In uscita il 29/5/2015 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine maggio e inizio giugno 2015 (3,99 euro)
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SALVATORE ZAFFARANA
NATO DA DONNA
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NATO DA DONNA Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-885-5 Copertina: immagine di Patrizio Zaffarana
Prima edizione Maggio 2015 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
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PROLOGO
«Stammi a sentire, obbedisci letteralmente a quello che ti sto per ordinare, come d’altronde hai sempre fatto! Mi sono stancato, voglio capire! Ora vivrò da uomo, come una volta fece lui. Ma ora lo farò io, il Principe, l’unico e il vero Principe. Vivrò da semplice uomo, non ricorderò nulla di ciò che sono, vivrò una vita mediocre, nella norma, senza infamia e senza onore. Così alla fine capirò! Capirò come un uomo medio, di media intelligenza, di media bellezza, di media ricchezza… anzi quasi in povertà, possa resistere alla tentazione. Tu dovrai fare in modo che egli, io, non possa resistere. Dovrai manovrarlo e tentarlo per tutta la vita come solo noi sappiamo fare. Devo capire, capire davvero cosa gli impedisce di commettere ciò da cui non si può redimere, il vero punto di non ritorno che trascinerebbe tutti gli umani nelle nostre fila, per cessare finalmente questa eterna lotta. Vincere, e vinceremo se solo capirò. Non dovrai mai svelarti a me, sappi che io non ricorderò! E non dovrò farlo fino al giorno in cui avrò finalmente, in altre spoglie, commesso quello che tu mi spingerai a fare, di mia sponte…»
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CAPITOLO PRIMO
A.D. 2004 Stava morendo, semplicemente! Non sapeva che parte dell’auto fosse stato quel pezzo di lamiera che gli penetrava l’addome, né come ci fosse finito. Ricordava l’incidente naturalmente, il retrotreno della vettura che sbandava a metà di quella curva maledetta presa con troppa velocità, al massimo dei giri del motore e della mente, troppo offuscata dall’alcool per guidare e troppo poco per non pensare. Aveva cercato di recuperare la sbandata con un disperato controsterzo; se fosse stato più lucido o se la scarpata non fosse stata così vicina, forse ci sarebbe riuscito. Aveva sempre contato - presuntuosamente, troppo presuntuosamente - sulle proprie capacità di guida e adesso pagava il fio della sua stupidità. Ricordava vagamente di aver pensato di rallentare ma poi non ne aveva fatto niente. Che avesse avuto l’intenzione di uccidersi? No, non era da lui, semplicemente gli andava di correre, ecco! E ora stava morendo! Non sapeva per quanto tempo ne avesse, ma l’emorragia interna doveva essere vastissima in quanto la lamiera non era larga meno di dieci centimetri e affondava nelle carni per chissà quanto. Sì, era sicuro di essere trafitto da parte a parte, inchiodato al sedile a guisa di farfalla da collezione. Sì, si sentiva trafitto da un gigantesco spillone! “Cristo” pensò “dieci centimetri di ferro negli intestini, e non fa neanche male.” Non sapeva cosa fare, era inchiodato al sedile! Non trovava il cellulare finito chissà dove e non aveva la forza di muoversi per cercarlo. Non aveva la forza neanche per invocare aiuto e non credeva che qualcuno avesse assistito all’incidente dato lo scarso traffico che ricordava in quella strada che si arrampicava su per una qualche stramaledetta collina ai confini del mondo… sarebbe morto, ne era certo. Sarebbe morto e non avrebbe più avuto la possibilità di assisterla. Come avrebbe fatto lei? Era disperato più per lei che per il fatto di morire. Come avrebbe fatto lei? Come?
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CAPITOLO SECONDO
A.D. 1955 Il bambino, cinque anni appena, si era perso. La disperazione si impossessò dell’animo della creatura. Non vedeva più la mamma. Si ricordava che fino a pochi istanti prima gli era vicina, gli teneva la mano, gli infondeva sicurezza e adesso, semplicemente, non c’era più. Si trovava in un mercato rionale con decine e decine di banchi di frutta e verdura e articoli per la casa e tutto quello che si può trovare in un mercato e centinaia, migliaia, milioni di persone che si frapponevano fra lui e la mamma. Si arrampicò su un basso muretto che delimitava una parte del mercato; ecco, così era più alto e forse, forse sarebbe riuscito a vederla. Niente, non c’era più! Pensò di tornare a casa da solo ma… da che parte? Aveva paura a muoversi in quanto sperava che la mamma, senza meno in ansia come lui, lo stava cercando. Era disperato, assolutamente disperato ma non pianse, riuscì a trattenere le lacrime anche se ne aveva assoluto bisogno, più dell’aria che respirava, più di tutto, voleva piangere ma si impose di non farlo e ci riuscì. Nella vita che lo attendeva gli sarebbe capitato innumerevoli volte, si sarebbe sentito disperato e avrebbe avuto voglia di piangere, sarebbe stato certo che solo quel debole sfogo lo avrebbe potuto aiutare ma avrebbe resistito sempre, caparbiamente, cercando la forza da qualche altra parte e avrebbe commesso errori, tanti. D’un tratto si rese conto che qualcuno gli stava parlando. Giratosi, vide un uomo che in piedi era alto come lui sul muretto. Era brutto, grosso, con il naso di un rosso come non aveva mai visti e tutti i capillari che spiccavano nitidi sotto la pelle del viso tirata allo spasimo; gli occhi che lo fissavano erano piccolissimi, arrossati, due fessure. L’uomo gli stava parlando ma il suo tono non era dolce e tranquillizzante come era abituato a sentire dalla mamma, gli parlava con un vocione che incuteva soggezione anche se le parole, forse, volevano essere rassicuranti.
7 «Ti sei perso eh? Non trovi più la mamma eh? Non è ora che tu ti perda, non è assolutamente ora! Guarda, guarda là in mezzo, a neanche dieci metri…» E così dicendo indicò con il braccio teso in mezzo alla folla e il bambino, seguendo la direzione di quell’enorme indice in cui spiccava un’unghia spezzata e lurida, vide sua madre che, con il volto intensamente preoccupato, lo stava cercando. Si voltò per ringraziare, come gli avevano insegnato dopo che si era stati fatto oggetto di una cortesia, ma non vide più l’omone; era scomparso come poco prima la mamma. Il bambino non si preoccupò più di tanto e, chiamando a gran voce, si ricongiunse dopo pochi istanti con il suo bene più prezioso.
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CAPITOLO TERZO
A.D. 1990 «L’affare è certo, senza alcun rischio e nella perfetta legalità. In fin dei conti si tratta di finanziare con una modica cifra un’attività di importexport. Inizialmente è solo import, è vero, ma non appena saremo economicamente autonomi e avremo ammortizzato le spese iniziali provvederemo a spedire prodotti lavorati o semilavorati invece che denaro, pagando così la merce con altra merce. Chiaro no?» «Certo, come no? Solo che “inizialmente”, come dici tu, saremo dei perfetti evasori fiscali.» «Gesù, non possiamo pagare le tasse subito, come te lo devo spiegare? Insomma, che ce l’abbiamo a fare il socio nell’ambasciata dello Zaire? È lui che ci viene a prendere sotto l’aereo e passiamo indisturbati con una bella manciata di diamanti in tasca. Che male c’è? E poi è per le prime volte, te l’ho detto, finché non recuperiamo le spese. Dopo come potremmo spedire materiale lavorato in Africa senza pagare le tasse? È solo all’inizio.» Vincenzo pian piano si fece convincere. Era in ultima analisi un uomo semplice e della cosa si rendeva perfettamente conto. Non si illudeva di riuscire ad arricchire con grossi affari a livello internazionale tuttavia era tentato, molto. “Hai visto mai…” Non si fidava granché del suo socio, gli sembrava il tipo che ti tira in mezzo e poi, se le cose si mettono male, ti abbandona. Ma confidava di riuscire a controllarlo. In fin dei conti il suo investimento era limitato ai biglietti aerei e a tutte le spese di viaggio e soggiorno in africa per lui e per un uomo di fiducia dell’ambasciata, certo Osango, in quanto il denaro per l’acquisto dei diamanti alla borsa nera di Kinshasa li avrebbe anticipati il suo amico. In effetti la sua quota di partecipazione era di molto inferiore a quella dell’altro, e ovviamente anche i ricavi sarebbero stati calcolati in percentuale. A lui andava bene, investiva poco e il
9 guadagno, anche se inferiore, sarebbe stato notevole. Non era avido, si accontentava di quello che possedeva, ma naturalmente cercava sempre di migliorare. Iniziò i preparativi per la partenza, compreso il vaccino per la febbre gialla che fu costretto a farsi somministrare per essere autorizzato a recarsi nello stato africano. All’età di trentatré anni viveva ancora con i genitori in quanto era per convinzione uno scapolone incallito; almeno gli piaceva crederlo e non pensare che in realtà non aveva mai trovato una donna adatta, una donna che riuscisse a sopportarlo, una donna che gli assicurasse solo una cosa: la fedeltà. Dovette comunque lottare strenuamente in famiglia per partire, in quanto nella vicina Angola la guerra civile imperversava e nello stesso Zaire il peso della dominazione di Mobutu Sese Seko non era più tollerato e la pressante lotta politica con il suo principale oppositore, Laurent Desiré Cabila, faceva sì che le strade non fossero davvero sicure; infatti vigeva la regola, per chi poteva permetterselo, di girare con scorte armate composte dagli stessi soldati regolari, che svolgevano quel compito come secondo lavoro. In ambasciata, a Roma, avevano assicurato a Vincenzo che il sistema funzionava, che non vi era pericolo alcuno e che per un europeo i costi erano assai contenuti. Riuscì comunque a sistemare le cose e a partire. Il suo amico gli aveva dato una larga cintura di stoffa con dentro cuciti trenta milioni di lire, sufficienti a comprare una buona partita di pietre grezze e, con grandi pacche sulle spalle e raccomandazioni di non tirare fuori il denaro se non all’ultimo momento, di dormirci e di farci anche la doccia se occorreva. Prese il primo di una serie di aerei che lo avrebbe condotto, insieme al nativo, in una delle capitali della più profonda Africa nera. Il viaggio si svolse senza incidenti e Vincenzo si ritrovò, l’indomani, ospite della famiglia di Osango. Qualche cosa, tuttavia, non andava per il verso giusto. Dopo tre giorni di permanenza Osango ancora non accennava a diamanti di sorta. Al quarto giorno lo mise alle strette. «Che cazzo sono venuto a fare, eh? Solo per offrirti il biglietto per venire a trovare la tua famiglia?» «Stai calmo Vincenzo!» «Stai calmo un cazzo! Io sto sprecando le ferie, qui non mi sto divertendo per niente, hai capito? E poi c’è qualcosa che non va, la stai tirando troppo per le lunghe. Ti do tempo fino a domani e poi torno in Italia.»
10 «E va bene, ti dirò la verità che il tuo socio non ha voluto dirti per paura che tu ci ripensassi e lui, vigliacco com’è, non sarebbe venuto mai qui.» «Cioè?» «I soldi. I trenta milioni che ti ha dato sono falsi! Calmati e stammi a sentire; qui si possono cambiare hai capito? Qui a Kinshasa c’è una strada dove cambiano valuta straniera in pieno giorno, in nero, sulle bancarelle. Ma siamo capitati in un brutto momento. Mobuto l’ha momentaneamente chiusa e io devo trovare qualche altro cambiavalute, e non è facile perché ne conosco solo due e in questo momento non possono muoversi. Ma vedrai che ce la faccio, un mio cugino ci viene incontro a Kananga, ci dobbiamo incontrare là e vedrai che li cambiamo. È solo a due ore di aereo…» «Bastardi cornuti infami! Come torniamo a Roma lo ammazzo! Giuro che lo ammazzo il porco. E pure tu che non mi hai detto un cazzo eh? Bastardi. E come lo paghiamo l’aereo fino a Kananga, eh?» «Be’, ho un cugino in un’agenzia di viaggi. Gli diamo i biglietti di ritorno a Roma, lui se li vende alla borsa nera e in cambio ci dà due biglietti andata e ritorno per Kananga.» «Un cazzo, stronzo! E se qualche cosa va storto come ci torniamo in Italia? Vai a farti fottere, io domani mattina vado in aeroporto e torno a casa.» Osango non rispose, lo guardò in silenzio, si girò e uscì lasciandolo nella cameretta che gli avevano dato. Era furioso, se il bastardo fosse stato lì sentiva che lo avrebbe ammazzato a mani nude. E adesso non si fidava neanche più di Osango! Se lo aveva tradito fino a quel momento e aveva parlato solo perché messo alle strette, non poteva fidarsi neanche per il futuro. Non credeva che Osango avesse intenzione di fargli del male a casa sua, ma era bene essere prudenti. Bloccò la maniglia della porta con la spalliera di una sedia, come aveva visto fare in decine di film western «Ma questa è la realtà e sono io che rischio, non un attore.» Gli erano rimasti un centinaio di dollari americani. Ne mise dieci nel portafoglio e nascose gli altri, insieme al suo biglietto, nei calzini che indossò e si sdraiò vestito sul letto. Sentiva al di là della sottile parete le voci della famiglia che lo stava ospitando, anche se non capiva una parola; erano voci normali, con toni che si sentono in tutte le famiglie. O forse dicevano parole che si riferivano a lui come di un buon affare che sta sfumando? Forse il resto della famiglia di Osango non sapeva che
11 razza di delinquente fosse il loro parente. Si addormentò con cupi pensieri, tristi presagi. Fu svegliato nel cuore della notte da un bussare lieve alla porta. «Chi è?» «Sono Osango. Dobbiamo andare, siamo stati traditi e dobbiamo scappare! La polizia sta venendo a prenderci, mi ha avvertito un mio cugino che lavora alla gendarmeria.» Vincenzo non era sicuro se il suo ospite si fosse accorto o no del fatto che la porta era bloccata. Non sapeva cosa fare. «Perché dobbiamo scappare?» «Te l’ho detto, sta venendo la polizia. Non perdere tempo, vestiti che ci stanno venendo a prendere. E porta i soldi.» Non poteva fare diversamente; aprì la porta e fece entrare lo zairese. «Ah, sei già vestito. Bene, così facciamo prima. Vieni.» E così dicendo lo precedette per lo stretto corridoio verso la porta d’uscita dell’appartamento. Scesero in strada in tempo per vedere una grossa berlina che si accostava al marciapiede a una decina di metri da loro. «Aspetta qui Vincenzo, vado a parlare solo io per il momento.» Era notte fonda, ma al riflesso dei lampioni Vincenzo vide all’interno della vettura, sul divano posteriore… il suo socio! Ma sì, era proprio lui, impossibile sbagliarsi, era l’uomo che lo aveva tradito e messo nei guai. Si precipitò per colpire, con la mente offuscata dalla rabbia; superò Osango che invano cercò di trattenerlo, si divincolò dalla stretta e giunto allo sportello posteriore lo spalancò. All’interno vi era un nero, mastodontico, riempiva il sedile della già capiente berlina. I due si fissarono intensamente, Vincenzo non capiva, era certo di aver visto il porco, e invece… Vide il grosso revolver stretto nel pugno dell’altro e si bloccò. Uno sparo lacerò l’aria e l’italiano avvertì il morso di mille serpenti. Cadde e non fu conscio più di alcunché. «Osango, che cazzo mi combini?» «Che c’entro io? Ho dovuto dirglielo, non ero più in grado di sopportarlo e mi aveva minacciato di tornarsene in Italia.» «Questo è un osso duro, è un testone! Mah, non morirà e sarà per un’altra volta. Prendigli la cintura e svuotagli il portafoglio, rendiamogli la vita un po’ più difficile, spero che imparerà! Prima o poi d’altro canto…»
12 «Va bene, il capo sei tu. Ci sono solo dieci dollari e un biglietto d’aereo. Dovevano essere due e dovrebbe avere più soldi…» «Non fa niente, prenditi il tuo biglietto e tornatene in Italia. Che lui si arrangi.» Quando riprese i sensi, la prima sensazione che avvertì fu di dolore, lancinante. Non riusciva a muoversi, sentiva tutta la parte sinistra del torace assolutamente in preda al dolore. Svenne di nuovo. Quando riaprì gli occhi si rese conto che albeggiava; aveva freddo come non ne aveva sentito mai, ma forse proprio per questo gli sembrò che il dolore fosse un po’ più sopportabile. Penosamente cercò di alzarsi facendo forza con la destra. Il braccio sinistro era andato, completamente paralizzato. Riuscì nel suo intento e si trascinò al lato della strada, a ridosso del muro della palazzina dove c’era l’appartamento che lo aveva ospitato, e cercò di capire fino a che punto fosse ferito. Si sentiva tutto bagnato, probabilmente aveva orinato mentre era in stato di incoscienza; sperò che non fosse sangue. I lampioni gettavano una luce fredda che contribuiva a straziargli l’animo; vide un ubriaco che attraversava la strada a un centinaio di metri da lui e pensò di chiamarlo, di chiedere aiuto, ma non aveva la forza di gridare. Lo lasciò scivolare nel buio di un vicolo, ombra nell’ombra, dove gli unici lampioni già da anni erano stati preda dei sassi dei ragazzi. Dell’auto e di Osango nessuna traccia, come della cintura con i soldi. Vide in terra, dove era caduto, il suo portafogli; doveva tornare indietro per quei maledetti dieci metri, chinarsi con il rischio di non riuscire a risollevarsi e poi tornare al muro. Doveva per forza recuperare i documenti italiani, patente, carta di identità… non poteva davvero lasciarli lì in terra immersi in una pozza di sangue; e il passaporto? Scoprì che era ancora nella tasca della Sahariana, per fortuna non glielo avevano rubato. Riuscì a recuperare il portafoglio. Scoprì, dopo aver ripreso fiato, che la pallottola gli era penetrata sotto la clavicola per uscire sfondando la scapola; ringraziò il cielo che la succlavia non era stata recisa altrimenti a quest’ora sarebbe stato pasto per i vermi. E ora? Che cosa poteva fare? Come poteva andare in aeroporto e affrontare, se anche ci fosse riuscito, un giorno di viaggio? Vide due soldati, evidentemente fuori servizio, che attraversavano la strada a poche decine di metri da lui. Doveva rischiare! Chiamò, in italiano naturalmente, e sperò con tutte le forze di riuscire a farsi capire. Fu fortuna-
13 to perché ambedue, dato il lavoro di scorta che facevano da lungo tempo, erano dei veri e propri poliglotti. «Devo assolutamente partire per l’Italia.» «Come vuoi che ti facciano imbarcare? Appena fa giorno ti arrestano, con tutto quel sangue. Puoi pagare?» Vincenzo pensò che se avesse confidato di possedere quasi cento dollari quei due lo avrebbero sgozzato all’istante, ma che cosa poteva fare? Bere o affogare. «Sì, non ho molto ma mi impegno a spedirvi il resto non appena giunto a casa; vi prego, aiutatemi.» Le lacrime si affacciarono prepotenti agli angoli degli occhi e Vincenzo fu lieto che il sole non era ancora sorto; non era proprio il caso di farsi vedere debole e poi… «Che cazzo hai da piangere, stronzo?» «Quanto hai? Dicci la verità altrimenti lo scopriamo noi.» «Circa novanta dollari americani…» I due si guardarono e parlarono in una lingua assolutamente incomprensibile. «Va bene. Sei fortunato italiano, sei fortunato che hai trovato due padri di famiglia. Facciamo così, ora noi ti aiutiamo e tu, quando rientri in Italia, ti incontri con un nostro cugino e gli dai altri mille dollari, va bene?» Non poteva certo rifiutare e, in ultima analisi, in quel momento avrebbe pagato ben più di un paio di milioni di lire per uscire fuori dalla merda in cui lo avevano cacciato. Lo condussero a casa di uno di loro, misericordiosamente vicina e, dopo aver constatato che la ferita era pulita e che l’emorragia si era quasi arrestata, lo disinfettarono accuratamente arrivando persino a propinargli un antibiotico a largo spettro che lo avrebbe aiutato per l’infezione che sarebbe senz’altro sopraggiunta. «Ecco, il braccio è bloccato dalle bende e non sanguini più; non potrai muoverlo naturalmente ma puoi fare finta di essere paralitico, no? Ora ti diamo dei vestiti puliti e ti accompagniamo all’aeroporto; ho un cugino lì e vedrò di farti partire in giornata. Italiano, non fare scherzi quando sarai tranquillo a casa tua; abbiamo il tuo indirizzo. Riga dritto e non sentirai più parlare di noi.» «Anche a costo di farmeli prestare, avrete i vostri soldi.»
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CAPITOLO QUARTO
A.D. 1958 «Non l’hai mai fatto?» «Ma che cosa vuol dire?» «Ma come, tutti gli uomini lo fanno, è risaputo.» «Ma io non so come si fa!» A otto anni, lontano da casa pur se in “villeggiatura” in una colonia statale, il bambino non riusciva a stare dietro ai discorsi degli amici un po’ più grandicelli e si sentiva naturalmente in difetto, il più piccolo, il cretino della situazione. Le lacrime, spinte dall’umiliazione, si affacciarono prepotenti ma lui resistette imperterrito. “Ci mancherebbe altro che mi facessi vedere piangere.” «Allora ti spiego io come si fa! Dunque, tu devi…» E così, alla rispettabile età di otto anni, al bambino fu insegnato il segreto della masturbazione. Lui veramente non sentiva nulla, ma faceva finta con gli amici e particolarmente con quel suo amico che gli aveva insegnato, di godere, a lungo e appassionatamente. «Non so come ho fatto fino ad adesso, non so proprio come ho fatto. Ti ringrazio, ti ringrazio amico.» Non sapeva, ovviamente, che la gioia del suo amico per averlo indotto in una pratica che gli avrebbe procurato, quando fosse stato un po’ più grandino, un bel po’ di frustrazioni (padre, ho commesso atti impuri…) era incommensurabilmente superiore a quella che il ragazzino stesso provava quando indulgeva al proprio autoerotismo.
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CAPITOLO QUINTO
A.D. 1991 L’esperienza africana fu per Vincenzo deleteria sotto tutti i punti di vista. Dovette assoggettarsi a sei mesi di fisioterapia per recuperare la funzionalità della spalla e dell’avambraccio, e anche così l’arto rimase parzialmente offeso. Il suo “amico” era naturalmente sparito, avvertito probabilmente da Osango, e Vincenzo non riuscì neanche a incontrare lo zairese pur avendolo cercato ripetutamente in ambasciata finché gli dissero chiaramente di non cercarlo più se voleva evitare guai. La rabbia e il desiderio di vendicarsi erano forti in lui ma si rese conto che, perlomeno finché non fosse guarito, non poteva fare alcunché per trovare le due bestie che lo avevano rovinato. Il periodo di assenza per malattia dal lavoro gli fu comunque utile per riposare e, soprattutto, riflettere. Decise di andare a vivere da solo. Non guadagnava molto come impiegato delle Poste, ma era uomo di poche pretese e se avesse trovato un monolocale a basso costo era sicuro di farcela. I genitori naturalmente fecero il diavolo a quattro per dissuaderlo ma alla fine vinse lui. Trovò un appartamentino seminterrato, ex garage e sala hobby di una villa di un suo amico, in un bel quartiere a sud di Roma e vi si trasferì con quattro mobili usati rimediati un po’ qui e un po’ là. Tornò al lavoro e cercò di dimenticare la brutta avventura che, tuttavia, rimase sempre in un angolino della mente per riaffiorare ogni tanto, nei sogni o nei momenti di depressione in cui cadeva sempre più spesso. In tale stato d’animo non si avvide di essere oggetto di particolare attenzione di una bella donna che vedeva tutte le mattine in quanto cassiera del bar vicino al suo ufficio e in cui si recava almeno tre o quattro volte al giorno già da prima della brutta esperienza in Africa. La donna civettava in modo alquanto sfacciato ma Vincenzo credeva che fosse un suo modo di fare e che si comportasse in tal modo con tutti gli avventori. Lui aveva una relazione con una collega che durava da oltre un anno ma la cosa stava scivolando nella noia anche se la donna era sposata e con due figli, cosa
16 che inizialmente lo aveva stuzzicato notevolmente. Intanto la cassiera, che non riusciva ad attirare l’attenzione del sempre più depresso Vincenzo, decise di fare il primo passo, che avrebbe potuto diventare l’ultimo se quel tontolone non si fosse deciso. Era una donna notevolmente attraente e di certo non abituata a iniziare lei, ma quell’uomo, quasi sempre triste e pensieroso, l’attirava. Una mattina, quando Vincenzo si avvicinò alla cassa per pagare, lei gli disse: «Questa notte ti ho sognato, sai?» «Ah sì? Hai avuto un incubo allora!» «Ma no, scemo, è stato un sogno bellissimo invece.» «Dai, che cosa hai sognato?» «Mi vergogno un po’ ecco. Ma sì, tanto ci conosciamo da un anno e non credo che tu possa fraintendermi. Ho sognato che ti stavo facendo, ecco… un rapporto orale!» Vincenzo rimase sbalordito ma esteriormente non fece trapelare il suo stupore. “Ma che sfacciata! Gesù, però è proprio una bella femmina e con Marta le cose si stanno esaurendo da sole…” «Ma che bel sogno hai fatto, oggi ti va proprio di prendermi in giro eh? Cos’è, c’è una Candid Camera nascosta?» E con queste parole pagò e uscì. Dopo un’ora era di nuovo dentro al bar e notò che la ragazza, in silenzio, lo guardava e sorrideva sorniona. “Ma sì, io ci provo.” La depressione in quel momento non sapeva neanche che cosa fosse; attese centellinando una spremuta che il locale si svuotasse un po’ e quando vide che la cassiera, sempre guardandolo di sottecchi, aveva preso a sfogliare delle fatture fingendo di sistemarle, si avvicinò e le disse: «Be’, a parte lo scherzo che mi hai tirato prima, è davvero molto che ci conosciamo e potremmo anche vederci fuori di qui qualche volta no?» «Scherzo? Quale scherzo? Io ero serissima!» E aggiunse, sempre con un sorrisino sulle labbra: «Vincenzo, mi stavo chiedendo se sei completamente rincretinito per quella tua collega o se hai raggiunto la pace dei sensi.» Vincenzo non sapeva più cosa dire, la situazione gli stava sfuggendo di mano. «Continui a giocare?»
17 «Sì, come no? A casa mia o a casa tua? Io preferirei a casa tua perché vivo con un’amica e dovremmo aspettare che esca.» «A che ora smonti dal lavoro, sfacciata? Voglio vedere che cosa inventerai per tirarti indietro.» «Vedrai, vedrai.» Si videro per le quattordici con l’intenzione di pranzare insieme. «Vivi solo vero?» «Sì, da qualche mese sono andato via da casa e mi sono sistemato in un appartamentino nel seminterrato della villa di un mio amico; di sole neanche a parlarne ma ho anche una piccola parte del giardino e quando voglio prendere un po’ di tintarella vado lì. Tra l’altro è completamente riparato da occhi indiscreti e potrei prendere anche il sole integralmente, se volessi.» «Bene, allora ci si può anche scopare no?» «Smettila sciocchina, sono ancora convinto che mi stai prendendo in giro…» «Senti sciocchino, se invece di andare a mangiare al ristorante ci comprassimo dei primi piatti pronti e surgelati e ce li riscaldassimo a casa tua?» «Ce li ho già nel frigo. Cosa pensi che mangi tutti i giorni uno scapolo?» «Benissimo, andiamo?» Vincenzo si era quasi convinto che non stesse scherzando. “Magari invece esce fuori una festa a sorpresa organizzata da quel cretino di Gianluigi, lui le chiavi ce le ha. Non illuderti finché non gli avrai messo le mani addosso, capito stronzo?” Arrivarono alla villa dell’amico di Vincenzo che trovarono completamente chiusa. “Gianluigi è a Bologna per lavoro, me lo ero dimenticato. Allora niente festa a sorpresa, allora è tutto vero. Ma com’è possibile che una bella femmina come questa, con tutti i corteggiatori che avrà, si dia da fare così per portare a letto me? Ma mi ha visto bene?” «Faccio strada, attenzione che i gradini sono un po’ sconnessi.» Penetrati nell’appartamento la ragazza, in assoluto silenzio, fece il giro della casa. “Sembra soddisfatta” pensò Vincenzo “di che cosa poi? Ci sono quattro mobili…” «Cucini tu?» chiese lei a un tratto.
18 «Va bene.» «Io vado un attimo in bagno.» «Va bene, è di là.» «L’ho visto.» Lo chiamò dopo cinque minuti. «Vincenzo, vieni un attimo che non si apre il rubinetto dell’acqua calda.» «Vengo.» Entrato nel bagno rimase a bocca aperta per lo stupore. Era seduta sul bordo della vasca, completamente nuda. Indossava solo scarpe nere con i tacchi a spillo e lo guardava intensamente. «Questa mattina non ti ho detto in quale stanza ti stavo facendo il lavoretto, nel sogno intendo. Vieni qui amore!» Gli afferrò la mano e se lo avvicinò, gli abbassò parzialmente i pantaloni e iniziò a mettere in pratica quanto promesso. Fu un’esperienza esaltante, non solo per la bravura della donna ma anche e soprattutto per il fatto che non se lo aspettava assolutamente. Non volle raggiungere l’orgasmo in quel modo, anche lei doveva avere la sua prima dose di piacere. La fece alzare, la voltò delicatamente, la fece appoggiare al lavandino e la prese da dietro, appassionatamente, con le mani strette sulle coppe del prepotente seno dai capezzoli duri fino allo spasimo. Giunsero all’orgasmo quasi all’unisono, la ragazza con qualche secondo di anticipo che diede il via libera allo sfogo dell’uomo. «Allora non era uno scherzo?» disse sorridendo Vincenzo «Te lo avevo detto no? E ora? Non dirmi che non sei in grado di farti la seconda, eh?» «Fammi spegnere il gas che a quest’ora si sarà bruciato tutto e poi ti spiego come funziono io.» Rimasero a letto per tutto il pomeriggio. Fecero l’amore in tutte le posizioni che conoscevano e di fantasia ne avevano molta, entrambi. Vincenzo non si stancava di accarezzare quella stupenda femmina dalla pelle vellutata, scevra da imperfezioni. Non si stancava di baciare la ragazza nella sua intimità, straordinariamente piccola, quasi di un’adolescente. Scoprì da solo, inseguendo i gemiti della sua nuova amante, quali fossero i suoi punti più sensibili, due, i lobi delle orecchie e il meraviglioso, integro, orifizio anale e ne approfittava per risvegliare l’attenzione di lei come quando, dopo diverse ore di orgasmo, gli disse:
19 «Basta, per piacere basta! Mi fanno male la schiena e le cosce, mi sono venuti decine di volte i crampi e… non credevo proprio che fossi così Vincenzo, proprio non me lo credevo, altrimenti mi sarei data da fare prima!» «A proposito» le chiese «ma tu fai sempre così con gli uomini?» «Ma scherzi? Normalmente basta un’occhiata no? Ma tu non ti muovevi… è un anno che ti faccio capire e capire e capire ma tu… ah, stronzo!» La penetrò di nuovo anche se lei era distrutta, ma rimase fermo in lei. Rimasero abbracciati, seduti con le gambe incrociate uno di fronte all’altra, a sussurrarsi dolci frasi, a stuzzicarsi finché lei non iniziò ad agitare pian piano il bacino. Ci era riuscito un’altra volta, le aveva fatto tornare il desiderio, poteva ricominciare a possederla. Non riusciva a stancarsi, non aveva mai avuto, mai, un vigore simile! Quella donna lo travolgeva. Era, sì, era come se la conoscesse da una vita, da più vite, come se fossero stati amanti nei secoli. “Attento stronzo, questa qui potrebbe farti innamorare lo sai. Sbattitela un altro paio di volte e poi… aria!”
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CAPITOLO SESTO
A.D. 1959 Non voleva tornare in colonia! L’anno precedente non era riuscito ad ambientarsi, ad amalgamarsi con i compagni anche se, ne era convinto, era riuscito a recitare bene, a non scoprirsi, a non far capire quanto fosse spaventato, quanto li detestasse. Cercò con tutte le sue forze di convincere i genitori a non mandarlo, a farlo rimanere a casa per le vacanze estive ma fu tutto inutile, cozzava contro convinzioni così radicate (è per il tuo bene, per fare un po’ di villeggiatura) che a nulla valsero le sue motivazioni. Per convincerli fu tentato persino di confessare cosa gli avevano insegnato l’anno precedente ma non ne fece nulla; avrebbe dovuto, forse, rispondere all’inevitabile domanda: “e adesso, lo fai ancora?” Si preparò, rassegnato, all’inevitabile e partì di nuovo per la colonia estiva dello Stato. La prima notte praticamente non dormì; rimase in uno stato di semi veglia in cui le ombre e i piccoli rumori spaventano come se si fosse in un bosco, in una foresta impraticabile e non in una camerata con trenta ragazzi anche se completamente estranei per lui. Ovviamente non sapeva che anche la maggior parte di loro era oppressa dalle stesse sensazioni. Fece comunque un po’ di amicizia e fu così che la quarta notte organizzò un gioco con un suo amichetto. «Dai, aspettiamo che dormano tutti e poi, gatton gattoni, nascondiamo le scarpe di tutti.» «No, invertiamole invece così domani nessuno ci capirà niente.» Un gioco da bambini ma d’altro canto non raggiungevano i dieci anni. Si addormentò contento quella sera per il tiro giocato ai compagni, pregustando le risate che si sarebbero fatti l’indomani. Fu, invece, un incubo! Inizialmente la confusione che si venne a creare portò inevitabilmente all’ilarità ma poi un ragazzino un po’ più grandicello esordì con: «A me mancano i soldi…» Cadde un silenzio generale. Dopo un po’ anche altri, a torto o a ragione, realmente o influenzati dal loro amico, dissero la stessa cosa. Il ragazzo
21 ormai si era scoperto e aveva rivelato di essere l’ideatore e il principale artefice dello scherzo delle scarpe insieme al suo amico dunque tutti lo accusarono dei vari furti. Fu additato con pesante sarcasmo, divenne il ladro per eccellenza, fu scartato da tutti, e tutti lo evitavano come se fosse stato un lebbroso. “Non è vero, Gesù tu lo sai che non è vero. Deve essere stato il cretino che ha parlato per primo, ha rubato agli altri e si è inventato di essere stato derubato anche lui. Maledetto, lo odio, gliela farò pagare, lo uccido, quanto è vero Dio lo ammazzo.” I responsabili della colonia minimizzarono l’accaduto anche per sviare le loro responsabilità, ovviamente, e la cosa ufficialmente finì in una bolla di sapone per tutti, ma non per il bambino che a nove anni imparò cosa fosse l’odio. Rifletté a lungo su cosa fare per vendicarsi. L’ideale sarebbe stato che ci potesse pensare qualcun altro, un complice, anche perché il suo avversario era molto più alto di lui. Ma come fidarsi di altre persone? Non aveva paura, temeva semplicemente di non farcela a sopraffare l’avversario ma era deciso, decisissimo a ucciderlo. Mai in passato un simile pensiero gli aveva sfiorato la mente, sarebbe inorridito se solo qualcuno glielo avesse detto. Come era cambiato; era bastato provare odio, odio puro per l’ingiustizia subita. E il bastardo avrebbe pagato, oh sì, avrebbe pagato, se ne sarebbe pentito amaramente! Prese l’abitudine di isolarsi, di andare a spasso per l’ampio parco a rimuginare fra sé per trovare il modo migliore per attuare la sua vendetta. Un uggioso pomeriggio, a tre giorni dal fattaccio, si avvide d’un tratto di non essere più solo; un uomo enorme, grosso quanto un bue e con uno strano faccione rubicondo e sorridente gli si avvicinava. «Cosa c’è ragazzo? Ti vedo pensieroso!» «Niente, fatti miei.» «Su, conosco i ragazzi da una vita e tu non me la racconti giusta. Puoi confidarti con me, io sono il guardaboschi, non mi hai mai visto prima?» Il ragazzo era titubante, quel bestione gli sembrava di averlo già visto da qualche parte, ma era diverso forse, o forse era la sua memoria a tradirlo. Comunque con quel faccione sorridente gli sembrava proprio un brav’uomo. Però era un poliziotto, o no? «Tu sei un poliziotto?» «Ma no, sono un volontario del Ministero dell’Agricoltura e Foreste, un guardaboschi non un guardiacaccia, cioè io sto attento che qualche ra-
22 gazzaccio non rovini le piante, o avverto la centrale operativa se c’è un principio di incendio, cose così, hai capito?» «Sì, ma il mio problema me lo devo risolvere da solo!» «Ma no che ti posso senza meno consigliare…» Il bambino decise. Non aveva esperienza nella maniera più assoluta, aveva vissuto sempre avvolto nella bambagia e non poteva capire, dal solo aspetto esteriore, fino a che punto poteva fidarsi o meno di qualcuno. D’altro canto era una cosa difficile anche per un adulto e lui voleva assolutamente uccidere il suo accusatore e sapeva che con le sue sole forze non ce l’avrebbe mai fatta. Sembrava più grande nella sua caparbietà, sembrava cresciuto di decenni, invecchiato all’ombra dell’odio. «E va bene, forse un consiglio mi serve. Mettiamo, per esempio, che io abbia un nemico, solo per esempio però…» «Vai avanti.» Pian piano il bambino raccontò tutto a quello sconosciuto tacendogli solo la sua determinazione, la sua ferrea volontà di uccidere. «Se ho ben capito, non sai come fare giustizia vero?» «Eh già…» «Io, al posto tuo, lo ammazzavo!» Il ragazzo vide negli occhi dell’uomo una luce che prima non aveva notato, era come se quegli occhi ardessero internamente di un fuoco distruttivo, alieno. Ne ebbe paura ma la sua determinazione era più forte di qualsiasi paura, voleva uccidere, assolutamente. Doveva uccidere il bastardo che lo aveva messo alla berlina, che lo aveva accusato delle sue colpe. Si chiese se quel furore ardesse anche nei suoi occhi e si convinse che senza meno doveva essere così. «È esattamente quello che ho pensato io, ma non so come fare!» L’uomo guardò il bambino in silenzio per qualche minuto, gli occhi rossi, il sorriso stampato sul viso molto diverso da quello di qualche minuto prima, un sorriso cattivo che lasciava trapelare una soddisfazione a stento repressa. «Se proprio lo vuoi, se proprio sei sicuro, assolutamente sicuro eh? Bada bene, la decisione deve essere solo tua, senza influenze esterne. Devi volerlo tu, tu solo. Allora, in questo caso ti posso aiutare io!» «Perché lo faresti?» «Ma per amor di giustizia no? Che campa a fare un bastardo simile? Quello quando crescerà farà di peggio, metterà nei guai altri innocenti.
23 In ultima analisi tu, uccidendolo, farai un’opera buona, salveresti tanti innocenti vittime future del bastardo.» «E va bene, accetto il tuo aiuto; cosa dobbiamo fare?» «Dobbiamo? No, il piacere deve essere solo il tuo, io ti posso solo consigliare come puoi fare. Se proprio vuoi, eh…» «Ok.» «Allora, devi aspettare l’ultimo giorno di vacanza, in modo che dopo potrai tranquillamente ripartire e nessuno ti verrà a interrogare, capito?» «Sì.» «Allora hai quasi una settimana per prepararti. Per prima cosa devi fingere con il bastardo e cercare di diventargli amico; in questo ti posso aiutare perché lo conosco bene e cercherò di parlare bene di te in modo che sia lui a fare il primo passo. Nel frattempo io scaverò una buca profonda un paio di metri, come si fa in guerra capito? Hai mai visto qualche film di guerra? Di quelli nel Vietnam, e pianterò nel fondo parecchi paletti acuminati. Metterò delle tavole coperte da fogliame sul bordo, in modo che nessuno possa caderci per errore e le toglierò solo al momento opportuno per sostituirle con dei rametti sottili. Tu, quando ti avvertirò che è il momento buono, lo devi portare con una scusa vicino alla buca dopodiché ti basterà una spinta per infilzarlo come uno spiedo. Contento?» «Il piano è ottimo, avrò la soddisfazione di vederlo morire impalato. Spero che non muoia subito e che qualche paletto gli si infili nel culo. Dopo possiamo richiudere la trappola con le tavole e i rami. Con un po’ di fortuna non lo troveranno mai.» «Tranquillo che dopo ci penso io a richiudere la fossa con la terra. Tu te ne torni tranquillo a casa con la tua vendetta compiuta e il bastardo non lo troveranno mai. Penseranno che sia scappato o che l’abbiano rapito ma non sospetteranno mai che un ragazzo di nove anni abbia potuto ucciderlo.» «Il piano mi piace, bravo.» Solo dopo averlo lasciato, il ragazzo si chiese come lo sconosciuto avesse saputo quanti anni aveva lui e come avesse fatto a sapere chi era il suo nemico. Lui non glielo aveva detto, ne era sicuro.
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CAPITOLO SETTIMO
A.D. 1991 Era combattuta; quello che le era sembrato solo uno sfizio stava rischiando di compromettere seriamente la sua salute mentale. Vincenzo non era assolutamente come se lo immaginava! Sì, pensava che potesse essere un buon amante, ma quello era addirittura un pazzo furioso a letto; non che fosse violento, certo, ma non si fermava mai, voleva essere sempre dentro di lei. E poi aveva certe idee! Gliene aveva suggerite anche alcune da attuare nel prossimo futuro. Per quel primo giorno intanto… basta voleva dire basta, e che cazzo! Gli faceva male ancora tutto dal giorno prima ma erano dolori piacevoli in quanto accompagnati dal ricordo di come era stata, di come si era sentita… ammirata, donna? Una cosa era certa, quell’animale non pensava solo a se stesso, era più interessato a far star bene la donna con cui si accompagnava, e questo a lei andava benissimo ovviamente. C’era però il problema del suo attuale compagno. Voleva lasciarlo già da un po’ e ora che aveva scoperto Vincenzo non vedeva l’ora di essere libera; non che avesse intenzione di accalappiare l’uomo, no, la propria libertà non si metteva in discussione, no davvero! Voleva sentirsi libera di amare chi voleva e quando voleva senza doversi giustificare con qualcuno. Era proprio per questo che voleva lasciare Furio - Furio Camillo, ma che razza di nome gli avevano dato, il padre doveva essere un fanatico della Roma antica - per essere libera. Libera di amare uomini come quello del giorno prima. Vincenzo… pensava che fosse un uomo alla sua altezza, senza piagnistei, senza noiosi sentimenti, fedeltà ecc. Sì, doveva lasciare quel bestione di Furio, e per farlo avrebbe dovuto senz’altro rifarci l’amore qualche altra volta anche se la cosa non la attirava più.
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CAPITOLO OTTAVO
A.D. 1959 Fu avvicinato dal suo avversario quella sera stessa all’uscita dal refettorio. Notò subito che il ragazzo era addirittura contrito, con la coda in mezzo alle gambe, quando gli disse quanto gli dispiaceva per averlo messo in cattiva luce, e che lui non lo aveva fatto apposta ma che gli erano veramente spariti i soldi e che era addirittura disposto a dire a tutti di averlo visto tornare a letto dopo lo scherzo delle scarpe senza essersi avvicinato mai ai comodini personali. Il bambino era a dir poco stupito; mai si sarebbe aspettato una simile reazione. Il guardaboschi aveva fatto evidentemente un ottimo lavoro, ma come aveva potuto convincere quello stronzo? Che ci fosse qualche altra cosa sotto? Non era persuaso che il suo avversario si fosse veramente pentito, non dopo che si era comportato come si era comportato, dopo che lo aveva accusato in maniera così sfacciata. Doveva stare attento, senza dubbio gli stava preparando un tiro mancino. In ogni caso l’attuale comportamento del suo nemico per adesso gli veniva comodo. L’ultimo giorno di vacanza, quando il guardaboschi lo venne a cercare alla colonia per dirgli che tutto era pronto e che dovevano vedersi al posto convenuto dopo un’ora esatta, i dubbi che assillavano il bambino non erano ancora scomparsi. Odiava sempre il ragazzo anche se in quella settimana era stato di una simpatia eccezionale, ma lui non si era lasciato convincere dalle apparenze e si aspettava sempre qualche altro tiro mancino. Lo avvicinò, dunque, per cercare di attirarlo nella trappola. «Oggi è l’ultimo giorno e stasera partiamo.» «È vero e può anche darsi che non ci vedremo più.» «Dai, andiamo a fare un giro nel bosco, l’ultimo, così parliamo un po’.» «Ok, volentieri, andiamo.» Si diressero nel fitto del bosco fianco a fianco parlando del più e del meno; il bambino, sotto una calma apparente, era tesissimo. Era in pre-
26 da ad atroci dubbi, ora che il momento era arrivato; faceva bene? Era veramente un delinquente quel ragazzo? E se si fosse sbagliato nel giudicarlo? E se ora fosse sincero? E se si fosse veramente pentito? E se, dopo, avesse avuto il famoso “rimorso di coscienza” per tutta la vita? In ogni caso non poteva tirarsi indietro, sennò che razza di uomo era? “Uomo? Sono un uomo? O piuttosto uno stronzetto di bambino sempre con la lacrimuccia pronta?” Intanto si avvicinavano al luogo dell’imboscata e già gli era parso di vedere un’ombra nascondersi dietro a un cespuglio a non più di una decina di metri. Vide il segno convenzionale sotto forma di tre rametti spezzati seguiti da due e poi da uno alla distanza di venti centimetri tra di loro. Ecco, dovevano fermarsi vicino all’unico rametto spezzato, lì avrebbe dovuto dare la spinta. Non si notava nulla di strano, il terreno sembrava uguale dappertutto, dov’era la buca? Ci sarebbe stata una buca? Giunto al posto giusto il bambino si fermò, si girò verso il ragazzo e all’improvviso non seppe più cosa dire, cosa fare. Il suo avversario lo fronteggiava esponendo il fianco alla buca e lo guardava con un’espressione indecifrabile. Sembrava, sembrava quasi che volesse dirgli: “Avanti, fai quel che devi fare stronzetto”. Non era possibile ma era proprio quello che gli suggerì l’espressione del viso del suo avversario: lo stava sfidando. In silenzio, senza emettere un suono, solo con gli occhi, lo stava sfidando! Avvertì un brivido di paura nella schiena! Forse la vittima era lui? Forse adesso quell’altro lo avrebbe spinto nella fossa? No, troppo complicato. Avrebbe potuto ucciderlo a mani nude se lo avesse voluto in quanto era molto più grosso di lui. No, la spiegazione era un’altra ma non sapeva proprio quale potesse essere. Decise! Non ne voleva sapere più un cazzo! Si girò e corse con quanto fiato aveva in petto, corse con le lacrime che gli appannavano la vista, corse lontano da un incubo in cui stava per diventare un assassino, o una vittima… o tutte due le cose. Incespicò in una radice. Cadde e rotolò per un paio di metri. Il panico lo assalì, prepotente, incrollabile. Tentò di rialzarsi ma il piede destro gli mancò e un dolore lancinante alla caviglia lo precipitò di nuovo in terra. Si girò da dove era venuto certo di vedere il suo nemico che lo inseguiva per ucciderlo, per massacrarlo, per gettarlo nella fossa… non vide anima viva. Non si era reso conto di essersi allontanato così tanto… si mise a urlare aiuto con tutta la forza che aveva, si rialzò, tentò di trascinarsi verso la salvezza dell’istituto, verso la gente che aveva imparato a conoscere, ma il piede non gli res-
27 se, cadde di nuovo, urtò la tempia su un tronco e, misericordiosamente, svenne. A non più di cinquanta metri dal corpo svenuto del bambino due persone si guardavano; erano furiose, sembrava che volessero sbranarsi a vicenda, ma dopo un po’ uno dei due si allontanò e l’altro si apprestò a ricoprire di terra una trappola che non era scattata. Il bambino si svegliò nell’infermeria della colonia, con un brutto taglio sulla tempia dove aveva urtato il tronco e la caviglia immobilizzata da una fasciatura rigida. La vacanza era finita e lui era cresciuto un altro po’, continuando a salire la scala della propria vita costellata di errori e di pentimenti postumi.
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CAPITOLO NONO
A.D. 1991 La desiderava troppo! Semplicemente non era riuscito a dimenticarla neanche un istante da quando avevano fatto l’amore a casa sua, un secolo prima. Era passato appena un giorno e si erano visti al bar diverse volte, divertendosi persino a mantenere un comportamento neutro davanti agli altri avventori e sudando solo un po’ quando la sua amante li aveva raggiunti nel primo pomeriggio. «Ah, sei qui!» aveva esordito Marta entrando nel locale «non dovevamo mangiare qualche cosa insieme?» Vincenzo non rispose, limitandosi a guardarla con un fare un po’ seccato. «Cosa c’è, non ti sei mai comportato in questo modo» gli disse e, dopo un attimo di riflessione, guardando la cassiera: «Disturbo forse?» «Non dire sciocchezze Marta, certo che no. Stavo raccontando alla signorina che mi hanno proposto quel lavoro su in Piemonte, ricordi?» «Certo che me lo ricordo, te lo ha proposto mio fratello!» E, così dicendo, uscì stizzita. «Di che lavoro si tratta, non lavori già alle Poste?» «Sì. Te lo volevo accennare veramente, poi me ne sono uscito così perché non sapevo cosa dire…» «Vedo che devi rendere conto. Ma non è sposata quella?» «E che significa? Comunque, è una storia che si trascina… stavo pensando di troncare.» «Per me?» «Certo che no! Ehi ragazzina, cosa ti sei messa in testa? Io te l’ho detto subito che non voglio “fare una storia” con te, no?» «Che cosa hai capito tu Vincenzo? Qui se c’è uno che ha frainteso quello sei proprio tu, eh! E magari pensi che io sia una poco di buono…»
29 Gli occhi le divennero lucidi, l’uomo se ne accorse e subito si sentì costernato. «No, senti… mi sono spiegato male, ma dai che non volevo…» La ragazza lasciò la cassa e si diresse verso la toilette, approfittando della totale assenza di altri avventori. Vincenzo si sentiva un verme. E poi la desiderava come un pazzo. Uscì dal bar perché mentre da una parte avrebbe voluto abbracciare la donna e farsi perdonare, anche se in quel luogo non poteva davvero muoversi, dall’altra voleva mantenere un po’ di decoro. “Ma sì, che soffra un po’!”
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CAPITOLO DECIMO
A.D. 1963 Il primo pugno della sua vita lo prese per colpa di una puttana. Era cresciuto ormai e si sentiva già un uomo, un tipo che non sarebbe mai ricaduto negli errori che aveva fatto e che non riusciva a dimenticare, a minimizzare. Erano sempre lì, in un cantuccio, a ricordargli la sua stupidità, la meschineria, la codardia. Sì, si era sentito (a posteriori, ovviamente) un codardo per non essere mai riuscito a far valere le sue opinioni, per essersi fatto trascinare così miseramente in quell’avventura là in colonia. Non voleva pensarci più, ostinatamente, caparbiamente ma il ricordo era sempre là, in un cantuccio. La “puttana” era una ragazza come altre nella comitiva solo che lei lo stuzzicava in maniera diversa dalle altre; talvolta sembrava che volesse svestirlo con gli occhi, per poi rivolgersi a lui con sarcasmo. Dava e prendeva con un’indifferenza unica. Lui ovviamente ci fantasticava sopra ma stava ben attento a non muoversi perché lei era un tantinello troppo grande per lui, nei suoi tredici anni e nella sua timidezza. Quel giorno si mise a civettare sfacciatamente con un altro ragazzo molto, molto più grande, diciotto o diciannove anni come minimo. Un uomo praticamente, e per giunta niente affatto timido o imbarazzato. Al ragazzo sembrava che lei lo facesse apposta per continuare a stuzzicare lui, ma intanto si dava un gran da fare con l’altro. A un certo punto, a un ennesimo “ni” della ragazza e al relativo “si” dell’uomo il ragazzo non poté più resistere e intervenne energicamente. Non fece neanche in tempo a profferire la terza parola che un pugno enorme gli si abbatté sul volto. Paura, dolore, frustrazione. Ancora una volta, ancora una volta non era stato all’altezza della situazione. Era stato battuto subito, non aveva praticamente iniziato a combattere, era stato umiliato ancora una volta. Vendetta! Fu la prima cosa che desiderò; vendetta contro il bastardo, vendetta contro quella puttana, vendetta contro tutto il mondo. Ma, dopo, quando il dolore si fu calmato, quando rifece i conti con se
31 stesso, quando con spietata autocritica si rese conto ancora una volta delle sue limitazioni e ricordò come era finito il suo ultimo desiderio di vendetta, se ne tornò a casa a leccarsi le ferite. La cosa comunque gli servì di lezione, ovviamente. L’autocritica di cui si faceva oggetto sempre più spesso lo convinse che lui: primo: non voleva assolutamente essere dominato da chicchessia; secondo: non era assolutamente in grado di comandare; terzo: voleva assolutamente comandare. Non era facile! Tentò nella maniera più ovvia ma che non gli era mai venuta in mente; iniziò, pian piano, a circondarsi di ragazzi più deboli di lui, quelli a cui serviva un capo ma che non se ne rendevano conto e, soprattutto, non si facevano troppe domande su chi fosse il dominato e chi il dominatore, bastava loro che ci fosse qualcuno che spremesse le meningi e dicesse cosa fare. Si ritrovò ben presto con una vera e propria banda di una decina di ragazzi, composta per lo più da inetti con qualche eccezione che lui nominò suoi luogotenenti. Ma il capo era lui! Si rese conto ben presto, con il passare dei mesi prima e degli anni dopo, che un capo deve in ogni caso sfamare il branco che dirige. Era la condicio sine qua non per comandare, per continuare a essere rispettato, per evitare che qualcuno dei suoi luogotenenti tentasse di spodestarlo. Era una banda da ridere ma nessuno se ne rendeva conto tranne forse il capo. Ma l’alternativa era rimanere solo o far parte di qualche altra gang; neanche a parlarne! ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD