Nel buio di Cima Marana

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In uscita il 30/6/2015 (15,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine giugno e inizio luglio 2015 ( ,99 euro)

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GRAZIELLA CANAPEI

NEL BUIO DI CIMA MARANA

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NEL BUIO DI CIMA MARANA Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-895-4 Copertina: Immagine di Flavia Franceschini

Prima edizione Giugno 2015 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


A Elena e ai suoi pupetti



5

1

La donna scendeva lentamente la china, attenta a non incespicare. Era ormai sera e il cielo alle sue spalle si tingeva dei colori del tramonto. Aveva fatto tardi; di solito rientrava molto prima, per evitare l’ansia di trovarsi al buio in un luogo isolato. Avrebbe voluto accelerare il passo ma il sentiero era accidentato e temeva di cadere. S’immaginava già a casa, dentro alle quattro mura tiepide, con i piedi infilati nelle pantofole morbide. Pregustava il momento in cui avrebbe confrontato nei suoi libri ciò che aveva trovato quel pomeriggio durante l’escursione su cima Marana. Ne era quasi sicura; dentro alla sua borsa di tela, avvolto in un sacchettino di cellophane, aveva un esemplare di una specie erbacea considerata estinta. Qualche ora prima con un coltellino aveva reciso una foglia e uno stelo, con delicatezza, per non rovinare la piantina. Mentre lo faceva, le mani le tremavano per l’emozione di trovarsi probabilmente davanti a un esemplare preistorico. Come al solito ne aveva masticato un pezzettino. Per il riconoscimento, a volte, risultava utile sperimentare il sapore. Naturalmente ciò si poteva fare solo avendo la certezza di non trovarsi fra le dita un’erba velenosa, ma le erbe velenose o tossiche erano pochissime e molto ben distinguibili, almeno per un addetto ai lavori. Il sentiero si restringeva fra sassi sporgenti ricoperti di arbusti coriacei. Qualcuno li aveva tagliati perché non invadessero il sentiero, col risultato che questi erano cresciuti più vigorosi. Cominciò a piovere. Di lì a pochi minuti i suoi capelli furono intrisi d’acqua che iniziò a gocciolare dentro allo scollo della maglietta. Fu sorpresa di quella pioggia; il pomeriggio era stato splendido, soleggiato e leggermente ventoso, come piaceva a lei. Alzò lo sguardo. Una nuvola color piombo le stava sopra. Il resto del cielo rimaneva azzurro e in lontananza una striscia color oro rischiarava i profili familiari dei monti. Il sentiero girava intorno a una macchia di alberi e spariva nel bosco. D’improvviso vide una sagoma scura a pochi passi. Si bloccò. Non si aspettava di incontrare qualcuno. Erano pochi coloro che si recavano in quel posto, e comunque chi risaliva quei pendii lo faceva di giorno, perlopiù il mattino. Si trattava di famigliole in cerca di un angolo erboso, dove stendere un plaid su cui pranzare con panini e bibite portati da casa, gente senza pretese. I veri amanti della montagna non si accontentavano di quei luoghi; preferivano le cime circostanti, dove dopo la faticosa


6 salita ci si poteva saziare con pasta e fagioli o carne ai ferri, dentro agli accoglienti rifugi alpini. L’uomo - di questo era certa, si trattava di un uomo - aveva addosso un impermeabile o qualcosa di simile che lo copriva interamente. La poca luce le impediva di vedere di che colore fosse quella sorta di pastrano. Poteva essere marrone, ma anche verde scuro. Lei, in una frazione di secondo, si chiese perché le importasse del colore di quell’indumento. Notò che il tizio teneva un cappello premuto contro la testa, così che non riusciva a distinguerne il volto. In un pascolo o in una radura la donna avrebbe preso un’altra direzione in modo da evitare l’incontro, ma in quel punto era impossibile a meno di non tornare indietro, cosa assurda a quell’ora e con la pioggia che cadeva. Doveva rientrare a casa, e in fretta. Riprese a camminare cercando di rilassare i muscoli contratti delle spalle. «Buonasera» mormorò quando fu di fronte allo sconosciuto. Nessuna risposta. Il sentiero era stretto. Lei si mise di lato, cercando di farsi piccola. Quando l’uomo le passò accanto, fin quasi a sfiorarla, lo osservò; da sotto al cappello gli spuntavano folti capelli neri, sulla nuca erano notevolmente lunghi. Anche gli occhi erano scuri, leggermente a mandorla. Poteva essere un orientale oppure uno di quei marocchini che ormai si trovavano dappertutto giù in vallata. Quello che sembrava un impermeabile era in realtà una specie di djellaba, la tradizionale tunica indossata da molte tribù del deserto, abito prediletto da Lawrence d’Arabia durante le sue scorribande a dorso di cammello. Fece in tempo a notare un’espressione vagamente confusa sul viso dell’uomo. Cosa ci faceva uno così in quel posto? Pareva in imbarazzo almeno quanto lei. Notò i suoi lineamenti regolari. Senza dubbio si sarebbe potuto asserire che era di bell’aspetto. Emanava un profumo particolare, indefinibile, che ricordava certe spezie della cucina orientale. Un tempo, quando era studentessa, aveva avuto due ragazze indiane nell’appartamento accanto al suo. All’inizio, quando si preparavano i pasti era infastidita, ma poi ci aveva fatto l’abitudine. Ecco, l’odore che sentiva era simile a quello che inondava le scale che salivano fino al suo appartamento di studentessa. L’uomo proseguì in salita lungo il sentiero ormai in gran parte buio. Lei raggiunse la sua macchina parcheggiata in discesa, in prossimità di una stradina che terminava dentro al bosco. Prese le chiavi dalla tasca dei pantaloni e aprì la portiera. Entrò in auto e si chiuse dentro, poi posò la sua borsa sul sedile del passeggero e tirò un sospiro. Improvvisamente lo vide riflesso nello specchietto retrovisore. Sussultò. Lo sconosciuto stava in piedi con le mani sui fianchi, l’aria minacciosa. Il cuore le accelerò. Non si era accorta di essere stata seguita. Negli


7 ultimi cinque minuti, il tempo impiegato per raggiungere l’auto, non aveva avvertito rumori di passi dietro di sé, solo qualche verso d’uccello e il canto di un grillo. Armeggiò con le chiavi per mettere in moto, le mani percorse da un tremito. Ma qualcosa non funzionò. Forse aveva tolto il piede dalla frizione troppo in fretta. Il motore parve sbuffare e poi soffocò, spegnendosi. Girò di nuovo la chiave. Dopo un paio di tentativi l’auto si mise in moto. La donna ingranò la marcia e cominciò a scendere lungo la strada, una sterrata erbosa. Continuava a deglutire per la tensione. Gettò uno sguardo nello specchietto; l’uomo era sparito. In poco tempo raggiunse una contrada del paesino di Marana, poche case vecchie, alcune restaurate, non lontano dal piazzale della chiesa dove troneggiavano due antiche stele di pietra. Il suo cuore si stava calmando. Continuò a scendere fino alla vallata del torrente Agno. Un quarto d’ora dopo, quando fu davanti a casa, un nubifragio si abbatté sul paese. Attraverso i vetri la strada e le case, compresa la sua, apparivano offuscate, grigie. Attivò il telecomando per il garage ed entrò con la piacevole sensazione di essere al sicuro, ignara che quello strano incontro avrebbe movimentato la sua esistenza. Nello stesso istante in cui la donna si versava del tè bollente nella sua tazza preferita, dentro a una malga su di un pianoro non troppo lontano dal luogo dove aveva passato gran parte del pomeriggio, un giovane malgaro sistemava in ampie bacinelle il latte della mungitura serale. A quel latte il mattino successivo avrebbe praticato una parziale scrematura del grasso affiorato, infine l’avrebbe miscelato con quello intero della mattina. Così prevedeva la tradizione. Alla miscela si aggiungeva poi un dieci per cento di latte di capra. Il giovane possedeva una quindicina di capre. Le teneva in ampi recinti di filo spinato. Le vacche, più numerose, erano invece libere di muoversi sui pascoli, vigilate dai cani. Aveva lavorato molto ed era stanco. Il giorno dopo sarebbe venuta gente dalla valle a chiedere formaggi. Per tutto il pomeriggio aveva confezionato minuscole ricotte e formelle di pressato. Durante l’ultimo mese aveva venduto poco e sperava di rifarsi quel fine settimana. Tutto dipendeva dal tempo. Se pioveva o era nuvoloso, nessuno si spingeva fin là sopra. Il cellulare posato sulla madia squillò. Una stupida suoneria che si proponeva di cambiare lo fece quasi sussultare. Doveva essere sua madre. Infatti, era la vecchia. Lui la chiamava così, affettuosamente. In realtà sua madre aveva solo cinquantasei anni ed era assai in gamba. A volte veniva ad aiutarlo, si fermava qualche giorno e gli puliva le stanze e faceva il bucato. «Giovanni, sei tu?»


8 Il giovane sorrise. Sua madre esordiva sempre a quel modo. «E chi dovrebbe essere, mamma?» «Che ne so? Un amico, magari. Non si sente bene, non pare nemmeno la tua voce. Come stai?» «Bene, sono solo stanco.» «Questo fine settimana purtroppo non posso venire, ma verrò giovedì prossimo. Poi magari mi fermo fino a domenica, così ti aiuto. C’è qualcosa di cui hai bisogno?» «Comprami del latte.» «Del latte? Ah, scherzi sempre. Magari anche del burro e formaggio, allora.» Il giovane rise, poi disse: «Un po’ d’insalata e della frutta.» «D’accordo. Pane ne hai ancora?» «Un sacco di quello biscottato.» «Se ti viene in mente dell’altro chiamami. Adesso ti devo lasciare.» «Ciao mamma, a giovedì.» «Ciao caro.» Giovanni posò il cellulare e poi si lasciò sprofondare in una vecchia poltrona. Sentiva un po’ di freddo. Di lì a poco avrebbe acceso la stufa a legna. Provava sempre una sensazione di conforto sentendo le fiamme crepitare, quasi gli riscaldassero, oltre alla cucina, anche il cuore. Il calore saliva poi lungo una scala sconnessa che portava alla camera e quando andava a letto e s’infilava sotto le coperte, avvertiva quel tepore come una presenza fisica, come se ci fosse qualcuno con lui. La sua camera era arredata in modo essenziale e povero; c’erano due letti (in quello verso il muro a nord, quando veniva, dormiva sua madre) un appendiabiti e una cassettiera bassa. Sopra quest’ultima aveva sistemato una lampada per leggere durante le lunghissime serate. Poi c’era il comodino. Non aveva televisore. Certe volte Giovanni si chiedeva come mai avesse scelto di fare quella vita. Non era semplicemente perché era nipote di un malgaro. C’entrava il fatto che non era riuscito a completare il corso di studi, e poi quella storia andata male… la sua ragazza, banalmente, l’aveva lasciato per uno benestante che la corteggiava. L’altro si era stancato subito ma lei era incinta, così alla fine l’aveva sposata. Si erano separati presto. Un giorno l’aveva rivista con una bambinetta pallida come un cencio. Non sembrava nemmeno la stessa persona di cui era stato innamorato. Lei gli aveva fatto un sacco di moine. Sembrava sul punto di chiedergli di tornare insieme, ma Giovanni aveva tagliato corto. Adesso, a stare con lei, gli sarebbe parso di mangiare una minestra avanzata da un ospite. Però la pensava spesso. La immaginava mentre portava la bambina


9 all’asilo. Quando lei l’aveva scaricato era caduto in una cupa depressione. Per quasi un anno e mezzo, per andare avanti, aveva ingoiato pastiglie a tutte le ore. Sua madre lo sgridava dicendo che il mondo era pieno di belle ragazze, anche più interessanti di quella stupidotta che s’era fatta prima ingravidare e poi lasciare. Che si svegliasse! Che desse una piega diversa alla sua vita! Così un giorno ebbe l’idea di “tornare alle origini” e prese, dal vaso sopra il caminetto, la chiave di quella baita di montagna appartenuta al nonno. Ricordava ancora l’emozione che aveva provato nell’istante in cui l’aveva girata dentro alla toppa arrugginita. All’interno nulla era cambiato dall’ultima volta che ci era stato, anni prima. Da un chiodo accanto alla porta che conduceva al deposito di legna, pendeva la giacca di velluto rigato di suo nonno, color verde marcio. Dentro al taschino interno dondolava la scatolina di metallo per il tabacco. Accatastati in un angolo c’erano gli attrezzi per la lavorazione del formaggio, soprattutto recipienti per la coagulazione e stampi. Questo rimaneva del nonno, il padre di sua madre. Nelle settimane successive falciò l’erba che ormai invadeva il cortiletto. Ortiche e gramigna erano cresciute persino fra le pietre davanti alla porta d’ingresso; poi sistemò gli infissi, sfregò l’assito della camera e colorò il pavimento di cemento della cucina. Quando fu soddisfatto e la malga gli sembrò abitabile, iniziò a costruire un recinto per le capre che intendeva comprare. Poi sistemò una sorta di fatiscente casotto. Suo nonno lo usava per la caccia di passo, ma lui vi ricoverò gli animali. Non sapeva come procurarsi le capre; esisteva ancora qualcuno che le allevava? Parlò in giro. Seppe che una donna ormai centenaria ne cedeva una decina a poco prezzo. Giovanni le fece visita. Erano alte, col manto a macchie marrone e bianco, a eccezione di una; una Bionda dell’Adamello. La vegliarda fu gentile, gli fece persino vedere come mungerle. Le bestie gli furono portate, con le zampe legate, da uno dei figli della signora, su di un carro che di solito era usato per lo spargimento del letame. All’inizio fu dura. Dalle mammelle delle capre non scendeva latte. Giovanni era goffo e le bestie s’irrigidivano. Lui pensò di essere stato fregato. Poi da sua madre seppe che, semplicemente, le femmine in certi periodi si asciugavano. Il latte serviva al nutrimento dei piccoli. Senza nascite niente latte, è ovvio, disse lei. Comunque un pizzico di fregatura c’era stato; si trattava di bestie vecchie quasi quanto l’ex padrona. L’ultimo goccio di latte uscito dalle mammelle appassite doveva essere quello schizzato per terra dalla donna, quando gli aveva mostrato la tecnica di mungitura. Il giovane andò allora a una fiera del bestiame assieme a sua madre che aveva più esperienza, e comprò due giovani capre già gravide e un maschio pieno di energia. Così era iniziata la sua attività di allevatore. L’anno dopo,


10 dando fondo a tutti i risparmi, si era preso delle vacche. Poi aveva cominciato a fare i formaggi e a venderli agli escursionisti. Nell’ultimo anno gli affari non gli erano andati tanto male. Più in alto, sui crinali sassosi, erano venuti degli archeologi. Cercavano reperti dell’epoca romana. Per quanto ne sapeva, qualcosa avevano trovato. Erano arrivati gruppetti di studenti dell’università di Padova che amavano camminare; capelli lunghi e jeans scoloriti. A volte si spingevano fino alla sua malga, nonostante ce ne fosse un’altra più vicina alla zona degli scavi. I ragazzi di città erano convinti che più si faticava a procurarlo, più il formaggio fosse buono. Gli avevano raccontato che collaboravano ai lavori dietro piccolo compenso, un pasto e poco più, ma questo permetteva loro di ottenere crediti utili per il piano di studi. Avevano piantato alcune tende per dormire e per tenere all’asciutto l’attrezzatura. Alcuni avevano la sua età. Un poco li invidiava perché capiva che erano figli di benestanti. Da qualche settimana, però, non veniva nessuno e lui si chiedeva se avessero sospeso i lavori. Ormai era settembre; poteva cominciare a piovere in qualunque momento, e allora addio scavi. Il terreno s’inzuppava e le buche si riempivano d’acqua. Giovanni prese legna fine da una fascina e accese la stufa. Quando le fiamme iniziarono a crepitare, aggiunse un ciocco. Dentro alla stanza la temperatura divenne gradevole. Allora si versò una scodella di latte e ci inzuppò dei biscotti. Gli piaceva cenare a quel modo. Non era una questione di pigrizia, come pensava sua madre. Trovava che fosse proprio buono il latte, soprattutto quello di capra. Sua madre invece non lo sopportava; diceva che le faceva una certa impressione berlo, pensando alla bestia da cui era uscito. Si trattava di una delle sue fisime. Sentì grattare contro l’uscio. «Orso, sei tu?» Il giovane si alzò e spalancò la porta. Era come aveva immaginato. Quel cane con gli altri non si riusciva proprio a farlo stare. Trovava sempre il modo per uscire dalla baracca dietro alla malga. Di giorno scorrazzava sui prati, era bravissimo, riusciva a riunire le bestie in pochi minuti. Aveva solo un difetto; la notte non sopportava di stare al suo posto. Eppure le cucce erano confortevoli, riparate dalla pioggia e dal vento. Giovanni sapeva che alcuni pastori lasciavano i cani liberi di girovagare, ma lui temeva che inseguissero la selvaggina. Ogni sera la medesima storia. Orso riusciva ad aprire la baracca, poi grattava contro la porta uggiolando; Giovanni lo faceva entrare e lui saliva veloce lungo la scala, fino in camera. Si accucciava poi su di un tappeto liso vicino alla cassettiera. Qualche volta saltava sul letto ma allora Giovanni lo costringeva a scendere. Solo in un paio di occasioni avevano dormito


11 assieme. Fuori tuonava e l’animale era spaventato. Orso era uno strano incrocio fra un Border Collie (cane da pastore) e un Breton (cane da caccia). Da quest’ultimo aveva ereditato un manto marrone rossiccio. Il muso invece era allungato come quello del Border Collie. Era robusto. Per primo finiva la sua ciotola di cibo e la sera reclamava crocchette supplementari. Giovanni l’aveva sorpreso a leccare il latte nei secchi, ma aveva fatto finta di niente e Orso se n’era andato camminando raso terra. Giovanni risciacquò la scodella e il cucchiaio. Poi mise un altro ciocco dentro alla stufa e chiuse la porta d’ingresso con il catenaccio. Risalendo le scale sentì il rumore della coda del cane che batteva contro il tavolato.


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2

Il giovane malgaro si svegliò come al solito molto presto. Si coricava verso le dieci di sera e alle cinque e mezzo si alzava. Attraverso i vetri della finestra entrava il chiarore dell’alba. Le giornate però si erano accorciate, lui l’aveva notato già da alcune settimane. Appena mise i piedi fuori dal letto il cane si stiracchiò e cominciò a scodinzolargli, poi gli leccò le gambe nude. Era quasi un rituale. Ogni mattina gli dava quella sorta di buongiorno, poi scendeva di corsa lungo la scala, impaziente di uscire. Dalla baracca dove stavano gli altri cani giunsero dei latrati. Giovanni s’infilò i pantaloni e la maglia del giorno prima. Sceso al piano terra, per primo fece uscire l’animale. Attraverso la porta aperta lo vide mentre orinava contro la recinzione e poi spariva veloce nel bosco. Giovanni si preparò del caffè solubile. Mentre attendeva che l’acqua bollisse andò ad aprire del tutto la porta della baracca. Gli altri due cani filarono immediatamente nella direzione presa pochi minuti prima da Orso. Giovanni imburrò alcune fette biscottate, poi ci mise sopra della marmellata. Quando ebbe finito di fare colazione uscì a guardare le bestie. Le capre girarono i grandi occhi verso di lui. Ora avrebbe dovuto iniziare a mungerle. Fece alcuni fischi di richiamo per i cani. Dove diavolo si erano cacciati? I minuti passavano senza che nessuno dei tre si facesse vivo. Il malgaro sbuffò e cominciò i suoi lavori mattutini. Iniziò a preoccuparsi seriamente dell’assenza dei cani a metà mattina. Non era mai successo che stessero lontani più di una mezz’ora. Di solito si allontanavano se fiutavano l’odore di qualche animale, oppure quando transitavano i cacciatori con i loro amici a quattro zampe. Orso, Tina e Radames sentivano un’irresistibile attrazione verso i loro simili, con cui cercavano di fare amicizia. C’erano state anche piccole zuffe risoltesi senza danni per nessuno. Giovanni fischiò a lungo e li chiamò a voce alta tenendo gli occhi fissi verso il bosco. Doveva andare a cercarli. Indugiò indeciso per pochi minuti, poi sbarrò la porta della malga e si avviò. L’erba gli accarezzava le gambe a ogni passo. L’aria cominciava a scaldarsi. Giovanni alzò gli occhi al cielo; non c’erano nubi. Probabilmente sarebbe venuta gente dalla valle. Si affrettò mentre continuava a chiamare i cani. Il sentiero serpeggiava fra gli alberi, appena visibile in mezzo all’erba alta. Faggi, carpini e qualche macchia


13 di noccioli creavano una zona assai ombrosa ancora carica dell’umidità della notte. Lo investì un odore di funghi. Solo due giorni prima ne aveva raccolti alcuni che poi aveva mangiato con gusto. In lontananza, in mezzo alle fronde, vide una macchia chiara. Sicuramente si trattava di Tina. Fischiò di nuovo. Sentì dei rumori di rami spezzati e poi la vide mentre correva verso di lui, con le orecchie basse. «Tina, dove diavolo sei stata? E gli altri?» Giovanni parlava spesso ai suoi animali. Era dell’idea che capissero anche più degli umani. Quante volte aveva sprecato fiato per spiegare a qualcuno di passaggio che lui non si faceva portare il burro dai caseifici di valle, che mungeva le proprie bestie mattina e sera, che viveva solo, e altre cose proprio semplici. Taluni sembravano proprio non capire un accidenti. Con i cani invece bastavano poche parole, certe volte era sufficiente un cenno del capo o della mano. Tina gli leccò le dita e poi con i denti gli strinse delicatamente il polso. «Vuoi che venga con te?» La cagna abbaiò e tornò da dove era venuta. Il giovane malgaro la seguì fin dentro al bosco. Scorse Orso e Radames. Pareva scavassero una buca. Altre volte era capitato che seppellissero un pezzo di pane o un osso. «Cosa state facendo, malandrini?» chiese con finto tono burbero. Gli animali alzarono la testa. Giovanni vide che erano sporchi. Qualcosa di scuro imbrattava loro il muso e il torace. «Che cosa avete trovato?» Il malgaro si avvicinò pensando a una bestia morta. L’anno prima gli era accaduto di trovare un capriolo che era stato ferito da una fucilata e poi era andato a morire dentro a una macchia di rovi. In quell’occasione i cani erano impazziti per l’eccitazione. Si erano graffiati a furia di spingersi fra i rami spinosi. Mentre pensava al capriolo, vide le scarpe. Se le sarebbe sempre ricordate; di colore rosso, stranissime, non certo scarpe per passeggiate nei boschi. Spostò lo sguardo. Il corpo di un uomo giaceva mezzo nudo e semisepolto. Orso e Radames gli stavano sopra. Il maschio scavava con furia intorno al cadavere come se volesse disseppellirlo del tutto. Tina corse davanti a Giovanni e iniziò a sfregarsi contro il morto. Era un comportamento usuale nei cani. Anche quando trovavano piccole carogne o sterco di animali (a causa delle vacche e delle capre, in giro era pieno) ci si buttavano sopra rotolandosi sulla schiena come se volessero grattarsi. Giovanni aveva letto che lo facevano per impregnarsi degli odori, un modo istintivo per mimetizzarsi, almeno sul piano olfattivo. Giovanni sentì un formicolio alle gambe, come se dei tarli gli rodessero la carne. «Via» gridò mulinando le braccia.


14 I tre animali lo guardarono con occhi spaventati. Radames uggiolò, poi emise un latrato che pareva un urlo, infine cominciò a ululare. Gli altri due lo imitarono subito, tenendo il muso puntato verso le chiome degli alberi. Giovanni non osava avvicinarsi, fra l’altro iniziava a sentire un cattivo odore. Orso gli andò vicino, il muso imbrattato di una sostanza densa. Sembrava che il cane avesse pasteggiato con il corpo riverso a terra. Che l’uomo fosse morto era fuori dubbio. Giovanni sentì lo stomaco contrarsi. Doveva andarsene altrimenti avrebbe vomitato, ne era certo. Girò le spalle a quella scena, allontanandosi lungo il sentiero. Ebbe un lieve capogiro e si appoggiò a un albero. I cani arrivarono presto. Puzzavano, ma almeno pareva avessero perso interesse per il cadavere. Giovanni girò il collo come un uccello notturno. Le scarpe rosse spiccavano fra l’erba e la terra smossa, sembravano cuscini di fiori. Cos’era quello, un travestito? Lo stomaco gli si era calmato, e provava persino un pizzico di curiosità. Se fosse stato solo, sarebbe tornato indietro per guardare meglio, ma temeva che i cani riprendessero a scavare intorno al morto. Corse in mezzo agli alberi fino a quando non vide la sua malga. Orso, Tina e Radames andarono a bere in un bacile colmo d’acqua che Giovanni gli lasciava a disposizione, poi si accucciarono davanti alla porta chiusa con le bocche aperte e sporche. Giovanni entrò in casa. Si prese un bicchiere d’acqua e si lasciò cadere sulla vecchia poltrona. Cercò il cellulare dentro alla tasca dei pantaloni. Trovò solo il fazzoletto di tela e il coltello milleusi. Per un attimo temette di averlo perduto nel bosco, poi ricordò che non l’aveva quando era uscito. Girò lo sguardo; il cellulare si trovava come al solito sulla madia. Si alzò, lo prese fra le mani, e solo allora si rese conto di essere percorso da un leggero tremore. Doveva chiamare il 112 o il 113? Non ricordava a quale dei due numeri rispondessero i carabinieri. Alla fine digitò il 112.


15

3

La donna prese un caffè al bar. Lo dolcificò più del solito perché avvertiva una patina amara sulla lingua e sperava in quel modo di toglierla, o almeno di coprirla con i granelli bruniti della canna da zucchero. Qualcosa a cena, la sera prima, non le aveva fatto bene. Aveva un leggero mal di testa, un bruciore dietro agli occhi come se avesse pianto a lungo. Era indecisa sulla brioche. Era meglio mettere qualcosa nello stomaco, oppure mangiando il suo malessere sarebbe peggiorato? Nell’incertezza fissava i vassoi colmi. La barista, una ragazzotta che doveva avere la metà dei suoi anni, sorrise e le chiese se desiderava un cornetto caldo. Lei scrollò la testa ingoiando il caffè a piccoli sorsi. Notò il quotidiano locale su di un tavolino accanto al suo. Lo stava leggendo un signore con gli occhiali spessi che se ne andò quasi subito. La donna allungò un braccio e prese il giornale. In prima pagina c’erano le solite notizie di politica. Andò alla pagina locale. Lo vide immediatamente, del resto l’articolo occupava quasi metà facciata. Ritrovato cadavere a cima Marana. Rimase a fissare la foto di fianco al testo. Poi iniziò a leggere. Il cronista riferiva che il corpo di un uomo era stato rinvenuto in un bosco. Era privo di documenti e i carabinieri stavano indagando per scoprirne l’identità. In fondo a un taschino, stropicciata e umida, il morto teneva una foto tessera scattata, probabilmente, da una di quelle macchinette collocate a volte nelle stazioni ferroviarie. Il giornale, con l’autorizzazione degli inquirenti, l’aveva pubblicata con lo scopo di ricavare qualche utile informazione. Qualcuno lo conosceva? L’uomo era stato visto? Chi avesse avuto notizie utili per l’indagine era pregato di prendere contatto con la locale stazione dei carabinieri. L’articolo proseguiva con una breve intervista a un giovane che aveva una malga poco lontano, il quale si era limitato a dichiarare di non aver mai visto prima quella persona, precisando però che non faceva troppo caso a quelli che passavano lungo il sentiero che saliva verso la cima. Di certo non gli aveva venduto dei formaggi, altrimenti se lo sarebbe ricordato. Seguivano alcune considerazioni “di contorno” del cronista, che evidentemente cercava di spremere al massimo la notizia. “D’altra parte” pensò la donna “da queste parti non capita tutti i giorni di imbattersi in un cadavere.”


16 Dopo un poco si appoggiò una mano sullo stomaco che aveva cominciato a brontolare. Ordinò una brioche. La barista le sorrise mentre gliela serviva su di un piattino. La donna pensò che spesso le persone “in carne” godevano nel vedere gli altri mangiare, quasi che la golosità dei propri simili rendesse più accettabile la propria. Masticò lentamente, continuando a guardare la foto. Era proprio lui, ne era sicura. Si trattava dell’uomo incontrato lungo il sentiero due sera prima, lo stesso che aveva visto dentro allo specchietto retrovisore mentre, spaventata, cercava di ingranare in fretta la marcia. Sembrava solo più pallido di quanto in realtà non fosse, ma la foto doveva aver sofferto l’umidità del terreno. Alcuni aloni chiari coprivano la massa di capelli corvini. Gli occhi però erano inconfondibili, e anche la linea del mento e le labbra importanti. Non aveva dubbi. D’improvviso alcune macchioline cominciarono a danzarle davanti agli occhi, come moscerini dispettosi. A volte quando era agitata le accadeva di avere dei disturbi visivi, ma si trattava di flash accecanti simili a lampi. Le macchioline scure erano una novità. Si passò le dita sulle palpebre e si fece un leggero massaggio. Chiuse il giornale, pagò e uscì. Raggiunse la sua casa. Si trattava di una palazzina suddivisa in otto appartamenti. Lei viveva all’ultimo piano. Avrebbe preferito un appartamento al piano terra con un giardino, ma gliene avevano offerto uno al terzo piano, a un prezzo particolarmente vantaggioso. Di bello aveva la grande terrazza dove lei coltivava erbe e fiori. La casa era immersa nella semioscurità. Di giorno faceva ancora caldo e lei teneva le persiane accostate. Nell’aria aleggiava un odore buono, simile a quello del fieno appena falciato. Decise di fare una doccia. Quando uscì, grondante e ormai rilassata, si avvolse i capelli in un telo di spugna e si asciugò con l’asciugamano appeso accanto al lavandino. Aprì l’armadio. Era incerta su come vestirsi, del resto non le era mai capitato prima di rendere una testimonianza ai carabinieri. Come ci si vestiva in quei casi? Niente abiti stravaganti, né gonne troppo corte che davano l’aria di non voler accettare il passare degli anni. Scivolò con le dita lungo gonne e pantaloni appesi. Alla fine decise per un abito abbottonato davanti, al ginocchio, di colore chiaro. Si specchiò soddisfatta. Aveva l’aria di una persona perbene. Voleva fare il suo dovere vestita nel modo più appropriato. Prese l’auto e in pochi minuti coprì il tragitto fino alla caserma. Parcheggiò e suonò il campanello accanto al cancello. Il piantone la squadrò con aria interrogativa prima di farla entrare. Da una porta uscì un altro carabiniere. La donna notò che non indossava la giacca. «Di cosa ha bisogno?» domandò guardandola. «È per quell’articolo sul giornale.»


17 «L’uomo nel bosco?» «Sì, io l’ho visto. Il giornale scriveva di venire qui nel caso si avessero avute delle informazioni.» «Certamente, ha fatto bene. Entri, la prego.» Il carabiniere si mise di traverso per farla passare. Dentro all’ufficio c’era una scrivania con una poltroncina e due sedie appaiate. Una terza sedia stava in un angolo. Contro una parete, una serie di scaffali traboccava di faldoni zeppi. Di fronte, una finestra guardava verso il cortile ghiaioso e senza alberi. «Si sieda. Io sono il capitano Raffaele Di Carmine. Posso conoscere il suo nome?» «Mi chiamo Ellen Risso, abito vicino all’ospedale» rispose lei rimanendo in piedi. «La prego, si sieda.» La donna prese la sedia dall’angolo, si mise comoda e raccontò in modo chiaro quanto aveva visto due sere prima. «Si trattava dell’uomo della foto? Ne è certa?» «Sì, l’ho visto bene in faccia.» «Che ora era?» «Verso le sette.» «C’era luce a sufficienza? In questa stagione il sole cala presto e lei si trovava in mezzo agli alberi.» «Aveva iniziato a piovere» disse Ellen, pentendosi subito per aver parlato. Il carabiniere scrollò la testa. «In più era nuvoloso.» «Solo sopra di me, in lontananza era ancora chiaro» replicò in fretta, cercando di avere un tono di voce credibile. «Una nuvola stava sopra di lei.» Ellen si sentì in imbarazzo. L’uomo stava forse pensando ai telefilm americani della famiglia Adams, in cui una nuvola scura campeggia sopra la tetra casa dei protagonisti? Lui trattenne un sorriso, così le parve. «Com’era vestito? Lo ricorda?» La conversazione stava prendendo una piega che a Ellen non piaceva per niente. Il carabiniere dubitava di lei. Che cosa avrebbe detto se avesse riferito che l’uomo indossava una tunica lunga fino a terra? Che si era trattato del mago uscito dalla lampada di Aladino! Ellen tentennò. «Non ha fatto caso al vestito?» la imboccò il carabiniere. «Era vestito in modo strano.» Il carabiniere ebbe un guizzo negli occhi che la donna interpretò come ironia. Lui pensava invece alle singolari scarpe rosse indossate dal morto. Sopra, l’uomo aveva un paio di pantaloni leggeri, di strana


18 fattura, e una minuscola giacca che pareva essere appartenuta a qualcun altro. «Sembrava un marocchino, voglio dire che era vestito come i nordafricani. Tunica lunga, e poi aveva un cappello in testa.» «Ha notato le scarpe?» «Le scarpe? No, non ci ho fatto caso.» «Peccato… dice che se lo è trovato dietro all’auto, senza sentirne i passi.» «So che sembra strano, ma è così.» «Ricorda altro?» «Un odore, quell’uomo odorava di spezie.» «Hm, d’accordo. Per favore mi dia un documento di identità e un recapito telefonico, nel caso avessimo bisogno di contattarla.» Ellen frugò nella borsetta. Estrasse la sua carta d’identità dal portafoglio e la tese al carabiniere. Lui uscì dall’ufficio e tornò dopo pochissimo con una fotocopia su cui annotò il numero di cellulare della donna. «Grazie per essere venuta, ci è stata utile» disse restituendo il documento. «Pensate di scoprire chi è?» «Lo speriamo.» «Magari qualcuno lo sta aspettando a casa.» «Già.» L’uomo si alzò e le tese la mano sopra il tavolo. Una stretta granitica che fece quasi male a Ellen. Lei notò solo allora il volto non più giovane di lui. Aveva basette lunghe, capelli scuri, un’unica ruga verticale tra gli occhi cangianti. Il capitano le rivolse un sorriso cordiale prima di accompagnarla all’uscita. «Grazie di nuovo» disse. Poi la porta si chiuse alle spalle di Ellen con un clack. La donna tornò alla sua auto, leggermente depressa. Aveva fatto il proprio dovere con l’impressione di essere una stupida. Alla domanda del carabiniere se avesse visto bene in faccia l’uomo, lei aveva risposto che pioveva… in pratica aveva rivelato che la luminosità era poca. Poteva essere più scema di così? Era sicura di quello che aveva visto, ma aveva dato l’impressione contraria. Più che depressa era seccata con se stessa. Guidò sovrappensiero fino a un supermercato, dove comprò qualche yogurt e dei pomodori. All’ultimo istante, prima di pagare, mise sul nastro trasportatore una stecca di cioccolato al latte con nocciole pensando che aveva bisogno di tirarsi su di morale, e quello era un modo poco costoso per farlo.


19 Quando arrivò a casa, il sole invadeva il suo terrazzo traboccante di vasi con piante fiorite. Ellen mise le poche cose acquistate nel frigorifero e sbirciò verso quella piccola oasi verde che tanto amava. Il pavimento piastrellato era disseminato di foglie ingiallite e mucchietti di terriccio. Da un angolo prese una scopa e cominciò a spazzare. In una zona ancora in ombra stavano i vasi con le sue erbe. C’era un po’ di tutto; malva, iperico, celidonia, piantaggine, e poi timo, santoreggia e altre essenze. Ma il suo pensiero andava alla piantina erbacea rinvenuta verso cima Marana il giorno del singolare incontro con lo sconosciuto che aveva poi saputo essere morto. Doveva essere accaduto la sera stessa. Era tornata a casa e lui era morto in quel bosco, forse nello stesso istante in cui lei si beveva il tè, felice e tranquilla dentro alle sue stanze. È così che accade; qualcuno gioisce mentre altri soffrono. Nasciamo nello stesso istante in cui altri si spengono dilaniati dalla sofferenza. Questi erano i ragionamenti di Ellen. Durante la notte aveva avuto continui risvegli e ora sentiva stanchezza nelle gambe. Camminò lentamente fino al bagno. Raccolse i suoi capelli in un morbido chignon, poi si sfilò l’abito e indossò dei pantaloni e una maglietta con l’orlo sfilacciato che non si decideva mai di buttar via. Da fuori giunse l’urlo di una sirena. Un’ambulanza passò veloce sulla strada poco distante. In passato si commuoveva ogni volta che sentiva quel suono e in cuor suo chiedeva a Dio di aiutare lo sconosciuto verso cui correvano i soccorsi. Immaginava giovani ragazzi coinvolti in terribili incidenti stradali. Li vedeva riversi sull’asfalto con gli arti scomposti. Oppure si trattava di anziani con le vie respiratorie allagate da muco purulento, sconquassati dalla tosse. Allora era più sensibile alle sofferenze degli altri. Si era indurita dopo che era rimasta sola e aveva lasciato il suo paese d’origine, la bella terra ligure. Viveva in quell’appartamento da quasi cinque anni. Non aveva amicizie. A conoscerla erano solo la ragazza del bar, dove si recava talvolta, il giornalaio poco distante da casa, alcune commesse di un supermercato dove faceva la spesa, il medico di base, e pochi altri. Le conoscenze non la interessavano. Temeva solo di sentirsi male senza riuscire a chiamare qualcuno. Se proprio doveva morire sola, sperava accadesse fuori, su di un pascolo o dentro al bosco. Pur essendo ancora giovane, la assalivano spesso pensieri di quel tipo. Lei lo sapeva; la morte era sempre in agguato. E non esistevano solo le malattie… Suo padre aveva sparato a sua madre in un afoso pomeriggio di agosto (pareva che molti omicidi avvenissero in quel caldo mese dedicato alle ferie) prima di rivolgere il fucile verso se stesso. Si era infilato le canne in bocca, fin quasi in gola. I pallettoni avevano aperto uno squarcio nel


20 collo, alla base del cranio. Pezzi di denti e brandelli di carne avevano imbrattato la carta da parati del salotto accanto al quadro con la foto di famiglia. Alcuni schizzi di sangue avevano sporcato la cornice scura. Dopo, Ellen aveva fatto tinteggiare la stanza. Prima però aveva strappato con disperazione la carta verde-azzurra con scene di caccia in palude. Che cosa fosse accaduto non lo seppe mai. I suoi genitori parevano andare d’accordo. C’era stato qualche battibecco negli ultimi tempi, poca cosa, riconducibile a un vago nervosismo che suo padre aveva cominciato a provare dopo che era stato collocato in pensione. Al funerale, una cugina della madre aveva fatto un cenno a motivazioni di cui era a conoscenza, però non ne volle parlare. Ellen non indagò per paura di scoprire che c’entrava qualcosa, che aveva mancato in qualche modo. Smise quasi di mangiare per il dolore. Divenne di una magrezza impressionante. Il suo medico la sgridò il giorno che fu chiamato da una vicina perché era svenuta in mezzo al giardino e per poco non si ruppe la testa contro una statua di pietra. “Vuoi morire anche tu?” le disse trafiggendola con lo sguardo. Poi se ne andò sbattendo la porta. Ellen si alzò piano, aprì il frigorifero e vi trovò solo cibi scaduti, formaggi ammuffiti, verdure appassite, vasetti di yogurt rigonfi. Nella credenza ebbe maggior fortuna; fette biscottate, cracker e pane raffermo. Tornò a letto con un pezzo di baguette fra le dita e lo sgranocchiò, duro com’era. Poi telefonò alla vicina e le chiese se poteva farle la spesa. La donna arrivò con due borse colme di ogni genere di cibo. Dopo parecchio tempo, quella sera Ellen cenò. Mentre ingoiava, sudava per lo sforzo. Il suo stomaco si era disabituato al cibo e passarono giorni prima che cessasse un terribile senso di oppressione gastrica appena finito di mangiare. Lentamente i suoi muscoli ripresero energia e volume. Rimase sempre magra, ma in un modo accettabile, compatibile con la salute. Fu in quel periodo di ripresa fisica che un’amica la invitò a trascorrere alcuni giorni di vacanza a Recoaro, cittadina veneta rinomata per le acque dalle proprietà curative. Ellen non soffriva di fegato né di disturbi intestinali per i quali l’acqua era indicata, ma avrebbe potuto godere del clima fresco e dell’aria buona. Partirono in automobile dopo avere prenotato una stanza d’albergo. Il posto le piacque subito. Quando giunse il momento di rientrare, disse alla sua amica che intendeva rimanersene lì, che la scusasse per il viaggio di ritorno che avrebbe dovuto fare da sola. La donna si strinse nelle spalle, poi rispose che non era un problema. Ellen trascorse due mesi a Recoaro. Fortunatamente non aveva bisogno di lavorare. I suoi genitori le avevano lasciato una piccola fortuna appartenuta ai nonni che erano stati industriali del settore manifatturiero. Prima dell’omicidio-suicidio lavoricchiava, giusto poche


21 ore al giorno, in un negozietto di cosmetici. Ma alla morte dei suoi, il giorno dopo il funerale si dimise. A Recoaro faceva lunghe passeggiate verso i monti e per le vie del paese. Poi cominciò a cercarsi un appartamento, per rimanerci per sempre. Ce n’erano molti in vendita e i prezzi erano piuttosto bassi. Venne settembre senza che avesse trovato nulla che le piacesse, e le prime piogge cominciarono a cadere sulle fitte macchie di ortensie e sui gerani alle finestre. Improvvisamente fu freddo. Una signora con cui aveva conversato più volte nel corso di quella vacanza (la incrociava verso le fonti, dove gli ammalati andavano a bersi le acque) le spiegò che le estati lì erano brevissime. Dopo, per molti mesi, la pioggia inzuppava il terreno e correva sull’asfalto delle strade. Era proprio sicura di voler stare in un paese dal clima così infelice? Qualche chilometro più a sud era tutto diverso; la valle si allargava, la cappa scura che frequentemente copriva Recoaro e i monti vicini lasciava spazio a cieli sgombri da nubi. Due settimane dopo Ellen acquistò un appartamento a Valdagno, pensando che sarebbe risalita fino a Recoaro durante l’estate, magari anche giornalmente, utilizzando la corriera che collegava le due cittadine distanti solo dieci chilometri. Quell’autunno, ormai quarantottenne e zitella, si appassionò di erbe selvatiche. Il tutto iniziò quando in una bancarella trovò un libro sulle erbe eduli, cioè commestibili. Lo sfogliò con crescente interesse. Era pieno di belle foto. Poi cominciò a uscire la mattina, col libro dentro a un minuscolo zaino. Spesso partiva a piedi, allontanandosi dal centro con la sensazione di lasciarsi alle spalle, almeno per alcune ore, il suo passato carico di punti interrogativi e dolore. In periferia risaliva i crinali erbosi, le scarpate, fino a dei campi semicoltivati a mezza costa. Là osservava, confrontava, rileggeva, e alla fine raccoglieva. Di solito teneva due sacchetti; uno per le erbe che già conosceva e che poi avrebbe consumato, l’altro per le specie che ancora stava studiando, della cui identificazione non era certa. Durante una di quelle escursioni conobbe un esperto botanico il quale le suggerì dei libri che poi andò a comprarsi. L’uomo stava cercando da qualche tempo una varietà di lactuga, una via di mezzo fra la virosa e la scariola. A suo dire in quella zona c’era la possibilità che qualche esemplare crescesse ancora, ma non se ne trovavano da un centinaio d’anni almeno. Sarebbe stato un bel colpo individuare anche un solo esemplare. Col tempo, a forza di studiare e di osservare, Ellen divenne una vera esperta. Quando usciva da casa e si allontanava dalle strade trafficate, teneva gli occhi perennemente puntati a terra. Non le sfuggiva niente; un cuscinetto di timo selvatico, una piantina di amaranto, i fiori chiari della silene. Tutto quel verde, insignificante ai più, aveva un nome e spesso un possibile utilizzo. Si trattava di un mondo sconosciuto alla stragrande


22 maggioranza delle persone. Aveva scoperto una micro dimensione che aveva del magico. Cominciò anche lei a cercare quella varietà di lactuga da cui, se era vero quello che le aveva spiegato il botanico illustre, sarebbero derivate tutte le altre, in pratica quelle che si trovavano sui banchi di verdura di ogni mercato del mondo. Il pomeriggio prima di quello strano incontro aveva pensato di aver avuto fortuna. Adesso, una foglia e uno stelo stavano immersi in un bicchiere pieno d’acqua. Perché non aveva pensato di chiedere il numero di cellulare al professore di botanica? Di lui non ricordava nemmeno il nome. Era un professore universitario, non sapeva altro. Le sarebbe piaciuto scambiarci due parole, raccontargli che credeva di aver trovato quello che lui cercava da qualche tempo. Quel giorno, senza alcuna motivazione, nutriva buone speranze. Alla caserma si era sentita una sciocca e desiderava rivalutarsi occupandosi di qualcosa di cui era competente. Ora si trovava in un ambito familiare, conosciuto, dove nessuno poteva metterla a disagio con domande che lasciavano trasparire dubbi e ironia. Osservò a lungo la forma della foglia, roncinata e di colore tendente al grigio. Il fiore, giallino, era chiaramente di quella vasta famiglia da cui discendevano le varie lattughe. Forse davvero aveva trovato quell’erba creduta estinta. Cosa si faceva in quei casi? Non lo sapeva. Ogni tanto capitava che qualcuno scoprisse nuove specie. Di questo scrivevano poi le riviste specializzate, e lo scopritore imponeva loro un nome. Ma ora era diverso. Se davvero dentro al bicchiere sbreccato che aveva davanti a sé c’era quello che sospettava, non si sarebbe trattato di aver individuato un’erba mai identificata prima, ma di aver dimostrato che un esemplare creduto estinto in realtà non lo era per niente. Una sola piantina. Doveva tornare in quella zona e cercare. Forse qualche altro esemplare cresceva su quei prati, incurante che l’uomo l’avesse dichiarato scomparso.


23

4

Come tutte le mattine, in caserma c’era un’atmosfera svogliata. A quell’ora le luci al neon ancora accese rendevano le facce di tutti estremamente pallide. «Si chiamava Mohammed Alì.» «Il classico nome arabo.» «Già, si chiamano tutti Mohammed, in ricordo del profeta.» Il capitano dei carabinieri aveva un’espressione concentrata e si sorreggeva la testa con il palmo della mano, il gomito appoggiato alla scrivania. «Era egiziano. Cosa diavolo ci faceva in quel posto?» L’altro carabiniere si strinse impercettibilmente nelle spalle, poi commentò: «E vestito in quel modo…» «Dovremo aspettare di avere informazioni dai colleghi di Catanzaro; la carta d’identità è stata rilasciata da un piccolo comune di quella provincia. Una vera fortuna averla trovata.» «Era lontana dal corpo. Il giornale locale non ha avuto l’informazione, scrivono che del morto non si conosce l’identità.» «Che ci importa dei giornali? Spesso fanno solo casino… certe volte penso che meno cose sanno meglio è.» «Crede che si tratti di un immigrato clandestino?» «Hm, di solito a immigrare sono tunisini e marocchini, non gli egiziani.» «La carta d’identità potrebbe essere falsa. Con qualche centinaia di euro si possono acquistare documenti di ogni tipo.» «Ma a venir falsificati sono perlopiù i passaporti e i permessi di soggiorno.» «Ha ragione.» Il capitano si alzò dalla poltroncina e guardò fuori dalla finestra verso la banca che si trovava all’angolo della via, a pochi passi. Gli impiegati di quell’istituto bancario dormivano sonni tranquilli; chi mai avrebbe tentato una rapina in prossimità di una caserma dei carabinieri? Avrebbero dovuto pagare per quella sicurezza! Invece il direttore non gli aveva mai offerto neanche un caffè. Il capitano Raffaele Di Carmine aveva un corpo solido, i capelli neri tagliati corti e un’espressione perennemente minacciosa. Anche quando


24 non intendeva incutere paura a nessuno, il taglio degli occhi e il mento spigoloso gli davano suo malgrado un’aria accusatoria. Per uno che faceva la sua professione si trattava di un pregio. Aveva quarantasei anni e si trovava a Valdagno da una decina. I primi vent’anni della sua carriera li aveva trascorsi in un comune pugliese sonnacchioso dove passava le giornate gironzolando per le campagne assolate cercando l’ombra degli ulivi. Erano stati anni tranquilli. La delinquenza in quel posto pareva non esistere. C’era, lui lo sapeva, ma strisciava in basso, negli angoli scuri dei bar sporchi, dove i delinquenti si trovavano per giocare a carte e chiacchierare dei loro affari. Lui evitava quei postacci. Cercava semplicemente di vivere. Poi, inaspettatamente, a un suo superiore che voleva fare il proprio dovere avevano sparato nel petto con un fucile. Lui stava in caserma a sorseggiarsi una bibita fresca quando aveva sentito delle grida di donne. Il suo collega giaceva in mezzo alla polvere e si muoveva debolmente. Con una mano si reggeva le interiora che cominciavano a fuoriuscire. Aveva provato prima orrore e poi rimorso per non essergli stato al fianco. Ancora ricordava quando cercava di calmare il suo sgomento camminando per i campi fino alle prime luci del mattino. Aveva spesso pensato che non fosse la professione giusta per lui, quella del carabiniere. Era troppo pauroso. Forse doveva fare il calzolaio, il contadino, o meglio ancora il prete. Provava una sensazione di calma quando entrava nelle chiese e percepiva il fresco e l’odore d’incenso e cera. A un certo punto non ce l’aveva più fatta e aveva chiesto di essere trasferito al nord. Era stato accontentato quasi subito, soprattutto perché non aveva manifestato preferenze. I suoi avevano brontolato scrollando la testa. Sua madre gli aveva detto a denti stretti che non avrebbe più trovato un’occupazione così comoda, vicina a casa. Ma lui era partito col cuore leggero, sicuro che non avrebbe provato nostalgia del suo paese. Così era stato. A Valdagno, dopo alcuni anni, l’avevano promosso capitano. Lui, il fifone pugliese; c’era quasi da ridere. Era sicuro che quei gradi gli derivassero principalmente dal suo volto con i lineamenti duri. Nemmeno i suoi stretti collaboratori riuscivano a guardarlo a lungo in faccia senza provare disagio. Di questo fatto, in cuor suo, si compiaceva. Peccato che le donne non lo trovassero simpatico. Troppo tenebroso. I pochi amici che aveva erano convinti che facesse strage di cuori femminili, ma si sbagliavano. Molte uscivano con lui giusto una sera o due, poi si dileguavano. A eccezione di quelle che facevano sesso per la prima volta, che tendevano invece ad attaccarsi come sanguisughe. «Che cosa facciamo adesso?» Il carabiniere guardava il suo comandante aspettando delle direttive. «Aspettiamo. Si sa qualcosa dell’autopsia?»


25 «Dovrebbero arrivare i risultati a breve.» «Preferirei parlare con il medico legale. Per favore chiamalo e passami la telefonata.» Il carabiniere dissimulò la sua irritazione. Gli seccava moltissimo quando il capitano gli affidava stupide mansioni, quasi che lui fosse il suo segretario personale. «D’accordo.» Il carabiniere uscì dallo studio. Il capitano si rimise seduto. Dopo alcuni minuti il suo telefono prese a squillare. Alzò il ricevitore sapendo già chi avrebbe trovato dall’altro capo della linea. «Capitano Di Carmine, voleva parlarmi?» La voce nasale del medico sembrava provenire da sotto terra. Anche le altre volte che si erano sentiti, il capitano aveva avvertito quella inusuale sonorità, come se il medico lo stesse chiamando dalle profondità di una grotta. Lo immaginò accanto alle celle frigorifere, appoggiato a uno di quei lettini d’acciaio dove aprivano i corpi. «Mi può dire qualcosa di quell’arabo? Ci sono novità?» «Domani le farò avere la mia relazione.» «Preferirei che mi anticipasse a voce i risultati.» Dall’altro capo del filo ci furono alcuni istanti di silenzio. Un sospiro. Infine il medico parlò: «È morto da almeno cinque o sei giorni. Ci sono primi segni di decomposizione, compatibili con questa data di morte. Gli hanno fracassato il cranio, probabilmente con una pietra. Un bel colpo assestato con forza, da dietro.» I pensieri del capitano volarono immediatamente alla donna che era venuta da lui in caserma il giorno prima. «È sicuro sulla data della morte?» «Assolutamente sì. Perché mi fa questa domanda?» «Abbiamo una testimonianza… una persona dice di averlo visto l’altro ieri.» «Chi glielo ha riferito si è sbagliato, la morte risale a prima.» «Sul corpo ha notato cose particolari?» «Un tatuaggio all’altezza dello sterno.» «Veramente intendevo se aveva lesioni compatibili con una colluttazione.» «No, niente del genere.» Il capitano attese che il medico aggiungesse qualcosa, ma questi rimase zitto. «Mi faccia per favore una foto del tatuaggio.» «Già fatto.» «Be’, allora grazie, aspetto il suo referto.»


26 La comunicazione si chiuse. Il capitano rimase a guardare la parete di fronte a sé, dove un grande quadro raffigurante dei pascoli alpini riempiva gran parte dello spazio fra due raccoglitori. Già, i pascoli alpini. Quando c’era stata quella segnalazione, pareva che il cadavere si trovasse vicino a Montefalcone e lui era salito con la sua squadra da Recoaro Mille. Poi era venuto fuori che il corpo era più in basso, sotto cima Marana; allora erano tornati indietro e avevano raggiunto il luogo percorrendo una strada che portava verso Crespadoro, una zona facilmente raggiungibile dai colleghi della caserma di quel piccolo comune. La sera stessa quelli avevano chiamato ringhiando come cani a cui fosse stato sottratto l’osso; una cosa assurda perché la caserma di Crespadoro dipendeva da Valdagno, cioè da lui. Al telefono, senza vedere il suo volto severo, si erano presi la libertà di non essere precisamente gentili. Alla fine il capitano aveva stabilito che tutte e due le stazioni collaborassero alle indagini. Di fatto però quella condivisione, pur giusta, gli seccava non poco ed era intenzionato ad arrangiarsi il più possibile. Il caso di un cadavere abbandonato era troppo gustoso. Si vergognò un poco di quei pensieri. Da fuori provenivano dei rumori. Qualcuno aveva attivato un martello pneumatico. Attraverso i vetri della finestra il capitano vide alcuni uomini intenti a rimuovere l’asfalto in prossimità di un tombino. Indossavano i gilet di color arancione previsti dalla normativa antinfortunistica. I rumori l’avevano sempre infastidito. Quando si trovava nella sua campagna pugliese, a stento sopportava il frinire delle cicale nelle torride giornate estive. I lavori parevano appena iniziati. Non sarebbe rimasto lì dentro a farsi fischiare gli orecchi! S’infilò la giacca e il berretto, poi chiuse la porta alle sue spalle. Nell’ingresso, il carabiniere che gli aveva passato la telefonata del medico stava parlando con un collega. Si voltò e lo guardò con aria interrogativa. «Usciamo» disse il capitano interrompendo la loro conversazione. Quando raggiunsero la macchina, il capitano si mise al volante. Di solito faceva guidare il giovane appuntato, ma pensando alle curve che avrebbero dovuto affrontare, valutò che non fosse una buona idea. Soffriva di mal d’auto e non voleva rovinarsi la giornata. Intendeva ritornare sul luogo del ritrovamento del cadavere. L’umore gli stava migliorando, divenne quasi gioviale all’idea di un paio di ore in mezzo al verde. Guardò di traverso il suo appuntato. Sapeva di essere a volte brusco con lui. Cercò di rimediare parlando del più e del meno. Dopo un po’ il giovane appuntato parve rilassarsi; teneva le mani appoggiate sulle cosce e la testa reclinata come se avesse sonno. Si chiamava Salvatore Guerrero ma il capitano spesso lo chiamava “Sal”. Il giovane non era entusiasta di quel diminutivo, il capitano lo sapeva, così se voleva farlo


27 sentire più importante o a suo agio lo chiamava con il suo lungo nome di chiara provenienza mediterranea. Il capitano, dal canto suo, non si sentiva più uno del sud da molto tempo; si comportava come quel tipo della barzelletta che dopo aver traversato a nuoto il Po dava del terrore al figlio che ancora stava sull’altra riva. L’auto con i due carabinieri superò presto la località denominata Croce del Gallo, dove la strada tortuosa fiancheggiava poche abitazioni. Quando arrivarono nel punto in cui un cartello indicava Marana, girarono a destra fino a raggiungere un minuscolo agglomerato di case contadine. Era da lì che partiva il sentiero numero 202, quello che portava verso la cima. Il sole era alto nel cielo. Il capitano di Carmine parcheggiò l’auto all’ombra di un grosso frassino. Pensava a quando era intervenuto con i suoi, dopo la telefonata del malgaro. Era agitato, quel Giovanni. Si era tenuto distante dal cadavere, limitandosi a indicare con il braccio una macchia rossa lontana che si rivelò poi essere una scarpa. «Posso chiedere perché siamo qui, comandante?» Di Carmine adorava che lo chiamassero “comandante”, gli sembrava un appellativo notevolmente migliore di capitano. «Voglio tornare sul luogo del ritrovamento» rispose contento. «Benissimo, non sa quanto mi sia dispiaciuto non esserci stato l’altra volta. Non mi ammalo quasi mai, non capisco come mi fosse salita la febbre i giorni scorsi.» «Capita. Desidero che tu veda il posto, magari noti qualcosa che è sfuggito agli altri.» L’appuntato a quelle parole gongolò. «Come si chiama questa contrada?» chiese pochi istanti dopo. «Castagna» rispose il capitano indicando una tabella affissa contro il muro di una casa. «Come il frutto.» «Esatto.» I due uomini si avviarono lungo una stradina sassosa, poi imboccarono il sentiero e infine si addentrarono nel bosco. La luce filtrava dall’alto e creava zone d’ombra alternate ad altre in cui i raggi del sole ferivano gli occhi. «Sarà una bella scarpinata» commentò l’appuntato. «Sì, ma passeggiare aiuta a scaricare le tensioni.» L’appuntato pensò che lui non era per niente teso, ma non disse nulla. Tenendo un passo sostenuto, i due impiegarono più di mezz’ora per arrivare fino alla malga di Giovanni dove furono accolti dal latrato dei cani. Uno, rossiccio e con la testa squadrata, fiutò le gambe ai due. Da dietro a una staccionata sbucò il giovane malgaro che li richiamò con un


28 fischio. In mano teneva un secchio che posò subito, poi rimase fermo ad aspettarli. «Buongiorno.» «Buongiorno a lei.» «Posso fare qualcosa per voi?» Il capitano si scacciò una mosca dal volto prima di proseguire dicendo: «Mi chiedevo se per caso ha ricordato dell’altro.» «Ricordato cosa?» chiese il malgaro con occhi sgranati. «Non so, qualche particolare. È proprio sicuro che non l’aveva mai visto prima?» Il capitano non aveva nominato il morto, ma era chiaro che si riferiva a lui. «Un tipo così non me lo sarei scordato di certo» rispose l’altro, lo sguardo basso. Il giovane pareva nervoso, del resto l’aspetto del capitano faceva quell’effetto. Il capitano diede una rapida occhiata al suo sottoposto. Era il loro segnale. Quando il capitano riteneva che la persona che stava interrogando non gli desse abbastanza confidenza, chiedeva aiuto all’appuntato che con il suo viso da bravo ragazzo metteva chiunque a proprio agio. «Qui passa tanta gente, è difficile ricordarsi di tutti» fece Salvatore in tono comprensivo. Il malgaro lo guardò con aria grata, già visibilmente sollevato. «E poi io mi occupo degli animali, ho da fare, non mi curo degli affari degli altri. Poche parole, gli parlo dei miei formaggi, loro mi pagano e se ne vanno.» Il cane rosso si sfregava contro le sue gambe. Lui gli allungò una carezza sul muso, poi aggiunse: «Qualche chiacchierata mi capita di farla con i ragazzi del sito archeologico, e con mia madre, che ogni tanto viene ad aiutarmi.» «Il sito archeologico?» Il malgaro assentì con la testa. «È più su, oltre la cima, un’ora a piedi tenendo un passo svelto.» I due carabinieri si guardarono. «Ne ho sentito parlare» disse il capitano, che invece non ne sapeva nulla. No, veramente a pensarci bene qualcuno gli aveva riferito qualcosa. I lavori di scavo dovevano essere iniziati l’anno prima. «Cosa cercano?» chiese. «Tutto quanto può essere collegato ad antichi insediamenti umani. Mi hanno raccontato di aver trovato alcune monete di epoca romana che poi hanno donato a un museo.» «Sono ancora là che lavorano?»


29 «Non so, è un po’ che non li vedo» disse il malgaro stringendosi nelle spalle. «Come ci si arriva?» «Anche da qui, ma è più comodo da Crespadoro. A piedi è sufficiente risalire quel sentiero» fece il giovane puntando l’indice verso un boschetto. Poi proseguì: «La zona è raggiungibile anche da Recoaro Mille, ma allora bisogna salire con la seggiovia fino a Montefalcone… l’avete già fatto quando vi ho chiamati.» «È così, infatti» replicò il capitano, pensando alla sventolata che si era preso quel giorno. Poi domandò: «Non si può andare in macchina?» «No, c’è una sterrata ma non è percorribile. Qualche pazzo a volte la usa, ma è piena di sassi ed è molto ripida. Magari con un fuoristrada…» Il capitano si guardò le scarpe. Erano quelle invernali pesanti. Il malgaro intuì i suoi propositi e disse: «Non è bagnato, a quest’ora l’umidità è evaporata, e il sentiero è tenuto pulito dai volontari del CAI.» Il carabiniere pensò che il malgaro non vedeva l’ora che se ne andassero. Comunque era chiaro che da lui non avrebbe ottenuto altre informazioni. Quel giovane aveva già il carattere dei vecchi malgari; poche parole dosate, e nessuna confidenza agli estranei. Era già tanto che l’appuntato fosse riuscito a fargli aprire la bocca per dire qualcosa oltre al buongiorno. «Allora grazie.» «Se le viene in mente qualcosa, ci chiami» aggiunse l’appuntato con poca convinzione. Il malgaro si allontanò, diretto verso le sue capre, seguito dai cani. «Salvatore, sei pronto?» «Adesso?» «Perché no?» Poi, alzando gli occhi, il capitano spiegò: «La giornata è buona, non fa caldo. Ma prima diamo un’altra occhiata alla scena del crimine.» Mentre pronunciava le ultime parole, un sorriso gli salì alle labbra. Non era mai riuscito a non collegare l’espressione “scena del crimine” ai telefilm americani con tanto di poliziotti con la stella sul petto o il giubbotto con la scritta FBI. Salvatore non era entusiasta dei programmi del suo superiore, ma come spesso accadeva non obiettò sapendo che sarebbe stato inutile. Odiava camminare e l’idea di dover andare a piedi fino agli scavi non lo allettava. Un’ora, aveva detto il malgaro. Chissà. Spesso in montagna le


30 distanze risultavano difficili da valutare; luoghi che sembravano vicini richiedevano invece ore di cammino per essere raggiunti. S’infilarono dentro al bosco. Una fronda fece cadere il berretto all’appuntato. Lui lo raccolse in fretta, come se avesse commesso qualcosa di disdicevole. Quando arrivarono nel luogo in cui era stato trovato il cadavere, nonostante camminassero da poco, avevano il fiato corto. La terra era smossa tutto attorno ed era stato posizionato del nastro plastificato rosso e bianco, uguale a quello che delimita i cantieri. In quel modo, soprattutto i primi giorni, s’intendeva limitare l’accesso alla zona. Tutto inutile. Gruppetti di curiosi erano saliti dalla valle e dal paesino di Marana per sbirciare il posto in cui era stato occultato il cadavere dello strano personaggio che vestiva all’orientale. Ancora nessuno sapeva di che nazionalità fosse, ma le voci riguardo le scarpe rosse erano girate parecchio. Il capitano aveva sentito un anziano dire che doveva trattarsi di Alì Babà. Mancavano solo i quaranta ladroni. I due carabinieri si limitarono a guardare un po’ in giro. In quel momento il bosco era deserto. Il terreno circostante era stato battuto a palmo a palmo. Era stato in seguito a quell’ispezione accurata che era saltata fuori la carta d’identità. Si trovava impigliata in un ramo caduto. All’inizio venne scambiata per un fazzoletto usato. Niente di strano; capitava sovente che i boschi fossero utilizzati come toilette. Erano ombrosi e bastava accucciarsi per non essere visti da chi camminava lungo i sentieri. «Cosa te ne pare? Qualche considerazione?» «Non saprei. Il posto è isolato. Mi chiedevo cosa fosse venuto a fare in questo bosco» rispose l’appuntato. «Me lo sono chiesto anch’io… per la verità me lo domando anche adesso. Certamente è stato ucciso qui. Nessuno porterebbe un cadavere in spalla fin quassù.» «Era un escursionista?» «Non mi pare che gli stranieri amino camminare.» L’altro pensò che nemmeno lui amava farlo. «Le escursioni sono roba da ricchi» proseguì il capitano. «Ma se non costano nulla!» «Una questione di mentalità. Chi ha pochi mezzi usa il tempo in altri modi. Fanno passeggiate coloro che hanno del superfluo.» L’appuntato stette a pensare. Magari il suo superiore aveva ragione. Le volte che era stato in montagna, mai gli era successo di vedere stranieri. Il capitano fece un sospiro che l’appuntato non seppe interpretare. Disappunto? Noia? Forse solo stanchezza. Salvatore, come altri, era convinto che il superiore dormisse poco la notte a causa di allegre


31 presenze femminili dentro al letto. Come criticare quelle donne? Il capitano era un uomo veramente attraente. Sarebbe bastato avere anche solo metà del suo fascino! Lui invece era piccolino, magro, il naso adunco. La bocca carnosa e pulita gli dava l’aria del bravo ragazzo, niente di più. Mai avrebbe sospettato che il capitano avesse perso gran parte del suo interesse per il sesso, considerando questo fatto un vantaggio. Appena uscirono dal bosco, il sole li investì. Entrambi strizzarono gli occhi, poi il capitano si mise degli occhiali scuri. Il sentiero continuava, visibilissimo. Saliva lento, facendo larghi giri. Una persona camminava davanti a loro, un tipo magro che teneva a tracolla una borsa di tela scura. Era lontano e teneva un buon passo. «Quel tipo è allenato» commentò Salvatore. «Dovremo compiere più spesso simili escursioni, fanno bene all’anima.» Bene all’anima? Adesso il capitano si metteva a fare il romantico! Cosa avrebbero fatto di lì a poco? Raccolto fiorellini e fragole selvatiche? L’appuntato cominciava a essere stanco e un leggero malumore gli serpeggiava dentro. Naturalmente doveva far finta di niente. «Altroché» disse, pensando di essere un ottimo bugiardo. In realtà il capitano capiva perfettamente quanto fosse scocciato. Veramente anche lui era stanco. In più non avevano nulla da bere e la sete cominciava a farsi sentire. Camminando lentamente giunsero su di un pianoro erboso. La zona degli scavi doveva essere ormai vicina. La persona che li precedeva era seduta di fianco al sentiero, in mezzo all’erba, all’ombra di una macchia di arbusti. Ormai le erano vicini. Il capitano salutò per primo. L’altro alzò la testa coperta da un berretto con la visiera. Il carabiniere impiegò solo pochi secondi a riconoscere Ellen, la donna venuta in caserma qualche giorno prima. Da dietro, con i capelli nascosti dal berretto, sembrava un uomo dal fisico asciutto. Ellen sorrise imbarazzata. «Buongiorno a voi.» «Da lontano non l’avevo riconosciuta» precisò il carabiniere. «Non mi sono mai girata, perlopiù guardo per terra.» «Che cosa cerca?» «Erbe.» «Ah, quelle medicinali immagino.» «Di solito mi limito a raccogliere quelle commestibili.» «Mangia le erbe selvatiche?» chiese l’appuntato con un tono leggermente stupito. Ellen girò lo sguardo su di lui. Fino a quel momento i suoi occhi erano stati fissi sul capitano. In caserma non l’aveva trovato così interessante,


32 forse perché era tesa per la testimonianza che voleva rendere. Notò che il carabiniere era molto giovane, al contrario del capitano. «Tutte le erbe che mangiamo, un tempo sono state selvatiche. Le abbiamo portate nei nostri orti, ma in origine crescevano spontanee.» «Già, è vero» rispose l’altro, pensando di aver formulato una domanda sciocca. «E voi perché siete qui? Posso chiederlo?» Normalmente il capitano a una domanda di quel genere avrebbe risposto con una frase del tipo: “Sì, può chiederlo ma non le risponderò”. Ma quel giorno parlò diversamente. «Mi interessa vedere la zona degli scavi.» Siccome la donna stava zitta, aggiunse: «Lei ci è mai stata?» «Sì, alcune volte. Ormai ci siete.» I due carabinieri fissavano la bottiglia d’acqua che sbucava dalla borsa di tela della donna. Lei notò i loro sguardi. «Volete un bicchiere d’acqua?» chiese con gentilezza. «No, grazie» rispose il capitano. «Io lo prenderei, grazie» fece l’appuntato. La donna mise le mani dentro alla borsa e tirò fuori una pila di bicchieri di plastica. Ne prese uno, lo riempì e lo tese al giovane carabiniere, poi ne riempì un secondo che offrì al capitano. «In montagna è come nel deserto» esclamò la donna mentre i due bevevano. «Che cosa intende dire?» chiese il capitano. «Che tutti hanno il dovere di aiutare gli altri.» «Ah, peccato che questa regola non sia applicata ovunque.» «Sta solo a noi farlo, non è proibito.» I due finirono di bere, restituirono i bicchieri e si accomiatarono. «È stata una curiosa conversazione» disse il capitano quando furono ormai lontani. Poi si girò a guardare in direzione della donna, ma lei se n’era andata. Nella zona degli scavi, ben identificabile grazie a una serie di tabelle, trovarono solo due giovani studenti che mangiavano un panino. C’erano alcune tende azzurre, ma i due sembravano essere i soli abitanti di quel luogo. I carabinieri non dovettero presentarsi. La divisa con la striscia rossa sui pantaloni parlava da sola. Gli studenti parvero sorpresi di quella visita a piedi da parte delle forze dell’ordine. Spiegarono che se ne stavano andando. Di lì a pochi giorni avrebbero levato il campo. Il capitano domandò se avessero saputo dell’uomo trovato cadavere più in basso, nel bosco. Certo che l’avevano saputo! Tutti ne parlavano, ma


33 loro non lo conoscevano, non l’avevano mai visto. Uno dei due sbocconcellava il suo panino con poca fame. Maglietta sdrucita color vinaccia, capelli biondi e occhi vivaci, era seduto sul bordo di una fossa e le sue lunghissime gambe ci penzolavano dentro. Il capitano si chiese se lui avesse mai avuto quell’espressione stranita sul volto. No, nemmeno a quell’età, e tanto meno aveva portato i capelli sulle spalle. Se l’avesse fatto, sua madre gli avrebbe rotto la testa con il manico della scopa. Lui da giovane lavorava in campagna, nell’uliveto di suo padre. Avevano un trullo poco distante da Ostuni e là dentro, fra quelle pietre accatastate secondo una tecnica antica, aveva trascorso molte estati prima che la scuola riprendesse. Nei confronti di quei giovani studenti universitari provava lo stesso sentimento del malgaro Giovanni: invidia. Sua madre l’aveva capito le rare volte che si erano recati in città, quando guardava i pantaloni alla moda dei suoi coetanei. Non essere invidioso, gli diceva. Magari nemmeno sono felici, aggiungeva. Invidia. Cos’era l’invidia? Una volta aveva sentito un tizio dire che si trattava di tristezza per la felicità degli altri. Il capitano si scosse dai suoi pensieri. «Avete trovato qualcosa d’interessante?» chiese per fare un po’ di conversazione. «Poca roba. L’anno scorso siamo stati più fortunati.» «Allora è il secondo anno che venite.» «Per noi si tratta del primo» intervenne l’altro giovane. Era un tipo tarchiato con i capelli quasi rasati, stranamente già in parte grigi. Nessuno pareva aver più voglia di chiacchierare. Il capitano guardò l’appuntato poi disse: «Torniamo indietro, qui abbiamo finito.» Poi, proprio mentre cominciava a incamminarsi, si voltò verso i due e fece: «La scorsa settimana c’erano altre persone qui con voi?» Il ragazzo con le gambe lunghissime si portò una mano sul mento come se dovesse riflettere sulla domanda. Rispose quello tarchiato: «Fino a mercoledì c’era un nostro professore e altri quattro studenti. Sabato sono tornati a Padova. Torneranno domani per darci una mano a sbaraccare tutto.» «Allora ci rivedremo domani, voglio parlare anche con loro.» Quando i due carabinieri erano già a qualche centinaia di metri il giovane dalla maglietta vinaccia gridò: «Nemmeno loro hanno visto niente, siamo isolati qui.» Il capitano fece un cenno di saluto con la mano.


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5

Ellen vagava attraverso i prati indugiando nelle macchie ombrose dei rari alberi. Inaspettatamente alcune cornacchie planarono e vennero a posarsi vicino rompendo quella sorta d’incantesimo interiore in cui cadeva quando era concentrata nelle sue ricerche. In quei momenti, quando passeggiava con il capo chino, attenta a quanto cresceva per terra, i pensieri e i ricordi le sfuggivano. Anche per questo amava moltissimo quelle uscite. Si trattava, in fondo, di una sorta di meditazione in movimento durante la quale era presente a se stessa come non le accadeva durante il resto della giornata. Si muoveva con agilità perché, nonostante avesse cinquantadue anni, il suo fisico era scattante come quello di una trentenne, e nemmeno un cuscinetto di grasso appesantiva i suoi fianchi Pensava ai due carabinieri incontrati qualche ora prima. Stupidamente non aveva chiesto notizie sulle indagini. La sua testimonianza era tornata utile? Era rimasta così sorpresa nel vederli in quel posto che non le era venuto in mente di domandare nulla. E poi il capitano la intimidiva un poco. Il giorno che si erano conosciuti, l’uomo aveva un’espressione quasi minacciosa ed era stato piuttosto secco con le domande. Per qualche motivo, però, Ellen pensava che dovesse trattarsi di una facciata. Il capitano non era probabilmente quello che sembrava. Aveva già conosciuto uomini di quel tipo; avari di parole e con l’aria da duri, nel cui cuore albergava però l’insicurezza. Non aveva ancora trovato nulla. Non che nutrisse molte speranze. Un secondo esemplare di quell’erba avrebbe rappresentato una vera fortuna. Era anche ritornata nel luogo in cui aveva trovato la scariola, col timore di non trovarne traccia. Invece stava là, piccola erba che si godeva il sole di fine estate. Ellen si era portata la sua macchina fotografica per scattare qualche foto da mostrare a quel professore, nel caso fosse riuscita a rintracciarlo (non sapeva ancora come, ma sperava in qualche idea improvvisa). Quindi aveva girato in tondo per alcune centinaia di metri scrutando il terreno, inutilmente. Sentì parlottare dietro al costone. I due uomini in divisa sbucarono dal sentiero. “Eccoli di ritorno” pensò.


35 Stavolta non si sarebbe lasciata sfuggire l’opportunità di chiedere informazioni sul morto. Anche il capitano la vide mentre camminava con baldanza davanti a Salvatore che invece aveva rallentato di molto il passo. La donna sventolò una mano in segno di richiamo e si affrettò a raggiungerli. Quando fu vicina ai due, aveva il fiato corto per l’agitazione. Il capitano parlò per primo: «Ci rivediamo.» «Già. Avete fatto una buona passeggiata?» «Niente di che. E lei? Ha trovato quanto cercava?» «Ancora no. C’è una cosa che volevo chiederle.» «Sentiamo.» «Avete poi scoperto chi era quell’uomo? Il fatto di averlo incontrato prima che morisse me lo fa sentire meno sconosciuto di quanto non fosse.» «Non si trattava di lui.» «Che cosa vuole dire?» «Non era la stessa persona.» «Ma l’ho visto bene» replicò, mentre le guance le si accendevano. Il capitano notò il suo rossore. Gli piacevano le donne che arrossivano. «L’uomo era morto già da alcuni giorni, quindi non poteva essere quello che ha incontrato.» «Eppure ero sicura di averlo riconosciuto» balbettò la donna. «Salvo che non si trattasse di suo fratello gemello» ironizzò il carabiniere, pentendosi subito. Sul collo di Ellen apparvero due striature violacee. Era al massimo dell’imbarazzo. «Mi scusi, sono sicuro che fosse in buona fede. D’altra parte accade di prendere un abbaglio.» «Ci ho quasi sbattuto contro…» sottolineò lei. «C’era poca luce, però.» «Sono molto sorpresa e dispiaciuta. Ero convinta di aver visto giusto, tanto più che si trattava di un tipo particolare. Vi ho fatto perdere tempo.» Il capitano notò un guizzo nei muscoli delle braccia della donna. Sotto una maglietta chiara, la sua figura snella la faceva apparire quasi più alta di lui. Si diede del cretino per quella battuta sui fratelli gemelli. «Non si preoccupi, per noi è sempre meglio avere delle segnalazioni» disse infine. Ellen non rispose. Provava un sentimento di mortificazione per aver fatto la figura della visionaria. L’unica altra circostanza in cui aveva messo


36 piede in una caserma era stato alcuni anni prima, dopo l’omicidiosuicidio dei genitori. Allora i carabinieri l’avevano convocata per capire cosa fosse successo. Lei si era sentita, inspiegabilmente, come un pollo al mercato. Il capitano alzò il mento e arricciò il naso come se fiutasse. Sperava di avvertire almeno una leggera brezza, ma l’aria era ferma. Attorno l’erba dei prati era immobile, piatta come un lago. «Allora buona continuazione. Le auguro di trovare quello che cerca.» «A cercare, qualcosa si trova sempre» rispose Ellen con tono neutro. I due carabinieri si allontanarono e lei rimase ferma in piedi per qualche istante, poi riprese a camminare lentamente con espressione avvilita. Fece un largo giro spaziando con lo sguardo. Le avevano raccontato che in quella zona in certi periodi si potevano ammirare degli esemplari di aquila, ma a lei non era mai capitato di vederne né di sentirne i richiami. Tornò nel punto in cui viveva la sua piantina. Si mise seduta e ricominciò a osservarla. Rifletté sul fatto che le persone comuni non avrebbero visto alcuna bellezza in quella rosetta di foglie e fiori, nemmeno l’avrebbero notata. Per i più, tutto quanto cresceva per terra era solo erba. Cominciò a pensare a sua madre. Dal profondo, inaspettatamente, le erano risaliti sensi di colpa per stupidi battibecchi e piccole incomprensioni. Con suo padre andava più d’accordo. Stava spesso per proprio conto a leggere, oppure usciva e andava in riva al mare. Con lui era quasi impossibile litigare. Scacciò quei pensieri piluccando un grappolo d’uva che teneva nella borsa di tela. Poi, prima di andarsene, recise con le unghie un minuscolo pezzetto di quella sua erba speciale e se lo mise in bocca. Sì, il sapore era assolutamente identico a quello delle altre erbe di quella specie. Tutto corrispondeva. Nell’istante in cui decise di scendere a valle, da dietro ai monti vicini arrivò un rumore di tuono. Il cielo in quella direzione era diventato scuro e iniziarono ad arrivare folate di aria più fresca. Ovviamente lei sperava che non piovesse. Le piacevano i temporali ma temeva i fulmini che spesso si scaricavano su quei crinali. Prima saettavano nel cielo e poi toccavano terra con violenza, schiantando alberi e rocce. I repentini cambiamenti atmosferici erano frequenti in montagna. Il mattino quando era salita c’era un sole brillante, ma ora delle nuvole pesanti si spostavano nel cielo, pronte a versare torrenti di pioggia. Affrettò il passo. Un lampo rischiarò, a zig zag, il cielo. Ellen cominciò a correre. Si trovava nella stretta zona relativamente pianeggiante sotto la cima. Quando imboccò il sentiero in discesa rallentò il passo. Non voleva rischiare di rompersi una gamba. A un tratto venne quasi buio, poi un altro lampo illuminò per alcuni secondi la montagna. Continuando


37 a camminare, Ellen prese dalla sua borsa un k-way. Lo teneva sempre con sé per emergenze del genere. Le prime volte che si era recata in quei luoghi le era accaduto di tornare a casa bagnata fradicia. In un’occasione si era persino ammalata a causa del freddo. Col tempo era diventata previdente. Lo dispiegò e poi se lo infilò dalla testa, quindi alzò il cappuccio. Era di un vivace color rosso. Glielo aveva consigliato il commesso del negozio per articoli sportivi dove l’aveva comprato. “Se si perde, con questo addosso è molto più distinguibile” aveva precisato. Lei non era stata a spiegare che non si recava mai in luoghi remoti e che pertanto non temeva di perdersi. Lo prese invece perché quel colore le ricordava le ciliegie, frutti che adorava. Aveva percorso un buon tratto di sentiero quando iniziò a piovere; gocce grandi come i chicchi d’uva che aveva mangiato poco prima. Poi arrivò una grandine leggera. Il bosco era ormai a pochi passi. “Là sotto probabilmente è ancora asciutto” pensava. D’un tratto cadde all’indietro urtando il bacino contro un sasso sporgente. Trattenne a stento un grido. Sentì un dolore pulsante irradiarsi verso la coscia. Si trovava in mezzo a dei noccioli. Il terreno era cosparso di gusci di quel frutto, rosicchiati dai topi selvatici, completamente vuoti. Appoggiò le mani a terra e si rimise in piedi con una spinta di entrambe le braccia. Notò che in effetti dentro al bosco il terreno era quasi asciutto. Su che cosa era scivolata? Vide allora, dove aveva posato i piedi, un groviglio di lumache. Non le era mai accaduto di vederne così tante, appiccicate una all’altra si muovevano come percorse da spasimi, una palla scivolosa in mezzo al sentiero. La donna provò un senso di schifo. L’oscurità andava infittendosi a causa del cattivo tempo. Almeno avesse avuto una torcia! Qualche foglia cadde sospinta da un vento che era salito e ora sibilava fra i rami. Con la coda dell’occhio Ellen intravide qualcosa di scuro alla sua destra, in basso, dove alcune radici nodose sporgevano dal terreno. Il problema alla vista doveva esserle tornato. Strizzò gli occhi come le avevano insegnato; sembrava che in quel modo si potesse stimolare la circolazione sanguigna, e un maggior afflusso di sangue al globo oculare determinava una visione più nitida. L’espediente parve non servire. Aveva fatto solo una ventina di passi quando una seconda ombra le oscurò l’angolo destro dell’occhio. Fu allora che avvertì uno stupendo profumo di rose. Si fermò e si guardò intorno. Dov’erano i fiori? Ovviamente le rose non crescevano nei boschi; al massimo in quei posti s’incontravano dei cespugli di rose canine, bellissime ma completamente inodori. Lui era là, alla sua destra, chino come se stesse cercando qualcosa. Non vedeva il suo volto ma era certa che si trattasse dell’uomo incontrato


38 giorni prima, a motivo della tunica che indossava. Poi un tuono infranse il silenzio. Ellen si sentì sulla scena di un film del terrore; c’erano tutti gli ingredienti: il temporale, il bosco, la donna sola e l’uomo nero. Adesso la paura le impediva di sentire il dolore al fianco provocato dalla caduta. Teneva le gambe flesse come se stesse per spiccare un salto, consapevole di avere la postura di un lemure pronto a fuggire. Sentiva però anche un brivido di piacere, una curiosa sensazione di possedere una forte energia dentro alle ossa e nei muscoli. Lo sconosciuto alzò il capo e la guardò. Ellen aveva la voce alterata, quasi che a parlare fosse un’altra persona, quando gli chiese: «Ha perso qualcosa?» L’uomo tossì o forse bofonchiò qualche parola. «Ha bisogno di aiuto?» domandò Ellen, pensando di trovarsi di fronte a un povero disadattato senza un posto in cui vivere. Improvvisamente le era venuta l’idea che l’uomo vivesse dentro a quel bosco. Era la seconda volta che lo incontrava. Sapeva di extracomunitari che passavano la notte in fienili e stalle in disuso. Perlopiù si trattava di giovani in attesa di trovare un lavoro nel paese in cui erano entrati clandestinamente, ma a volte a dormire in ricoveri di fortuna erano anche donne e anziani. Saettò un lampo. Gli occhi dell’uomo brillarono per una frazione di secondo di una luce dorata. «Il disco» mormorò. Ellen stava riprendendo il controllo di sé. Quasi non provava paura. «Un disco? È questo che cerca?» L’uomo scrollò la testa ripetutamente. “È un idiota” pensò Ellen, mentre lo sconosciuto riprendeva a frugare fra le foglie cadute e la terra che iniziava a essere umida. Nella testa le si accavallarono una moltitudine di pensieri. I servizi sociali del comune, ecco con chi avrebbe potuto parlare. Avrebbe riferito che un uomo in stato confusionale vagava in quei boschi farfugliando cose senza senso. Che ci pensassero loro! «La fiamma, la fiamma» ripeté l’uomo, mezzo accovacciato per terra. «Torni a casa» disse lei con voce quasi implorante. L’uomo la guardò di nuovo e poi riprese a raspare il terreno. «Non ha un posto dove andare? Sta cominciando a piovere…» In quel momento uno scroscio cadde sul boschetto. Ellen si risistemò il cappuccio del k-way. Quando ebbe finito, lui era scomparso. Più a valle, il capitano Di Carmine e l’appuntato Guerrero avevano raggiunto l’auto di servizio. Pioveva da una decina di minuti. Dentro all’automobile faceva un caldo soffocante.


39 «È l’effetto serra» esordì l’appuntato. Il capitano parve non ascoltarlo. Fissava il sentiero da cui erano scesi. «Quella donna là sopra» disse infine. «Il temporale l’ha certamente sorpresa» aggiunse l’altro. «Dobbiamo tornare indietro per vedere se sta bene.» «Mi è sembrata una tipa tosta. Avrà impermeabile e ombrello, chi esce in montagna di solito è attrezzato per il brutto tempo» replicò l’appuntato; una stanchezza improvvisa l’aveva colto e l’idea di tornare indietro non lo allettava per nulla. Il capitano lo guardò torvo e disse: «Sal, non essere pigro.» L’appuntato sospirò. Quando il capitano lo chiamava con quel diminutivo non c’era nulla da fare, se non obbedire. Nel portaoggetti dello sportello dell’auto, ben piegato, il capitano teneva un impermeabile. Scuro, sembrava moltissimo a quello d’ordinanza; in realtà l’aveva trovato in un mercatino dell’usato dove andava a curiosare di tanto in tanto, la domenica, quando non aveva di meglio da fare. Mentre il capitano lo indossava, l’appuntato si calcò il berretto sulla testa e alzò il bavero della giacca. La pioggia era aumentata, e quando i due s’inoltrarono fra i bassi alberi del primo tratto di bosco l’erba era fradicia. L’appuntato pensava al pasticcio di carne che sua madre stava preparando. Gli piaceva mangiare e fortunatamente non ingrassava; in pratica faceva parte di quel ridotto numero di persone che potevano vivere senza sacrificare neanche un briciolo di piacere. Le fronde gocciolavano sui berretti e sulle spalle dei carabinieri. Il terreno cominciava a essere alquanto scivoloso. Il capitano appoggiò male un piede su di un sasso e per poco non cadde. Poi in mezzo al rumore della pioggia si sentirono dei tonfi. «Deve essere lei» disse l’appuntato continuando a pensare al pranzo che lo attendeva, desideroso che quell’escursione non prevista finisse presto. Una macchia rossa fu visibile poco lontano. La donna camminava con passo incerto. Il capitano pensò a quando, solo poche ore prima, risaliva il sentiero davanti a lui. Allora avanzava sicura, come la prua di una nave che fende l’acqua. Adesso si muoveva come un guscio di noce dentro a un catino. Doveva essersi stancata parecchio. «Fermiamoci, aspettiamola qui» ordinò. I due la attesero, fermi in piedi sotto un carpine. Il capitano guardandola indugiò in fantasie sessuali assurde di cui si vergognò. Da qualche tempo non usciva con nessuna. Era costantemente circondato da maschi, nel lavoro ma anche durante il tempo libero. Non aveva amicizie femminili, del resto non era certo che l’amicizia fra un uomo e una donna esistesse per davvero. Quella donna aveva un piglio che gli piaceva. Lo guardava


40 dritto negli occhi senza disagio. Per questo era tornato indietro a cercarla? Se si fosse trattato di una persona diversa, non importava se più giovane o più vecchia, forse avrebbe messo in moto e sarebbe rientrato in caserma con il suo buon Sal che non vedeva l’ora di tornarsene a casa da sua madre. La donna pareva assorta nei suoi pensieri, ma forse stava solo attenta a non scivolare sul terreno bagnato. Quando vide i due carabinieri si bloccò in una posa buffa, una gamba a mezz’aria. Si ricompose velocemente e camminando con passo cadenzato li raggiunse. «Volevamo essere sicuri che se la stesse cavando» disse il capitano. «Ah, in fondo si tratta solo di acqua. E poi conosco il sentiero alla perfezione» fece lei alzando lo sguardo verso le chiome degli alberi. Poi aggiunse: «Comunque grazie.» Il capitano notò un marcato pallore sul suo volto. «Perché mi sta fissando?» domandò Ellen di scatto. «Sembra che abbia visto un fantasma.» «Un fantasma» ripeté lei «può darsi.» «Che intende dire?» Ellen si strinse nelle spalle. «È meglio che ci affrettiamo» s’intromise l’appuntato. «Quando siete scesi, avete sentito del profumo?» «Profumo? No, non che ricordi. Perché?» «Bah, niente di importante. Solo che a un certo punto mi pareva di stare in un giardino fiorito.» «Una piacevole sensazione allora. E poi?» «Nulla» mentì lei, decisa a non riferire dell’incontro avuto. In realtà desiderava moltissimo condividere con qualcuno quello che le era appena accaduto, ma temendo di essere ridicola si morse la lingua. Il capitano pensò fosse bene cambiare argomento. «Dove ha lasciato la macchina?» «Lungo la strada, alla prima curva, nel punto in cui parte la stradicciola che porta alla casa in rovina e…» Ellen troncò il discorso. Improvvisamente le era venuta un’idea. “Ecco dove potrebbe vivere quell’uomo!” L’ultima volta che ci era stata (cercava una sorta di spinacio che lessato diventava ottimo) aveva visto come a sostenere le mura di sassi della vecchia casa fossero ormai solo delle robuste edere. Al piano terra, però, nella stanza in passato adibita a cucina, spiccava un pavimento stranamente pulito. Contro una parete ricordava di aver visto un focolare annerito con vecchie pentole di alluminio, di quelle che oramai non


41 usava più nessuno. Un barbone, ecco chi era quel tipo, e probabilmente si riparava dentro a quel rudere. I tre camminavano spediti in fila indiana. L’appuntato stava davanti, Ellen nel mezzo, il capitano per ultimo. Per qualche istante nessuno parlò. Il capitano aveva notato come la donna avesse troncato la conversazione. Temeva che le avrebbe appioppato una multa perché aveva parcheggiato davanti a una stradina, impedendo il passaggio a eventuali aventi diritto? Quel pensiero lo fece sorridere. Quando girava su quelle colline, spesso gli capitava di notare auto posteggiate in modo selvaggio o quantomeno discutibile; davanti a cancelli, lungo recinzioni (sicuramente a loro volta non autorizzate!) dietro alle case, accanto agli orti, a sicuro intralcio di residenti e contadini. Se non erano i proprietari a lamentarsi, lui non ci pensava proprio a fare delle contravvenzioni. Si trattava di piccole mancanze, peccati veniali che tutti, anche i cittadini modello, commettevano almeno una volta nella vita. Ellen, fra i due uomini si sentiva scortata. Non vedeva l’ora di arrivare alla sua auto e, veloce, metteva un piede davanti all’altro. Quando infine lasciarono il sentiero, tirò un silenzioso sospiro. Continuava a piovere ma si capiva che presto avrebbe smesso. Nel cielo intravide un arcobaleno che si dissolse all’istante. Quando i tre furono accanto alla gazzella dei carabinieri, il capitano disse: «Salga con noi, le diamo un passaggio fino alla macchina.» Ellen avrebbe preferito fare il resto della strada da sola. Magari se fosse cessata la pioggia, come il cielo faceva sperare, si sarebbe spinta fino alla casa diroccata. Non voleva però essere scortese. «Va bene, grazie» rispose con un mezzo sorriso. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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