nel Medio Oriente, e per permettere allo stesso tempo alla stampa di confezionare i servizi per i notiziari americani della sera. Di Maggio si immaginava la riunione in cui Alberts aveva valutato con attenzione tutti i fusi orari insieme a una squadra di consulenti per l’immagine del presidente… Il discorso aveva ribadito l’intenzione di dare una svolta risolutiva alla questione di Israele, e aveva confermato le date e la presenza del presidente alla clamorosa conferenza di pace annunciata per il mese successivo proprio a Gerusalemme. Di Maggio era calmo nonostante la tensione e la stanchezza. Continuava a ricevere nell’auricolare la situazione da tutte le squadre e soprattutto l’aggiornamento dei tempi per la parata del presidente. L’ultima
12 segnalazione dava il corteo pronto ma ancora in attesa dell’uscita delle personalità dal palazzo dei congressi. “Circa cinque minuti di ritardo” pensò alzando lo sguardo. Senza volerlo, in alto oltre gli edifici della piazza vide le scie dei due caccia che volavano ormai da un’ora sopra la zona di Dallas e pensò che tra poco anche loro sarebbero potuti rientrare alla base. «Corteo pronto, Eagle è a bordo» gli venne comunicato via radio. «Copio» rispose. “Dodici minuti di ritardo” pensò guardando l’orologio e passando in rassegna la piazza ancora una volta. Miller gli fece un cenno, come d’accordo, e si spostò verso la postazione di controllo della polizia locale, a pochi metri. La cosa più importante era che nessuno facesse sciocchezze. Il fuoco amico era il loro spauracchio; quelli del centro addestramento tenevano a tutti gli uomini un seminario ogni semestre e ancora non si sentivano sicuri. Soprattutto quando c’erano di mezzo sceriffi e poliziotti locali dal grilletto facile, pronti a vedere minacce anche dove non c’erano. «Eagle sta partendo, tutto pronto» fece l’auricolare. Di Maggio continuava ad ascoltare la radio e a guardare la scena. Aveva un suo modo di tenere d’occhio situazioni come quelle; guardava un gruppo di persone o una macchina per due o tre secondi e poi spostava lo sguardo, passando a un altro punto, tenendo a mente qualche dettaglio, un vestito colorato oppure una persona con un cappello particolare. «Eagle in movimento.» Aveva percorso con lo sguardo la folla ormai varie volte, ritrovando sempre nello stesso punto il papà con un bambino in spalle, tutti e due neri con giubbotti gialli. Oltre c’era una coppia di donne anziane, quasi fuori luogo nella folla, che agitavano garbatamente delle bandierine a stelle e strisce. «Eagle su Elm Street. Eagle in vista.» Si girò senza esitazioni verso l’angolo della piazza e tra un balletto di sirene blu vide la limousine blu scoperta, una sorta di citazione della Lincoln Continental kennediana che tutti avrebbero riconosciuto. Almeno - pensò Di Maggio - rispetto alla macchina usata da Kennedy che non aveva alcuna blindatura, quel modello era dotato di vari sistemi di protezione, dai pannelli in kevlar inseriti nella carrozzeria ai vetri capaci di resistere a colpi di fucile automatico sparati da un metro. Tutto era stato disegnato in modo da non apparire, ma in effetti con quegli accorgimenti la sagoma del presidente era quasi del tutto schermata pur rimanendo ben visibile e apparentemente a contatto con il pubblico.
13 Jason Newman, in abito scuro, salutava la folla con la mano destra seduto a fianco della moglie Annette, con i capelli biondi tenuti a malapena a bada da un cappello blu marina. Di Maggio sorrise tra sé all’idea che il colore dei capelli della first lady fosse una nota stonata nella scena; il paragone durò solo un attimo, poi scacciò il pensiero per concentrarsi sul suo compito. «Eagle sta scendendo» gracchiò ancora l’auricolare. L’auto sfilava di fronte a Di Maggio percorrendo molto lentamente la curva prima di infilarsi nel sottopasso della ferrovia, oltre il quale un elicottero era già pronto a prelevare Newman e la moglie per accompagnarli all’aeroporto. Ai lati della strada la gente sventolava dozzine di bandiere americane, rendendo per un attimo confusa e movimentata la scena. “Ancora un minuto” pensò Di Maggio con i nervi a fior di pelle e lo sguardo che rimbalzava continuamente dall’auto alla folla, mentre alla radio venivano annunciati gli ultimi spostamenti del corteo e poi finalmente: «Eagle nel sottopasso.» Di Maggio guardò rapidamente l’orologio. “Dodici minuti in ritardo rispetto al programma.” Odiava quei piccoli imprevisti, ma ormai c’era abituato. Oltre alla ferrovia, l’elicottero verde oliva con le cappottature superiori candide aveva i rotori già in moto; appena salito il presidente e la moglie, il velivolo diede potenza e iniziò a sollevarsi virando lentamente verso il fiume e allontanandosi sempre più velocemente. Di Maggio stava per voltarsi di nuovo verso la piazza quando vide qualcosa di strano; all’inizio fu solo un’impressione, una macchia scura in cielo, qualcosa che non quadrava nel suo campo visivo mentre teneva sotto controllo la scena. Da quel momento tutto avvenne molto rapidamente. Era proprio nella direzione in cui stava guardando e per un attimo pensò che per qualche motivo l’elicottero del presidente stesse tornando indietro; fece in tempo a prendere la spalla di Miller, che nel frattempo si era portato nuovamente verso di lui. In cielo la sagoma nerastra era già diventata molto più grande, ma più piatta rispetto a quella di un elicottero. Tre secondi. Puntava la piazza. Senza pensare, Di Maggio parlò alla radio. «Hotel1 qui Delta Mike; settore 8, a Ovest.» Dall’elicottero la risposta: «Contatto visivo, mezzo miglio. Non riconosciuto. Ripeto non riconosciuto. Alert-Alert-Alert.» «Copiato.» Sette secondi.
14 Solo allora sentì il sibilo, vide la sagoma arrivare vicinissima, accompagnata dall’ombra proiettata per un istante sulla ferrovia prima dell’impatto. Alla radio era scoppiato il caos, con tutte le squadre che riportavano il contatto visivo. Anche dalla folla si levarono delle grida acute e qualcuno iniziò a puntare il dito verso la ferrovia. Poi il rumore, uno schianto secco seguito dal crepitare delle schegge. Infine una colonna di polvere, lenta e scura, che diradandosi lasciava intravedere delle fiamme di un arancio vivo. Undici secondi. Di Maggio era stato addestrato a reagire agli imprevisti, a dominare il panico; cominciò a muoversi in modo automatico, in mezzo a un mare di gente che scappava in tutte le direzioni. L’impatto era avvenuto alla base del palazzo che fronteggiava la piazza a Est, verso una delle due fontane che limitavano il prato in quella direzione, a circa trecento piedi dalla strada percorsa da Newman. Per fortuna la gente in quel momento si era ammassata verso la strada; i morti sarebbero potuti essere molti di più. Dopo il boato Di Maggio aveva istintivamente guardato nella direzione dell’elicottero del presidente, poi era iniziata la sequenza dei rapporti delle perdite. «Delta Mike da Papa4; un uomo a terra.» «Delta Mike, qui Papa13; civili a terra; inviare ambulanza.» Di Maggio aveva reagito in modo razionale, come era addestrato. «Rimanete in posizione. Controllate i vostri obiettivi. Centrale; richiedo intervento medico per Papa4 e Papa13.» Intanto la gente stava scappando verso le strade laterali aiutata dalla polizia locale, che contemporaneamente iniziava a controllare l’afflusso di ambulanze e pompieri. Di Maggio si stava spostando verso il punto di impatto, tenendo sempre d’occhio le varie direzioni. «Hotel-1, qui Delta Mike» l’elicottero era sulla verticale della piazza, poco più alto dei palazzi «rimanete in posizione e avvisatemi quando siete a corto di gas.» «Ricevuto Delta Mike.» La polvere si stava diradando. Mentre correva, Di Maggio riusciva a vedere le sagome dei furgoni della sua squadra parcheggiati in quel settore e schiacciati l’uno sull’altro dall’urto. I mezzi più vicini al prato erano distrutti e stavano bruciando sempre più intensamente. Ovunque, gente per terra. Parecchi si agitavano, cercavano di alzarsi, alcuni tossivano.
15 Di Maggio aveva riconosciuto uno dei suoi uomini steso sul prato; era vivo ma coperto di sangue. Il suo compagno stava tossendo carponi sul prato e quando vide Di Maggio alzò il pollice per fargli capire che stava bene. C’erano altri corpi per terra e intanto arrivavano gli infermieri delle ambulanze. Le vittime erano confuse con la terra e l’erba del prato, con gli arti piegati in modo innaturale. Là in mezzo qualcuno si muoveva, alcuni erano in piedi e si coprivano la faccia, altri semplicemente alzavano un braccio per chiedere aiuto. Vide altri due suoi agenti barcollare verso un medico; cercava i suoi uomini in quel settore, li contava mentalmente ma non poteva spingersi oltre, perché le fiamme e il fumo in alcuni punti stavano aumentando. Fino a quel momento Di Maggio era rimasto concentrato su quello che vedeva. Quasi all’improvviso si rese conto anche di quello che sentiva: voci, lamenti, il suono delle sirene, il crepitare delle fiamme. In alto, il rumore regolare dell’elicottero. Alcuni uomini della polizia locale stavano usando degli estintori portatili senza grande effetto; poco dopo arrivarono sul posto due camion dei pompieri che coprirono l’area con una densa schiuma bianca, che brillava alla luce dei lampeggianti blu. Nonostante fosse una mattina di sole, la polvere sollevata dall’impatto dava alla scena la luce di un pomeriggio d’inverno nebbioso. * * * Secondo giorno, ore 22:00 - Dallas Ormai quasi alla fine di quella giornata, Di Maggio era stanchissimo e non ce la faceva quasi più a fissare lo schermo a tutta parete su cui era proiettata una carta del Texas con una serie di cerchi di colori diversi, ma si fece forza per ascoltare ancora una volta l’agente che stava parlando. «Prima di Hotel1 abbiamo una serie di contatti visivi da Love Field» disse indicando un grappolo di cerchi blu sulla carta «poi siamo riusciti a recuperare la registrazione della telecamera di un cantiere sulla 183, questo cerchio rosso sulla mappa. Ecco il fotogramma, il migliore che abbiamo finora» aggiunse, proiettando un’immagine molto sgranata e dai colori sbiaditi al centro della quale era visibile una sagoma confusa. Miller, seduto vicino a Di Maggio, chiese: «Come facciamo a essere sicuri che si tratti del nostro aereo?» L’agente evidentemente si aspettava la domanda e rispose meccanicamente:
16 «A quell’ora era in vigore il divieto di sorvolo e gli unici aerei in aria erano i quattro caccia dell’aviazione, i nostri due elicotteri e quello della televisione e nessuno era in quella zona; gli elicotteri erano su Downtown e i caccia erano a quote superiori, due a Sud e gli altri verso Tyler.» Quindi proseguì: «Abbiamo le testimonianze di almeno quindici automobilisti tra la 183 e la 635, qui e qui, che hanno chiamato il 911» appuntò una serie di simboli sulla mappa che si allungava verso Nord «nel pomeriggio sono arrivate altre possibili immagini da telecamere di parcheggi ed edifici. Stiamo cercando di risalire la rotta percorsa; il contatto più lontano che abbiamo è verso il confine con l’Oklahoma, dopo le dieci e mezza ora locale. Nient’altro per ora, ma considerate che quella zona è poco abitata e non ci attendiamo molte altre notizie da quella parte.» L’agente si fermò qualche secondo guardando la piccola platea in attesa di una domanda, che arrivò puntuale: «I radar dell’aviazione?» fece Alberts «dovremmo avere un’idea precisa della traiettoria e potremmo capire da dove viene! Come mai non ci avete pensato?» Varie persone nella sala fecero commenti e l’agente sul podio attese qualche attimo prima di rispondere. Ancora una volta nella piccola sala si alzò del brusio, ma stavolta l’agente che parlava alzò una mano per fare capire che non era finita. «Ho parlato personalmente con il capitano di turno stamattina e lui sostiene di non avere visto tracce non autorizzate.» «Impossibile» fece Alberts, sempre più alterato «credono che siamo fessi? Avranno perso le registrazioni, avranno fatto qualche casino. E sono settimane che sanno del viaggio del presidente…» «Comunque ci hanno promesso le copie al più presto» intervenne Di Maggio. Poi chiese ad Alberts, che intanto si stava asciugando la fronte con un fazzoletto: «Il presidente come l’ha presa?» Poche ore prima Newman era apparso in televisione con un comunicato video messo frettolosamente insieme a bordo dell’Air Force One. Il messaggio era chiaro, voleva tranquillizzare l’opinione pubblica ed esprimere il dolore per le vittime, senza avanzare ipotesi e riferendosi sempre a un incidente piuttosto che a un attacco o a un attentato. Erano state fatte trapelare alcune voci contrastanti che di fatto lasciavano aperte varie possibilità. «Non ha voluto saperne di rimanere sull’aereo» rispose Alberts «ci ha mandato il vicepresidente, e ora sta preparando un discorso… e
17 naturalmente vuole sapere» alzò la voce «tutto su questo fottuto attentato per poter tenere la posizione giusta!» L’agente allargò le braccia, facendo capire che la riunione era terminata, e aggiunse: «Per ora non abbiamo altri aggiornamenti, la prossima riunione è alle convocata domattina alle 9;00.» Le persone iniziarono ad alzarsi. Di Maggio stava studiando la carta, ormai sempre più stanco, quando Miller gli indicò una stanza di fianco alla sala riunioni. «Frank, andiamo a vedere di là, se hanno finito. Potrebbe esserci qualcosa di interessante.» Oltre a una porta di comunicazione c’era una serie di scrivanie disposte attorno a due grovigli di cavi tirati provvisoriamente dal soffitto, diretti a una dozzina di computer portatili; tutt’attorno tecnici e agenti chini sugli schermi. L’attenzione di Di Maggio andò subito a un capannello di persone che guardavano uno schermo in particolare. Vicino, sulla scrivania, una serie di fotografie a colori stampate da un computer. Lo specialista seduto al computer era Andy Stevens, un giovane agente tecnico che Di Maggio aveva conosciuto qualche mese prima, quando lo aveva personalmente sottoposto al colloquio per entrare nella squadra. «Ciao capo» lo salutò «hai una faccia che fa schifo. Dai, ti tiro un po’ su il morale. Guarda qui.» Indicò lo schermo del computer su cui era rappresentato un oggetto nelle tre viste, come nei disegni tecnici. Da un lato c’erano alcune immagini, molto sfocate e con i colori appena visibili. «Ecco, queste sono le tre migliori immagini che sono riuscito a tirare fuori finora dell’aereo-bomba…» Di Maggio lo interruppe subito. «Non sappiamo ancora cosa fosse. Un aereo, un pezzo di un aereo, un satellite… che ne so, un alieno. Questo vale per tutti» si mise dritto facendo in modo che tutti facessero attenzione «non voglio sentire parlare di aerei, bombe, attentati e così via, chiaro? Almeno finché non si saprà qualcosa di più. Andy, continua.» Di Maggio non si irritava facilmente. Per qualche secondo nella stanza ci fu solo il sottile ronzio dei computer. Poi Andy riprese con un tono neutro, un po’ atipico per lui. «Be’, queste sono le migliori immagini che abbiamo dell’oggetto, due di profilo e una dall’elicottero della televisione.»
18 «Credevo che l’elicottero non lo stesse riprendendo in quel momento» fece Miller. «Non stavano mandando in onda le riprese ma per fortuna il nastro della telecamera stabilizzata gira comunque. Io lo sapevo» aggiunse con un po’ di compiacimento «e me lo sono fatto dare subito.» Di Maggio era tutto orecchi e guardava le tre foto mentre Andy proseguiva: «Dal video non si vede nulla fino al gran polverone, ma le telecamere stabilizzate riprendono a una velocità più elevata del normale e quindi» stava armeggiando con il computer per riprodurre il video un fotogramma alla volta all’indietro, partendo dall’esplosione «ecco… questo! Vedete?» Era la sagoma riprodotta sulle immagini, molto confusa ma sufficientemente chiara per vedere una forma vagamente appuntita. «Sì, con un po’ di fantasia…» fece Miller senza troppo entusiasmo. Per un po’ nel capannello nessuno parlò. Le implicazioni erano chiare a tutti; l’evento chiamato in codice “Black Sky”, l’attentato compiuto con un aereo, era uno degli aspetti su cui si addestravano di più. Dopo il 2001 era salito prepotentemente in cima alla lista delle minacce, e anche a quella dei budget dei dipartimenti di Analisi, Addestramento, Pianificazione e Tecnologie. E finiva anche in cima ai pensieri della gente, appena qualcosa andava storto con un aereo. Per questo tutti sapevano molto bene quale poteva essere l’effetto di un’immagine sfocata come quella. Il silenzio fu rotto da un rumore di passi proveniente dalla sala riunioni; Alberts guidava un gruppetto di funzionari del suo staff, tutti in abito grigio tranne una donna, in tailleur blu. «La nostra amica Brown… dannazione» mormorò Miller, ma in modo che solo Di Maggio potesse sentirlo. I contrasti tra la sicurezza e la responsabile dei rapporti con la stampa non erano rari. «Buonasera a tutti» iniziò la Brown con il consueto tono troppo amichevole «prima che mi diciate come stanno le cose, ve lo dirò io» fece una risata nervosa. «Il presidente uscirà con un discorso domani mattina alle 13 ora di Washington, annunciando che purtroppo uno degli aerei telecomandati dell’aviazione che sorvegliavano la zona ha avuto un’avaria» procedeva spedita, quasi automaticamente «e l’operatore che lo pilotava dal centro di controllo non è riuscito a dirigerlo lontano da Downtown. Il caso ha fatto il resto. Quanto al Black Sky, non ne voglio sentire parlare da nessuno. Chiaro a tutti? È chiaro Frank?» Di Maggio sapeva come doveva comportarsi.
19 «Stai tranquilla Suzanne, non ci sono chiacchieroni» fece una pausa «almeno non ce ne sono nel mio gruppo. Ora invece ti dico io come stanno le cose, almeno per quello che ne sappiamo. Sembra che abbiamo proprio un Black Sky. Noi partiamo da questo qui» disse indicando le immagini sul monitor del computer. Alberts alzò lentamente la mano. «Non ne sono proprio sicuro; il presidente deve basare le decisioni su fatti, non su congetture. Che certezza abbiamo che si tratti di un aereo? Non vorremmo certo concentrarci su una pista solo per qualche foto sfocata.» «Togliti dalla testa l’idea di un incidente o di una bomba nella piazza. Là fuori ci sono almeno due dozzine di avvistamenti di qualcosa che volava anche lontano da qui, oltre alle centinaia di testimoni che hanno visto arrivare qualcosa dal cielo. Compreso il sottoscritto» rispose Di Maggio sforzandosi di mantenere la calma. «Naturalmente» fece una pausa per lasciare capire che la domanda non era una sorpresa «naturalmente eravamo in contatto con l’Air Force, che ha un radar del sistema di difesa aerea nazionale vicino a San Antonio. Poi c’erano i radar di due dei quattro aerei di pattuglia sopra Dallas, che in quel momento erano orientati dalla parte giusta. Dovrebbero consegnarci una copia delle registrazioni a momenti, mentre per i radar degli aerei dovremo aspettare almeno domani mattina.» Alberts teneva con le mani lo schienale di una delle sedie. «Mettiamo anche che si tratti di un aereo; non è sufficiente Frank, non vuol dire ancora nulla. Dobbiamo sapere che aereo è, da dove è partito, chi c’era a bordo, capito?» Poi aggiunse: «Tu inizia a rispondere a queste domande e poi vediamo. E comunque, ufficialmente rimaniamo tutti» fece una pausa guardando i presenti «sulla posizione che la dottoressa Brown ha esposto. Grazie a tutti e buon lavoro.» Ma la sua faccia non era amichevole come le parole che aveva appena pronunciato. * * *
20 Terzo giorno, mattina presto - Dallas «Buongiorno Frank.» Di Maggio si era messo a dormire vestito su una poltrona della sala riunioni per un tempo che in quel momento gli parve lunghissimo. Ma quando guardò l’orologio realizzò con una smorfia che aveva riposato solo poche ore, e male. Miller era già sveglio da un po’. «Sono arrivate le registrazioni del radar di San Antonio.» «E?» rispose Di Maggio che faticava a svegliarsi. «Su, vieni a vedere.» Poco dopo erano di nuovo davanti ai video. Sembrava che Andy e il resto della squadra non si fossero mai allontanati dalla stanza dei computer. Stavano esaminando un DVD che riportava esattamente quello che era passato sugli schermi del radar il giorno prima. Sullo schermo nero erano riportate delle linee arancioni e una serie di rombi accompagnati da brevi scritte. In alto, su una fascia chiara, spiccavano in nero dei codici tra cui si distingueva il tempo. «Questo cerchio è la no-fly zone in vigore oggi, anzi ormai ieri» cominciò Andy «vedete questi due contatti? È la prima pattuglia di caccia, sopra Tyler, mentre gli altri due sono qui, più giù.» Di Maggio si stava svegliando del tutto ed era impaziente di arrivare al punto. «OK, OK. Dove sono le tracce degli elicotteri su Downtown?» «Non possiamo vederle qui, oggetti così bassi non possono essere rilevati da un radar così distante. C’è solo» allungò un dito «di tanto in tanto l’elicottero della televisione che si tirava su poco prima della parata per fare riprese della zona. Aspetta, lo faccio avanzare un po’… ecco, ora il video è a cinque minuti dall’evento» fece attenzione a usare i termini giusti. Tutti guardavano le immagini sperando di cavarci qualcosa. Per dieci minuti rimasero a fissare il video, che mostrava solo le due coppie di rombi descrivere degli ovali per poi interrompere la sequenza, con due simboli a un certo punto diretti verso il centro del cerchio mentre gli altri due con tracce sempre più larghe. Andy ruppe il silenzio «Questo è il momento dell’impatto; i due caccia virano veloci per scortare l’elicottero del presidente come da programma e poi, vedete, a un certo punto serrano la formazione mentre gli altri iniziano a perlustrare la zona tra Downtown e la destinazione dell’elicottero del presidente. Tutto qui.» Sullo schermo non c’erano altre tracce.
21 Di Maggio non era soddisfatto e si stava innervosendo. «Mi stai dicendo che un aereo può andare in giro come vuole senza essere visto? Almeno i caccia diretti verso Downtown avevano il radar acceso, giusto?» «Capo, questo è normale. Per via della curvatura terrestre il radar non può vedere sotto l’orizzonte e nemmeno dietro alle colline. Una volta un aereo da turismo tedesco è atterrato indisturbato sulla Piazza Rossa, a Mosca. Fino a un certo punto nessun radar lo aveva neppure segnalato.» «Me lo ricordo benissimo. Va bene, quindi i radar dei caccia sono il prossimo passo. Richiamate l’aeronautica, recuperate quelle registrazioni prima possibile. Ci vediamo più tardi, io torno fuori.» Era sempre più stanco e si diresse verso la macchina del caffè; possibile che le cose si stessero complicando a tal punto? Dal momento dell’incidente nella sua testa le certezze avevano iniziato a sgretolarsi; più informazioni aveva e meno queste combaciavano, al punto che a volte gli sembrava che tutto fosse il frutto della sua fantasia. Lui e Miller allora presero un bicchiere di plastica ciascuno, lo riempirono di caffè bollente e lo tapparono con un coperchio bianco, quindi scesero le scale dell’albergo. La piazza era a due isolati e ci arrivarono in meno di un minuto. Passarono il cordone di agenti dello sceriffo mostrando i loro tesserini e parcheggiarono la macchina di fianco a due furgoni blu, proprio sotto al palazzo da cui erano partiti i colpi di carabina per Kennedy. Di Maggio scese per primo e subito si voltò verso il punto dell’impatto. Il giorno prima la vista era molto diversa; pensandoci sentì lo stomaco stringersi. A distanza di quasi ventiquattro ore, infatti, la scena era molto più chiara. La sequenza dell’impatto sembrava scritta nelle tracce nere sul prato e nell’ammasso dei furgoni carbonizzati. Qua e là c’era ancora della schiuma, per terra una quantità di cartellini numerati e tutt’attorno il nastro giallo e nero che circondava l’area oscillava al minimo alito di vento. Ora, di fronte alla scena, Di Maggio stava cercando di mettere a fuoco tutte le circostanze, senza trascurare nessun particolare. C’era ancora qualcosa che non tornava; aveva percorso con la memoria tutti gli avvenimenti del giorno prima varie volte ormai, ma un dettaglio importante continuava a sfuggirgli, se lo sentiva. Ci pensò per l’ennesima volta, poi fu distratto da una figura davanti a lui; era arrivata da Washington la squadra delle tecnologie.
22 «Ciao Danny» esordì Di Maggio rivolto verso Daniel Williams, un uomo piuttosto alto vestito con un camice bianco, in testa un caschetto giallo e con la faccia in parte coperta da occhiali di plastica trasparenti da laboratorio. «Frank, che maledetto casino…» disse Williams. Poi, arrivato più vicino, aggiunse a voce più bassa: «Mi spiace per i ragazzi… i due in ospedale se la caveranno?» «Incrociamo le dita, sarebbe un miracolo.» «Non proprio» disse Williams «vedi, il botto sarà anche sembrato grosso, ma non era granché. Vieni a vedere da questa parte.» Si spostarono verso le carcasse dei furgoni «Vedi i segni per terra, neri, qui e anche laggiù? Quanto tempo è passato prima che i pompieri spegnessero il fuoco? Due minuti, non di più. Tutta questa bruciatura è la benzina dei due furgoni bruciati, non c’era molto altro. Qualsiasi cosa fosse non era grossa e aveva i serbatoi quasi vuoti. All’impatto si dev’essere come polverizzato.» Di Maggio era pensieroso. «OK Danny, ma dei van blindati da sei tonnellate sono stati spostati di quasi cento piedi prima di bruciare.» Indicò il parcheggio dove oltre ai due furgoni bruciati c’erano altri quattro o cinque mezzi, tutti spostati come se un gigante li avesse messi in disordine. «Questo in effetti ci può dare degli altri elementi, adesso infatti stiamo rilevando le posizioni per cercare di stabilire la dinamica della scena.» Quattro persone in camice bianco con la scritta “Police” in blu stavano armeggiando con delle specie di telescopi montati su dei treppiedi che giravano lentamente. Erano scanner 3D, in grado di sondare tutto lo spazio circostante e ricostruire al computer i volumi degli oggetti visti dalla lente. «Purtroppo non abbiamo la posizione iniziale dei furgoni, ma per questo useremo le riprese dall’elicottero» concluse Williams. Di Maggio era sempre stupito in quei casi; sapeva che i ragazzi delle tecnologie avrebbero trasformato quelle poche informazioni in una specie di film, creando con pochi frammenti una piccola storia. Qualche anno prima una macchina della scorta del presidente, la prima del corteo, era finita fuori strada; quasi certamente un incidente, solo che era accaduto all’estero, durante una visita ufficiale. Williams e la sua squadra avevano analizzato il pneumatico e le tracce sull’asfalto e avevano scoperto che una ruota era stata colpita da un singolo colpo sparato con un fucile di precisione, da molto lontano. Ricostruendo gli eventi, nel giro di pochi giorni erano riusciti a trovare la posizione del cecchino; la polizia del posto aveva fatto il resto, silenziosamente. Naturalmente, per la stampa un’auto del corteo aveva forato.
23 Di Maggio sorrise per un istante ripensando all’episodio, poi tornò a concentrarsi sulla scena. «Danny, che mi dici dei pezzi? Cosa avete trovato? Il pilota?» Sulla scena di ogni incidente aereo si trovavano sempre una quantità di frammenti, spesso interi pezzi di ali o di fusoliera, parti della struttura, strumenti o rivestimenti. Le parti più massicce, carrelli e motori, erano quasi sempre intere ma spesso finivano molto lontane dal punto di impatto. Poi c’era il crash recorder, la scatola arancione chiamata comunemente scatola nera, che registra i dati di volo fino al momento dell’impatto. E soprattutto almeno un corpo, quello del pilota. «Una specie di uccellino tutto piume» fece Williams pittoresco «per ora non abbiamo molto. Tantissimi pezzettini; stiamo facendo una gran fatica a individuarli e a raccoglierli, vedi?» Gli agenti delle tecnologie, divisi in gruppetti, erano sul terreno armati di macchine fotografiche, laptop e sacchetti di plastica di varie dimensioni dove finivano i frammenti recuperati, una volta fotografati e catalogati annotando la posizione esatta. Di Maggio chiese quasi automaticamente: «Il motore? La scatola nera?» «Nessuno dei due» rispose Williams «potrebbero essere finiti sotto, ma c’è un sacco di terra smossa e dobbiamo fare piano per recuperare i frammenti prima di scavare senza rovinare nulla. Quanto al pilota, nessuna traccia. Ma in questo casino non mi aspetto di trovare molto…» Di Maggio aveva fretta, ma sapeva che Williams aveva ragione. «Quando avremo il materiale?» chiese comunque «Stiamo iniziando a portare via i pezzi. Ci sono già dei ragazzi al lavoro nel parcheggio sotterraneo dell’albergo; iniziamo a metterli là per cominciare a lavorarci. Vieni là dopo pranzo, forse avremo già un po’ di materiale.» «OK Danny, grazie e a dopo.» * * * Terzo giorno, tarda mattina - Dallas Nella sala riunioni oltre a Di Maggio c’erano Miller, diversi agenti della sicurezza presidenziale e tre uomini in uniforme blu dell’aeronautica. Miller li introdusse mentre abbassava le luci. «Questo è il capitano Lakowski, questo il tenente Johnson, i piloti che ieri erano in volo per la difesa aerea della zona di Downtown. Ora ci faranno un rapido resoconto della missione»
24 «Buongiorno signori» iniziò il tenente inserendo un DVD nel lettore collegato al proiettore «questo è il resoconto della missione ECHO41, velivoli YANKEE1 e YANKEE4.» Teneva in mano una specie di blocco note con una cinghia sul retro che serviva a fissarlo alla tuta di volo e aveva diversi fogli con appunti e schizzi sul tavolo davanti a sé. «Normale procedura di messa in moto e decollo; il leader è stato autorizzato al decollo da Carswell alle 08:40 locali. Condizioni meteo buone, visibilità 10 miglia, vento 12 nodi direzione 210.» Tutti erano attenti. «Abbiamo fatto quota fino a 15˙000 piedi, abbiamo contattato il controllo di DFW, abbiamo attraversato la loro ATZ alle 08:54 per entrare nella no-fly zone alle 8:55.» Di Maggio quella mattina aveva notato le scie bianche in cielo, ma sentire il resoconto di chi pilotava gli faceva un’impressione diversa. «Eravamo in contatto radio con ECHO42; loro avevano i settori Sud e Ovest, noi Est e Nord. Siamo arrivati in posizione alle 9:02 e abbiamo iniziato i circuiti subito dopo» proseguì il tenente. Si fermò un attimo per avviare il video e nel frattempo il capitano aggiunse: «I circuiti sono la normale pratica per il pattugliamento aereo. Noi avevamo pianificato tratti da circa 8 minuti più le virate per il riallineamento. In sostanza eravamo in direzione Dallas Downtown per 10 minuti ogni 20 di volo.» Il video ora mostrava un’area verde scuro con una griglia regolare e dei simboli quadrati verde chiaro con una specie di codina. Ogni tanto uno dei simboli lampeggiava o si bloccava momentaneamente. Il tempo era segnato in basso: 0503ZULU. «Se permettete, signori, ho mandato avanti la registrazione fino alle undici circa, per l’ultimo tratto di volo in direzione Dallas Downtown prima dell’incidente» riprese il tenente girandosi verso lo schermo. Sullo schermo c’erano ora un paio di simboli al centro, altri due verso sinistra e un gruppo più confuso nella parte alta della griglia. «Qui abbiamo ECHO42, a Sud” fermò il DVD e indicò i quadrati a sinistra «mentre qui al centro ci sono i vostri elicotteri, nome di chiamata HOTEL1 e HOTEL2 credo.» Di Maggio annuì. «Quest’altro simbolo è l’elicottero della televisione, a quota un po’ più alta, quasi fermo. I vettori vicino ai simboli sono le velocità mentre le quote sono indicate da questo numero» aggiunse il capitano «Grazie capitano, adesso è più chiaro» fece Miller.
25 Il tenente attese un attimo poi fece ripartire il video. «Ora siamo a 4 minuti circa dall’incidente, potete vedere i simboli avvicinarsi mentre noi andiamo verso Downtown.» Gli occhi di tutti erano incollati allo schermo e per tre minuti nella sala nessuno si mosse. Ogni tanto le immagini avevano un qualche scatto e i simboli sembravano per un attimo bloccarsi, ma seguivano comunque sempre le stesse traiettorie regolari. E soprattutto, su Downtown rimanevano sempre tre simboli. Il DVD emise un ronzio delicato, quasi violento in quel silenzio; il pilota aveva fermato la riproduzione. In basso sullo schermo, l’orario indicato era 05:11. Era inutile, ma il tenente disse comunque: «Ecco, questo è il minuto dell’impatto» e dopo essersi schiarito la voce proseguì: «Alla base abbiamo esaminato questo tracciato quattro volte, prima di portarlo qui. Come vedete non ci sono tracce di altri aerei, né su Downtown né a Nord, immediatamente prima.» Andy fu il primo a intervenire. «Ma no, ci sarà un problema di sincronia e magari l’impatto è oltre sul nastro…» era abituato a trovare conferme dai computer e non accettava l’idea «magari c’è stato un errore nella processazione.» Il capitano Lakowski si alzò e prese la parola. «Capisco che la cosa possa sembrare davvero strana, ma la registrazione è assolutamente affidabile; le registrazioni dei radar - su un aereo da guerra sono usate come prove di un abbattimento o per dimostrare azioni nemiche; i dati vengono sbarcati dall’aereo in doppia copia e conservati dall’ufficiale della sicurezza dello stormo in cassaforte. Per questo» fece una pausa «noi ci fidiamo di questi dati al cento per cento.» Quindi aggiunse: «Il mio radar mostra esattamente le stesse cose, entrambi gli apparati sono stati revisionati di recente e possiamo escludere anche malfunzionamenti o danneggiamenti dei dati. Vi chiedo ancora un po’ di attenzione, abbiamo qualcos’altro da farvi vedere. Johnson, per favore prosegui con l’altra registrazione.» Il tenente inserì un altro DVD nel lettore. Sullo schermo apparve un’immagine simile al video precedente, con la griglia coperta di macchie irregolari, con varie tonalità di verde. «Questo secondo video è sempre una registrazione del radar di Johnson. Qui però» indicò il centro di un fotogramma fermo sullo schermo «il doppler non è attivo e i dati non sono filtrati. Ci sono tutti gli echi, aerei, terreno,
26 edifici. Questa modalità non viene usata ma in questo caso ho chiesto ai tecnici di passare su DVD anche i dati grezzi per vedere se c’era qualcosa. Siamo a circa cinque minuti dall’impatto.» Johnson intanto aveva avviato il disco e le immagini, confuse, mostravano sempre delle forme irregolari che si spostavano lentamente verso il basso. Lakowski proseguì: «Senza doppler l’interpretazione è molto difficile, e se ci fosse qualcosa sarebbe saltato fuori anche nei dati filtrati, comunque…» indicò un’area dell’immagine «se ci fosse qualcosa in movimento rispetto al terreno si vedrebbe una traccia più chiara muoversi in questa zona. Certo ci sono ostacoli, l’oggetto doveva essere molto basso, probabilmente alcuni echi qui si potrebbero cercare di isolare, ma senza certezze… potrebbero sussistere condizioni particolari, però…» Di Maggio si stava agitando sulla sedia. «Insomma, stando al radar anche qui non c’è nulla di evidente, nessun contatto certo» concluse il capitano senza ormai sorprendere più nessuno. Di Maggio prese la parola, visibilmente contrariato: «Capitano, tenente, grazie per l’aiuto. Purtroppo non ci avete portato proprio quello che speravamo… e questo ci crea più domande di prima. Comunque grazie. Potete consegnare i DVD all’agente Stevens.» Mezz’ora dopo Miller e Di Maggio incontrarono Alberts. E non avevano buone notizie. «Impossibile! Fate controllare tutte le persone che hanno trattato i nastri dei radar! Dobbiamo considerarle tutte; i dati sono stati manomessi.» Di Maggio aveva sempre meno certezze, ma in quei casi cercava di non correre troppo. «Fino a prova contraria il radar non ha visto nulla. Certo, non possiamo escludere la manomissione, ma ci vorrà del tempo per fare verificare i dati.» «E per controllare le persone» aggiunse Miller «comunque Frank, se sei d’accordo contattiamo il servizio di sicurezza dell’aeronautica e iniziamo a fare una lista delle persone.» «Va bene, iniziamo a lavorarci.» Alberts era ancora parecchio agitato. «Quali ipotesi abbiamo in mano? Dobbiamo avere qualche elemento! Insomma, abbiamo cominciato con le indagini?» Di Maggio odiava quella situazione; stava sì e no raccogliendo le idee e già gli chiedevano delle conclusioni. Cercò di prenderla con distacco. «Devo purtroppo ripeterle che non abbiamo ancora indicazioni particolari sul chi e tanto meno sul perché.» Alberts sembrava non ascoltare.
27 «Il presidente deve sapere al più presto chi è stato. La copertura dell’incidente è buona solo per la stampa.» Si asciugò la fronte sudata. «Forse nemmeno per quella» disse uscendo. * * * Terzo giorno, pomeriggio - Dallas «…e l’incidente sarebbe potuto essere ancora più grave se il guasto al motore del velivolo - che lo ricordiamo sembrerebbe essere un velivolo senza pilota da ricognizione dell’USAF - fosse accaduto anche solo dieci minuti prima.» In basso, sullo schermo del televisore campeggiava la scritta “CNN exclusive; Karen Bowden live from Dallas”. La commentatrice della televisione teneva il microfono con una mano mentre con l’altra indicava la zona dell’impatto. «L’aeronautica non ha fornito dettagli e le uniche informazioni sono quelle riportate dal presidente nel suo annuncio di poco fa.» Una voce maschile si intromise: «Karen, possiamo quindi escludere l’attentato?» La commentatrice era ovviamente preparata alla domanda. «Circolano voci di ogni genere, ma le più accreditate puntano il dito verso l’aeronautica. E il silenzio sembra confermare.» Poi, con un’inquadratura più stretta, riprese fissando l’obiettivo: «Proprio chi doveva vigilare sul presidente, lo ha messo in pericolo. Pochi minuti ci hanno salvati da una catastrofe senza precedenti nella storia del paese. Qui Karen Bowden, per ora è tutto da Dallas. Rimanete con noi per i prossimi aggiornamenti.» Mentre nel ristorante dell’albergo gli ospiti, per lo più uomini d’affari, molti stranieri, guardavano il telegiornale, Miller e Di Maggio si scambiarono una lunga occhiata. Le regole erano chiare: nessuna fuga di notizie. Dietro allo speaker veniva mostrata una foto del presidente Newman. «…tutto il suo cordoglio alle vittime. Ha annunciato una cerimonia commemorativa a Washington e ha confermato gli altri impegni in agenda. Ricordiamo che già dai prossimi giorni il presidente incontrerà la delegazione della Lega Araba in vista della conferenza di pace di Gerusalemme. E ora passiamo al maltempo che sta colpendo la costa atlantica…»
28 Miller si alzò per servirsi al buffet dei dolci; li aveva provati tutti e iniziava a essere un po’ stanco anche di quello. Di Maggio, pensoso, ordinò al cameriere due caffè. «Sbrigati col dolce, voglio andare giù da Danny.» «Nervosetto, eh Frank?» rispose Miller un po’ seccato. L’ascensore che portava al parcheggio sotterraneo era piantonato da un poliziotto. Di Maggio e Miller mostrarono i tesserini e furono fatti passare. L’intero piano sotterraneo era stato requisito dal governo; una serie di pareti mobili di plastica blu scura circondava il centro del parcheggio, formando una grossa sala isolata. Vicino all’ascensore, due agenti di Di Maggio facevano la guardia all’unico accesso, chiuso da un tendone grigio di plastica spessa su cui una scritta recitava: “Restricted area. Authorized personnel only”. Di Maggio scostò la tenda ed entrò seguito da Miller. La luce era quasi accecante; una serie di lampade disposte in lunghe file illuminavano tutto lo spazio. Attorno c’erano delle scaffalature metalliche con i ripiani coperti da teli di plastica su cui, molto distanziati, erano appoggiati oggetti grigi e marroni, dalla forma confusa, accompagnati da cartelli numerati di cartoncino. In un angolo vicino all’ingresso c’erano dei tavoli con dei computer; Danny Williams era seduto di fronte a un video e quando vide Di Maggio entrare si alzò. «Ragazzi, benvenuti al museo.» Scherzosamente chiamavano così il laboratorio reperti, o meglio il laboratorio mobile reperti, portato in aereo a Dallas e montato a tempo di record nel parcheggio sotterraneo. «Ciao Danny» fece Di Maggio, ancora ombroso e poco in vena di battute. «Danny, vi siete allargati quaggiù» scherzò Miller «complimenti.» «Be’, è la solita procedura, vi faccio vedere.» Williams iniziò a esporre la situazione. «Stiamo portando giù tutto quello che i ragazzi trovano sulla scena. Tutti gli oggetti che arrivano vengono schedati, misurati e pesati là.» Indicò un lungo tavolo sopra al quale si allungavano delle lampade da laboratorio, con una lente d’ingrandimento al centro e un neon tutt’attorno. Quattro persone in camice bianco stavano esaminando dei pezzi, presi da un piccolo gruppo di sacchetti di plastica trasparente chiusi da un nastro giallo accumulati su un lato del tavolo. «Il primo passo è esaminare il rapporto della squadra sul campo e tracciare le posizioni sul computer. Vedi quelle sigle? È come quando giochi a battaglia navale, indicano il quadrato di tre piedi per tre in cui l’oggetto è
29 stato trovato…» Williams era generoso di dettagli sul suo lavoro «poi passiamo i pezzi ai ragazzi laggiù che fanno un controllo incrociato con manuali e disegni di tutte le possibili sorgenti presenti: furgoni, pali della luce, telecamere e macchine fotografiche, tutto quello che può essersi trovato sul posto. Ecco, guarda qui.» Si avvicinò a uno scaffale con il cartello FOD C-4 e prese delicatamente un oggetto, una specie di guscio sottile. «Questo è un frammento del telefono di qualcuno. Poveraccio.» Lo ripose sul ripiano. «E che cosa avete trovato dell’aereo?» chiese Miller. «Poco, e quel poco è ridotto davvero male.» Williams si spostò verso il centro dello stanzone. Sotto alle luci bianche dei neon c’era una struttura metallica che sembrava fatta di fil di ferro, in cui si potevano riconoscere vagamente le forme delle ali e nel centro una specie di fusoliera cilindrica. In alcuni punti c’erano appesi dei sacchetti di plastica con dentro dei reperti contrassegnati da cartellini colorati. Di Maggio pensò al dinosauro di un museo che aveva visto quando era a scuola; il maestro aveva spiegato tutto il processo di scavo, catalogazione e ricostruzione dello scheletro e lui aveva deciso che avrebbe fatto il paleontologo. Sorrise per un attimo al ricordo. «Non mi sembra che abbiamo ancora molto, Danny.» «È sempre così quando l’impatto è su terreno aperto; dobbiamo setacciare tutto, molti pezzi sono mescolati alla terra e ci vuole del tempo.» «Pilota? Motori? Carrello? Li avete trovati?» «Pilota e carrelli, niente. Ma i ragazzi di sopra stanno ancora raccogliendo un sacco di materiale. Un motore ora ve lo faccio vedere, venite.» Si avvicinarono al tavolo dei reperti, attorno al quale c’erano sempre i tecnici al lavoro. Dietro al tavolo c’era una specie di piscina gonfiabile, bianca e piena d’acqua. All’interno un ammasso scuro, molto allungato, confuso, in cui si riconoscevano a mala pena delle forme stratificate. Sul fondo si era andato depositando uno strato di terra mentre sulla superficie galleggiavano dei fili d’erba. «Piccolo, non ti pare?» fece Di Maggio «Si è deformato parecchio, vedi per esempio qui e qui» disse Williams indicando con la matita due zone dell’oggetto «ma in effetti poteva essere lungo un metro e mezzo, forse due.» «Avete trovato una marca o una targhetta?» «Niente di visibile dall’esterno, ma c’è ancora da lavorarci parecchio. I carrelli invece ancora no, ma dobbiamo ancora setacciare metà del terreno.»
30 Di Maggio si avvicinò a Williams. «Fammi capire, Danny. Siamo in alto mare.» «Te l’ho detto, non è una scena facile… Frank, stavolta è come fare un puzzle senza sapere la figura da comporre; possibile che non hai proprio niente sul modello?» Di Maggio allargò le braccia sconsolato. «Niente. Le immagini sono troppo confuse e l’aeronautica non ha niente sul radar. Un bel pasticcio… stavolta il modello lo dovremo indovinare qui dentro.» «Hai già contattato Junker?» chiese Miller. Consulente del governo per tutti i principali incidenti aerei degli ultimi vent’anni, Charles Junker era un appassionato di storia dell’aviazione, materia che insegnava anche in un paio di università nell’area di Washington. Aveva già collaborato con lo staff della sicurezza presidenziale in varie occasioni. Qualche anno prima Miller e Di Maggio erano anche stati suoi ospiti per un pranzo di lavoro e avevano potuto fare una rapida visita alla fantastica collezione di aerei e cimeli conservata in una specie di grande serra, nel giardino dietro casa sua. Di Maggio sorprese un po’ Miller con la sua risposta: «Junker sarà qui entro stasera.» * * * Terzo giorno, sera - Dallas «Caro Di Maggio» la voce baritonale di Junker risuonò nell’atmosfera ovattata dell’atrio dell’albergo «è sempre un piacere.» «Professore, il piacere è mio.» Di Maggio si chinò leggermente per stringere la mano che Junker gli porgeva dalla sua sedia a rotelle. Lo aveva sempre conosciuto così, anche se molte foto esposte a casa del professore mostravano un ragazzone in posa a fianco di qualche aereo o di qualche aliante. Junker abbassò la voce. «Mi faccia fare il check-in da questi signori e poi - la prego - mi porti a vedere subito questo aggeggio, sono troppo curioso.» Di Maggio, parlando su una linea sicura, aveva chiarito già al telefono la delicatezza della situazione e del resto il suo interlocutore era da anni un consulente fidato del governo.
31 In un minuto Junker si ritrovò davanti all’ascensore con in mano un bigliettino di benvenuto che racchiudeva una tessera di plastica, mentre i suoi bagagli venivano portati in una camera al pianterreno. Di Maggio non poteva parlare liberamente e portò il discorso su argomenti banali. «Spero che abbia fatto buon viaggio, professore.» Presto furono nel sotterraneo; era quasi l’ora di cena ma molti tecnici stavano ancora lavorando sui reperti. Williams stava guardando un oggetto esile e allungato con una lampada da laboratorio, di fianco a un altro tecnico. Quando Junker e di Di Maggio si avvicinarono, sollevò la testa, si tolse i guanti in lattice e salutò cordialmente il nuovo arrivato. «Professore, lei porta fortuna» disse mentre si rinfilava i guanti «abbiamo appena ricevuto il primo pezzo decente. Ecco, guardatelo.» Sollevò una specie di asta lunga più o meno quattro metri, parecchio rovinata, e proseguì: «Sicuramente in alluminio, potrebbe essere un pezzo di ala… o forse della fusoliera, non saprei. Comunque con questo possiamo iniziare a sistemare lo scheletro, almeno come grandezza» concluse girandosi verso la struttura in fil di ferro, ancora generica e informe, al centro del laboratorio. Junker aveva inforcato un paio di occhiali con una montatura di tartaruga. «Danny, la prego, mi passa dei guanti?» fece «vorrei vederlo e soprattutto sentire a mano quanto pesa. Sembra molto interessante.» In quel momento entrò anche Miller, che raggiunse il gruppo salutando tutti e in particolare Junker. «Ero fuori quando lo hanno recuperato. Era sepolto sotto una spanna di terra. Mi sa che è il pezzo più grande finora.» Williams confermò mentre porgeva delicatamente l’oggetto a Junker. Era ancora sporco. Il professore lo prese e lo soppesò, poi iniziò a guardarlo da vicino, concentrandosi su alcune zone. Williams, Di Maggio e Miller aspettavano in silenzio, forse speravano in un responso immediato. Junker si prese un po’ di tempo, brandendo l’oggetto come se fosse una lancia di un antico guerriero, poi quando fu soddisfatto fece per restituire il reperto a Williams e finalmente disse la sua. «Grazie Williams. Dunque, vi dico subito che si tratta del longherone principale, con gli attacchi per una ventina scarsa di centine, un pezzo stampato ma piuttosto spesso e con le anime ottenute per piegatura, vedete, qui e qui.» Guardò il suo piccolo uditorio e sorrise. «Va bene, scusatemi per i tecnicismi, ora mi spiegherò meglio.» Di Maggio non trattenne una risata nervosa.
32 «Professore, noi non saremmo certo promossi al suo esame.» «Su su, Francis, le basterebbe studiare un po’. Comunque le ali degli aeroplani sono degli oggetti straordinari, un po’ come quelle degli uccelli. L’aria sostiene il peso dell’aereo agendo sulla copertura superiore delle ali, che è abbastanza sottile, un po’ come le piume. La copertura delle ali passa questa forza di sostentamento a delle specie di costole, che si chiamano centine e che a loro volta sostengono una specie di spina dorsale dell’ala, il longherone appunto.» Junker era soddisfatto della sua spiegazione, ma guardando il suo piccolo pubblico capì che non erano arrivati al punto. Quindi aggiunse eccitato, mentre faceva oscillare nervosamente la sedia a rotelle avanti e indietro: «Williams, quello che lei ha in mano è proprio il longherone!» Tutti guardarono l’oggetto, che rimaneva un po’ storto e sporco di terra. Ma in effetti dopo la pittoresca spiegazione del professore iniziavano a collocarla mentalmente nel velivolo. Di Maggio fu il primo a realizzare le implicazioni. «Quindi professore lei ci sta dicendo che si tratta di un aereo con un’ala di quattro o cinque metri?» Williams fece contemporaneamente un’altra osservazione acuta. «Ne dovremmo trovare anche un altro uguale, vero?» Junker era nel suo elemento. «Uno alla volta, vi prego.» Sembrava la sessione di domande alla fine di una delle sue conferenze. «Sì, dovremmo trovarne un altro. E sì, l’ala è lunga circa cinque metri.» La lezione di Junker fu interrotta dallo squillo di un telefono portatile, quello di Di Maggio. «Sì, sono io. Buonasera Steve» la ricezione nel sotterraneo era cattiva «no, ancora no… ma abbiamo forse una qualcosa per identificare l’aereo.» Mentre parlava con Alberts, Di Maggio si allontanò lentamente dal tavolo andando verso il centro del laboratorio. «No, è solo un primo elemento… certo, certo… d’accordo, domani mattina alle dieci. A domani allora.» Tornò verso il tavolo sbuffando. «Domani Steve Alberts ci aspetta alle dieci per una videoconferenza con lui…» fece una pausa guardando Williams negli occhi «e naturalmente con il presidente.» La conversazione con il professore riprese più tardi, a cena. Miller aveva fatto preparare un tavolo per quattro in una saletta riservata del ristorante dell’albergo.
33 Junker era preso nel racconto del recupero del suo ultimo gioiello, un caccia italiano scoperto in Libia semisepolto nella sabbia: «…era in uno stato di conservazione incredibile. Prima di tirare fuori l’aereo abbiamo recuperato le armi di bordo» bevve un sorso di vino e si lisciò la barba prima di proseguire «ho portato a casa una splendida Breda SAFAT, l’ho fatta pulire e sistemare, poi un giorno l’abbiamo provata; funzionava perfettamente. Sapete qual era il problema, signori?» Williams era interessato a questo genere di argomenti e chiese: «Mah… forse era comunque rovinata?» «No, no!» fece Junker soddisfatto della risposta errata «il problema erano i colpi; abbiamo tirato i pochi che abbiamo trovato nell’aereo, poi basta. Non se ne producono più di quel tipo…» La compagnia del professore era interessante ma Di Maggio era sempre impaziente di arrivare a un qualche elemento, almeno uno spunto da usare alla riunione della mattina dopo. «Professore, passerei volentieri tutta la sera ad ascoltare questi racconti, ma non riesco proprio a non pensare al nostro aggeggio, là sotto.» Junker non parve offeso per il cambio di argomento, si fece serio e disse: «Be’, se vogliamo partire dal longherone che avete trovato, possiamo già escludere tantissimi aerei… certo vorrei ancora vedere il motore, magari più tardi, se è possibile.» Si schiarì la voce e riprese: «Dicevamo il longherone; aerei con un’apertura minore di 8-9 metri, qualcosa di piuttosto piccolo, forse un piccolo aereo… ma a getto? E poi non sono sicuro perché mi sembrava un pezzo abbastanza robusto, quanto pesa? Quasi nove chili. Vedete, è una specie di rebus. Ci sono un sacco di informazioni che dobbiamo mettere insieme. Lo spessore ci può dire molto sul peso della macchina. È difficile da dire ma le centine, quelle specie di costole, mi sembravano un po’ inclinate, o forse era solo uno schiacciamento per effetto dell’impatto. Se invece fosse vero» bevve un altro sorso di vino «si tratterebbe di un’ala a freccia, il che mi sembra strano per un aeroplano da turismo…» Williams intervenne: «Possiamo fare delle ricerche su qualche archivio o qualche database.» La battuta di Di Maggio risultò quasi ovvia: «Be’, direi che il professor Junker è un database vivente!» Junker, compiaciuto, a parole si schermì prima che Di Maggio riprendesse: «Seriamente, Danny, mi sembra una buona idea. Ma non sarei scontento se il professore alla fine fosse più veloce di un computer!»
34 Dopo cena Williams e Junker tornarono nel laboratorio. Giù nel parcheggio sotterraneo c’erano solo gli agenti di guardia che - per nulla sorpresi della visita - li salutarono appena furono usciti dall’ascensore; in situazioni come quelle non era raro che agenti e tecnici si presentassero a tutte le ore della notte. All’interno del laboratorio i reperti erano allineati sugli scaffali come reliquie; i neon illuminavano l’ambiente di una luce bianca producendo un lievissimo ronzio. Williams e Junker non sembravano a disagio in quella atmosfera; si diressero subito verso il grande ripiano dove era stato sistemato il motore, adagiato su un lato e ripulito da tutta la terra. Nonostante ciò aveva ancora un che di macabro, un po’ per i segni dell’impatto un po’ per la sua grottesca deformazione. Il ripiano era un po’ alto per Junker, che doveva allungare il collo per vederlo bene. Williams, infilati quasi istintivamente i guanti, aveva portato una lampada sul ripiano. Il reperto era molto pesante e poteva a mala pena essere spostato rimanendo però sempre appoggiato. Junker iniziò la sua analisi ad alta voce, quasi fosse il commento di un sommelier che assaggia un buon vino: «Turbogetto a flusso assiale, senza bypass, direi con almeno una dozzina di stadi di compressore… molto interessante.» Williams seguiva il discorso in silenzio. Non era un esperto di aviazione ma la sua cultura tecnica, in parte dovuta al suo lavoro e in parte alla sua passione personale, gli consentiva di capire quella specie di litania. Junker proseguiva: «…camera di combustione a canne separate… turbina a singolo stadio; questo è davvero notevole.» «Allora, cosa dice il nostro database vivente, Professore?» chiese Williams «Mi spiace, così su due piedi non mi viene in mente niente. Ma posso dirle che si tratta di qualcosa di piuttosto semplificato.» Si schiarì la voce, preparandosi a una spiegazione: «Vede Williams, nei motori moderni si cerca di catturare molta aria per farla passare nella prima sezione del compressore. Ha presente la ventola che si vede nei motori degli aerei più grandi, davanti, dove entra l’aria? Un bel po’ di quest’aria esce dal motore senza bruciare e contribuisce direttamente alla spinta mentre solo una parte va nella turbina vera e propria, dove viene bruciata, si scalda e fa girare il motore. Questo serve ad esempio a consumare meno e a fare meno rumore…» Williams non tratteneva mai le sue domande: «Qui non vedo nessuna ventola, mi sembra più che altro un tubo.»
35 Junker era soddisfatto, come se si trattasse di un suo studente. «Bene, esatto! Questo è appunto un turbogetto semplice, tipico. Mi verrebbe da dire- degli anni Cinquanta o Sessanta. Oppure potrebbe essere qualcosa di amatoriale, oppure…» il professore si interruppe, di colpo pensoso. «…oppure, in effetti, potrebbe essere un turbogetto economico, per piccoli aerei o per missili cruise!» * * * Quarto giorno, mattina - Dallas Di Maggio, stanchissimo, era andato a letto molto presto. Doveva organizzare uno straccio di discorso per il giorno dopo e aveva puntato la sveglia alle cinque del mattino. Si addormentò subito, cadendo in un sonno profondo per qualche ora. Poi però entrò in un dormiveglia popolato di pensieri: l’incidente, i pezzi recuperati, l’auto presidenziale. Tutto compariva in modo confuso e ripetitivo… I tempi non tornavano. Aveva in mente il ritardo del corteo e la sequenza dei fatti. L’aereo aveva mancato il presidente per poco più di un minuto e il corteo era in ritardo; non l’aveva mancato per caso. Adesso gli sembrava chiaro, tutti i pezzi combaciavano. Il pensiero gli dava una grande sensazione di benessere. Il corteo era in ritardo e l’aereo era arrivato sulla scena subito dopo… tornò a dormire profondamente, con un senso di soddisfazione. Quando riaprì gli occhi, l’orologio segnava le 4;53. Gli capitava spesso di svegliarsi da solo poco prima della sveglia, soprattutto quando era sotto pressione. Non capiva mai se riusciva in qualche modo a regolare il sonno o se in realtà durante la notte apriva un occhio controllando inconsciamente l’ora per poi svegliarsi al momento giusto. Stava pensando ancora a quello quando la sveglia suonò con una serie di beep acuti e fastidiosi; la spense e si alzò. Uscito dalla doccia accese il suo laptop e mentre questo si avviava si vestì. Iniziò a scrivere la sua presentazione, descrivendo prima i fatti e quindi esaminando i pochi elementi di prova raccolti in quelle prime ore. Poi iniziò la parte più delicata; voleva introdurre l’ipotesi del bersaglio mancato intenzionalmente e quindi fece un confronto dei tempi dimostrando - almeno così sperava - che se il presidente fosse stato in orario avrebbe scampato l’impatto dell’aereo con un margine di tempo ancora maggiore.
36 La sua conclusione quindi era quella di un gesto dimostrativo piuttosto che un attentato mancato. Faceva un po’ fatica a crederlo fino in fondo; il suo ragionamento si basava su sequenze di tempi, mentre una parte del suo cervello continuava a correre troppo e a pensare a un attentato mancato. Scrisse il tutto sul suo rapporto, cercando di esporre in modo chiaro e distinto i fatti e le sue congetture. Erano le sette in punto quando salvò il tutto e scese a fare colazione. Nella sala dell’albergo oltre a qualche ospite c’erano alcuni agenti e tecnici della squadra di Di Maggio; per qualche secondo il profumo del caffè gli fece dimenticare la riunione. Miller era arrivato da qualche minuto. «Ciao Frank, tutto bene?» «Non c’è male, per almeno metà della notte non ho sognato l’incidente… tu come stai?» rispose Di Maggio con una risatina, poi andò verso il buffet per servirsi una tazza gigante di caffè. «Ormai a casa hanno perso le speranze di vedermi per il fine settimana…» Poi proseguì ironico: «…ma non so se sono poi così tristi.» Di Maggio sapeva che Miller scherzava; la sua famiglia lo adorava e quando lui era in giro per lavoro appena poteva chiamava casa. Era mattina e loro erano ancora stanchi. Gli agenti agli altri tavoli bevevano il caffè con aria rassegnata, in previsione di un’altra giornata di ricerche e di indagini che non sembravano portare da nessuna parte. Al tavolo, mentre sorseggiavano il caffè bollente, Di Maggio fece a Miller: «Ti dicevo, stanotte ho pensato un bel po’.» Miller non perse l’occasione per la battuta: «Si vede dalla tua faccia.» «Be’, ho provato a rimettere insieme tutti i pezzi, uno in fila all’altro e mi sono accorto che i conti non tornano.» Miller ora era attento e Di Maggio iniziò a spiegargli la sua ipotesi. La riunione iniziò puntualissima. A Dallas, nella sala dell’albergo che fungeva da base operativa, disposti attorno al tavolo a ferro di cavallo c’erano Di Maggio, Alberts, la Brown, Junker e Williams. Sullo schermo erano proiettate le immagini di un’altra sala riunioni, più grande e luminosa, con un lungo tavolo inquadrato da un lato corto; sulla parete di sfondo un grande stemma rotondo mostrava un’aquila che artigliava delle saette. Attorno, in secondo piano, si vedevano delle finestre chiuse da spesse tende
37 blu scuro, mentre alle pareti erano appesi dei quadri simili tra loro che ritraevano personaggi maschili. I colori erano un po’ falsati e tendevano al giallo, ma la definizione permetteva di riconoscere i volti delle persone che man mano stavano prendendo posto. C’erano almeno tre o quattro individui in uniformi verdi e blu, oltre a una dozzina di uomini e donne ben vestite, alcuni giovani ma per la maggior parte più anziani. Altre persone si stavano sedendo anche in seconda fila; il posto centrale, quello del presidente, rimase vuoto. La persona immediatamente a destra, il segretario alla difesa, prese la parola dopo che tutti furono seduti e in silenzio. «Buongiorno a tutti; il presidente Newman sarà qui tra poco ma mi prega di cominciare comunque la riunione anche senza di lui» si aggiustò gli occhiali e sollevò lentamente un foglio davanti a lui «dunque, lo scopo della riunione è quello di aggiornare il presidente e l’esecutivo sulla situazione di Dallas, da cui è collegato il responsabile dello staff Steve Alberts.» Sollevò lo sguardo verso la telecamera e disse: «Buongiorno Steve, ci senti?» Alberts si avvicinò alla telecamera con microfono al centro del tavolo. «Vi sento. Buongiorno da Dallas, insieme a me qui vi ascoltano la dottoressa Brown, il comandante Di Maggio, il dottor Williams e il professor Junker, invitato in qualità di esperto aeronautico.» Di Maggio sorrise notando come Alberts avesse usato correttamente i titoli formali e rispettato in qualche modo l’ordine gerarchico nella presentazione. Dalla Casa Bianca il Segretario alla Difesa riprese con la formula di riservatezza: «La riunione è classificata e tutti i partecipanti hanno sottoscritto lo specifico protocollo; ci sono domande su questo? Bene, cominceremo con un resoconto sulla situazione dell’opinione pubblica da parte della dottoressa Brown, collegata da Dallas. Prego dottoressa Brown.» Suzanne Brown si sistemò velocemente i capelli prima di prendere la parola. «Buongiorno, signori. Vi riporterò ora un quadro delle notizie sull’incidente, aggiornate a stamattina.» Molti naturalmente avevano letto qualche giornale e visto un notiziario televisivo, ma sapevano anche che la Brown aveva analizzato la stampa e i media in ogni dettaglio, perciò tutti erano molto attenti. «Il comunicato del presidente è stato ripreso un po’ da tutti i giornali e le televisioni; lo scenario dell’incidente al velivolo senza pilota dell’aviazione è stato ampiamente discusso ieri sera anche in due talk show politici oltre che naturalmente nei notiziari. Diversi esperti hanno mostrato elementi
38 potenzialmente attinenti, facendo varie ipotesi sul tipo di velivolo e sulla base provenienza.» A Washington, uno dei partecipanti in uniforme blu seduto al tavolo stava iniziando a consultarsi con un altro militare alle sue spalle, che prendeva appunti. La Brown intanto stava proseguendo: «…perciò tutte le notizie sulla questione sono e saranno rilasciate esclusivamente dalla Casa Bianca, mentre in questa fase l’aeronautica dovrà limitarsi al no-comment. Io avrei concluso, grazie.» Il generale Harris, capo di stato maggiore dell’aeronautica militare, alzò la penna per chiedere informalmente la parola. «Grazie Dottoressa, la sua esposizione è stata molto interessante. In questo quadro la posizione dell’aeronautica risulta tuttavia - diciamo - molto danneggiata.» La Brown fece per replicare, ma in quel momento entrò Newman. «Generale Harris, lei ha ragione; la posizione dell’aeronautica è danneggiata. Ma non sono sicuro di cosa sia meglio per l’aeronautica, se un incidente a un velivolo senza pilota o l’ammissione che un aereo è entrato nella no-fly zone senza che né i radar di terra né i caccia se ne siano accorti.» Come se non bastasse, senza essersi ancora seduto, Newman concluse: «E il bersaglio di quell’aereo ero io. Possiamo per favore chiarire meglio questo punto?» Era una domanda retorica. La risposta competeva al generale Harris, che si era ovviamente preparato, ma che non intendeva fare un mea culpa. «L’aeronautica militare per l’evento di Dallas aveva previsto una copertura rinforzata, con l’impiego del radar di difesa aerea di Mesa Grande, presso San Antonio, e con la copertura di due pattuglie di caccia per il controllo della no-fly zone, un’area di divieto temporaneo di sorvolo che era in vigore dalla mezzanotte del giorno prima dell’incidente.» Newman e tutti i presenti in realtà attendevano la spiegazione sul mancato contatto radar. «Come sappiamo, né il radar a terra né quelli dei velivoli hanno rilevato l’aereo. I nostri tecnici hanno analizzato tutte le registrazioni senza trovare nulla che corrisponda ai possibili contatti visivi o almeno alla traiettoria finale dell’aereo prima dell’impatto, sulla quale siamo certi come tempi e posizioni.» «Generale, vi siete coordinati con le squadre che stanno svolgendo le indagini a Dallas?» intervenne il segretario alla difesa. «Sì, appena possibile abbiamo anche inviato i piloti di una delle due pattuglie direttamente al centro operazioni sul campo, a Dallas. Purtroppo
39 anche confrontando i tempi degli eventi non abbiamo trovato niente. Scartando l’ipotesi di un guasto ai radar - avevamo almeno tre apparati attivi, in posizioni e quote diverse - la possibilità è che si sia trattato di un aereo piccolo, in volo costantemente a bassissima quota, nell’ultima parte certamente più basso di grattacieli e grossi edifici, poco visibile al radar» rispose piatto Harris. «Sta dicendo un aereo stealth? Sconosciuto? In volo sulla nazione?» chiese immediatamente Newman. Harris rispose agitando una mano, come per fermare il pensiero in mezzo al tavolo. «No, signor presidente, sarebbe impossibile. Intendo dire che il velivolo sconosciuto potrebbe avere caratteristiche che lo rendono meno visibile della media…» Da Dallas, Alberts chiese la parola. «Su questo aspetto vorrei chiedere di intervenire al professor Junker, nostro consulente tecnico sull’argomento.» «Certo, la prego professore» disse il segretario alla difesa, che aveva conosciuto Junker in diverse occasioni, pubbliche e riservate. «Non posso che confermare quanto detto dal generale Harris; la circostanza descritta potrebbe essere stata causata da una serie di fattori. Se l’aereo sconosciuto - come sembrerebbe - volava sotto la cima degli alberi, il radar della difesa aerea era automaticamente fuori gioco. Questa tecnica è antica quanto il radar stesso, e non è certo un segreto. Noi abbiamo basato per decenni la nostra tattica di attacco su questo fenomeno e abbiamo dovuto costruire aerei radar volanti proprio per vedere i bersagli in volo a bassa quota. Questo ci porta all’altra domanda; perché i radar dei caccia non hanno visto niente?» Di Maggio era impressionato - come sempre - dallo stile chiaro e quasi romanzesco delle spiegazioni del professore. E sembrava che anche tra gli altri partecipanti ci fosse una certa suspense. Junker riprese: «Stesso tipo di velivoli, stesso modello di radar, stesso reparto e forse stesso meccanico che ne cura la manutenzione. Potremmo pensare al guasto ma mi è stato detto che quei radar hanno agganciato gli altri velivoli correttamente.» «Quindi» proseguì Junker con uno stile degno di una conferenza accademica «dobbiamo pensare che una o più circostanze abbiano reso l’aereo non visibile ai radar dei caccia, come dimensioni ridotte, bassissima quota e bassa osservabilità» elencava i punti contandoli con le dita, come per accertarsi di ricordarli tutti «quest’ultima caratteristica non è
40 necessariamente associata a un vero e proprio aereo stealth, ma può essere raggiunta anche da aerei molto semplici, realizzati ad esempio in legno o fibra di vetro. Mettete insieme il tutto e abbiamo il nostro intruso, un velivolo capace di arrivare a meno di un miglio dal presidente senza che nessuno se ne accorga.» Junker aveva concluso, con troppo brio. l silenzio che seguì era piuttosto pesante e Newman non fece nulla per interromperlo. Alla fine aggiunse: «Se non ci sono altre osservazioni circa il mancato contatto radar… Steve, puoi per favore aggiornarci sulle indagini?» Alberts rispose un po’ troppo prontamente, svelando una piccola crepa nella sua abituale, eccessiva sicurezza. «Certo signor presidente, il comandante Di Maggio sta coordinando le operazioni sul campo e ora ci farà un resoconto sui primi elementi raccolti. Vi è stato consegnato un breve rapporto che riassume la situazione, lo trovate nella cartella davanti a voi. Frank, per favore, puoi illustrarlo?» Durante le videoconferenze Di Maggio trovava sempre innaturale rivolgersi verso le persone sullo schermo. Iniziò il suo intervento fissando il rapporto che aveva scritto, anche se per lui non era assolutamente necessario rileggerlo. Iniziò con una rapida descrizione del dispositivo di sicurezza dispiegato per l’evento, citò quindi i presunti avvistamenti del velivolo elencando poi tutti gli eventi fino all’impatto, seguendo strettamente la sequenza cronologica per poi passare alle sue prime conclusioni. «Gli elementi a sostegno di questa ipotesi, che mi rendo conto essere ancora tutta da verificare, sono due. Primo: al momento dell’impatto il presidente era già passato da circa uno o due minuti. Secondo: il corteo era in ritardo di oltre dieci minuti, un ritardo non previsto, noto solo all’ultimo momento.» Il segretario alla difesa si era girato verso il presidente, che gli diede la parola appena Di Maggio ebbe terminato. «Comandante Di Maggio, non voglio mettere in discussione i fatti e soprattutto i tempi che ci ha esposto. Ma con un aereo ostile schiantato a mezzo miglio dal presidente, francamente continuo a pensare a un attentato, un attentato che per nostra fortuna non è andato a buon fine.» Uno dei presenti riprese più o meno lo stesso concetto: «Potrebbe darsi, comandante, che l’obiettivo fosse in realtà proprio l’elicottero presidenziale e che quindi i tempi vadano riconsiderati?» Newman ascoltava i vari commenti. Il generale dell’aviazione intervenne:
41 «…senza contare che un kamikaze - chiamiamolo così - non farebbe certo duecento miglia o forse più per protesta, insomma solo per attirare un po’ di attenzione!» Di Maggio era in realtà il primo a essere scettico, ma cercava di mantenersi razionale. «Comprendo perfettamente le obiezioni, ma non voglio basarmi su ipotetici errori o fattori imprevisti. Quindi se gli eventi hanno seguito un piano, quello di ieri non è stato un fallito attentato, ma un gesto dimostrativo.» «E questa sarebbe l’ipotesi peggiore.» Newman lo disse piano, ma tutti lo sentirono molto chiaramente, anche a Dallas. «Se si tratta effettivamente di un attentato dimostrativo» disse da Washington un uomo di mezza età, che Di Maggio sapeva essere il direttore dell’FBI «la conferma ci dovrebbe arrivare presto, sotto forma di un annuncio o di una rivendicazione. Quindi sapremo presto se l’ipotesi del comandante Di Maggio è corretta. In ogni caso la priorità delle indagini non cambia. Da parte nostra abbiamo attivato tutti i nostri canali di informazione e riporteremo qualsiasi notizia possa aiutarci a progredire.» «Grazie» disse Newman, con l’intenzione di concludere «direi che dobbiamo insistere con la attuale linea, confermando l’incarico per le indagini sul campo al comandante Di Maggio, col supporto delle agenzie per la sicurezza. Esternamente rimarremo alla versione resa pubblica dalla dottoressa Brown. Tutte le nostre iniziative dovranno tenerne conto. Grazie.» Alberts sentì di dover fare un’ultima osservazione. «Signor presidente, questo significa che ufficialmente non stiamo facendo indagini, se non una normale inchiesta tecnica nell’aviazione per verificare le cause di un incidente; è corretto?» Newman rispose mentre stava riunendo le carte davanti a sé. «Certo Steve; so che questo renderà le cose difficili per tutti, ma in questo momento non possiamo gettare la nazione nel panico senza avere certezze. Potremo modificare o chiarire la nostra posizione quando avremo risolto questa faccenda. E solo se sarà necessario.» La risposta aveva assunto il tono appassionato di un piccolo discorso e tutti i presenti stavano ora fissando attentamente Newman «So che la copertura è una bugia e sono il primo a essere a disagio, anche per il fango ingiustamente gettato sull’aeronautica. Ma questo è il male minore, pensateci. In ogni caso mi assumo tutta la responsabilità per questa decisione» fece una pausa guardando nella telecamera «sono nelle vostre mani e questo mi dà la massima serenità. E ora torniamo tutti al lavoro.»
42 Di Maggio era abituato ai discorsi dei politici e rimaneva sempre abbastanza scettico, ma questa volta le parole di Newman lo avevano toccato. Non ignorava che dietro alla versione di copertura ci fosse l’interesse a mantenere un’immagine positiva, di sincera fiducia tra il neoeletto presidente e la nazione - un tentato atto terroristico sarebbe stato una doccia fredda - ma aveva apprezzato la serenità di Newman e anche la sua coscienza gli diceva che bisognava occuparsi prima del male più grande. * * * Quarto giorno, tarda mattina - Dallas Di Maggio e Junker dopo la riunione avevano seguito Williams nel laboratorio. Le luci al neon rendevano l’ambiente particolarmente freddo; le conversazioni quasi sussurrate tra i cinque tecnici accentuavano la sensazione. Uno di questi si avvicinò a Williams per annunciargli il ritrovamento di un pezzo importante. «Ecco, è nel bagno per la prima pulizia.» Era un oggetto di forma strana, evidentemente deformato dall’impatto ma tutto sommato in buono stato. Nell’acqua c’era un po’ di terra in sospensione, insieme ad altri detriti in parte galleggianti e in parte sparsi sul fondo. Di Maggio stava ancora cercando di capire da che parte guardare il pezzo quando Junker fece la sua valutazione. «Un elemento del castello motore.» Poi vedendo l’espressione interrogativa proseguì: «In pratica uno dei sostegni del motore. Non sono sorpreso che sia rimasto intero, è uno degli elementi più robusti di un aereo.» Il tecnico che lo aveva recuperato fece un cenno di assenso. «Era penetrato nel terreno per un bel pezzo, lasciando una bella traccia. Lo abbiamo pesato appena portato qui sotto, sono circa diciotto libbre. Pulendolo magari risulterà un po’ più leggero.» Junker si lisciò la barba. «Non importa, è già un grande passo avanti. Il castello motore ci può raccontare molte cose…» disse eccitato Fu Williams a fare la domanda ovvia, cercando anche di alleggerire la tensione: «Professore, ci faccia sapere cosa le racconta un castello motore.» «Un sacco di cose; a seconda di come è fatto o di quanto è grosso possiamo fare una buona stima della spinta del motore; da quella possiamo risalire alla
43 velocità di volo e con un po’ di fantasia anche al peso del velivolo. O almeno possiamo farcene un’idea. E non dimenticate che sappiamo anche quanto è lunga l’ala e che possiamo incrociare la nostra stima della velocità con i tempi delle osservazioni.» Mentre ascoltava il professore, Di Maggio continuava a studiare l’oggetto metallico. Aveva la forma di un trapezio irregolare, con gli spigoli inspessiti e l’anima centrale più sottile, attraversata da una nervatura diagonale. Per un attimo fu sul punto di chiedere la ragione di quell’accorgimento. Poi tornò al suo compito e chiese al professore: «Se riusciamo a tirare fuori tutte queste informazioni, vuol dire che siamo a cavallo?» «Frank, ora è lei a correre troppo; mi lasci fare un po’ di ragionamenti e poi vediamo dove possiamo arrivare. Avete dei computer di sopra, non è vero?» rispose cauto Junker. Qualche minuto dopo erano tutti seduti di fronte allo schermo del computer di Andy Stevens, a cui Junker stava spiegando come fare i calcoli necessari per recuperare le caratteristiche dell’aereo. Andy seguiva con disinvoltura e traduceva il discorso del professore in comandi informatici; ogni tanto alzava una mano e tornava indietro correggendo o modificando qualche simbolo o una linea di codice. Di Maggio era distratto dal video della TV via cavo, canale delle news, su cui campeggiava la faccia del presidente Newman. L’audio era disattivato ma una scritta che scorreva nella parte bassa dello schermo riassumeva la notizia: Il presidente Newman conferma per la settimana prossima la conferenza di pace a Gerusalemme - continuano i colloqui preparatori con Israele e paesi arabi. In quel momento entrò Miller; era stato a una riunione di coordinamento con la Polizia locale. «Ciao Frank, come è andata con Washington?» Di Maggio si allontanò dai computer e rispose a bassa voce, in modo che solo Miller potesse sentire: «Be’, a due giorni dall’incidente non abbiamo niente in mano, come vuoi che sia andata? Teniamo in piedi la versione di copertura e continuiamo a lavorare. L’FBI si tiene cortesemente fuori, diciamo che tengono gli occhi aperti, questo almeno finché non abbiamo una direzione su cui farli partire.» «Senti… e sull’ipotesi dell’attentato di avvertimento?» «Nessuno è convinto, in effetti ci sono ancora troppi dubbi, ma sta insieme e almeno l’abbiamo tirata fuori. A parte questo… siamo decisamente in alto mare. A te come è andata invece?»
44 Miller sorrise «Be’, a parte qualche mitomane che ha parlato di ufo o di complotti, niente di interessante. Hanno sentito un po’ di persone che hanno visto l’aereo; grosso modo confermano la traiettoria che abbiamo stabilito inizialmente, con gli avvistamenti più lontani a Nord, verso il confine.» «Bene» gli fece Di Maggio «Hanno intervistato il pilota dell’elicottero della televisione ma anche là nessuna sorpresa; lui ha visto la sagoma, la direzione corrisponde ma non ha saputo dare altre notizie.» «Non mi sorprende, c’era da aspettarselo. Ho bisogno di un caffè, mi fai compagnia?» Di Maggio e Miller si spostarono nella stanzetta a fianco, quella in cui era stata piazzata la macchina del caffè. Di Maggio servì per primo il collega e riprese a parlare. «Ricapitolando, cosa abbiamo finora? Molto poco.» «Mettiamola così, abbiamo l’arma…» fece Miller un po’ ironico. «Sì, ma ci mancano ancora tutti gli altri pezzi. L’esecutore, sempre se riusciamo a individuarlo in quel casino, un mandante e naturalmente il movente. E comunque l’arma ce l’abbiamo, ma non sappiamo cos’è. Siamo messi proprio bene…» «Nessuna pista certa. Le uniche ipotesi sono l’attentato mancato e il gesto dimostrativo. Giusto Frank?» «È così. Nel primo caso diciamo che qualcuno ha cercato di fare fuori Newman e l’ha mancato di poco. Noi dobbiamo prenderlo, naturalmente. Potrebbe riprovarci, magari in un altro modo…» Miller proseguì il suo pensiero: «…e fare una mossa falsa. Però potrebbe anche scomparire e complicarci le cose.» Di Maggio riprese con l’altra ipotesi: «Se è invece un avvertimento o un ricatto, dovrà parlare. Ci darà qualche altro elemento ma allo stesso tempo ci farà sapere che è pronto a rifarlo.» Tornarono nella sala dei computer, dove Stevens e Junker stavano ancora lavorando davanti al video. Il professore era concentrato e stava chiedendo ad Andy di ritoccare alcuni valori nelle equazioni del programma che avevano impostato. «Andy, per favore, proviamo a mettere un peso un po’ maggiore? Diciamo quattromiladuecento libbre.» Il computer automaticamente ricalcolò una serie di valori e ridisegnò un grafico con delle curve rivolte verso il basso. Junker pareva un po’ più soddisfatto.
45 «Ecco, secondo me non siamo troppo lontani; potremmo aggiornarlo in seguito, se avremo altre idee.» Di Maggio in realtà non era troppo fiducioso ma sperava comunque di poter fare un minimo progresso. «Professore, cosa dice la sfera di cristallo?» «Mah» fece Junker «abbiamo messo insieme… diciamo… una specie di identikit.» «Ottimo, no?» intervenne Miller. «Sì, però non mi dovete fraintendere. Usando le formule in questo modo non facciamo nient’altro che inserire un paio di parametri e il resto viene tutto da sé; questo non vuol dire che debba essere preso per buono tutto il risultato. E se i parametri inseriti non sono corretti, anche il modello non lo sarà.» «Quindi cosa avete concluso?» Di Maggio aveva iniziato a illudersi ma le parole di Junker lo avevano riportato a terra. «Mettiamola così; combinando i dati che abbiamo, possiamo dire che il nostro aereo pesa tra le 3˙000 e le 4˙500 libbre, assumiamo che abbia un motore a getto e una velocità di circa 250-300 nodi.» «Ce ne sono parecchi di aerei con queste caratteristiche, direi» osservò Di Maggio un po’ frustrato «È vero Frank, ma disponendo di dati così incerti non vale davvero la pena di essere più precisi. Come dicevo, potremmo anche tirare fuori un numero fino alla singola libbra, ma sarebbe ingannevole. Ci vuole un po’ di pazienza.» «Grazie comunque» fece Di Maggio «ora se volete possiamo continuare il discorso a pranzo.» Stevens fece un sorriso e indicò dall’altra parte della sala un tavolo su cui un agente aveva depositato poco prima un sacchetto di carta di un fast-food da cui veniva odore di hamburger. «Grazie capo, ma ci hanno già pensato. Resto qui.» * * * Quarto giorno ore 12:10 - Dallas La sala del ristorante dell’hotel, un magnifico edifico art-déco degli anni Trenta, era come sempre abbastanza piena; c’erano gli ultimi agenti della sicurezza rimasti ancora a Dallas dopo l’incidente, cui si sostituivano sempre più clienti normali. Secondo la versione ufficiale, il personale del governo stava compiendo un’inchiesta pro-forma per l’incidente al velivolo
46 dell’aeronautica. Almeno in questo non erano poi così distanti dalla realtà, pensava Di Maggio. Lui, il professore e Miller erano seduti a un tavolo in un angolo della sala, dietro a una colonna decorata con motivi geometrici. «Vedete, un aereo è pieno di tracce da cui risalire al modello e anzi addirittura per individuare il singolo esemplare. La più visibile sono le marche, che sono in pratica la targa del velivolo, in genere verniciate sulle ali e sulla fusoliera.» Miller guardò Di Maggio con la coda dell’occhio; il professore stava iniziando un’altra delle sue lezioni. «Nel nostro caso però le marche si saranno cancellate per l’impatto o forse la vernice sarà bruciata. Poi esistono i numeri di serie del motore, quelli dei pneumatici e così via; in genere sono impressi su delle targhette di metallo sottili e potrebbero anche loro essere andati distrutti…» fece una pausa per bere un sorso di birra rossa e quindi concluse: «La vera miniera per noi sono i part number. Ce ne sono stampati praticamente ovunque, su ogni pezzo; e se anche se ne fosse persa la maggior parte, ne dovremmo trovare comunque qualcuno.» «I part number sarebbero i numeri di serie dei singoli pezzi, giusto professore?» chiese Miller. «Esatto. In pratica sono i nomi dei pezzi, e la cosa più importante per noi è che i part number sono gerarchici!» Per Di Maggio non era una grande notizia. «Ma così abbiamo sempre di fronte un’infinità di combinazioni.» «Le prime cifre del part number indicano il nome del modello dell’aereo, o almeno il numero del progetto; il secondo gruppo di cifre indica il gruppo cui appartiene; ad esempio su un 747, un Jumbo, un pezzo dell’ala avrà scritto sopra il suo part number che sarà 747-020-116.» «Allora ci siamo; entro pochi giorni avremo un bel po’ di pezzi» fece Miller. «In effetti ho guardato rapidamente sui pezzi che Williams ha recuperato finora, ma così come sono conciati non ne ho ancora trovato uno. Bisogna controllarli tutti uno a uno con molta calma, studiarli su tutta la superficie, soprattutto sulle facce piane.» Di Maggio iniziava a essere un po’ meno pessimista; riconoscendo il modello avrebbero potuto iniziare a dare una direzione alle indagini… Stavano bevendo il caffè quando il telefono di Di Maggio prese a suonare. Sul display comparve “Andy”; era Stevens. Rispose per abitudine. «Di Maggio.» «Capo, lo so che ti disturbo ma devi venire qui, forse è importante.» Si scusò, fece un cenno a Miller e si precipitarono subito da Stevens.
47 «Eccolo qui, è arrivato stamattina presto, ce lo hanno inoltrato poco fa» fece Stevens indicando lo schermo. Erano davanti al computer della rete protetta tramite la quale potevano scambiare informazioni con tutte le strutture del governo in modo sicuro. Stevens stava spiegando a Di Maggio come lo aveva ricevuto. «Ogni giorno a Washington arrivano parecchi messaggi sull’incidente, alcuni direttamente altri inoltrati dai giornali. La maggior parte sono scritti da mitomani o squilibrati; quelli con un senso ce li devono mandare per vedere se possono contenere qualche informazione. Finora non ne avevamo ricevuto nessuno di significativo.» Di Maggio conosceva quella storia. Un numero enorme di persone sembrava essere morbosamente in attesa di un incidente o di un evento drammatico per scatenarsi con storie di complotti, testimonianze immaginarie o semplicemente segnalazioni di vicini sospetti. Non dovevano però trascurarle, perché talvolta in quel flusso di informazioni senza valore c’era una notizia vera, a volte preziosissima. «Ecco, questo è il messaggio» cominciò Stevens «è solo un avviso che ne sarebbe arrivato un altro… ecco, leggete.» Sul video c’era una normale e-mail DA: newman-dallas@yahoo.com OGGETTO: Newman-Dallas TESTO: Questo è il primo messaggio di una serie di tre. I messaggi avranno tutti lo stesso oggetto. Confermate l’avvenuta lettura rispondendo a questo indirizzo. Per sua esperienza Di Maggio era scettico nei confronti di lettere o telefonate anonime; ogni volta che lo staff del presidente si spostava, ne arrivava qualcuno. Ma in quel caso due aspetti lo lasciavano perplesso: il contenuto era ridotto al minimo necessario e si presentava come una qualsiasi e-mail, senza dichiarazioni, appelli o firme. Semplicemente non si sposava con la sua esperienza. «Chi lo ha ricevuto originariamente?» Stevens indicò il video. «Ecco è scritto qui in alto, è l’indirizzo esterno della segreteria di Alberts. È un indirizzo pubblico, anche se non è molto usato. Naturalmente tutti i messaggi che gli arrivano passano i controlli della sicurezza e loro lo hanno fermato e girato a noi. Ora stanno controllando da dove è stato mandato, ma ci vorrà del tempo.»
48 Di Maggio sapeva bene a cosa si riferiva Stevens; c’era nello staff una sezione dedicata alla sicurezza delle informazioni, che si occupava di computer, e-mail, telefoni cellulari e di ogni altro mezzo in grado di scambiare dati da e verso l’esterno. La maggior parte del lavoro era proprio sulle e-mail. «OK; non sembra il messaggio di un mitomane.» Miller era d’accordo. «È vero. Anche se non dice proprio niente, Frank.» «Non so… non credo sia niente, ma nella situazione in cui siamo… che dici?» Miller era in genere molto scettico: «Lo sai, non possiamo dare retta a tutti i messaggi. Andy, quanti ce ne hanno mandati finora?» Stevens posò il bicchiere di soda e fece un gesto con la mano. «Be’, tre o quattrocento. Però questo è strano, diverso da tutti gli altri, per questo ve lo volevo mostrare. Naturalmente se volete vedere anche gli altri…» Di Maggio lo fermò. «No grazie, già abbiamo dubbi su questo. Comunque ho deciso: rispondiamo e vediamo cosa succede. Però prepariamoci. Andy, senti la sicurezza, devono essere pronti a tracciare il messaggio. Sempre che non sia una fesseria.» Poi si rivolse a Miller: «Non so perché, ma il nostro amico potrebbe essere in zona. Per favore inizia a contattare la polizia dello sceriffo, potremmo avere bisogno di loro…» fece una pausa «non entrare nel dettaglio, di’ solo che forse c’è da fare un controllo urgente nella zona, ma non sappiamo ancora di preciso dove.» Poi chiamò Alberts per metterlo al corrente della situazione. Di Maggio e Miller erano poi ritornati da Junker, nel salone del ristorante. «Professore, mi scusi se l’abbiamo abbandonata, ma abbiamo qualcosa, forse una piccola traccia. Se non ha preso il caffè le faccio compagnia; poi però devo tornare giù, ai computer.» Parlavano piano, anche se nessuno poteva sentirli. Junker era sempre gentile: «Nessun problema. Stavo ripensando ai part number; ormai dovremmo avere parecchi pezzi e le targhette salteranno fuori man mano che li puliscono. Mi dica, Frank, cosa avete trovato?» «Mi spiace Professore, preferisco se ne parliamo dopo… per scaramanzia, se non altro.»
49 «D’accordo, d’accordo Frank. Se non le dispiace io nel frattempo andrei a trovare di nuovo Williams, voglio vedere se hanno rinvenuto qualche targhetta…» Scesero dopo qualche minuto. Miller era al telefono nella stanza di fianco; anche Stevens era al telefono ma presto riattaccò. «Capo, a Washington sono pronti. Hanno già iniziato a lavorare sul primo messaggio e possono risalire facilmente al computer del nostro amico, sempre che si trovi nel paese. Possiamo inviare la risposta dall’indirizzo della segreteria di Alberts; sembrerà una normale risposta. Quando vogliamo.» Di Maggio non era del tutto convinto. Ma nelle condizioni in cui erano, un’ipotesi, anche se molto remota, era già qualcosa. «OK Andy, prepara questa risposta: “Confermo la lettura. Se vogliamo parlare devi provare la tua credibilità”.» Andy scrisse rapidamente la risposta. «Capo, vuoi firmare in qualche modo o la mandiamo così?» «Va bene così, vediamo subito se è una fesseria o no.» «OK, ora la mando alla sicurezza e loro la impacchetteranno per l’esterno; mi hanno detto che servono un paio di ore per preparare le cose con il provider della posta. Hanno già contattato il personale di yahoo e attendono una loro conferma a momenti.» Di Maggio non riusciva a capire se era davvero impaziente o se semplicemente temeva di trovarsi in un altro vicolo cieco. «Va bene, aspettiamo anche noi. E poi cosa succede?» «Be’ capo, se tutto fila liscio… appena il nostro amico si collega alla casella di posta per leggere i messaggi il sistema segnalerà la connessione da cui è avvenuto l’accesso. A questo punto si deve risalire al computer che in quel momento aveva quel numero di connessione… potrebbe essere necessario qualche minuto, forse meno.» Di Maggio aveva più famigliarità con quanto seguiva: «OK a quel punto dobbiamo fare intervenire qualcuno sul posto. Joe, come siamo messi?» Miller era apparentemente tranquillo. «La solita procedura, passiamo dalla centrale operativa nazionale dei federali i quali vedono se hanno già gente in zona o se si devono appoggiare a qualche sceriffo, magari qui. Dipende dal posto. Naturalmente stiamo scommettendo che il tizio sia negli Stati Uniti, altrimenti va tutto a pallino.» Fine anteprima. Continua...
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