In uscita il 28/2/2018 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine febbraio e inizio marzo 2018 ( ,99 euro)
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MARCO PREMOLI
MORIRE DI MAGGIO
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni
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MORIRE DI MAGGIO Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-181-5 Copertina: immagine di Carlo Nava
Prima edizione Febbraio 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
La bontà è la forza del più forte, perché, se essa è la vera bontà, non la recitazione moralistica, il suo fondamento è indubbiamente superumano. La bontà conseguita è la trascendenza realizzata. (Massimo Scaligero)
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1. SONO SOLO CANZONETTE
Certo, la bontà. È semplice. Una cosa che capiscono tutti. O almeno la intuiscono. Mica il binomio di Newton, o la relatività ristretta. Anni di ricerca sconsiderata, crisi d’identità lasciate in sospeso, dissennate immersioni da apneista nella filosofia, che il suo professore del liceo aveva un po’ troppo semplificato, banalizzandola senza scampo né attrattiva di sorta, a beneficio di una generazione di studenti (la sua) assai più interessata a Socrates che a Socrate, e perennemente dedita a interminabili partitelle di calcio nel lussureggiante campetto (coperto d’erba per più di metà della sua superficie, una vera rarità!) antistante la nuova sede scolastica, un mai avviato asilo nido ben presto cannibalizzato dall’avanzata in massa verso la cultura e l’istruzione superiore dei figli del boom, ben più consistenti numericamente dell’asfittica e sparuta nidiata scodellata nei primi anni Ottanta dai nuovi ricchetti dei quartieri bene extraperiferici della grande città. Infine gli studi esoterici, cui aveva gravitato attorno per anni senza convinzione né consapevolezza, come un asteroide sperduto, destinato a vagare per l’eternità nell’etere universale, nella completa indeterminazione, fino ad approdare quasi inavvertitamente alla naturale conclusione della sua illegittima e inconcludente parabola di raffinato, ancorché sterile, accattonaggio spirituale. La bontà. Nient’altro. Che imbecille! Come aveva fatto a non pensarci prima, a non accorgersene per tutti quegli anni? Ce l’aveva sempre avuta a portata di mano, non occorreva essere poi quel genio che Aurelio tanto si vantava di essere sempre stato. O meglio, che gli altri gli avevano fatto credere - e infine imposto tacitamente di essere, per convenzione pirandelliana - fin dall’infanzia.
6 Talmente semplice da sembrare impossibile. Infatti per moltissimi, anche assai meno brillanti o più intelligenti di lui, lo è tuttora. A conferma della sua esasperante semplicità. Altro che le complicatissime e infinite indagini indotte pochi decenni or sono dalle ipotesi di una cricca di geniali e sfaccendati matematici ideatori del famoso – perlomeno nel circolo esclusivo delle grandi menti - Game of Life. O le contorte speculazioni filosofiche e metafisiche di inconcludenti quanto boriosi guru del pensiero, approdanti invariabilmente tra le rattristanti secche dell’imponderabile. Il vero problema dell’umanità moderna non è che la gente non capisce le cose complesse e difficili. Qualcuno che le capisce c’è sempre, in ogni società, in ogni organizzazione o conventicola o gruppuscolo di sorta, e basta e avanza quel qualcuno a tirare avanti la carretta per tutti gli altri, ad alcuni dei quali talvolta riesce anche a spiegare e persino, in qualche sparuto ma immancabile momento di grazia, a trasmettere quel che ha appreso, così da non portarselo nella tomba, dove, oltre a essere oltremodo ingombrante, si rivelerebbe perfettamente inutile. Il vero problema dell’umanità moderna – quella antica purtroppo la conosco solo di seconda o terza mano, perciò non mi arrischio a trarre conclusioni arbitrarie che non potrebbero essere confutate da alcun vivente – è che la gente (anche e soprattutto quella che non si scrive con tre g iniziali, purtroppo…) non capisce nemmeno le cose semplici. Tranquilli, voi non siete la gggente, per il solo fatto di essere qui vi elevate parecchio al di sopra della pecoreccia tripla g. Capisce nel senso latino del termine, ossia contenere. La gente ha una capienza limitata per le cose semplici. Non le contiene più, riempita com’è di tante di quelle carabattole inutili e fosforescenti, magari neanche poi così dannose, ma inesorabilmente ingombranti. È come un colapasta dai cui buchi filtrano tutte le cose semplici. Ai più fortunati ne resta giusto un velo sulla superficie, e ben presto evapora anche quello. La bontà è una cosa molto semplice, la capisce anche un bambino, spesso molto meglio dei suoi adorati – e spesso, ahilui, inopportunamente adoranti – adulti. Poi svanisce, ben prima che svapori l’adorazione incondizionata e totale per i suoi dei minori. La bontà.
7 La soluzione del mistero dell’universo sta tutta lì, in una minuscola parolina, immutabile e precisa, come il sole che sorge ogni mattina, senza mai prendersi un giorno di ferie, un raffreddore, un’indisposizione. Niente. Milioni di anni, è sempre lì, al suo posto, senza una rivendicazione. Mai un aumento di stipendio. Un attaccamento esemplare al proprio ruolo, al proprio posticino fisso, perlomeno a memoria d’uomo. Che ci volete fare, è il giorno delle banalità in saldo, tre al prezzo di due: sole, cuore e amore, forza donne, approfittatene, solo per oggi! Domani qualcun altro, o forse io stesso, vi propinerà la stessa identica offerta da sdrucito imbonitore di fiera paesana, ma che importa, tanto qualcuno che abbocca ci sarà sempre. Scontato, eppure troppo allettante. Proprio perché scontato. Sole, cuore, amore. Canzonetta nazionalpopolare. Indimenticabile. Non è ironico, l’aggettivo, lo giuro. Soltanto tecnicamente corretto. Se aggiungessi altro, diventerebbe inevitabilmente ironico, ma così è solo una fotografia, e una fotografia non è mai ironica. Rappresenta una realtà. Da un solo punto di vista (non sempre, è vero; ormai ci sono i maghi del photoshop che ottengono effetti strabilianti e stranianti, ma per semplicità mi attengo alla posa classica), quello del fotografo. Bidimensionale. Istantanea. Pur sempre una realtà. Sole, cuore, amore. Tanto banali poi non sono, dato che con tutta la mirabolante scienza profusa dai migliori rappresentanti dell’umanità, da Pitagora e Aristotele in avanti, non ci abbiamo ancora cavato granché dalla loro essenza. Il sole tutto sommato è ancora quello che conosciamo meno peggio, essendo sempre presente sul piano fisico e quindi disponibile agli astrofisici h24 o giù di lì (un po’ meno a quelli padani, nonostante la simpatica citazione in onore del loro velleitario governatore, mister Accaventiquattro, appunto, che malgrado i superpoteri e la buona volontà non è ancora riuscito a eliminare nebbia e PM10, forse perché al trentatreesimo piano non lo tangono né l’una né l’altro, o forse perché di acca non ne capisce una, figuriamoci ventiquattro!), stakanovista galattico ante litteram, ben prima che il minatore Stakanov
8 potesse contemplarne la luce, in quei miserrimi ritagli di tempo che si concedeva fuori dalle patrie gallerie. Chissà se era buono, Stakanov? Se ha amato davvero degli esseri umani? Che domande dell’ortaggio, eh (leggasi c…o)? Passatemi il celatissimo francesismo, dai, visto che di sesso non ce ne troverete nemmeno un po’ per tutto il resto del libro (per quello, dovrete aspettare il prossimo romanzo, con tutte le sue cinquanta e più sfumature), almeno concedetemi un rapido e velato accenno di turpiloquio gratuito e intenzionale – molto intenzionale: non mi viene naturale, per iscritto, tanto che ho dovuto travestirlo da vegetale e persino così lasciarne indicate solo le estremità – giusto per non apparire troppo serioso o inopportunamente cattedratico, dopo quell’esergo da vertigini con il misconosciuto e ipergalattico Scaligero. A molti possono sembrare, d’accordo, due domande di quell’organo camuffato da ortaggio, ma in una prospettiva storica e culturale (due pregevoli aggettivi assai decorativi, che non servono a niente, ma stanno bene un po’ dappertutto, multifunzionali come il prezzemolo) un po’ meno angusta di quella prettamente materialistica in cui il volenteroso estrattore di carbone sovietico si trovava immerso fino al collo, potrebbero risultare gli unici interrogativi sensati. I libri non lo dicono, il web nemmeno. Purtroppo tutte le notizie su di lui sono assai scipite e superficiali: si riducono a quel fatto eclatante e tutto sommato piuttosto marginale della produttività, tacendo ignominiosamente gli unici elementi davvero importanti del suo non brevissimo pellegrinaggio sulla (anzi, più spesso sotto la) superficie terrestre: era buono, ha conosciuto l’amore (quello vero, non quello contrabbandato per tale dai cioccolatini e dalle canzonette)? Cos’ha lasciato al mondo di sostanziale, oltre a un nuovo sostantivo, il neologismo più emblematico e rappresentativo dell’intera epoca industriale? Molto più di milioni di suoi simili sconosciuti, si potrebbe ragionevolmente obiettare. Del resto anche Verdi e Wagner, pur nella loro immensità, non sono riusciti a introdurre nei vocabolari più di un aggettivo ciascuno. Per nostra buona sorte hanno lasciato anche degli spartiti, ben più durevoli e apprezzati di qualche pur utilissima tonnellata di lignite – e scaldano anche di più! Su di loro si è scritto tantissimo, le loro vite sono state scandagliate fin nei più reconditi e intimi dettagli, ma non è certo dalle biografie ufficiali e non ufficiali o
9 dai pettegolezzi di retrobottega che potremo desumere la loro bontà. In casi eclatanti come questi, basta ascoltare. La trascendenza realizzata. Nelle vite apparentemente anonime come quella di Aurelio incombe e regna, invece, l’immanenza. Neppure poi così tanto realizzata, manco quella. Le vite anonime sono sovente lunghe; quasi mai monotone, però. Chi traccia e risolve la semplicistica equazione tra anonimato e monotonia molto spesso è solo un pessimo osservatore, travestito da matematico di terz’ordine. Anzi, di terza categoria, perché il terz’ordine, per l’analisi matematica, significa qualcosa di preciso e nemmeno così disprezzabile come per tutto il resto del mondo, il quale invece disprezza e sminuisce l’analisi matematica, pur facendo ormai uso quotidiano e capillare delle sue infinite nonché irrinunciabili applicazioni pratiche. Restiamo alla tanto inflazionata quanto misconosciuta triade, ché se ognuno di loro avesse putacaso uno straccio di IBAN di riferimento pur anche nella più malfamata banca della Mongolia meridionale o dell’Etruria citeriore e dovesse ricevere un centesimo ogni volta che lo si menzioni, risolverebbe in un amen tutte le presunte crisi economiche, vere, farlocche o inventate che siano, non essendo nemmeno pensabile che uno solo dei tre non sia totalmente compenetrato dalla quintessenza della generosità. Del sole, s’è già detto. Lavora gratis, senza fiatare, da milioni di anni, e se ne frega bellamente della Fornero o suoi equipollenti successori e di quando andrà in pensione. Ha realizzato fin dai primordi dell’umanità l’equità e il comunismo, riversando i suoi raggi in egual misura su chiunque: stilita, ladro, derviscio, prosseneta, filantropo, stupratore o stilista; se poi uno è nato esquimese, nigeriano, o lumbard come Aurelio, son fatti eminentemente suoi. Il cuore, quest’altro sconosciuto, pure lui un ragguardevole stakanovista della cassa toracica, neh. L’Organo con la O maiuscola, benché parecchi attribuiscano molta maggior importanza a quello che pochi paragrafi addietro ho identificato come organo con la o minuscola (che del resto è la sua dimensione preponderante, quella in cui trascorre il 99,99% della propria esistenza. Una bella vita da schiavo, eh? Sia quindi minuscola, senza discussioni). Ferie, riposi, permessi non retribuiti, neanche parlarne. Manco la sacrosanta pausa caffè. È l’unico per cui vale davvero il detto: “Se si ferma lui, si ferma tutto”, alla faccia della pletora di lavoratori sedicenti
10 insostituibili che infestano aziende, istituzioni e uffici pubblici e privati, peggio della gramigna, dei gruppi Whatsapp e delle cavallette d’Egitto. Il più delle volte, quando sono forzatamente assenti, non ci si accorge nemmeno; in genere la produttività cresce, il clima in ufficio migliora e nessuno ne avverte la mancanza. Da Leonardo in poi ci si è studiato su mica male: lo si è sezionato, escisso, affettato e scaravoltato, sebbene sempre da fermo e quindi al termine delle sue funzioni vitali. S’è arrivati persino ad aprirlo, operarlo e mostrarlo in diretta a milioni di famelici e invasivi telespettatori, financo a trapiantarlo, con risultati lusinghieri e più che apprezzabili, benché costellati di parecchi eventi collaterali non sempre piacevoli, dovuti al fatto che alcuni, non pochi purtroppo, ancora si ostinano a considerarlo un semplice pezzo di ricambio della macchina Uomo, che invece, guarda un po’, macchina non è. Chiedere al trapiantato che s’è innamorato perdutamente della moglie del donatore per ragguagli. Fosse davvero tutto così facile, il buon Dio, o Allah, o Geova, o GADU (Grande Architetto Dell’Universo, per i pochi lettori profani, mi scusino invece gli iniziati per questo – a loro inutile – inciso), o Caso – l’ultimo arrivato, ma non certo il meno accattivante, anzi tenuto in gran considerazione di recente, nell’ormai sovraffollato Olimpo degli dei con la maiuscola adorati da qualche uomo con la minuscola – o chi per esso (non me ne vogliano le minoranze non rappresentate, ma non sono ferrato in storia delle religioni e quindi anche se citassi tutti i Principi Primi Universali possibili e immaginabili, ne dimenticherei certo qualcuno, perciò mi scuso in anticipo per le manchevolezze, contando non tanto sulla comprensione e sulla benevolenza di chi ho scontentato – non mi aspetto tanto dagli uomini, soprattutto da quelli che proclamano di abbracciare una sola fede, quella vera, e spesso fanno fatica ad abbracciare un proprio simile – ma sulla incontestabile magnanimità del loro unico Demiurgo) avrebbe aperto una tranquilla e sberluccicante concessionaria multimarche, invece di imbarcarsi in quel lavoraccio immane e complicatissimo che fu la creazione dell’Universo. Che, tra l’altro, fonti bene informate asseriscono essergli scappata un pochino di mano nel momento malaugurato in cui decise di concedere la libertà all’uomo. Una volta accordatala a tutti, non se la può certo rimangiare, altrimenti tra Lui e Berlusconi non risulterebbero più esserci significative differenze. Ha tentato, nevvero, di metterci una
11 pezza circa duemila anni fa, sacrificando con cognizione di causa il suo unico figliolo, con il bel risultato che ora, dopo aver ascoltato le sue bellissime prediche nelle quali spiegava essere noi tutti figli di Dio, qualche cervellone si è messo in testa che, sulla base delle leggi dell’ereditarietà, se siamo figli di Dio, da grandi diventeremo come Dio (supponendo ovviamente che il gene divino non presenti carattere recessivo, altrimenti che gene divino sarebbe?). In realtà voleva solo dirci che, se siamo figli di un unico padre, dobbiamo ritenerci tutti fratelli. Considerate tuttavia la frequenza e l’intensità delle liti per questioni di eredità, ci si potrebbe quasi arrischiare a dedurre che forse non è stata un’idea così brillante come poteva inizialmente sembrare. Invece qualche genio fenomenale, paragonabile a Topolino che gioca a fare l’apprendista stregone in Fantasia, ha pensato bene, unilateralmente e con altrettanta fantasia, di essere diventato maggiorenne dopo aver decifrato a malapena due o tre paginette dell’immenso libro della vita. Così adesso siamo circondati da torme di piccoli, saccenti e arroganti demiurghi, dai clonatori ai riproduttori in vitro, dai manipolatori transgenici ai sagaci brevettatori dell’acqua calda, dai teologi nostrani agli oltreatlantici predicatori osannati e strapagati, tutti quanti talmente infoiati e compresi nel proprio salvifico ruolo da rendere oltremodo arduo per il resto dell’umanità sintonizzarsi sulla giusta lunghezza d’onda e discernere Quello Vero tra migliaia di impostori. Qualcuno dice che Quello Vero si stia un po’ mangiando le mani sante per questo giochetto della libertà che sta sparigliando le carte sul fronte terrestre, altri affermano che invece stia solo assistendo con composta partecipazione al grandioso spettacolo messo in scena dagli uomini, per vedere quanto tempo ci metteranno prima di rendersi conto della potentissima risorsa nascosta nel profondo dei loro cuori. La bontà. Ma se anche un tipo sveglio, geniale e molto in gamba come Aurelio, con tutte le credenziali in ordine per accorgersene subito, ci ha messo la bellezza di quarantanove anni, per scoprirla – soltanto per scoprirla! – chissà che succederà quando si metterà in testa di provare a praticarla sul serio. Già, perché Aurelio è un po’ refrattario a far proprie molte verità evidenti – tipo quella che non riuscirà a evitare il lavaggio dei piatti per il resto della propria misera esistenza terrena nemmeno se dovesse vincere il Premio Nobel in qualsivoglia disciplina – ma, una volta metabolizzate, le deve accertare di persona e sul campo. Auguri.
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2. DELL’AMORE
L’amore, non l’ho dimenticato. Come narratore, intendo. Per quanto riguarda invece le mie vicende personali, nemmeno, ma son fatti eminentemente miei (almeno per questo libro). L’amore, forse, è il più importante della triade, benché sia l’unico a non disporre di un’identificazione materiale agevolmente riscontrabile. Certo, qualche bieco materialista potrebbe argomentare, con evidenti probabilità di successo, che senza cuore e, alla lunga, anche senza sole non si può campare, mentre l’amore è sì importante, ma non strettamente indispensabile. Dissento, anche se pare assodato che qualcuno riesca a sopravvivere senza amore. Magari non proprio alla grande… ma son fatti eminentemente suoi. Oltre a questa postilla striminzita ho ben poco da dire in merito, e non certo per la consapevolezza che chi parla molto di qualcosa ne sa in realtà davvero molto… poco. Esempi ce ne sono a bizzeffe: calcio, sesso, comunicazione, economia, educazione, cancro, religione, tanto per citare solo qualcuno dei più gettonati. Se ne parla tanto, se ne sa sempre meno. Cionondimeno, non è per nulla assodato che coloro che se ne stanno zitti siano invece tutti quanti bene informati. Qualcuno sì. La maggioranza no, altrimenti agirebbe senza tanto parlare a vanvera e i problemi verrebbero ben presto risolti. Presumibilmente per lasciare il campo ad altri problemi, d’accordo, ma almeno si avrebbe un reale progresso dell’umanità, non un mendicare penoso e avvilente alla disperata rincorsa di mezzo punto d’incremento del PIL. Sull’amore vero, che è tanto bello quanto raro, ribadisco, ho poco da dire. C’è molto da fare, più che da dire. Cercatelo. Trovatelo. Sperimentatelo. Diffondetelo. Presentatemelo, che ci scrivo un libro, pur non essendo Stendhal, e magari riesco pure a dire qualcosa di più originale della mia famosa omocognonima.
13 Molte esistenze, purtroppo, si esauriscono alla prima di queste esortazioni, altre si incagliano poco oltre. Alcune, cui va tutta la mia compassione, non lo cercano nemmeno. Vale comunque la pena di provarci, non importa quante amare delusioni, quante solenni badilate sul viso, quanti evitabili tradimenti e inevitabili disillusioni si siano inferti o subiti, questo m’insegnano i miei primi travagliatissimi cinquant’anni. Perciò lascio le prossime due pagine in bianco per dar modo a chiunque avesse qualcosa da comunicare in merito all’amore vero, di scrivermelo, e di smentirmi, se fosse il caso. Marco, Matteo, Luca e Giovanni esclusi, s’intende: per loro è stato fin troppo facile, ebbero incarnato quello con la A maiuscola. Nella prossima edizione, le due pagine seguenti saranno dedicate all’amore che mi racconterete voi. Tutti quanti, in due pagine, perché il vero amore non ha bisogno di molte parole secondo uno dei pochi che se ne intendevano davvero e non se ne sono mai vantati, ossia il leggendario William Shakespeare. Che per fortuna nostra si è dimostrato sommamente incoerente con quanto testé affermato, contraddicendosi in numerosissime occasioni per elargirci opere immense, costellate e intrise di parole d’amore. Vero. A voi, dunque. Scrivete. Ma, prima di scrivere, amate veramente.
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3. ULISSE
Aurelio ha ritenuto per anni di essere un uomo buono. Capita a molti. Forse anche a qualcuno di voi. È normale, non preoccupatevi; è capitato anche a me, anni or sono. Poi ho iniziato a scrivere, ispirandomi alla mia vita, e lì è cascato l’asino (ossia quel che ero senza sapere di esserlo, con buona pace degli asini, animali simpatici, estremamente tenaci e affidabili, ma non granché riflessivi). Solo agli uomini completamente buoni non capita mai. Il che non significa che se non vi è mai capitato, lo siate anche voi. Vero è che avete comprato questo libro, quindi buoni lo siete, almeno un po’. Per tutta la vita, Aurelio non ha fatto altro che raccogliere prove a favore di questa sua irragionevole ipotesi, trascurando con connivente leggerezza, o addirittura ignorando scientemente, le non poche evidenze contrarie che gli si palesavano con beffardo tempismo nei momenti più inopportuni. L’autoindulgenza che ci infliggiamo con malcelata esuberanza è sovente più deleteria della non meno diffusa – e assai più ostentata, in ossequio al millenario retaggio cattolico della sofferenza, condizione necessaria ma non sufficiente per meritarci l’attuale soggiorno premio (benché qualcuno leggermente sfavorito dalla sorte sia più propenso a definirlo colonia penale – che non è un profumo per le pudenda maschili, come sosteneva il mio ex allenatore Sergio Z.) sul pianeta Terra – autoflagellazione. Si è impegnato con zelo indefesso – indi passando spesso da fesso – per convincere pure tutti gli altri. Poi si è svegliato. Sono bastate due paroline, al momento giusto: recitazione moralistica. Prima, non avrebbero sortito alcun effetto. “Mamma mia, che attore da Oscar sono stato!” Non depone a suo merito, ma sbobinando la registrazione dei suoi pensieri (che fatica raccapezzarcisi! Altro che l’Ulisse di Joyce: la
15 mente di quell’uomo è un groviglio inestricabile, una giungla amazzonica neuronale, un viluppo allucinante di finestre di Windows dimenticate aperte e accartocciatesi una sopra l’altra, un po’ per sfinimento, un po’ per cedimento strutturale), nel primo pomeriggio del Capodanno del 2016 salta fuori chiara e netta proprio questa lapidaria dichiarazione da osteria. Sì, sbobinando. A Capodanno. Sono o non sono un narratore onnisciente? Diamine, ci ho messo più di mezza vita per diventare scrittore, ora lasciatemi finalmente godere in santa pace uno dei pochi privilegi concessi a questa vituperata e sconnessa casta: la tanto agognata e mitizzata condizione di onniscienza, condivisa nientepopodimeno che con le divinità in persona, oltre che con l’inezia di centinaia di migliaia di colleghi, ciascuno dotatosi della propria onniscienza personale e personalizzata. Ognuno ha i propri metodi. Io conservo gelosamente il segreto professionale sul mio fornitore di pensieri privati, ma non creo misteri sulle registrazioni, che sono tutte a disposizione di chi le volesse consultare. Se siete così determinati, folli e ardimentosi da volervi avventurare in questo Echelon mentale, accomodatevi. Non crediate che sia così elettrizzante disporre della conoscenza completa di tutti i pensieri pensati – o spesso semplicemente transitati, o intrufolati o contrabbandati – dalla mente di una singola persona nell’arco di un’intera vita. Una volta era più semplice, si riuscivano a trovare addirittura sequenze coerenti della durata di alcuni minuti. Ora, con l’avvento della multimedialità e l’imperversare di tutte le moderne armi di distrazione di massa, la frammentazione del pensiero sta raggiungendo livelli parossistici. Quasi quanto la sua fermentazione. Molto meglio, per uno scrittore, inventarsi tutto di sana pianta e poi fingere che sia vero, o viceversa, ché tanto la gente si beve di tutto, ma insomma, ormai di Aurelio conosco tutti i pensieri più segreti e quindi tanto vale mettere a frutto lo sforzo immane compiuto per analizzarli. Questa è la storia di Aurelio, un uomo che per tutta la vita ha inseguito con sincera dedizione la bontà, ma nella foga di cercarla ha combinato anche un bel po’ di pasticci. Fosse il solo!
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4. MIRACOLO A MILANO
La storia di Aurelio coincide anche, per qualche istante, con la storia di un miracolo, di quelli talmente strani che non li si possono raccontare a nessuno, a meno di essere uno scrittore freelance, cui per definizione tutto è concesso. Non perché siano incredibili, anzi, quella è forse una delle loro meno dibattute peculiarità, altrimenti che miracoli sarebbero, se fossero ordinariamente e disciplinatamente credibili? Semplicemente, non si possono raccontare perché, a differenza dei miracoli standard, non comportano nessun tipo di manifestazione fisica visibile, registrabile o documentabile, nessun cambiamento o alterazione apprezzabile della realtà, nemmeno un battito d’ali di farfalla in più o in meno, niente di accessibile neppure col microscopio elettronico. Per dirla in termini brutali, sul piano pratico non esistono, quindi a rigor di logica sarebbe impossibile raccontarli. Uso il condizionale perché si possono riscontrare agevolmente parecchie evidenze che dimostrano l’esatto contrario. Ci sono dei maghi della comunicazione in grado di raccontarci un sacco di cose che non esistono e di farcele prendere per vere. Non si vergognano per questo, anzi ne sono altamente compiaciuti e soddisfatti: è il loro lavoro. Perciò mi faccio coraggio e vi racconterò almeno uno di questi miracoli stravaganti che, purtroppo, non si vedono proprio, il che, di questi tempi, nell’era della materialistica concretezza dominata dall’impero dell’immagine, non giova certo alla loro popolarità. Non per questo sono meno importanti degli altri, di quelli veri, o presunti tali, almeno per i miracolati. Non si tratta affatto di bazzecole, né di miracoli di serie B, solo per il fatto che nessuno li ha mai visti. Né sono più rari o statisticamente meno frequenti degli altri, solo per il fatto di passare sistematicamente inosservati. Per usare un’espressione sportiva e simpatica, oltre che politicamente corretta – altro slogan adattissimo per tutte le stagioni, che di questi tempi, intrisi di illeciti sportivi e inflazionati di scorrettezze politiche, va lapalissianamente per la maggiore - sono soltanto dei miracoli diversamente veri, per usare un
17 termine che va tanto di moda e mi fa pertanto ancora più ribrezzo di quanto mi farebbe nella sua semplice ma untuosa politicorrettezza. La tipologia di “evento soprannaturale e straordinario” di cui hanno generosamente beneficiato non solo Aurelio e la sua bicicletta, ma anche parecchi di voi lettori, rientra nella troppo spesso e ingiustamente negletta casistica delle cosiddette omissioni. Delusi? Insoddisfatti? Non dovreste esserlo troppo, perché sicuramente qualcuno di voi ne ha usufruito, magari anche di recente, pur non essendone mai stato consapevole. Capisco che si tratti di un terreno un po’ ostico e di un argomento assai sottovalutato, quando non apertamente spregiato, dalla moderna mentalità pragmatica, sbrigativa, disincantata e spesso al limite del cinismo, impregnata sottotraccia di un robusto e ben radicato materialismo, esteso per inevitabile osmosi anche alle frange apparentemente più religiose e spirituali della società postindustriale. Ma bisogna riconoscere dignità di esistenza anche alle tanto disdegnate omissioni e alle loro non trascurabili conseguenze. Quella dignità ormai così spesso negata, tanto che ne rimane traccia solo nella liturgia cattolica, laddove, alla tanto vituperata voce “peccati”, le omissioni vengono non per caso equiparate, nella biascicante casistica degli obbrobri settimanalmente commessi dal praticante medio, a pensieri, parole e opere: “Confesso”… omissis (absit ironia verbis)… “che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni”. Chi formulò quest’atto di pubblica contrizione la doveva sapere molto lunga sulla psicologia dell’umana progenie, e la conferma ce la fornisce il sagace inserimento in posizione strategica di un avverbio di quantità apparentemente innocuo, quel “molto” che racchiude in sé la summa della gerarchia cattolica assai più di quanto si possa sospettare. Altro che la modernissima Programmazione Neuro Linguistica, o PNL che dir si voglia. In Vaticano ne conoscevano parecchi di quei giochetti tanto strombazzati come assolute novità qualche decennio or sono dai guru della PNL. Provate un po’ a far ripetere per mesi, anni, decenni, almeno una volta alla settimana (anche di più, nel caso dei fedeli ferventi) a un omino qualunque, anche non troppo convinto, che “ha molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni” e in capo a qualche tempo se ne convincerà del tutto, se già prima non lo fosse stato abbastanza. Compreso il ben dissimulato “molto”, che è già incluso nel prezzo, senza maggiorazioni né sovrattasse, a mo’ di gentile omaggio della ditta. Altro che “Brrrrancamenta” o “Fate l’amore con il
18 sapore”! Sì, la mia mente malata e perversa di scribacchino delle caverne, plantigrado retrogrado solo da poco computerizzato, assai raramente in contatto con la realtà televisiva, non solo – ma anche – per deliberato snobismo, mi ha sparato fuori a bruciapelo, in rapida successione e rigorosamente non richiesti, questi due esemplari slogan pubblicitari, stupendo (gerundio!) in primis il sottoscritto, che si riteneva erroneamente immunizzato dalle nefaste influenze dei demenziali caroselli. E invece, tiè, eccoti servito, con la tua supposta superiorità da pseudointellettuale ammuffito, spocchioso e supponente, parevano ammiccare sordidamente i due succitati e tintinnanti slogan, la cui pervicace insistenza nel voler risuonare oltre ogni decenza all’interno delle mie intasate circonvoluzioni cerebrali mi stava quasi facendo scordare di puntualizzare che, per colmo della beffa, non riceverò mai nemmeno un centesimo dalle ditte testé involontariamente sponsorizzate, a testimonianza della notevole e comprovata efficacia dei metodi di persuasione subliminali. Insomma non si tratta di pubblicità occulta, sono talmente ingenuo da fargliela apertamente e pure gratis. Tutto questo sproloquio solo per introdurre con adeguata ponderazione il finora misconosciuto “miracolo di omissione”, del quale ogni tanto si sente parlare solo in occasione di qualche disastro aereo. All’indomani della tragedia, i reporter delle principali testate vengono sguinzagliati come iene fameliche alla ricerca di qualcuno di questi miracolati, a volte veri, a volte inventati, perlopiù solo un po’ enfatizzati per l’occasione, in modo da poter ammannire sempre e comunque all’onnivoro pubblico qualche storiella edificante sui meriti di un ingorgo stradale o di un treno in ritardo o di un taxi irreperibile (finalmente un po’ di gloria anche per queste bistrattate categorie), oppure sulla fortunata coincidenza di una provvidenziale indigestione di ostriche, o di un’unghia incarnita della suocera o di una dissenteria del direttore generale, a cui i manager sottoposti (i suoi schiavi, così li apostrofava con paternalistico affetto e sincero disprezzo l’amministratore delegato nel segreto pulcinellesco delle riunioni coi vertici aziendali) l’avevano spesso augurata tanto di cuore che quasi non pareva vero di essere stati esauditi proprio nel momento giusto, con doppia ma inconfessabile soddisfazione. Naturalmente nelle dichiarazioni ufficiali a stampa e telegiornali il miracolato manager in questione ostenterà un austero e serioso cipiglio,
19 tenendo a precisare, a conferma della sua proverbiale efficienza e professionalità, che lui era pronto all’imbarco con ben mezz’ora di anticipo, impiegandola, come di consueto, a riorganizzare gli appunti e pianificare l’agenda (sorry, il timetable, perdonate ancora una volta il nostalgico uso dell’obsoleto italiano al posto del managerialissimo e up-to-date inglese) dei prossimi frenetici incontri sul suo efficacissimo e modernissimo laptop (anziché a gozzovigliare indecorosamente in sala VIP, prosciugando decalitri di Lagavulin invecchiato sedici anni in pregiate botti ammassate in polverose cantine scozzesi e ingurgitando chili di tartine al caviale, come quei pitocchi dei suoi colleghi, impegnati ad abbuffarsi con scrupolosa metodicità durante tutta l’attesa dell’imbarco, manco credessero davvero a quei disfattisti cronici – in realtà cronisti disfatti - che preconizzano a ogni piè sospinto o testa mozzata l’imminente deflagrazione della Terza e conclusiva Guerra Mondiale, sorvolando sull’evidenza che in realtà è già in atto da parecchi anni, sotto gli occhi di tutti, unica guerra antideflagrante, ma non per questo meno gravata da violenza), quando per l'appunto era stato raggiunto da una tempestiva e-mail di disdetta della riunione, a seguito della quale aveva prontamente convertito la propria prenotazione per Dubai in una per Londra, triangolando opportunamente via Berlino, dov’era riuscito a ritagliarsi un estemporaneo e tattico meeting con il Local Brand Manager, seguito a ruota da una disinvolta cenetta – vero e unico scopo dell’ardita triangolazione – con quella spumeggiante escort teutonica… Ute, o qualcosa del genere… il nome era l’unica cosa poco appariscente che possedesse… Ah, sì, quel piccolo dettaglio delle centoquarantacinque vittime, tra le quali sarebbe dovuto rientrare pure lui? Non gliene può calere di meno, esprimendosi in tutta sincerità, ma la decenza, celatasi sotto forma di diretta televisiva, esige almeno un simulacro di compunzione. Giusto una parvenza, tanto lo schermo non raggiunge significative profondità. È perlopiù piatto, all’incirca come l’encefalogramma di chi se ne lascia ipnotizzare. Allora, che ne dice il sopravvissuto, di quei miserelli? Faccia di circostanza, a metà tra il contrito e lo svagato, di indubbio effetto. Una prece. Sospiro. Destino beffardo.
20 Inno alla gioia di Beethoven (non propriamente la colonna sonora più indicata alla circostanza, imprecano tra sé i trasecolati intervistatori, maledicendo ‘sti ortaggio di cellulari…!). Ora vogliate scusarlo, ché ha in linea il Local Brand Manager (in realtà è Ute, chi altri poteva farsi annunciare dall’esplosione della Nona dell’eccelso Ludwig? Gran pezzo di ragazza… chissà che lingerie sfoggerà per l’occasione?)… Del resto, lo asseriva anche Leopardi, dall’alto della sua sconfinata – e sconfitta – erudizione, in quel famoso idillio, di cui ricordava solo l’assai calzante e significativo titolo: Amore e morte. A lui il surrogato del primo, agli altri l’originale della seconda. Per una volta, meglio il surrogato dell’originale.
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5. AMORE E MORTE
Amore e morte. Connubio conturbante e legittimato da innumerevoli dimostrazioni. A quei poveretti gli ha detto male, in questo giro. Peccato, ma lui cos’altro può fare, oltre a indirizzar loro la suddetta prece? Inutile macerarsi, il meglio è festeggiare lo scampato pericolo, all’insegna di un’assoluta e deliziosa discrezione. In attesa di una dissoluta e viziosa secrezione… Ute… che femmina da urlo… scusatelo, ma se l’aveste conosciuta anche voi, capireste la sua smania. Molte delle vittime, ne era sicuro, avrebbero approvato su tutta la linea. I morti, sono fantastici. Amabili – e amati – molto più che da vivi. Tutti. Senza distinzione. Anche i peggiori maciullagonadi, una volta defunti, si tramutano per magia in adorabili angioletti o teneri agnellini. Quelli che invece lo erano in vita, angioletti o assimilati tali, ai quali le gonadi venivano regolarmente maciullate senza remissione né pietà, da morti riacquistano infine la propria misconosciuta disposizione naturale. La Costituzione della Repubblica Italiana finalmente realizzata. Peccato lo sia solo sottoterra. Ecco su cosa si fonda il nostro inarrestabile culto dei morti. Inconscio riconoscimento di quanto li abbiamo spregiati, trascurati, maltrattati e ignorati da vivi. Se li avessimo davvero amati – loro, non l’immagine riflessa di noi stessi – allora li lasceremmo librarsi con letizia nell’imperscrutabile contrada dell’Aldilà, invece di incatenarli ancora con pervicace ostinazione alle nostre brame, ai nostri rancori e ai nostri rimpianti o rimorsi. Ai defunti, si può far dire impunemente tutto ciò che ci garba senza la preoccupazione di poter essere smentiti, né di doversi sciroppare la deprecabile scocciatura di pagarli o ricattarli. Tanto, in vita non li ascoltava nessuno. Immaginatevi dopo morti.
22 Pure noi vivi, mica ci ascolta nessuno, se non per convenienza, educazione o necessità. No, non accade solo ai politici! Capita a tutti. E no, non ti illudere, non sei proprio tu quella rara eccezione che conferma l’agra regola. Fidati, nemmeno quando qualcuno era innamorato di te (intendo dire, davvero innamorato, se fai parte di quella ristretta e selezionata élite che ha avuto la fortuna, almeno una volta nella vita, di essere stata amata incondizionatamente da qualcuno di diverso da quei due sventati che lo misero al mondo, misero) ti ascoltava veramente, infatti agli innamorati è concesso profferire qualsiasi tipo di castroneria o cialtronata, ché tanto la corrispondenza fra le parole che pronunciano, il loro significato e la verità è totalmente aleatoria e puramente decorativa. Privilegio che condividono coi politici professionisti (termine che è già una bestemmia in sé), con la trascurabile differenza che i politici professionisti non li ama nessuno, famigliari a parte, beninteso. E puntualmente ricambiano. Come dite? Aurelio si è salvato solo per pura casualità? Il Caso è il Dio dell’era moderna; dalle nostre parti c’è ancora, a quanto pare, libertà di religione, quindi liberissimi di non crederci. Io, almeno per quanto riguarda Aurelio, sono certo di quel che affermo. Mi è andata bene, non lo nego. Acquistando il suo pacchetto pensieri completo e pagandolo, ahimè, a prezzo pieno pur in periodo di saldi proprio per il particolare pregio di sì rara merce, ho potuto usufruire di un bonus “Sliding doors” da spendere in un momento qualsiasi della sua arruffata e inconcludente biografia, a mia insindacabile scelta. Me lo sono giocato bene, puntando su un momento topico: il suo licenziamento, diciamo così, volontario, dalla Nuova Scuola, sulla quale aveva puntato tutte le residue speranze e aspirazioni della sua fin lì abbastanza misera vita. No, misera no; è improprio e riduttivo. Anonima e irrilevante sono le giuste connotazioni, gli esatti attributi di una vita strascicata sino a quel momento senza troppo mostrar gli attributi, che probabilmente non aveva nemmeno mai realizzato di possedere. Proprio il giorno dopo le dimissioni spontanee, accadde il miracolo. Sotto forma di banalissima ancorché determinante omissione di incidente mortale. Che ovviamente ometto.
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6. IL PAZIENTE INGLESE
«Hai una guida da videogame.» Furono le uniche parole, flemmatiche e filodrammatiche, leggermente marcate da un cauto accento anglosassone, rivolte ad Aurelio dal mite e riservato Steven, l’insegnante d’inglese della Nuova Scuola, al termine dell’ennesimo viaggio autostradale del venerdì sera insieme agli altri allievi (allieve, per la precisione, due, Fulvia e Frida) del corso di formazione in pedagogia innovativa. Considerata la loquacità del personaggio in questione, corrispondeva all’incirca all’equivalente di un infervorato discorso di una mezz’ora abbondante. Non lo aveva mai sentito formulare più di tre proposizioni consecutive – no, non c’entrano nulla con l’odiata analisi del periodo, sono semplicemente tre frasi di senso compiuto infilate una di seguito all’altra, cioè il massimo della chiarezza e dell’espressività ottenibili dall’italiano medio. Essendo il buon Steven tutt’altro che un italiano medio, bensì un inglese espatriato da qualche annetto, in possesso comunque di un lessico assai superiore a quello del suddetto autoctono, il fatto sorprendente, in quel caso particolare, non era rappresentato dalla correttezza formale della frase, abbastanza alla sua portata, ma dall’averla formulata ed espressa, sia pur a voce medio-bassa, come sua consuetudine, in tono udibile ad almeno un metro di distanza. Non vi era la benché minima sfumatura di rimprovero o di acredine nel commento di Steven, almeno così parve ad Aurelio, soltanto un velo di compatimento misto a superlativa rassegnazione, come quando si enumerano le tragedie ineludibili toccateci in sorte nella vita. Si trattava di una mera constatazione, una registrazione notarile dei fatti. Dopo mesi di sopportazione tacita e paziente, Steven aveva finalmente tirato le somme, ed era un conto abbastanza salato per lo spumeggiante Aurelio, che possedeva molti difetti ma non quello di non dar retta a chi stava spesso zitto.
24 Se un taciturno cronico si prende la briga di parlare una volta ogni sei mesi, significa che ha qualcosa di davvero rilevante da esprimere, quindi è necessario drizzare bene le antenne, ponendo però l’opportuna sollecitudine nell’esibire una signorile disinvoltura e un atteggiamento rilassato, giusto per non compromettere l’estemporanea esternazione con un eccessivo interessamento. Aurelio accusò il colpo. Indossava spesso la maschera impassibile da Uomo-Rotto-A-Tutte-Le-Esperienze per il fondato timore di rivelare l’estrema sensibilità ben dissimulata in qualche remoto recesso del suo animo, ma non era un duro. Solo un buon attore. Era prossimo all’affondamento, soprattutto dopo che Frida aveva dato man forte a Steven, accennando, col suo fare angelico ma deciso e risoluto, all’episodio incriminato: un sorpasso millimetrico a un mastodontico autoarticolato extracomunitario in viaggio a un’incalcolabile distanza dal suo esotico paese d’origine, sorpasso effettuato zigzagando con sbarazzina allegria tra le corsie congestionate della trafficatissima autostrada, mentre chiacchierava amabilmente con Fulvia, seduta al suo fianco in virtù della sproporzionata lunghezza delle gambe, che contribuivano in maniera significativa a farle raggiungere una stratosferica statura da valchiria, assai parente del metro e novanta che Aurelio avrebbe tanto desiderato per sé quando giocava a pallavolo circondato da adolescenti suoi coetanei in costante crescita mentre lui, angustiato, restava al palo del suo puffeggiante metro e settanta scarso. Pare che in quell’occasione avesse sfiorato di pochi centimetri la fiancata dell’autotreno, che si era spalmata per una manciata di secondi a meno di una spanna dal viso terreo dell’inorridito Steven, contratto in un’indecifrabile smorfia, non si sa se per la sconsiderata leggerezza di Aurelio, che non si era nemmeno accorto dell’accaduto (ordinaria amministrazione per un guidatore soprannominato non a caso Sandokan in tempi assai remoti dal suo unico e spietatamente veritiero fratello) o per la spavalda dissennatezza con cui la rediviva Tigre della Malesia dell’asfalto giustificava la propria condotta di guida un po’ troppo disinvolta. Asseriva infatti con adolescenziale sicumera che, siccome nei mondi spirituali – abbiano pazienza i lettori atei o agnostici, purtroppo sbobinando mi sono imbattuto in questo termine e per non falsare la narrazione mi sono ripromesso di restare il più fedele possibile agli originali in mio possesso – era ben nota la cronica penuria
25 di insegnanti innovativi validi e degni, sicuramente era stata predisposta un’adeguata e solida cortina protettiva contro ogni avversità, malattia o pericolo che dovesse incrociare le loro strade di futuri maestri. L’idea in sé, per quanto folle, non era del tutto sballata, né priva di fondamento logico, però era proprio il caso di abusare così diffusamente del favore accordato loro (quand’anche fosse stato davvero così) dalle gerarchie celesti? Aurelio si comportava da simpatico criminale solo quando era al volante, per il resto era davvero un compagno di studi adorabile e premuroso, e soprattutto senza secondi fini (essenzialmente perché riesce a perseguire solo un obiettivo per volta), con tutte quelle maestre o aspiranti tali, spesso in tenera età, perlomeno rispetto alla sua, non ancora veneranda ma ormai ben matura. Perciò i suoi tre compagni di viaggio gli perdonavano volentieri ogni sorta di eccesso stradale, tenuto conto anche delle alternative non proprio allettanti al farsi scarrozzare fin sotto le finestre dell’Accademia, sede del corso nonché loro temporaneo alloggio nei due fine settimana mensili a esso dedicati. A ben pensarci, quella di impegnare una sostanziosa fetta del suo tempo libero per un corso autofinanziato di riconversione professionale, non si rivelò poi quella brillantissima idea che gli era parsa all’inizio, circa tre anni prima, quando si iscrisse al corso, dopo aver fantozzianamente subito una imbarazzante e fastidiosa reprimenda per futili – a suo parere – motivi dal suo nuovo direttore, l’ingegner Giulio M., un tipo col quale fino ad allora si erano sempre mantenuti in rapporti assai più che urbani, anzi parecchio amichevoli, rilassati e confidenziali, pur senza essere intimi, insomma il miglior genere di relazione che ci potesse essere fra due colleghi, di pari sesso e istruzione ma non di pari grado o anzianità aziendale, le cui strade professionali a volte si incrociavano senza mai intralciarsi, fino a quel giorno in cui indossò una maschera più consona agli ormai mutati rapporti di forza tra i due.
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7. SELF SERVICE
Non fu, quello che scatenò la composta puntualizzazione di Steven, un incidente mancato per miracolo. Episodi del genere erano all’ordine del giorno nei viaggi di Aurelio, temerario e abilissimo gladiatore dell’asfalto perennemente aiutato dalla sorte, davvero benevola con gli audaci e assai compassionevole coi deficienti, categorie alle quali si gloriava segretamente di appartenere. Non era suo obiettivo mettere a repentaglio le vite di due madri di famiglia e di un insegnante titolare, soprattutto dopo averle così amorevolmente coccolate durante i due precedenti anni di corso, svoltisi nella loro città di residenza, prodigandosi per fornire appunti, fotocopie, suggerimenti, consigli, supporto logistico e quant’altro necessario al fine di facilitare il più possibile la loro preparazione all’insegnamento innovativo, che reputava un’elevatissima e nobile missione al servizio dell’umanità. Agiva con sincera dedizione e spirito comunitario ed era ormai molto affezionato ai superstiti del gruppo iniziale, quasi dimezzato all’inizio del terzo e decisivo anno, l’ultimo, quello fuori sede perché per vari motivi si era organizzato così colà dove si puote. I mondi spirituali, dei quali si sentiva ormai parte integrante ed effettiva, parevano aver accolto benignamente la sua ingenua buona volontà: per tutti i dieci mesi di durata del corso, inclusa la settimana intensiva di fine giugno a conclusione dell’anno, non si verificò alcun contrattempo stradale; le nebbie furono pressoché inconsistenti; il fine settimana dell’unica nevicata imponente saltò per un suo impegno improrogabile e anche quando, per una tuttora inspiegata distrazione, smarrì il biglietto di ingresso in autostrada, al casello di uscita trovò un addetto particolarmente comprensivo e sensibile che, invece di applicare come da regolamento la tariffa massima (che prevedeva di considerare Taranto come casello di ingresso), alla prima occhiata diede fiducia alla loro versione e applicò la tariffa dichiarata da
27 Aurelio, che doveva impegnarsi a fornire entro due settimane una dichiarazione scritta alla Direzione, autocertificando quanto affermato a voce, per non incorrere in sanzioni. Lo fece e, contro ogni sua aspettativa, la passò davvero liscia, come sarebbe dovuto accadere in qualsiasi nazione civile. Questo fatto prodigioso confermò definitivamente ad Aurelio l’esistenza dei mondi soprasensibili e l’efficacia della loro protezione, tanto che poche settimane più tardi, forte di tale certezza, riuscì, forse per la prima volta nella vita, a reagire a un sopruso e difendersi con successo da uno spudorato tentativo di prevaricazione. Una truffa ben studiata, quella posta in essere ripetutamente con diabolica e scientifica precisione dalla premiata ditta T. Ruffoni e G. Rassatori di Dolo (già il nome è tutto un programma, per non parlare della sede), gestori di un impianto per la vendita di carburanti con modalità self-service e videosorvegliato. Verso la fine del viaggio di andata, un venerdì sera di tarda primavera Aurelio immise nel serbatoio della sua automobile cinquanta euro di gasolio, immiserendosi poco dopo di analoga cifra, pagando alla cassa con una banconota datagli da uno dei compagni di viaggio a titolo di condivisione delle spese di trasporto, che si degnava quasi sempre di arrotondare a proprio svantaggio, benché gli ignari passeggeri non se ne accorgessero quasi mai. Operazione anonima ed essenziale, destinata a rimanere per sempre confinata nel dimenticatoio delle migliaia di azioni automatiche e ripetitive dell’abbietta routine cui Aurelio, suo malgrado, si sottoponeva abitualmente, cercando di fingere di non essere consapevole che, svendendo con regolarità innumerevoli infinitesimi della propria vita, finiva col lasciarsela sgocciolare via poco a poco, in modo inesorabile, senza aver combinato nulla di sensato o di memorabile. Non occorreva conoscere a fondo il calcolo differenziale per accorgersi che una somma non trascurabile di quantità infinitesime porta a risultati tangibili e finiti. Aurelio lo padroneggiava più che discretamente: in analisi matematica, gli piaceva molto risolvere gli integrali, che davano assai più soddisfazione delle derivate, in quanto molto più ostici e spesso imprevedibili. Suo nonno contadino, che non sapeva né leggere né scrivere, era giunto comunque alla medesima conclusione, senza per questo doversi laureare in ingegneria, osservando che se una sola goccia fa traboccare il vaso, tutte le altre hanno ben contribuito a riempirlo.
28 Di lÏ a poco avrebbe recuperato con gli interessi, combinando qualcosa di insensato e quindi, in qualche modo, memorabile. Le boiate che commettiamo sono sempre memorabili, per darci modo non solo di imparare qualcosa al momento, ma di tenercelo bene a mente, per questa vita e per le prossime. In questo caso la boiata la commisero gli incauti gestori del distributore, ma per una volta non sono loro a ricordarla, bensÏ il valoroso Aurelio che la sventò.
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8. THE BLUES BROTHERS
Qualche giorno dopo l’ormai archiviato rifornimento di gasolio, una raccomandata sospetta si materializzò nella casella postale di Aurelio. La scoperta di una raccomandata era uno di quegli eventi – simpatici come un calcio nel sedere, o come quel capo che, vedendoti uscire dall’ufficio alle 17, ti chiede con fare ironico e brillante davanti agli altri colleghi leccapiedi se hai preso mezza ferie, obbligandoli mor(t)almente a ridere per la brillante e originalissima battuta – che a priori ponevano una seria ipoteca sulla felice prosecuzione di una giornata fino a quel momento luminosa, oppure ne instradavano su una china di irrimediabile disastro una iniziata in maniera mediocre o già un po’ claudicante. Per definizione, le raccomandate non consegnano mai buone notizie; non che le altre missive siano in genere fonte di eccelse gioie, ma se qualcuno si prende la briga di rintracciarti con ricevuta di ritorno, non è certo per offrirti un pranzo o per farti gli auguri di Natale! La loro comparsa in casella e i vantaggi netti da essa derivanti, se potessero essere rappresentati in termini matematici, verrebbero sintetizzati con mirabile efficacia da un simbolo a forma di piccolo cuneo orizzontale con la punta rivolta verso sinistra e una lineetta sotto, a sancire l’appartenenza alla categoria “minore o uguale a zero”, tant’è che le speranze del malcapitato destinatario si concentrano sempre su quella risibile percentuale di comunicazioni pressoché irrilevanti ma obbligatorie in base a non so quale astrusa combinazione di cavilli, articoli, codicilli e fisime burocratiche di vario genere e natura. L’uguale a zero, il nulla di fatto che è il massimo risultato auspicabile, il tanto vituperato ma coccolatissimo male minore. Qualora così non fosse, ossia nella stragrande maggioranza dei casi, si inizia a calcolare mentalmente quante giornate di lavoro verranno buttate nella latrina a causa di quella banale distrazione che ci impedì di inchiodare davanti a un nuovo autovelox o a un semaforo giallo su cui era installata la telecamera, in uno di quegli eccezionali momenti in cui
30 la strada non si trovava bloccata da un ingorgo o congestionata dal traffico. Quando vide il luogo di provenienza (Dolo) scattò subito una remota sensazione di spaesamento. Non poteva trattarsi della solita multa; per quanto veloce cercasse di andare, il sostenuto traffico autostradale e la limitata potenza della sua auto non gli avrebbero mai consentito un apprezzabile superamento dei limiti imposti in autostrada oltre il cinque percento di tolleranza, e poi quella non era zona impestata da autovelox. Inoltre, ma questa era una pura considerazione subliminale, Aurelio e i suoi soci erano in missione per conto di Dio – a differenza di John Belushi e Dan Aykroyd, lui ci credeva davvero! – quindi durante quei viaggi scattavano dai mondi spirituali tutte le immunità diplomatiche del caso. Tutto filava sempre liscio. Quell’incombente intoppo sembrava infastidirlo ancor prima di essere svelato. Un voltafaccia così improvviso, per quanto non ancora quantificato, da parte di Chi di dovere, sarebbe stato spiazzante e oltremodo offensivo. Decise quindi, un po’ smagato, di lacerare l’involucro, strappando con malagrazia la busta senza lesinare la consueta irruenza, dato che il tagliacarte compariva sotto il suo naso invariabilmente con qualche secondo di ritardo, dopo averlo invano cercato ovunque. Non era una multa, a dispetto di quanto aveva supposto. Ma non ebbe modo di compiacersene a lungo, giusto il tempo di scoprire il simpatico bollettino postale precompilato accluso alla missiva, che richiedeva il versamento di un irrisorio obolo di soli settanta euro. Aurelio era un mago dell’estrapolazione: in tre secondi netti riusciva, senza leggere tutto il testo, a individuarne le parole chiave e confermare che si trattava di una fregatura con una rapida occhiata agli allegati, in questo caso l’inequivocabile bollettino postale che, tanto per cambiare, bussava a quattrini. Una cifra ragionevole, tutto sommato, a conferma che le randellate scaricate sulla groppa dell’asino non sono mai troppe, né vane, poiché quando poi gli si appioppa un potente calcio nelle terga, invece di lamentarsi, si rallegra per l’esiguità del danno, paragonandola alle consuete legnate. Col cittadino medio è uguale: è talmente abituato a subire ingiunzioni di pagamento di ogni sorta ed entità che, pur di evitare potenziali rogne e probabilissime complicazioni, spesso accoglie come un sollievo il
31 bollettino precompilato che, con una modica spesa, gli evita di imbarcarsi in perigliose e incerte peregrinazioni tra beghe legali, roboanti paroloni e astrusi articoli di legge i quali non ammettono ignoranza diversa da quella dei loro estensori, articoli peraltro spesso incomprensibili persino per i legulei addetti ai lavori. Fini psicologi ed esperti conoscitori dell’animo umano, i due sedicenti gestori del distributore in questione avevano pensato bene di approfittare dello stato di prostrazione e sudditanza psicologica automaticamente ingenerato da ogni tipo di comunicazione legale in una non trascurabile percentuale di italici guidatori. Gli altri, ossia il complemento a cento di detta percentuale, facevano parte dell’altra sponda della barricata, e se ne impipavano bellamente di ogni comunicazione di qualsivoglia autorità, forti della propria inattaccabile posizione di obiettori fiscali o anarchici o nullatenenti o nullafacenti o delinquenti o senzafissadimora – o una combinazione a piacere delle summenzionate categorie – occulti o conclamati, o massoni o quant’altro gli consentisse di non essere rintracciabili dal fisco né perseguibili legalmente, a differenza degli sfigatissimi lavoratori dipendenti e possidenti (una misera utilitaria o una scalcinata stamberga, qualsiasi cosa purché pignorabile, stipendio e braghe – calate o non ancora – inclusi). Costoro se ne sarebbero fatti un baffo, di una comunicazione del genere, non avrebbero nemmeno aperto la raccomandata – ammesso e non concesso che fosse riuscita a raggiungerli – oppure l’avrebbero cestinata sdegnati non appena scorto il bollettino. Ruffoni e Rassatori avevano messo in conto anche questo, nel loro grezzo ma efficace piano di sviluppo economico, o business plan che dir si voglia, ché l’inglese, si sa, fa sempre tutto più figo, persino le truffe – derivati e junk bonds docent. Basta che abbocchi qualche pesce all’amo, non è necessario pescarli tutti. Il piano (criminoso, non economico, anche se spesso le due realtà purtroppo coincidono nella moderna concezione industriale ispirata assai più a criteri predatori che a politiche di equo sviluppo) era assai semplice e ingegnoso, beninteso rapportandolo alla portata intellettuale, non certo eccelsa, dei due miserabili rubagalline in questione. Individuate tramite registrazione da telecamere fisse tutte le auto che si siano rifornite col sistema self-service in una data giornata, pagando
32 alla cassa in contanti (requisito fondamentale per attuare la truffa, poiché se si paga con Bancomat rimane traccia del pagamento nel circuito interbancario e risulta quindi agevole smascherare l’impostura), si vanno a escludere tutte quelle locali (provinciali e perlomeno regionali), troppo vicine e quindi passibili di essere condotte da qualche habitué della tratta, potenzialmente in grado di creare fastidi, data la vicinanza fisica (almeno così supponeva Aurelio, forse sopravvalutando la scaltrezza dei due compari). Tutte le altre sono potenziali vacche da mungere, o polli da spennare. Basta farsi fornire dalla Motorizzazione Civile o dalle autorità competenti il nome e l’indirizzo del conducente del veicolo di cui viene registrata la targa fingendo che fosse fuggito senza pagare il dovuto importo, anch’esso registrato dal sistema, e indirizzare al malcapitato una minacciosa lettera raccomandata, firmata da un avvocato vero e consenziente in modo da fornire una minima parvenza di legalità a un eventuale primo controllo. Nella missiva intimidatoria verranno citati data, luogo e ora del rifornimento, affermando che il pagamento non è stato effettuato, infrangendo gli articoli tale, taluno e talaltro del codice civile, di quello penale nonché di quello di Hammurabi. Viene quindi invitato il gonzo di turno a saldare il dovuto, lievitato di circa 20 euro per coprire le spese legali (ironico coronamento della beffa, un po’ come il costo del proiettile usato per spacciare il condannato a morte che viene addebitato con macabra serietà ai congiunti del trapassato dalle amministrazioni carcerarie più goliardiche), usufruendo dell’apposito modulo allegato, per evitare di incorrere in ulteriori sanzioni, denunce e procedimenti penali, ventilate dalla sinistra conclusione di prammatica: “qualora la Signoria Vostra non provvedesse ad adempiere al pagamento entro 5 (cinque; chissà perché, gli avvocati inferiscono a priori che i loro interlocutori siano tutti degli inetti o dei minorati mentali, incapaci di comprendere correttamente il valore di un numero se non glielo si scrive di seguito anche in lettere) giorni a partire dal ricevimento della presente, i nostri clienti si riservano di adire le vie legali nei Suoi confronti onde recuperare quanto dovuto, cui verranno aggiunte le eventuali maggiorazioni e le sanzioni accessorie.” Il tono sussiegoso e deferente nonché l’uso smodato delle maiuscole costituivano il tocco di classe che conferiva al tutto un’aura di pericolosa credibilità.
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9. UOMINI SOLI
Di fronte a una tale prospettiva, di solito le cosiddette brave persone – tali tendono a considerarsi per vieto nonché fallace automatismo, spesso sopravvalutandosi di parecchio, quelle incensurate, oneste e rispettose della legge – vengono quantomeno assalite dal dubbio di non aver pagato e di essersene andate via soprappensiero, a meno che non possiedano una memoria di ferro. Ma in genere anche i grandi geni non prestano granché attenzione a bazzecole e quisquilie di ordinaria e banale routine quali un rifornimento di carburante; figurarsi la gente normodotata. Quindi una nebulosa incertezza si insinua subdola e quasi sempre persiste a orbitare nei paraggi delle vittime, assillandoli alla stregua di un fastidioso insetto. Quand’anche la memoria accorresse in loro soccorso, non avrebbero comunque modo di provare l’avvenuto pagamento, e la parola di un onesto cittadino vale quanto quella di un perfido malversatore con un dito di pelo sullo stomaco, anzi meno, in presenza di una prova filmata. Testimoni in genere non ce ne sono mai, perché di solito i passeggeri se ne stanno in macchina o al massimo ne approfittano per una sosta idrica; nemmeno all’innamorata più cotta di questo globo verrebbe mai in mente di accompagnare il suo aitante ganzo del momento in un luogo talmente prosaico quanto la cassa di un distributore. Uno di quei posti in cui gli uomini si sentono veramente soli, perché lì lo sono quasi sempre, pur circondati talvolta da qualche loro simile incappato nella medesima deprecabile disavventura. La cassa di un distributore. Un ufficio delle imposte abilmente mascherato e astutamente imbellettato con ogni sorta di ninnoli, gadget, snack e porcherie assortite che esercitano il loro massimo grado di attrazione proprio in quelle particolari e disagiate condizioni. La riproposizione in chiave moderna dell’ottocentesca tassa sul macinato.
34 La tassa sul “macchinato”. Su un euro e trenta centesimi al litro, circa un euro se ne va in tasse. Teniamolo ben presente prima di dare degli speculatori e degli avvoltoi ai petrolieri. Ossia, se vogliamo farlo, facciamolo pure, ché non ci si sbaglia di molto, però cerchiamo di essere politicorretti, applicando la stessa percentuale di ricarico agli onorevoli insulti da dirigere a chi di dovere. Oppure ai doverosi insulti da dirigere a chi di onorevole… (secondo la proprietà commutativa della contumelia). A tutti gli effetti una pregevole macchinazione contemporanea, quasi indolore e sottocutanea. Il coraggioso e pluridecorato generale Bava Beccaris oggi resterebbe senza lavoro per mancanza di pericolosissimi rivoltosi da cannoneggiare. Il fisco si è notevolmente evoluto, e l’esercito pure. I prelievi sono capillari e inavvertiti, mentre i civili cannoneggiati o presi a fucilate dalle patrie armate, inviate un po’ ovunque per sostenere l’esportazione della democrazia, talvolta con l’aiuto di un po’ di piombo e di fosforo acquistati grazie ai lauti proventi della tassa sul macchinato, incrociano assai lontano dalle nostre acque territoriali e soprattutto a notevole distanza dagli inviati dei telegiornali, che infatti non se ne avvedono quasi mai. Gran cosa, il progresso. Bando alle digressioni storiche, alle tristi evocazioni e alle demagogiche frecciatine di stampo veterocomunista indirizzate a esercito e fisco, colpevoli solo di compiere il proprio dovere. Gli sventurati che prendessero sul serio la raccomandata sono costretti a muoversi in fretta, spesso senza nemmeno avere un fine settimana di tempo per ponderarci su e valutare con calma la spinosa situazione. E la fretta, ci insegnavano prima dell’avvento del milanese imbruttito, non è da annoverarsi tra i migliori consiglieri (anzi, advisor, perdonate il mio sentimentale ancoraggio al sorpassatissimo italiano, quando il gergo angloamericano imperante ci elargisce a profusione esotici sinonimi, assai più cool di codeste patetiche riesumazioni del Ventennio) disponibili sul mercato. Nell’affanno delle mille incombenze quotidiane, la perdita di tempo, di denaro e di energia necessaria per controbattere adeguatamente a una siffatta angheria risulta sovente eccessiva a fronte di una spesa non enorme e liquidabile con pochi minuti di piacevole coda all’ufficio postale. Quindi parecchi, sia pure a malincuore, optano per il cosiddetto male minore e pagano, tanto ci
35 sono abituati, a pagare e tacere, nonché a sobbarcarsi con rassegnazione il male minore, cercando di sorvolare sul male e di soffermare l’attenzione sul minore, con esiti quasi sempre disastrosi. La rassegnazione è un ottimo lubrificante gratuito per torti e soprusi. Gratuito, se non si considerano i cosiddetti costi sommersi. Si riuscisse in qualche modo a quantificarli, la cifra sarebbe terrificante, come i loro effetti. I furfanti lo sanno bene e ci sguazzano. Aurelio era tutto fuorché rassegnato, e la sua profonda vocazione anarchica e battagliera venne risvegliata prontamente dalla proditoria missiva. Dopo qualche attimo iniziale di sbandamento e stupore, lesse e rilesse con attenzione la lettera, sentendosi dapprima incastrato come un pugile all’angolo; poi riprese coraggio e fiducia, una volta incassate le testimonianze di tutti i suoi tre compagni di viaggio che erano sicurissimi di averlo visto entrare nello shop e soffermarsi alla cassa. Non certo per chiacchierare amabilmente con l’avvenente cassiera andandosene poi senza pagare, soprattutto perché non si trattava di un’avvenente cassiera, della quale altrimenti avrebbe serbato memoria per almeno qualche minuto, ma di uno scialbo e anonimo cassiere, subito scomparso nel cassetto dell’immediato e irreversibile oblio. Forse, anzi quasi certamente, anche lui ammanicato con gli sbarazzini organizzatori del simpatico scherzetto. Rassicurato, l’ultima cosa che gli potesse transitare per la mente a quel punto sarebbe stata il pagamento del bollettino. Non era quindi del tutto rincitrullito, né affetto da precoce demenza senile. Da quella solida base si mosse per organizzare un’adeguata linea di difesa, non tanto per la somma in sé, quanto per il principio di non calar le braghe al primo assalto. Avrebbe concesso anche il fondoschiena a un amico o persino a un estraneo che glielo avessero chiesto con garbo, ma se qualcuno cercava di infinocchiarlo con l’inganno, oltretutto nemmeno troppo astuto, allora Aurelio diventava un osso duro per chiunque. Soprattutto quando era certo di avere ragione. Come in quel caso. Partì quindi con estrema determinazione, avendo giusto un paio di giorni a disposizione prima di ripassare dal luogo del delitto, per uno degli ultimi fine settimana dedicati al corso, in vista dell’esame conclusivo. Questo asso nella manica se lo tenne ben nascosto, deciso a
36 giocarselo all’arma bianca nel caso i gestori del distributore non avessero risposto alla sua telefonata. Procurarsi il numero non è difficile nell’era di Internet, mentre ricordava molto bene il fascino esercitato su di lui, da ragazzino, da quelle cabine di certi baretti scalcinati, corredate, all’esterno, da decine e decine di guide telefoniche delle varie province italiane, spesso degli anni precedenti, salvate dal macero e messe a disposizione dei potenziali clienti che putacaso dovessero per un qualsivoglia motivo telefonare dalla provincia di Trento a quella di Caltanissetta o di Ascoli Piceno. Un bar di lusso, vuoi mettere la comodità? E l’esotismo evocato da quei nomi lontanissimi, studiati con passione e curiosità alle scuole elementari: Macerata, Benevento, Nuoro, persino la misteriosissima Isernia, erano per lui, il cui massimo viaggio era stato quello verso Jesolo Lido, altrettanto distanti di Mompracem, del cratere dello Scartaris e del fantasmagorico Machu Picchu, anelato per anni come il luogo più magico da visitare nei suoi sogni di bambino. Due clic, dieci secondi scarsi ed ecco materializzarsi la combinazione di cifre in grado di svelargli l’arcano. Chiamò la sera da casa, concedendosi il lusso di sprecare un’interurbana delle sue tre o quattro annuali. Aurelio non si sentiva mai a proprio agio all’apparecchio telefonico. Non sapeva spiegarsi il perché, ma era molto più incline ad affidarsi alla comunicazione scritta. In quel caso, però, dati i tempi stringenti, fu obbligato a sollevare il ricevitore e, con sua grande sorpresa e malcelato rammarico, a esporre succintamente la questione allo sconosciuto all’altro capo del filo, poiché secondo logica gli aveva risposto. «Buonasera. Ho ricevuto una raccomandata secondo la quale il giorno tale all’ora tale avrei effettuato un rifornimento di gasolio presso il vostro impianto, andandomene senza pagare. Ora, io sono sicuro di aver pagato, in contanti, e ho tre testimoni che mi hanno visto scendere dall’auto con i soldi in mano (me li hanno dati loro) e rientrare senza, dopo essere passato dalla cassa. Siccome nella lettera si accenna a una registrazione video, vi pregherei di farmela controllare, perché sono sicuro che, se sono stato davvero filmato, mi si dovrebbe vedere entrare nel negozio per pagare.» «Sì, certo. Io non sono il titolare, però; bisognerebbe parlare con lui, ma ora non c’è, mi dispiace.»
37 «Beh, non c’è problema, facciamo così: io passerò di lì esattamente venerdì prossimo verso le 22,30, con i testimoni di cui le parlavo, perché guarda caso devo tornare proprio dalle vostre parti. Fatemi trovare il video così lo esaminiamo insieme e chiariamo l’equivoco. Dica al titolare che richiamo domani per conferma.» Due secondi di silenzio all’altro capo del filo palesarono lo smarrimento dell’interlocutore, che infine riattaccò, dopo un saluto un po’ esitante e interdetto. Il giorno dopo Aurelio preparò una lettera nel suo miglior stile pseudoavvocatesco, che quando ci si metteva d’impegno gli riusciva proprio bene, contenente una solenne e circostanziata dichiarazione di scarico di responsabilità nei propri confronti, immedesimandosi in quei due galantuomini rispondenti ai nomi di Ruffoni e Rassatori. Mancavano soltanto le firme autografe dei due abbietti soggetti, i quali nell’ultimo paragrafo si impegnavano a rinunciare a qualsiasi rivalsa futura nei confronti di Aurelio. Non aveva molte speranze di farsela firmare, però era sempre meglio tenerla pronta. Metti che il video effettivamente lo discolpasse. Non si può mai sapere. Avvenne di meglio. Quando richiamò, la sera successiva, gli rispose il titolare o presunto tale, dicendogli che purtroppo avevano inspiegabilmente smarrito le cassette con la registrazione in questione. Guarda caso. Singolare coincidenza. Tra migliaia di registrazioni video, era scomparsa proprio quella incriminata. «Meglio così» concluse Aurelio, sereno e trionfante. «In ogni caso, venerdì passerò con una lettera da farvi firmare, nella quale rinunciate a ogni azione nei miei confronti.» Stampò la lettera in duplice copia e il venerdì si presentò puntuale all’appuntamento. Trovò ad accoglierlo un personaggio dimesso e smunto, imbarazzatissimo e assai accomodante, che firmò le due copie all’istante, premurandosi poi di chiedere al raggiante Aurelio, dopo essersi abbondantemente scusato, quasi genuflettendosi, se avesse bisogno di qualcosa. Allora gli fu lampante che i tipetti erano davvero in malafede, ma invece di raderli al suolo e intentare un’azione legale ritorsiva nei loro confronti, Aurelio si accontentò di sgattaiolare via rapidamente, quasi
38 schifato e infastidito, declinando la venale e smaccata offerta dei lestofanti. Solo dopo essere ripartito, narrando ai suoi soci l’accaduto, gli venne in mente che avrebbe potuto chiedere come minimo un pieno gratis e il cambio dell’olio in aggiunta, e glieli avrebbero accordati di buon grado, pur di scongiurare una pesante denuncia e di cavarsela così a buon mercato. Probabilmente non avrebbero mai immaginato di passarla liscia di fronte a un Aurelio tanto deciso, rapido ed efficace. Ma era fatto così. Incapace di infierire su dei disgraziati di mezza tacca, che avrebbero meritato una lezione esemplare e, invece, probabilmente avrebbero proseguito con imperterrita sfacciataggine nei loro disegni criminosi, finché non fossero incappati in qualcuno più incattivito e vendicativo. Solo tre giorni addietro se li sarebbe mangiati vivi, poi la pena, il ribrezzo e il desiderio insopprimibile di chiudere quanto prima quel laido episodio ebbero il sopravvento e lo fecero desistere da ogni proposito di giustificata ritorsione. Invece si ritrovò a darsi dell’imbecille per non essersi almeno intascato un pieno a titolo di parziale risarcimento dei danni morali, per quanto la soddisfazione di aver visto strisciare di fronte a lui almeno uno – il più stupido, senza ombra di dubbio – di quegli esseri spregevoli che avevano tentato di inforchettarselo senza pietà fosse letteralmente impagabile. Qualche giorno più tardi, mentre ripercorreva mentalmente con malcelato compiacimento le varie tappe di quella squallida vicenda, venne assalito di sfuggita dal dubbio di non aver agito a tutela del bene della collettività, ma solo per proteggere sé stesso. Avrebbe infatti, se ragionevolmente convinto della possibile ripetizione dell’illecito ai danni di altri automobilisti di passaggio, dovuto segnalare il fatto alle autorità competenti, oppure sporgere denuncia e intentare causa per tentata truffa. No, sarebbe stato davvero eccessivo. Le sue fragili spalle non avrebbero potuto reggere tutte le beghe e le complicazioni derivanti dal ricorso ai rappresentanti della legge. Non era un cittadino modello né ci teneva a esserlo, tantomeno a diventarlo proprio in quell’occasione. Il suo amico Maurizio, carabiniere in pensione, ogni tanto gli rispiegava che la legge serve più a vessare gli innocenti che a perseguire i delinquenti, corredando tale disillusa
39 affermazione con edificanti racconti tratti dalle sue innumerevoli e gustose avventure con indosso la divisa dell’Arma. Sfondava una porta aperta. Con tutto il rispetto per il suo amico, Aurelio meno aveva a che fare con leggi, denunce, cavilli e contenziosi – da ognuno dei quali sapeva, per intuito, che avrebbe avuto molto da perdere e nulla da guadagnare – meglio si sentiva. Non aveva l’indole del giustiziere, pur esecrando massimamente i torti, le soperchierie e le ingiustizie. Sapendolo, evitava di aggiungere alla sua già nutrita collezione di frustrazioni e fallimenti il mancato raddrizzamento dei suddetti torti et similia. Certo, bisognava dare l’esempio. Certo, il principio della legalità. Certo, se tutti facessero gli struzzi come lui dove si andrebbe a finire, e non lamentiamoci se poi in Italia imperversano taluni laidi personaggi che la fanno sempre franca. Un consulente americano strapagato dalla sua ditta gli lasciò almeno la memorabile quanto lapalissiana lezione – i consulenti anglofoni sono dei veri maghi nel farsi pagare a peso d’oro per sciorinarti preziose informazioni che conosci benissimo anche tu, ma non avresti mai nemmeno pensato di poterle rivendere come nuove appiccicandogli sopra il tuo brevetto originale, avendo avuto l’accortezza di introdurre un nuovo gene insignificante nella sequenza di quelle parole arcinote – che, nel lavoro come nella vita, occorre scegliere con cura quali battaglie vadano combattute, ossia quelle nelle quali valga davvero la pena ingaggiarsi, in base a una obiettiva ed equilibrata valutazione delle proprie forze. Inutile farsi massacrare gettandosi a capofitto in gloriose cariche suicide o stoiche quanto vane resistenze contro soverchie forze avverse, come pure usare un cannone per uccidere una mosca. Tre mesi abbondanti di alloggio al Gallia Excelsior e svariate decine di migliaia di dollari di emolumenti gli avevano lasciato solo quel misero, benché ragguardevole, insegnamento. Alla sua ditta, nemmeno quello. Ma faceva parte del gioco, era tutto previsto e calcolato. Quei soldi apparentemente gettati erano solo una goccia, paragonati al vasto mare di cui rendevano possibile l’accesso. Un ponderato sacrificio scacchistico. L’americano era solo uno strapagato attore di terza fascia che giocava un ruolo secondario, ma tutt’altro che marginale, nell’ambito di un raffinato e accuratissimo
40 teatrino organizzato per gettare fumo negli occhi alle autorità, le quali non chiedevano di meglio. In tutto questo teatro, anche Aurelio ci aveva ricavato un mesetto di turismo industriale a cinque stelle nei migliori alberghi di Boston, non si sapeva bene a far cosa, ma inutile indagare sui misteri delle grandi aziende, soprattutto se ne fai parte. Si ingozzò di prelibate aragoste del Maine e comprò – a sue spese, almeno quelli – dei pattini da ghiaccio, che spesso usava per pattinare in pausa pranzo sul laghetto ghiacciato al centro del parco di fronte alla sua prestigiosa e centralissima sede di lavoro, per combattere la tristezza e la noia tardoautunnali. La trasferta estera più lunga e interessante della sua vita lavorativa gli era capitata proprio mentre si era fidanzato ufficiosamente con colei che di lì a poco sarebbe diventata sua moglie, quindi la prospettiva che lo allettava di meno in quel frangente era quella di starsene diverse settimane filate a migliaia di chilometri e un oceano di distanza da lei. Se avesse potuto, se la sarebbe tenuta nel taschino della giacca per averla il più vicino possibile, poiché quando si è innamorati, la forza dell’amore risulta direttamente proporzionale al quadrato della distanza, a differenza di quella di gravità. Relatività ristretta. Ora iniziava a intuire vagamente di cosa si potesse trattare. Aurelio aveva anche capito, a proprie spese, che in una vita sono davvero pochissime le battaglie meritevoli di essere combattute, e gli erano ormai transitate davanti quasi tutte, con alterne fortune sovente inavvertite. Perciò gli poteva spesso capitare di essere tacciato, dietro le spalle naturalmente, di pavidità. La differenza tra un imbelle e un uomo saggio e prudente a volte è troppo sottile per essere colta dalla maggioranza delle persone, che invece sottile non è quasi mai. Non gliene importava granché delle future potenziali vittime. Che se la sfangassero da sole, con un po’ d’ingegno e di spavalderia, come aveva fatto lui. Anche se il comportamento viscido e servile dell’addetto alla cassa aveva corroborato definitivamente la pressoché totale esattezza delle sue deduzioni, non si sentiva in grado di impegnarsi in una battaglia contro quella scalcinata banda di inetti, che rischiava di essere mandata a gambe all’aria con un semplice starnuto. Benché fosse allergico ai mentitori, ai malandrini e ai deficienti, quella volta Aurelio riuscì a controllarsi e non starnutì. Non sapeva ancora che quello sarebbe stato solo il primo di una lunga serie di starnuti trattenuti. La Nuova Scuola lo attendeva con polverosa, acarosa impazienza. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD