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ALBERTO ALESSI
NEANCHE DIO GUARDEREBBE
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ NEANCHE DIO GUARDEREBBE Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-468-7 Copertina: immagine di Oriona Alla Prima edizione Maggio 2021
A Rachele Tutto temi, ma non la verità
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CAPITOLO 1 ANTICONFORMISMO ORTODOSSO
Da “Niente compromessi. Memorie di un animale ribelle”, di Andrea S. Io mi chiamo Andrea S. Lo so, non è il nome che avete letto nella copertina. Quello, l’autore, voleva farmi un’intervista sui miei anni di militanza, ma io sono diffidente come il più paranoico dei complottisti. Mi ha detto che avrebbe trascritto fedelmente le registrazioni delle mie testimonianze, confessioni, o memorie, chiamatele come volete. Ma si sa come sono gli scrittori, ti dicono: «Do solo una sistemata alla grammatica se serve, che nel parlato magari qualche errore può sfuggire» e poi cambiano, spostano, travisano, decontestualizzano… falsificano insomma. Dunque ho guardato storto quel suo registratorino preistorico e ho rifiutato quella soluzione. Gli ho detto di darmi una decina di giorni di tempo e gli avrei consegnato dei fogli scritti di mio pugno, proprio a mano, in bella e leggibile calligrafia, dove avrei messo dentro tutta la parte della storia che mi riguarda, senza omettere niente. Ci ha creduto, mi ha creduto, e non sarò certo io a tradire la sua fiducia.
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L’ho letto “Moby Dick”. “Chiamatemi Ismaele” è l’incipit, e già il lettore capisce che la dimensione del vero se n’è andata a puttane, che la scrittura in prima persona è una presa per il culo bella e buona. Come tutta la letteratura. Puttane, culo, letteratura: la parolaccia più brutta è l’ultima. Per la cronaca: poi ho goduto, leggendo quel libro. Quei bastardi cacciatori di balene muoiono tutti, o quasi. Ai sopravvissuti resta solo la speranza di morire senza soffrire. Alla fine, dunque, vince lei, la balena Moby Dick. Potrei dire che tutto è cominciato una sera d’inverno sul finire degli anni ‘70. Avevo sette, otto anni, dev’essere stato d’inverno perché il cielo era nero, ma intorno all’auto nella quale viaggiavamo io e mia madre, i lampioni, le insegne dei distributori e delle fabbriche, i fari delle altre auto, illuminavano tutto a giorno. Lei era giovane e bellissima, e la musica veniva da una cassetta di Lucio Battisti. A un certo punto, quasi giunti a casa, fermi a un semaforo, ci passa sulla destra un imponente camion pieno fitto di… decine? Centinaia? Di gabbie piccolissime. Loro sono lì, quelli più in basso appena sopra la mia testa, a pochi metri da me, che si muovono e mi guardano. Io capisco solo che sono vivi, o per lo meno: ancora, vivi. Senza controllo, mi piego dall’altra parte, appoggio la testa sulle gambe di mia madre e crollo a piangere. «Cosa succede?» mi chiede. Io non riesco a darle nessuna risposta; la sua, se non ricordo male, mi era parsa una domanda
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retorica. Li vede anche lei. Sono servite le mie lacrime innocenti, ma in quel momento si è accorta anche lei di quei poveri animali, conigli, o forse galline, imprigionati, ammassati, terrorizzati, indifesi, impotenti. “E poi, cosa mi è successo?”, mi sono chiesto a distanza di anni, al riaffiorare di questo ricordo così intenso che mi sembra di qualche giorno fa. È successo quello che subiscono tutti o quasi: che la verità lascia spazio alla falsità; che la violenza viene nascosta; che il prodotto, sia cibo o capo di vestiario o farmaco o altro, viene scisso dall’essere vivente che stava alla base del processo di tortura e uccisione che ha creato una “cosa utile” all’uomo. Ho detto che potrei far iniziare la storia con queste lacrime. Ma forse tutto, per me, è iniziato addirittura qualche tempo prima di quell’evento, e precisamente il primo giorno di prima elementare. C’era da imparare a leggere e a scrivere, anche se molti di noi qualcosa già sapevano fare; io, e come me tanti altri, il mio nome e cognome, l’indirizzo e il numero di telefono di casa mia sapevo scriverli, in maniera chiara, rotonda, con linee nette e segni sicuri. Ma prima, secondo la maestra, c’era da imparare a tenere in mano la penna. Ovvero a strangolarla. Strangolarla, sì, perché voi tutti, che reggete la penna e scrivete “nel modo corretto”, non avete alcun rispetto per uno strumento così importante, così ammirabile e degno di venerazione, così… eterno. Io la penna non la soffoco con tre dita, come tre anelli
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di una catena attorno al collo di uno schiavo, non la umilio asservendo il suo movimento alla minor fatica del mio polso. Io la adagio sul polpastrello dell’anulare, la cullo sulle punte del medio e dell’indice, e con il pollice la abbraccio in uno scivolare delicato di stabilità ed equilibrio. Il problema fu, quaranta e passa anni fa, che quella stronza della maestra non voleva sentire ragioni, e che io non ne sapevo dare. Così si fa, così va fatto. La regola è questa, la retta via è questa, qualsiasi altro modo va evitato e soppresso sul nascere. E tornando a casa da scuola, camminando a testa bassa, da solo e scuro in volto, mi misi a piangere per la sconfitta e la frustrazione di non essere riuscito dove tutti gli altri bambini erano stati bravi e diligenti. Ero diverso, dunque. Giusto per terminare il ricordo, negli anni a venire non mi sono adeguato, e la penna la tengo ancora oggi sempre alla mia personale maniera. Forse un po’ esagero, ma mi piace dire in giro che sono anarchico dal primo giorno delle elementari. *** Foglio ritrovato nel sotterraneo della casa di Andrea S. risalente, con ogni probabilità, all’autunno del 1994 Pasta Fichi Castagne Arance
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Seitan Latte mandorla ______________ Corda Guanti Alcol Benzina *** Da “Immagina” di Alberta Schierghe, con illustrazioni e fotografie di Flavio Foddotè, edito da Libri Franchi Editore nel 1999 Immagina di vivere dentro una gabbia. Riesci a stare seduto o in piedi, riesci pure a stenderti o rannicchiarti per dormire. Ma spesso il pavimento è sporco delle tue deiezioni. Immagina di non aver mai visto la luce del sole, e se l’hai vista è stato troppo tempo fa perché tu possa ricordartene; oppure la tua mente è rimasta talmente traumatizzata che nemmeno riesci a concepire cosa sia la memoria. La monotonia quotidiana della tua esistenza, dietro le sbarre e dentro le quattro pareti e il soffitto della tua stanza, ha annebbiato le tue capacità sensoriali e atrofizzato le tue facoltà intellettuali. Immagina, quanto ai pasti, di essere nutrito e abbeverato poco, anche se regolarmente. Oppure immagina di dover soffrire la fame e la sete. In alcuni giorni può capitare.
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Immagina che la tua vita sia un’alternanza di buio e luce elettrica, buio e luce elettrica, buio e luce elettrica. Immagina di non essere l’unico, in queste condizioni, dentro quella stanza i cui mobili e oggetti non sai a cosa servono; ti sono alieni, ma li temi. Immagina che la desolazione e la solitudine rappresentino la tranquillità, lo stato di pace e quiete, perché, a volte, succede che entra qualcuno. Indossano maschere e guanti e camici, aprono la tua gabbia e ti tirano fuori con la forza. Immagina che loro non ti considerino un oggetto senz’anima, perché quando opponi resistenza, ti dimeni o cerchi di sfuggire alla loro presa, ti fanno del male. Sono troppo grandi, troppo forti, sono armati, il tuo terrore serve solo a irritarli. Immagina, però, di avere conservato l’istinto di sopravvivenza proprio di tutti gli animali, quindi ogni volta, nonostante tutto, tu cercherai di opporti. Immagina che non sia necessario, per loro, tirarti fuori dalla gabbia per condurre i loro inutili, quanto sadici, esperimenti. Che sono inutili tu non lo sai. Ma loro sì, o se non lo sanno non è colpa loro, ma tu il concetto di colpa non lo comprendi. Immagina che ti iniettino delle sostanze, o te le facciano ingoiare, o te le spargano sulla pelle. Immagina che queste sostanze, per te e per gli esemplari della tua specie, siano tossiche. Immagina che se ti ferisci accidentalmente, se provi dolore, a loro non interessa. Immagina di sopravvivere, ma senza speranza. Con qualcosa di più debole della speranza
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forse, ma non hai nessuna possibilità di salvezza, all’orizzonte dei tuoi giorni non vedi niente, solo torture casuali e una schiavitù permanente, a te e agli altri come te che vivono in quel micro mondo di terrore che loro, quelli in divisa e armati, chiamano laboratorio, o stabulario, o lavoro. Immagina la tua vita nelle mani, negli artigli, nelle grinfie della vivisezione, o sperimentazione animale; a te non cambia come la chiamano. Tu, uomo, riesci a immaginarlo? *** Da “Niente compromessi. Memorie di un animale ribelle”, di Andrea S. Dal primo giorno di scuola, sicuro. Badate bene, io non sono uno che usa le parole a caso, o alla leggera. La mia considerazione è basata sulla mia personale concezione dell’anarchia, ovvero una condizione psicologica, un modo di vivere, che si crea e si migliora ogni giorno, a ogni esperienza. Ho più o meno quarant’anni anagrafici – dentro me ne sento sedici, se lo volete sapere – e ritengo la mia personalità anarchica tutt’ora in divenire. Dunque a scuola sono sempre stato visto come un ribelle. Il che, alle elementari e alle medie, corrispondeva a far parte del gruppo dei “casinisti”. Alle elementari eravamo in quattro: Alessandro P., Marco N.,
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Massimo T., e io. Generalmente loro chiacchieravano e disturbavano le lezioni, gridavano e si rincorrevano fin dalla campanella d’entrata, se non prima. Facevano dispetti – innocenti e inoffensivi – alle bambine, bisticciavano con e aggredivano i bambini, lanciavano in giro per l’aula o fuori dalle finestre aerei di carta, matite, penne, gomme… Io cominciavo a darmi da fare dalla ricreazione, poiché prima ero addormentato, sembravo quasi un bambino buono. Anche in un altro aspetto mi distinguevo dai miei compagni di baldorie inopportune, indesiderate e rumorose: i miei voti, in tutte le materie, sono sempre stati eccellenti. In italiano e in matematica soprattutto; nelle materie in cui invece c’era da studiare, imparare a memoria e poi ripetere, stavo giusto un po’ sopra la media. Un giorno il maestro ci diede da risolvere un problema di geometria. Ci impiegai cinque minuti, non uno di più. Ero stato il primo a terminare l’esercizio, e l’autorità, dopo aver controllato che non si trattasse di una delle mie solite buffonate, decretò: «Se è riuscito S a finire in così poco tempo, allora potete riuscirci tutti.» Non voleva certo sminuirmi, lo riconoscevano tutti che nelle matematiche ero portato. L’omologazione, cazzo, gran brutto affare. Preciso una cosa: in questa mia testimonianza riporto le persone con il loro nome per esteso e la sola iniziale del loro cognome. È ovvio che non voglia fornire riferimenti utili a
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risalire alla mia vera identità, ma c’è una ragione particolare per cui ho scelto quest’opzione e non un’altra: così facevano gli attivisti politici degli anni ‘60 e ‘70, le due decadi dell’illusione finale. Le definisco così perché dopo quel periodo, per colpa di quella subdola, vile e dura repressione che ha il suo apice simbolico, se non cronologico – secondo il mio modesto parere – nell’oscuro e tragico attentato di Piazza Fontana a Milano, tutto il fermento, tutta la spinta, tutto il sogno, tutto è andato perduto. Ma tornerà. Intanto, torno a raccontarvi chi sono, chi ero. Gli anni delle superiori sono stati le mie fondamenta ideologiche. Sono entrato in quell’istituto con i capelli corti, i vestiti scelti da mia madre, coscienza politica approssimativa e cultura musicale pari a zero, e ne sono uscito cinque anni dopo con i capelli lunghi e in disordine perenne, i jeans strappati e le magliette larghe e logore per l’usura, intellettualmente ardente di approfondire le questioni anarchiche, e chitarrista di un gruppo punk. Rivoluzione? No, grazie, non me ne frega un cazzo di compiere un giro su me stesso e restare uguale a prima. In quei cinque anni ho distrutto i fragili schemi conformisti entro i quali mi dibattevo senza un senso preciso, senza una direzione, senza cognizione di causa, e ho cominciato a delineare il fuorilegge romantico che sarei poi diventato, e che mi sento tuttora. Mi sia concesso di darmi del romantico, visto che è stato un amore adolescenziale ad aprirmi la mente come nessuna droga di
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merda avrebbe mai potuto fare. Si chiamava Francesca M., aveva due anni più di me e frequentava l’ultimo anno. Con lei ho fumato la mia prima sigaretta e ho iniziato ad amare i libri come fonte di conoscenza. Forse è per il desiderio di rivivere all’infinito quella mezz’ora in cui ci siamo parlati per la prima volta, che fumo venti e passa sigarette al giorno. Anche adesso mentre scrivo, sto fumando e seminando cenere sul foglio. Con ordine: il mio corteggiamento consisteva in qualche biglietto anonimo che lasciavo sul suo banco ogni sabato mattina, per circa due mesi. Trascorso questo periodo la sua curiosità deve aver raggiunto livelli insopportabili e, non ho mai saputo tramite quale rete di relazioni, è riuscita a scoprire chi fosse a mandarle quei complimenti sentimentali e devoti. È venuta lei, spavalda e disponibile al dialogo, a presentarsi a me, durante una gelida ricreazione di gennaio. Quell’intervallo, invece dei canonici quindici minuti, è durato mezz’ora. Mi ha offerto un paio di sigarette, le ha rollate lei, e io non ho saputo rifiutare, o meglio: già partivo con uno svantaggio di due anni di età, di fare la figura del pivellino non mi andava per niente. Al primo tiro ho tossito, forse anche al secondo. Poi il leggero naturale stordimento della nicotina, per i miei polmoni vergini, mi ha aiutato a sciogliermi e a tranquillizzarmi, ha fatto passare, non dico per positivo, ma almeno per neutro e irrilevante il venire a sapere che lei un fidanzato ce l’aveva già. Non avevo niente da perdere, bramavo la sua amicizia concreta
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e reale, a scapito di tutte le fantasie sentimentali che nutrivo da qualche mese prima di quello storico 9 gennaio. Ricordo bene tutto ciò che ci dicemmo, ma mi limiterò a riportare qui una sua affermazione: «Io sono diventata vegetariana» e due sue domande: «Tu sei di destra? Sei di sinistra?» pronunciate in successione senza lasciarmi il tempo di dare la risposta sbagliata, entrambe con la retorica di chi spera di ricevere in tutti e due i casi una risposta negativa. Non ci siamo mai baciati. Fanculo il lieto fine, cosa devo dirvi, che oggi siamo sposati e viviamo in un’isola deserta con i nostri undici figli, ci coltiviamo l’orto e stiamo nudi al sole tutto il tempo? Francesca M. fu in grado di regalarmi qualcosa di più di una storiella intrisa di emozioni scontate o di sesso passeggero. Mi ha travolto come una tempesta inaspettata, ha dato il via a infiniti tormenti esistenziali, mi ha sventrato il cuore e la mente con idee che hanno dato fuoco alle mie primissime e timide fiammelle di rivolta interiore. Al mio compleanno e al suo mi ha regalato due libri: “Il barone rampante” di Italo Calvino e “L’amore ai tempi del colera” di Márquez. Per me che ero fermo a “I ragazzi della via Pál” di Molnár e “L’isola del tesoro” di Stevenson, significava un bel passo in avanti. Mi ha spiazzato, il giorno del suo compleanno, quando credevo di essere il solo dei due a fare un regalo – una copia, disegnata da me, de “Il bacio” di Klimt – sembrava fosse uno scambio di doni per Natale, invece lei mi ha spiegato: «Io sono un’anticonformista, al mio compleanno sono
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io che faccio i regali, a chi mi va di farli.» Scartando il pacchetto e leggendo la trama di “L’amore ai tempi del colera” ho provato a tirarmela un po’; le dissi con tono sarcastico: «Ma come tu, mia bella anticonformista, scusa: bellissima anticonformista, mi regali un libro sull’amore?» Continuavo a corteggiarla, ma ormai non mi prendevo più sul serio nemmeno io, o per dirla in maniera esplicita: di portarmela a letto non me ne fregava niente. A quella mia uscita poco gentile se la prese, rispondendomi: «Allora il prossimo che ti regalerò sarà “L’unico Distirner”, e lì saranno cazzi tuoi.» Chiarisco subito: “L’unico” di Stirner, dove “L’unico” è il titolo e “Stirner” è l’autore. Io fraintesi, e mi misi alla ricerca di un romanzo che s’intitolasse “L’unico Distirner” per batterla sul tempo. Lei, per una settimana mi evitò, e mancava poco alla fine della scuola. Per me ciò equivaleva a non vederla più, non bruciare più ore di lezione assieme a lei a fumare e a scandagliare le nostre anime, così vive e così esuberanti in quel periodo di drammi interiori e guerre con il mondo esterno che si chiama adolescenza. L’ultimo giorno di quell’anno ero l’unico che non aveva un cazzo da festeggiare, seduto sugli scalini dell’ingresso con i bulli dell’ultimo anno, che dall’alto mi rovesciavano secchi d’acqua senza provocare in me alcuna reazione. Lei venne a consegnarmi una lettera. «Aprila stasera, non adesso» mi fece giurare. Mi consolò, mi promise che saremmo
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rimasti in contatto, mi suggerì di godermi l’ultimo giorno di scuola. «Non ho mai insistito, ma lo faccio ora, e credimi, più per te che per me: leggiti qualche libro sullo sfruttamento degli animali, sulla vivisezione, sui diritti che l’uomo non riconosce a specie diverse dalla sua» fu una delle ultime cose che mi disse. Mi alzai e mi fiondai nella mia aula a rovesciare qualche banco, a bere vino di metà mattina insieme agli altri, e a fumare una sigaretta dopo l’altra per farmi passare la malinconia. Quella sera, prima di mettermi a letto, tirai fuori dallo zaino la sua busta. Era un semplice bigliettino, c’era scritta con la sua calligrafia piccola, delicata e soffice, una sola frase, presa da “Il piccolo principe”. “E amerò il rumore del vento nel grano…”. *** Dal diario di Valeria F. 28 Giugno 1995 Caro diario, il grande giorno, com’è arrivato, è già trascorso. È incredibile come certi giorni, quelli dell’attesa, dello stress per ripassare le materie, della fatica per completare un’inutile tesina, appaiano lunghissimi, interminabili, finalizzati a una stupida mezz’ora di colloquio con la commissione, e come un’unica mattinata possa scorrere via così in fretta da quasi non lasciare tracce.
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Il mio attuale fidanzato ufficiale, il numero 9, mi ha fatto una sorpresa per tranquillizzarmi. L’esame era a mezzogiorno, e alle otto e mezza si è presentato a casa mia con un paio di brioche. La sorpresa era: mi ha portato a casa sua e mi ha detto: «È un mese che studi e basta, non serve a niente che ripassi le cose all’ultimo.» Con così poco mi ha convinto, così abbiamo passato la mattinata nudi in camera sua, a sudare, a liberarmi la mente. Abbiamo fatto il bagno nella vasca, mi ha prestato un’inguardabile cravatta bordeaux con tanti piccoli teschi disegnati, che con la camicia bianca e i jeans con cui mi sarei presentata all’orale, all’ultima, definitiva interrogazione di cinque anni di liceo, facevo un figurone da urlo. I professori hanno fatto finta che fossi vestita elegante come tutti gli altri; non ho guardato di striscio la stronza di matematica come ha reagito al mio abbigliamento palesemente ribelle, intenzionalmente provocatorio alle sue assurde raccomandazioni di vestire in maniera consona a un appuntamento così solenne. Ho fissato lui da quando sono entrata in aula a quando mi sono seduta. Per lui intendo ovviamente il professor numero 5. Eh già, la nostra storia, o non-storia, continua ancora. Il mio sguardo era sprezzante, fiero, sbarazzino, o così volevo gli sembrasse. La nostra lite dell’ultimo incontro non si è più risolta, il mio non è stato un ultimatum, però mi aspetto dei segnali da parte sua. Lui mi vuole, la cosa è reciproca, e il gioco di potere è molto sottile:
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lui avrà anche ventiquattro anni più di me, ma è lui ad avere moglie e due figli, è lui che mi ha portata a letto prima che avessi la maggiore età. Eppure lo so, riesce a leggermi dentro lui. E lui lo sa che rovinargli la vita non è ciò che voglio. Ha monopolizzato l’esame, non la smetteva di farmi domande sull’argomento della mia tesi; questo per far passare il tempo e toglierne agli altri docenti. A un certo punto la cosa è diventata evidente, esagerata: mi ha fatto una domanda di storia, contestualizzare Pirandello; per un attimo mi sono bloccata, temevo che quella di storia dicesse che spettava a lei farmi certe domande. È filato tutto liscio invece. Non so quando sarà la prossima volta che si farà sentire, non so quando mi convincerà di nuovo a fare l’amore nella sua macchina piena di giocattoli e briciole di biscotti. Ma sarà l’ultima delle ultime, sarà quella dell’addio, è ora di chiuderla e guardare avanti. Ho conosciuto una persona. Sabato scorso, al bar. Lo conoscevo già di vista, ma non c’era mai stata l’occasione per presentarci. Si chiama Andrea, ha qualche anno più di me, ed è un alternativo al cento per cento. Ha la cresta, indossa magliette e canottiere nere e larghe, ha un braccio tutto pieno di tatuaggi. Conosce, e lo conoscono, un po’ tutti al bar, a volte lo vedo andare via a fare serata con un gruppo di ragazzi, altre lo vedo a qualche concerto da solo, altre ancora chiacchiera con gente che non conosco. Per caso ci siamo trovati seduti fuori, sotto il portico, sulla stessa panca, per via di un paio di amiche
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in comune. Io mi sono inserita in un suo discorso, e dopo un po’ che ci eravamo messi a parlare, in una pausa, mi ha fissato, ha alzato una mano e ha detto: «Andrea, Valeria. Valeria, Andrea. Aug.» Non so cosa cazzo intendesse con “Aug”, forse è il saluto degli indiani, ma che ne so; fatto sta che sono scoppiata a ridere e ho risposto semplicemente: «Piacere» al suo approccio bizzarro, prima di rendermi conto di essere lusingata dal fatto che anche lui conoscesse già il mio nome. Non sto qui a farmi tante fantasie, non mi illudo che lui abbia chiesto in giro informazioni su di me e si sia seduto di proposito lì vicino a me. Però ho intenzione di approfondire la sua conoscenza, di farlo diventare il numero 10. […] 17 Luglio 1995 Caro diario, va avanti da tre settimane piene, e non riesco a liberarmene. Forse non voglio liberarmene. Come raramente mi succede, mi sono presa una sbandata fotonica per Andrea, quello che doveva diventare il numero 10. A rileggere qualche pagina indietro mi sento stupida ad aver pensato di non nutrire nessun sentimento per questo ragazzo, perché più parliamo, più sto bene in sua compagnia. Mi sembra la spontaneità fatta persona. Dal nostro primo incontro ufficiale abbiamo passato sempre più tempo assieme al bar, però ogni volta in compagnia di altra
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gente. Nonostante ciò, nonostante la mancanza di quella naturale intimità che si può instaurare solamente nei dialoghi a due, le nostre conversazioni sono state tutt’altro che superficiali. In realtà, la prima impressione nel parlare con lui è che nulla sia superficiale o superfluo; per esempio, si è messo a parlarmi delle sigarette che si rolla, che non ha mai comprato un pacchetto di quelle già confezionate in vita sua, mi ha detto che fuma la marca Pueblo perché è una delle pochissime che non hanno mai finanziato esperimenti tossicologici sugli animali. Quando gli ho detto che avevo intenzione di iscrivermi a veterinaria è rimasto colpito e se n’è uscito con una frase di una banalità assoluta: «È bello salvare gli animali» ma il suo entusiasmo, il suo trasporto, nel pronunciare queste parole, erano autentici. Ecco, diciamo che la sua uscita, semplicissima ma verissima, ha spazzato via tutti i dubbi che avevo. Non importa in quale università mi prenderanno, forse dovrò trasferirmi, ma sono pronta e decisa a farlo. Sarà bellissimo allontanarmi dai miei genitori. Ormai ho smesso di combattere con loro ogni giorno; si tengano le loro idee arretrate su tutto e mi lascino vivere la mia vita. Con il numero 9 ho chiuso. Ci è rimasto male, gli ho detto che all’esame avevo fatto una figuraccia, che quella mattina era stata bella ma invece di passarla con lui avrei dovuto ripassare gli argomenti della tesi, che mi hanno fottuto proprio dove avrei dovuto essere più preparata. L’avrò anche fatto sentire in colpa, ma non mi va più di perdere tempo ed energie con lui
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quando ho altro, un altro, per la testa. Anche la storia con il professor numero 5 sembra giunta al capolinea. Ci siamo visti a scuola il giorno che hanno appeso fuori i risultati, i voti finali, la classifica direi, e ci siamo parlati per un paio di minuti come farebbero un normale insegnante e una sua normale alunna, privi di scomodi segreti in comune. La sua freddezza voleva essere offensiva, il suo distacco voleva essere interpretato come una punizione al mio desiderio di uscire allo scoperto. Invece fanculo a lui, non sono caduta nel suo tranello psicologico, e il mio contegno è stato impassibile. Lo ammetto, ero stata impulsiva a voler forzare le cose tra di noi, ma solo ora che sono impossessata di una reale passione che credo sia l’amore per un mio coetaneo – o quasi, comunque cinque anni di differenza non sono nulla rispetto a ventiquattro – mi rendo conto che quella storia era destinata a eclissarsi con la fine della scuola. La vita è brutale. Ho sempre gestito due, se non tre, amanti alla volta, e ora che mi libero per stare dietro a uno solo, questo viene a dirmi di essere felicemente, estaticamente innamorato di un’altra. Non la vedo mai al bar la fidanzata di Andrea, perché nei fine settimana fa la cameriera in una pizzeria. Si chiama Novella, che razza di nome. Scusa. È un nome stupendo, mi piace come suona, non ha senso che scriva il contrario. Non c’è niente da fare, ho un fuoco che mi divora le viscere.
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*** Lettera di Novella B. ad Andrea S., del 25 Luglio 1995 Caro Andrea, nessuno mi aveva mai scritto una lettera prima di te. Non avevo mai ricevuto una lettera d’amore, né di corteggiamento, né di conferma di un amore nato da poco ma già così grande, così intenso, così ardente. Capirai che dunque non mi sono mai trovata con un foglio bianco davanti, una penna in mano, nella mia camera piena di libri e di musicassette, a scrivere giù i miei sentimenti. Premetto che non sono brava quanto te con le parole, come in altre cose… dai non ridere, lo immagino il tuo sorrisetto furbo che mi fa impazzire ed eccitare. Mi chiedi che cosa mi piace di te, e spero di non deluderti se la mia risposta è una considerazione generale, ma sono sicura che apprezzerai. Di te adoro che tutto quello che fai e che dici si ammanta di un non so che di poetico, tu sembri bruciare di una voglia irrefrenabile di mettere la poesia nei tuoi gesti, nei tuoi discorsi, nelle tue passioni e nell’impegno con cui fai tutto quello che fai. Riesci a essere delicato anche mentre violenti la tua chitarra con quella musica hardcore – l’ho scritto giusto? – che io non riuscirò mai a capire. Ecco cosa mi sono dimenticata di dirti ieri! Sabato scorso al tuo concerto, hai presente i tre tipi che sono stati davanti tutto il tempo a spingersi? Avevate appena iniziato, loro erano immobili, credevo che anche loro come me
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fossero sorpresi da quel tipo di musica. Dopo trenta secondi o giù di lì, il tipo più a destra ha toccato una spalla a quello in mezzo perché voleva dirgli qualcosa, ma quest’ultimo pensava che quello stesse iniziando a pogare e allora l’ha spinto via, cogliendolo di sorpresa! E poi si è girato dall’altro e ha spinto anche quello! Giuro, è stata una scena epica, ho riso a crepapelle per dieci minuti, e voi con quella musica infernale e velocissima che alimentavate il mio ridere, ero senza fiato, avevo le lacrime, ero piegata! C’è una cosa, però, su cui devo ancora riflettere. Non voglio esserti d’intralcio, io condivido la maggior parte delle tue idee, diciamo così, anche se non ti piace, “politiche”. Ho smesso di mangiare carne e pesce, ma per altre cose mi ci vuole del tempo, l’hai detto pure tu che anche per te è stato un passaggio graduale. Ribadisco comunque che le cose che fai in giro, non è che non le trovo giuste, ma non credo che siano la giusta via per raggiungere i tuoi obiettivi. Imbrattare i muri, spaccare vetrine, e tutte queste “azioni”, come le chiami tu, secondo me spaventano le persone invece di avvicinarle alla tua causa, e poi queste persone si chiudono e ottieni l’effetto contrario. Quei volantini che lasci in giro, anche se dicono cose cruente e ci sono immagini orrende, quelli sì aiutano le persone ad aprire gli occhi sulla realtà. Poi vedi tu. O magari mi sfugge qualcosa. Per ora fatti bastare l’amore incondizionato che ti do, e tutta la gioia che brilla nei miei occhi a ogni momento che passiamo assieme. Tua, Novella
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*** Da “Niente compromessi. Memorie di un animale ribelle”, di Andrea S. Mi dilungo ancora un po’, qualche paragrafo soltanto, sulla mia vita sentimentale. Perché… perché mi va di farlo, punto. Ciò che credo è che l’amore e l’odio siano inscindibili, oltre che complicatissimi, e per quel poco che ho capito finora, sono come due facce della stessa medaglia. Come distruggere e costruire. Se ami la libertà, come puoi non odiare i tiranni, gli oppressori, quelli che detengono il potere? Ripensando alle persone che più hanno influenzato il mio, scusate la brutta parola, destino, mi vengono in mente solo donne. Novella è stata la mia prima storia seria, di un certo spessore. A parte qualche frequentazione esauritasi in un mese o due, frequentazioni corredate da rapporti sessuali soddisfacenti ma non profondi, è stato con Novella B. che ho scoperto quanto è bello fare l’amore tra innamorati. A quel tempo io avevo ventitré anni e lei venti. Io lavoravo come benzinaio, mentre lei faceva la cameriera in una pizzeria. Quasi sempre era impegnata dal venerdì alla domenica, fino a mezzanotte e oltre; perciò uscivamo insieme in settimana. Le ore piccole del sabato e la domenica pomeriggio le passavamo nudi, ad amarci per lunghe ore con passione e spensieratezza. Non vado oltre nei particolari perché posso essere cinico e volgare su tutto, ma non sul sesso. Novella era splendida: alta e magra, la pelle
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candida e il viso di una bambina innocente. In quel periodo che è durato un anno, o qualcosa di meno, entrambi siamo cresciuti tantissimo in quanto a pensieri, idee, sicurezze. Mi ero da poco trasferito in una casa a due piani, lasciatami in eredità da un parente troppo lontano per sprecare inchiostro a scriverne, così era come se quella fosse casa nostra, visto che cenava spesso da me e a volte si fermava anche a dormire. In realtà dormivamo poco, perlopiù parlavamo; ci spogliavamo del costume sociale che per forza di cose, per restare vivi, indossavamo nel mondo fuori, e inseguivamo verità assolute fino a notte fonda, con la consapevolezza che di lì a pochi giorni le nostre opinioni avrebbero potuto essere totalmente diverse. Il nostro idillio è finito per la sua gelosia. Probabilmente giustificata, e non lo dico per scaricarmi di colpe ormai passate, scadute, sepolte. Avevo conosciuto una ragazza, Valeria F., ed eravamo entrati subito in sintonia, soprattutto su alcune questioni ideologiche fondamentali, sulle quali invece io e Novella discutevamo ore e ore senza che alla fine sembrasse aprirsi uno spiraglio di conciliazione, comprensione, o avvicinamento. Mi riferisco al mio istinto di ribellione e alla sua messa in pratica attraverso atti vandalici. Più di una volta Novella arrivava al bar dove l’aspettavo e mi trovava a bere e fumare sigarette insieme a Valeria. Io le proponevo di sedersi con noi, ma Novella si era accorta di una cosa talmente evidente che a me era sempre sfuggita: Valeria
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era perdutamente innamorata di me. Nelle ultime settimane della nostra relazione il clima del nostro amore si era raffreddato considerevolmente. Con Valeria avevo cominciato proprio in quel periodo ad andare in giro a “fare danni”, e Novella decise che non poteva sopportare oltre il peso di tutto quel tempo che io trascorrevo con un’altra donna. Che poi Valeria più che una donna era una ragazzina: aveva diciotto anni. Di colpo mi ritrovai ad avere una caterva di sere libere. Sfogavo il mio impeto in maniera solitaria: scrivevo “assassini” sui muri delle macellerie, lanciavo sassi sui vetri, strisciavo con un cacciavite le automobili di lusso in alcuni parcheggi non custoditi, appendevo volantini inneggianti a Satana nelle porte delle chiese. Poi una sera mi è sfuggita qualche parola di troppo con Valeria, era periodo di elezioni e, passando per non ricordo quali ragionamenti, lei è arrivata a dire: «Ah, se avessimo una bomboletta spray ora e qui…». E io… Io ne avevo più di una. In un paio d’ore avevamo fatto scempio di tutti i manifesti della città. Sui politici di sinistra scrivevamo “Crepa boia” e disegnavamo svastiche, mentre su quelli di destra lavoravamo più di fantasia, sempre offendendo e augurando la morte a quelle facce di cazzo con la smania di comandare, comandare, comandare. Quella notte rappresentò il matrimonio della nostra unione vandalica. Da lì in poi uscivamo sempre in coppia, alzando il livello. Il livello di cosa? Alzando il livello, con calma vi spiego tutto.
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*** Dal fascicolo numero AS2411/72, prot. 218, relativo all’indagine su Andrea S., condotta dagli ufficiali A. Luca, N. Stefano e L. Alessio Oggetto: Perquisizione abitazione In seguito alla presa visione di un manifesto pubblicitario stampato su foglio di formato A4 in bianco e nero, recante l’annuncio di un concerto di numero cinque bande musicali caratterizzate nel genere dalle seguenti diciture: Street Punk (Strada Punk? Controllare), HC (approfondire) e Punk-Core (Punk-Cuore, probabile errore di battitura); recante detto manifesto altresì disegni provocatori e offensivi della reputazione e dell’onorabilità delle forze dell’ordine (per copia originale: vd allegato 4); riconoscendo il nome di una delle bande, nominata “Lultimobuco” (sic), nella quale gli incaricati dell’indagine essere a conoscenza della partecipazione in qualità di chitarrista dell’indagato Andrea S.; presa visione della data del concerto, indicata nel giorno 16 Settembre 1995; si è deciso di procedere con una non dichiarata e non autorizzata perquisizione dell’abitazione di Andrea S., sita in Quartiere Roma al civico 11 di Castelfranco Veneto. Trattasi di palazzina di costruzione non recente sviluppata su tre piani, di cui uno interrato. A questo non è stato possibile accedere perché mancante di collegamento con l’interno della casa. L’unico ingresso rilevato, sembra essere una scalinata esterna posta sul retro dell’abitazione. Suddetto ingresso è stato
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rinvenuto chiuso con catena e lucchetto. Il sottoscritto scrivente A. Luca, insieme al collega N. Stefano, abbiamo concordato sul posto di provvedere in secondo momento al sopralluogo del piano interrato. Il giorno 16 settembre c.a. alle ore 23:00, dopo preventivo appostamento di un’ora di fronte alla casa, dopo aver composto più volte il numero di telefono dell’abitazione a intervalli irregolari, e dopo aver accertato che in casa non fosse presente nessuno, mi sono introdotto, curando di non essere notato da confinanti ed eventuali passanti, all’interno della casa di Andrea S., attraverso una finestra sul retro, dimenticata aperta. Il primo vano preso in esame per mezzo di torcia elettrica è stata la cucina. Due peculiarità hanno catturato la mia attenzione, caratteristiche proprie altresì delle restanti zone abitative: il disordine e la sporcizia. Il lavello e il piano cottura risultavano ingombri di stoviglie usate; il tavolo era ricoperto di libri, riviste e quaderni la cui ispezione è stata celere ma non sbrigativa, essendo risultati questi ultimi perlopiù vuoti. Le poche pagine scritte recavano disegni e schemi la cui analisi e/o decifrazione saranno attuate in un secondo momento, essendosi il sottoscritto premurato di scattare alcune istantanee (vd allegato 5) e riporre successivamente ogni oggetto nella sua posizione originaria per non lasciare segni di alterazione. Il pavimento era cosparso di cenere. Una latta piena di mozziconi stava in un angolo vicino alla porta da cui si accede al soggiorno. Anticipo già che un contenitore delle medesime
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tipologia e dimensione e confacente la medesima funzione è stato rinvenuto in tutte le stanze. Bottiglie di vetro vuote erano ammassate lungo una parete; l’esame visivo delle etichette condotto in loco ha rivelato le bottiglie appartenere a diverse marche di birra di seconda o più scadente qualità. Procedendo con il sopralluogo, il soggiorno è risultato essere arredato di due divani e due poltrone, posizionati a sommario semicerchio. Mancante l’apparecchio televisivo. Un tavolino di legno era intasato di libri, riviste, accendini e materiale atto al confezionamento di sigarette di hashish o marijuana. Su una parete, tavolino con stampante e risma di fogli A4. Nel bagno al pianterreno nulla da segnalare. Idem per il bagno al piano secondo. Piano secondo. Tre camere: una vuota; una adibita a ripostiglio, rinvenuti scatoloni pieni di alimenti per animali (riconosciuti dalle confezioni: cani, gatti, roditori, pesci). Da segnalare a proposito che in tutta la casa non si è avvisata presenza di animali. L’ultima camera ispezionata è risultata l’unica abitata. Disordine generale. Mobilio presente: un letto matrimoniale, un armadio, un comodino, un tavolo. Sul tavolo rinvenuto un computer protetto da password. Il suggerimento visualizzato per l’inserimento della password corretta (fotografia in allegato 6) era: “Michele Alessandro + anno”. Non è stato possibile decifrare la password. Nota per possibile accesso al computer: “anno” può riferirsi all’anno di nascita dell’indagato, ovvero 1972.
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Nonostante un controllo accurato, non è stato ritrovato alcun materiale utile all’obiettivo della perquisizione. Il sottoscritto ha inoltre rinvenuto una cassetta di legno di piccole dimensioni (fotografia in allegato 5). Contenuto della cassetta: alcune monete di vecchio conio e un vasetto contenente della marijuana, non sequestrata in quanto fuorviante dalle direttive dell’indagine. Nota personale: essendo Andrea S. sospettato della produzione di banconote di taglio (in lire): ventimila, cinquantamila e centomila, mi permetto di invitare i colleghi tutti a desistere dall’implicare il sospetto in piccoli e innocui atti di delinquenza legati all’uso o al limitato spaccio di sostanze stupefacenti. Eventuali siffatte denunce a suo carico potrebbero indurlo a porre fine alla produzione illegale e al traffico di banconote autoprodotte, intralciando così l’attuale indagine. Ultimo particolare, probabilmente privo di utilità ma comunque degno di nota: uscendo dall’abitazione il sottoscritto ha notato la presenza di numerose gabbie metalliche di varie dimensioni, del tipo a uso di trasporto di animali d’affezione.
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INDICE
CAPITOLO 1 ............................................................................ 5 CAPITOLO 2 .......................................................................... 42 CAPITOLO 3 .......................................................................... 96 CAPITOLO 4 ........................................................................ 125 NOTA FINALE DELL’AUTORE........................................ 141
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