Notturno

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Collana LaBlu Serie BIG‐C Grandi Caratteri

La serie Big‐C, Grandi Caratteri, grazie all’alta leggibilità del carattere utilizzato in stampa e alle sue dimensioni (generalmente 13 o 14), propone testi di agile lettura rivolti in particolare a lettori con problemi visivi (ipovedenti). Assieme a questo libro e fino a esaurimento scorte, viene dato in omaggio un audiolibro su CD (anche di diverso titolo) che permette in particolare a persone non vedenti o con problemi di dislessia, di ascoltare il racconto contenuto anziché leggerlo. Precisiamo che per i lettori con problemi di dislessia sono in commercio pubblicazioni a stampa realizzate con caratteri e accorgimenti particolari, che i libri della nostra serie non utilizzano. Tuttavia, il carattere


utilizzato nella serie Big‐C (Candara) si presta comunque molto bene allo scopo. La presente opera è stata realizzata SENZA alcun finanziamento o contributo statale, pubblico o privato, ma esclusivamente con il capitale della Casa Editrice. Gli audiolibri forniti, offerti in omaggio a scopo promozionale e realizzati in collaborazione con l’Associazione Servizi Culturali, sono narrati da non professionisti dalla voce chiara e gradevole. www.jukebook.it www.labandadelbook.it www.0111edizioni.com


VIOLA VICTOR

NOTTURNO

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www.0111edizioni.com www.labandadelbook.it NOTTURNO Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978‐88‐6307‐449‐9 In copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Luglio 2012 Stampato in Italia da Logo srl Borgoricco ‐ Padova


INTRODUZIONE Questo libro nasce da un sogno e da una Voce. Viola, una notte, sogna di svegliarsi e trovare vicino a sé un libro sconosciuto. Nel sogno lo legge: è una storia dal sapore notturno di un amore e di un mistero. Poi si sveglia, questa volta davvero. Ma non sa come raccontare la storia del libro sognato: ha il sapore dell’inquietudine ma non dell’urgenza, dunque aspetta. Una notte, sulla riva di un piccolo lago ‐ soltanto la luce di una antica abbazia in lontananza, sulle colline ‐ Viola ha sonno. Non dorme da due giorni, viene sorpresa dal malessere irreale dell’insonnia e cerca di tornare a casa. In quel momento sente una voce nella sua mente che le parla. No, non sta parlando, sta dettando. Sta dettando la storia che le aveva mandato in sogno tempo prima. Viola scrive nei momenti più insoliti, ogni volta che la Voce decide di parlare. È la voce di Viktor, voce che arriva dall’altitudine di una Torre, dalla lontananza sbiadita di un Faro.


Voce di stranezze puntigliose, capricciosa come un bambino a lungo dimenticato che abbia fatto amicizia con l’ombra. Dalla medesima ombra ha imparato la suggestione e l’indulgenza che dobbiamo alle nostre irrazionali manie. Ecco, dunque: Viktor non ama i numeri pari. È per assecondare un suo esplicito desiderio che i capitoli sono stati numerati soltanto con i numeri dispari.


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1 ‐ LA TORRE DELL’OROLOGIO La Torre dell’orologio è in assoluto il posto più buio della città. Sembra un controsenso, se ci troviamo nella grande piazza, l’unica di questo piccolo agglomerato di provincia, e alziamo gli occhi fino al maestoso orologio. Di fianco all’orologio si trova sempre la Luna. A volte da una parte, a volte dall’altra, altre volte sopra la guglia merlata delle lancette che le fanno concorrenza. La Luna e l’orologio sono i punti luce più importanti per chi vaga per queste strade di notte. E cioè: nessuno, se si esclude qualche ubriaco che ha paura di tornare a casa dalla moglie e dal suo mattarello inflessibile, con le paste frolle e i tortelli, così come con i mariti latitanti. Ma agli ubriachi non importa niente, né del quadrante luminoso bucato dalle lancette né della mutevole Luna. Quante cose hanno in comune: cambiano in continuazione. Guardi le lancette e poco dopo non sono


8 più dove le avevi viste. La Luna anche. Sembra un accordo segreto. Una sera me ne stavo seduto in cima all’orologio, sul lato più luminoso della torre, affiancato dal grande disco giallastro che proiettava, sulla superficie della terrazza su cui mi trovavo, ombre lunghe un po’ sbilenche che poi sparivano inghiottite dalla botola silenziosa. Dalla botola inizia la pancia della Torre, senza luce, tanto che la Luna stessa, per quanto ci provi, non riesce a entrare nelle viscere dell’edificio slanciato. Mi sembra incredibile, poter fare quello che a lei non riesce: io dalla botola esco e entro come voglio. Ci esco e ci entro per salire sulla terrazza e guardare, emerso dall’oscurità, il silenzio della città che dorme, dal punto più luminoso, con la compagna più luminosa che rimane, però, sempre fuori. Nonostante questo limite e anche per il fatto che non sia una persona ma un oggetto, essendo lontana e irraggiungibile, senza tenere conto della luce, considero come sia facile scrivere dei versi intitolati alla Luna. Molti poeti lo fanno e non è male essere poeta. Chissà quante persone possedevano cose degne di essere dette e anche belle e importanti, che sono sempre rimaste sconosciute perché nessuno ha trovato per loro le parole giuste.


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Un peccato, davvero. Dovrei provarci, a fare il poeta. D’altronde, è così facile scrivere versi alla Luna. Bella, immobile, lontana. Lei non sembrava essere d’accordo, però. Sembrava che non gliene importasse nulla, indifferente a tutte le parole che qualcuno potrebbe dedicare a lei e di conseguenza sprecare. Quando avrò scoperto le parole giuste per dire cose importanti magari diventerò ricco e famoso e me ne andrò da questa semplice cittadina di provincia, dove mi limito a essere il guardiano della Torre, oliare le sue imponenti lancette luminose e parlare alla Luna quando, la notte, arrivo fin quassù, anche se a lei non gliene importa niente. E perché altro dovrei trovarmi in un posto del genere in piena notte se non fossi il guardiano della Torre? Tutto sommato, non mi dispiace questo mestiere: è semplice e lascia molto tempo libero a disposizione. Tempo per cercare le parole occultate con cui dire le cose importanti che certamente prima o poi sgomiteranno per venire fuori. Nemmeno questa piccola cittadina di provincia è poi così male. È vero, siamo lontani dal grande movimento, dai fragorosi accadimenti del Secolo, dal Progresso e dalla vita fastosa dei divertimenti alla moda nelle grandi città. Che poi tanto grandi non sono, perché


10 vengono percorse da fasci nervosi, attenti, in cui scorrono senza posa viaggiatori e notizie che fanno della grande città una città un po’ più piccola e tutta uguale. Pare che sia il fenomeno della moda, che le distanze si accorcino. Ma allora, perché andare lontano, se poi si deve sprecare tanta fatica per avvicinare quello che prima si era allontanato? Lo posso anche capire, come no. Deve essere per via dello smarrimento di trovarsi in una grande metropoli. Uno non sa più cosa deve fare, è un formicaio senza regole. Così la spontaneità della legge che aggrega unisce ogni piccola formica dispersa ‐ che cosa è poi un uomo in un grande agglomerato disordinato se non una formica piena di smarrimento? ‐ facendone una formica cittadina in un formicaio rassicurante. Per questo penso che vivere in un posto così piccolo, con le lancette illuminate, la grande Luna sempre più vicina alla Torre e i mariti ubriachi che fingono di smarrirsi per le vie non è poi così male: qui accadono cose che non succedono dove tutti sanno cosa aspettarsi. Dovrei essere più chiaro, lo so. Non è un’idea immediata. Per questo dovrei essere poeta. Se lo fossi, avreste tutti capito subito a cosa stavo pensando. Ma non lo sono e dovrete accontentarvi di un resoconto sbilenco ‐ la Luna tracolla, si rovescia e trascina con sé le ombre ora oblique


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‐ e di suggestioni incomplete, delle quali sono molto rammaricato. Dunque tra gli stenti: sentite come le parole incespicano e si scontrano fra loro? E la confusione? Cercherò di essere più preciso. È solo in posti come questo, intendo dire, che una ragazzina e la sua camicia da notte infilata nelle pieghe dei vestiti possono arrampicarsi fino alla cima della Torre dal ventre scuro della magra balena cittadina. Naturalmente mi sono molto stupito, quando emergendo dalla botola a fatica, sollevandosi facendo forza con le braccia esili, ha esclamato ad alta voce: «Com’è buio qui!» Mi ha chiesto perché sorridevo. Nemmeno con i sorrisi riesco a dire quello che vorrei, come posso avere l’ambizione di essere poeta? Il mio sorriso dall’incisivo sinistro spezzato voleva dire alla ragazzina che ero molto felice di non essere più il solo a sapere questo segreto. Felice che l’avesse notato anche lei, chiunque fosse. «Da giù» aveva spiegato lisciandosi l’abito stropicciato da cui pendeva un lembo della camicia da notte rimasta sotto agli abiti indossati di fretta «sembra un posto luminosissimo. Invece quando arrivi qui c’è solo buio. Che delusione!» Il mio sorriso si spense, nascondendo l’incisivo spezzato insieme con quello sano. Mi stupii del fatto che si potesse


12 dedurre dall’evidenza sotto gli occhi di entrambi che quel posto ‐ il posto più luminoso da fuori e più buio da dentro ‐ potesse essere deludente e non magnifico. «Io lo trovo magnifico» puntualizzai. «Non te la prendere. Non volevo offenderti, mi dispiace. Tu vivi qui? Come fai a sopportare di essere così al buio? Quando non c’è la Luna come fai?» Non avendo chiari ricordi di nottate senza Luna, alzai le spalle con indifferenza, sperando capisse che era un problema secondario, se non completamente irrilevante e accettai un biscotto che mi offriva estraendolo da un fazzoletto che teneva in una piccola sacca. Venne a sedersi vicino a me sul grande gradino rialzato del bordo, cercando di ammirare la città per trovarne il fascino, ma non ci riuscì. «Pensavo meglio» confermò masticando il biscotto allo zenzero che aveva estratto per sé e abbassando l’orlo della gonna che si era alzato fino quasi al ginocchio durante le operazioni di risalita del gradino e di ricerca di una posizione abbastanza comoda. Mi voltai dall’altra parte, perché non pensasse che le stessi guardando le caviglie, che in effetti ebbi modo di ammirare durante la sua iniziale distrazione. Mi vergognai un poco: avevo approfittato della sua noncuranza per bearmi dell’immagine che la luce della Luna mi offriva delle sue


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caviglie, delle quali lei sembrava essersi completamente dimenticata. Mi parevano bianche e sottili, all’estremità i suoi piedi piccoli e aggraziati. Ma non volevo fare cattiva impressione, così non li guardai più per quasi tutta la serata. Sarebbe diventata una bella ragazza, quando sarebbe stata più grande. Il visino ovale e i capelli nerissimi mi piacquero quasi quanto i piedi e le caviglie sottili, ma del viso sembrava non dimenticarsi mai, forse perché è lì che si trovavano gli occhi e dietro gli occhi sembrava esserci qualcuno. Lei, di certo, che non dimenticava mai di trovarsi lì ma si scordava delle sue caviglie con una facilità impressionante. Lei era lì, notai. Dietro gli occhi, voglio dire, non sulla torre. Sarebbe rimasta lì in qualunque posto si fosse trovata. Mi chiesi quanti anni avesse con esattezza. «Dodici» disse lei, non ricordo a che riguardo, anche perché non mi sembra di averglielo espressamente domandato. Che stia diventando un poeta? Talmente poeta da comunicare senza nemmeno una parola? Ma allora che poeta è, uno che non usa le parole e se le usa non le ricorda? Non saprei proprio. Fatto sta che aveva dodici anni. Non mi chiese quanti ne avessi io, nemmeno in quel modo lacunoso con cui lei mi aveva detto dodici. Non sono nemmeno sicuro si parlasse


14 della sua età, ma credo di sì. Le certezze, signore e signori, sono pochissime, ma ce le faremo bastare. La Torre, l’orologio. La Luna, la ragazzina con la camicia da notte impigliata negli abiti che vigila dietro due occhi neri neri che nascondono di certo lei. Chi altri, se no? E io che credo ancora non sia poi così difficile scrivere dei bei versi in una notte come questa. «Certo che lo è, sciocco che sei. Che cosa credi? Che basti starsene appollaiati su una torre e ululare come un segugio per sfornare dei bei versi? Che ingenuo! E invece ci vuole ben altro!» Cosa? Non me lo seppe spiegare, ma di sicuro ‐ di qualunque cosa si trattasse ‐ io non mostravo di possederla. Pazienza. «Comunque sono contenta di avere trovato qualcuno qui. Sarà meno noioso.» «Cosa?» «La mia fuga da casa.» «Ah, già. È per quello che indossi ancora la camicia da notte?» «Sì, cioè no. Voglio dire, è una prova, non la fuga vera e propria. Prima volevo vedere come sarebbe riuscita. Pensavo di ispezionare la Torre per accertarmi che fosse


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deserta, per avere un posto in cui nascondermi per un po’. Invece…» «Invece ci sono io.» «Già» ammise sospirando vagamente, come se la mia presenza ‐ legittima, s’intende ‐ fosse per lei l’ennesima delusione della sua vagheggiata prova per scappare di casa. «Ma sempre meglio di quello che avevo paura di trovare. Voglio dire, sembri piuttosto innocuo. Non mi sarai di intralcio.» Allora mi impettii. Per un moto d’orgoglio, è chiaro. Volevo sembrare più temibile anche se era certo che non correva rischi, cosa mai avrei potuto fare? Spingerla giù dalla torre? No di certo: sarebbe stato uno spettacolo orribile e probabilmente avrei dovuto raccoglierla io. Non solo. Che guardiano sarei se permettessi a qualunque sconosciuto di arrampicarsi sulla mia torre e per giunta buttarsi giù? Non è un parco dei divertimenti questo. «E cosa ti aspettavi di trovare? Cosa ti avrebbe fatto paura? Che ne so, pirati?» Mi squadrò da cima a fondo, ridendo sprezzante. Estrasse un altro biscotto che afferrai con entrambe le mani e iniziai a sgranocchiare. Forse era questo che mi rendeva così poco temibile, la mia debolezza per lo zenzero. Che ci


16 fosse del veleno e lei pretendesse alla guardia dell’orologio al posto mio? Da escludere. «Ma siamo mille miglia dal mare! Non ci sono i pirati, qui.» «E tu come lo sai? Se io fossi un pirata ‐ e chi ti dice che non lo sia? ‐ e volessi nascondermi, l’ultimo posto dove mi cercherebbero è proprio qui, mille miglia dal mare. Una grotta in una baia abbandonata è il primo posto dove mi verrebbero a cercare, se era quello a cui stavi pensando.» «E la nave? Dovresti abbandonarla, per venire qui. Un pirata non abbandona mai la sua nave.» Touché. La bimba sembrava saperne davvero molto più di me, sui pirati. «Diciamo malviventi. Una feroce banda di rapitori, per esempio, o ladri.» «Meglio i ladri o i rapitori?» «Peggio tutti e due! Che domande. Ma se proprio devo scegliere, i ladri direi. Con i rapitori sarei da capo. Chiederebbero un riscatto e mi riporterebbero a casa, così tutti i miei sforzi per scappare sarebbero vani. E con il riscatto, addio dote. Finirei in convento e pare che da lì sia impossibile scappare.» «Vuoi sposarti?» «No che non voglio, crapone! Se volessi sposarmi rimarrei a casa, perché fuggire? Non sei uno perspicace, eh?»


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Lei sì che era una capace di fare confusione. E non era nemmeno molto chiara: diceva le cose così, a metà. Con dei sottintesi per nulla comprensibili. Avevamo qualcosa in comune e questo mi piacque, anche se volendo dirla tutta avrei dovuto arrabbiarmi perché mi aveva dato del crapone. Ripresi a masticare il biscotto che avevo lasciato a metà, annuendo leggermente, così che immaginasse che qualunque cosa volesse intendere mi era chiara, anche se non lo era affatto. Forse avrei avuto un altro biscotto, non erano niente male. Lei si mosse per cambiare posizione, aggiustandosi l’abito nel quale, per quanti sforzi facesse, la camicia da notte bianca, leggera, non voleva saperne di entrare. Si guardò intorno e si alzò passeggiando avanti e indietro, gettando a intermittenza lo sguardo carbone dietro cui si era rifugiata verso le case buie. Forse si stava chiedendo dove fosse la sua. «Tu te ne stai sempre qui da solo? Si vede che non conosci la buona società, non hai un briciolo di educazione, né di tatto. Non mi hai nemmeno chiesto come mi chiamo e perché voglio scappare di casa. Non sei curioso?» No, non lo ero. Ma qualcosa nel suo tono di voce mi suggerì che avrei fatto meglio a farle quelle domande,


18 anche se era evidente che non me ne importava. Perché avrebbe dovuto? Si era arrampicata e da dietro gli occhi carbone mi offriva buoni biscotti. Non avrei forse potuto continuare a ammirare la città in silenzio come facevo ogni notte? «In effetti passo la maggior parte del tempo da solo. Se ti fa piacere, comunque, te lo chiederò. Come ti chiami? Perché vuoi scappare di casa?» Mi voltò le spalle indispettita, appoggiando i gomiti sul parapetto tra due merlature, al quale arrivava a mala pena. «Se non ti interessa, non ti annoierò con la mia storia.» Così non andava: dovevo cambiare strategia. Guardai il sacchetto dei biscotti penzolare dalla sua cintura. «Perdonami. Hai ragione. Sono sempre solo e a volte non so come comportarmi, ma mi interessa, davvero. Dimmi il tuo nome.» «Prima il tuo, sciocco. Ci si presenta a una fanciulla prima di chiederle come si chiama. Non sai proprio niente, tu.» La manina si avvicinò alla cintura con il sacchetto, che sistemò senza però dare l’impressione di volerne estrarre un altro dolce. Non mi rimaneva che sospirare e assecondarla. «Scusami. Te l’ho detto, non sono pratico. Io mi chiamo Viktor. Adesso posso sapere il tuo nome?»


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Il suo sguardo senza convinzione convinse nondimeno la sua bocca a emettere il suono Martina. Martina, pensai. Martina, Martina, Martina. Non devo dimenticarlo o si arrabbierà di nuovo. Martina. Il fatto è che i nomi sono la cosa più facile da dimenticare, per uno distratto come me. Riesco a ricordare bene solo ciò che non richiede uno sforzo. I profumi, per esempio, che ti entrano nelle narici come un rampicante impossibile da disinfestare. O i visi, che gli occhi percepiscono senza intenzione imprimendosi da sé. Martina: insieme con il nome non dimenticherò gli occhi carbone, il profumo e il sapore di zenzero dei tuoi biscotti, né le caviglie sottili, mi ripromisi. «Adesso vorrei tanto sapere perché hai deciso di scappare di casa.» «Non sono davvero scappata, però. È solo una prova, ricordi? Comunque lo farò presto. Solo, avrei bisogno di un posto dove stare. Non è raccomandabile per una fanciulla andare in giro la notte da sola.» «E allora come hai fatto a venire fin qua?» «Sei proprio impossibile! È ovvio che se scappi devi uscire di casa. Poi, però, devi trovare un posto sicuro dove stare,


20 non puoi andartene a zonzo. Un posto dove a nessuno verrebbe in mente di cercarti. Qui, per esempio.» «Se qualcuno scappasse da casa, questo è il primo posto dove cercherei.» «Perché ci vieni. Ma chi viene qui oltre a te?» «Martina.» «Va bene, ci rinuncio, sei davvero impossibile. Non hai un briciolo di logica. Nessuno oltre a noi due verrebbe qui a cercarmi e noi non costituiamo un pericolo, per la mia fuga. Naturalmente, tu non dovresti dirlo a nessuno. Ma tu dove abiti?» «Io abito nella Torre. Sono il guardiano dell’orologio, quindi è naturale avere un alloggio comodo per svolgere il mio lavoro. Oltretutto, ho il sonno leggero. Se qualcuno cercasse di salire mentre dormo me ne accorgerei.» «E poi cosa faresti? Di certo non gli metteresti paura. E poi chi vorrebbe salire qui sopra? Non c’è niente, nemmeno da rubare.» «Qualcuno che voglia fare uno scherzo, per esempio. Una volta è successo. Un giovinastro un po’ alticcio è arrivato fino agli ingranaggi per spostare le lancette. Lo trovava divertente. Il giorno dopo tutti sarebbero andati in confusione, se l’orologio non avesse avuto le lancette al posto giusto. Ma io vigilo perché siano sempre dove devono essere. Avrei potuto lasciarlo cadere negli


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ingranaggi, quando è scivolato, ma non volevo rogne. Quindi mi è anche toccato salvarlo: se non l’avessi afferrato al volo sarebbe morto dentro l’orologio.» «Davvero qualcuno ha cercato di manomettere le lancette dell’orologio? E tu l’hai salvato?» chiese visibilmente impressionata. «Sì, ma non è tutto. C’è anche gente che pensa sia una buona idea buttarsi dalla torre. Ora, io non dico in assoluto che non sia una buona idea buttarsi da una torre. Ma quando la torre è questa è un altro discorso. Insomma, non mi piace che la gente si butti dalla mia torre.» «E perché mai? E poi non è la tua torre. È la torre della città. Quindi è tanto tua come di chiunque voglia buttarsi di sotto.» Io avevo certamente ragione, quindi mi stupì il fatto che volesse averne anche lei e che per giunta ci riuscisse. «Però quando qualcuno sbaglia il lancio e rimane impigliato nelle lancette a chi tocca andare a recuperarlo? Te lo dico io, a chi tocca. A me. E quando chi salta abbastanza bene riesce a arrivare giù, a chi tocca pulire? A me. E non è affatto piacevole. Non si direbbe, ma mi impressiono facilmente. E poi non mi piace vedere cosa c’è dentro alle cose, perché di solito l’interno è meno


22 bello dell’esterno. E poi ho paura che certi meccanismi siano piuttosto irragionevoli. È come se, scoprendo come funzionano, smettessero di funzionare. A parte l’orologio, quello è un’altra storia. Non so se mi spiego.» «No, per nulla.» «Le automobili, per esempio. Hai presente quella bella diavoleria che si sono messi a sguinzagliare per le strade? Ne hai mai vista una all’interno?» «No, mai. Perché, tu sì?» «Sì. E ti assicuro che non può funzionare. È piena di cose, come tubi e scatole. Non puoi riempire un oggetto di tubi e scatole e pretendere che cammini da solo.» «Eppure…» «Già, un bel mistero, eh?» «No, se tu fossi abbastanza intelligente e istruito sapresti come fanno quei tubi a funzionare. Solo che non lo sei, quindi non lo puoi capire. E comunque, quando vedi una persona dall’interno, vuol dire che ha di sicuro smesso di funzionare, quindi non può farti paura.» «Non capisci. Il fatto è che anche gli altri, dentro, sono così e funzionano. Ma non si sa bene come. Se tutti smettessero di funzionare all’improvviso, che male ci sarebbe? Accade in continuazione. Casi isolati, certo. Ma cosa impedisce che un bel giorno tutti smettano di funzionare contemporaneamente?»


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«Sei contorto e questo argomento non mi piace. Smettila, per favore.» Mi sa che avevo sbagliato di nuovo. «E comunque sia, adesso è tardi. Devo rientrare prima che si accorgano che non sono in camera» disse senza accennare un passo in direzione della botola. Io continuavo a rimanere seduto sul gradino di pietra a osservarla. Pensai volesse un segno di incoraggiamento, così feci cenno di sì con il capo, sforzandomi di assumere un’aria abbattuta. E un po’ lo ero, sapete, per via della cintura dalla quale i biscotti non si allontanavano. «E tu? Non dici niente. Io me ne vado e tu nulla? Certo che sei un bel tipo!» Ci risiamo. Che cosa ho scordato questa volta? Forse non avevo l’aria abbastanza abbattuta? Ripiegai in giù il labbro inferiore, per maggiore eloquenza, sperando potesse andare bene. Invece non andava bene per niente e lei si arrabbiò moltissimo. Si piazzò proprio davati a me, schiacciandomi con la sua enorme ombra e appoggiando con rabbia i pugni serrati sui fianchi. «Sei impossibile. Voglio dire, per prima cosa un gentiluomo si offrirebbe di accompagnare a casa una fanciulla sola nel pieno della notte. Ma a te non passa


24 neanche nel più remoto antro del tuo piccolo cervello, vero? E poi non hai più chiesto perché me ne voglio andare. È chiaro che te ne sei già dimenticato e non ti interessa. Non ci sono altre spiegazioni. E soprattutto…» Tutto d’un fiato, povera piccola, senza pause né esitazioni. Doveva avere una rabbia molto lineare in testa, beata lei. «E soprattutto non mi hai nemmeno chiesto se ritornerò.» Non capivo perché avrei dovuto chiederglielo. Poi le guardai i pugni serrati, la cintura. I biscotti. «Ritornerai?» «Non lo so. Forse sì forse no. E di sicuro non ritornerò per te.» Non vedevo perchè avrebbe dovuto. «E se proprio lo vuoi sapere, hai una pettinatura ridicola!» urlò precipitandosi verso la botola. Allora mi alzai di scatto, l’inseguii, riuscii ad afferrarle le spalle mentre i suoi piedini bianchi come la panna si immergevano trovando appoggio sui primi gradini scuri come caffè dentro la botola. Non l’afferrai con forza, ma appena le mie mani toccarono le sue spalle si fermò: sembrava proprio impietrita. Occhi carbone mi fissavano con un’espressione che non riuscivo a decifrare e non conoscevo. Nessuno mi aveva mai guardato così e io non sapevo cosa volesse dire.


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Forse si sarebbe arrabbiata di nuovo, ma che male c’era a tentare? Nella peggiore delle ipotesi, sarebbe stato come se non avessi provato. «Martina» dissi per mostrarle che il suo nome era un trofeo. «Martina. Ti sbagli. Non ho una pettinatura ridicola. E poi, posso avere ancora un biscotto, prima che tu vada?» Capii immediatamente di avere sbagliato e della grossa. Si accigliò terribilmente e strinse gli occhi costringendo montagne di carbone dietro due fessure impercettibili, che spreco! Ma con le mani tremanti di rabbia slacciò il sacco contenente il prezioso bottino e lo scaraventò a terra. Perché si era arrabbiata? Proprio non capivo. Se voleva tenersi i biscotti poteva dirlo. Che fosse una di quelle incomprensibili regole che conosce solo la buona società? Mentre mi chinavo a raccogliere la busta profumata di spezie lei e la sua rabbia infantile si erano già dissolte nel buio. “Ho la sua borsina” pensai. “Tornerà.” E sorrisi.


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3 – UNA PETTINATURA RIDICOLA Tornò la notte, ma di Martina comunque nessuna traccia. Forse era ancora arrabbiata con me per qualcosa di sbagliato che aveva detto. O forse era troppo rischioso scappare di nuovo. No, non scappare. Fare le prove generali, diciamo. Forse, invece, aveva un elenco di possibili rifugi da controllare (per via dei pirati o, meglio, dei ladri e dei rapitori) e non sarebbe tornata finché li avesse esaminati tutti. Forse la notte successiva la visita all’Orologio si era recata da qualche parte nel bosco, o nei sotterranei della chiesa. Oppure era salita su una diligenza e fuggita chissà dove. No, questo non era proprio possibile. Prima doveva tornare a prendere il suo saccheto dei biscotti. Non l’aveva forse lasciato lì apposta, per poter tornare? Io sentivo che era così. Ogni tanto il mio sguardo andava verso la botola, dalla quale mi aspettavo forse di veder uscire la sua nera capigliatura, ma non venne. Provai a inventare qualche verso, alla Luna, ricordate? Ma non mi venne in mente nulla. Così a un certo punto me ne andai a dormire, certo


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che mi sarei svegliato se avessi sentito dei passi lungo la scalinata. Trascorsero alcuni giorni, durante i quali i miei sguardi alla botola si affievolirono. Così, quando all’improvviso una notte la vidi sbucare dal quadrato scuro mi stupì quasi. «Ah, ancora qui! Ma non dormi mai?» chiese come se l’arrabbiatura della volta precedente non le fosse ancora passata. «Sei tornata» constatai. «È per via del sacchetto dei biscotti, immagino» suggerii deluso, certo che se lo sarebbe portato via. Forse però aveva anche questa volta qualcosa di buono da mangiare. Questa speranza non fu delusa affatto. «Ah, già. Il sacchetto. Dovrò ricordarmi di prenderlo» disse mentre, come la volta precedente, si avvicinava per sedersi vicino a me sul gradino. Di nuovo, sembrava essersi dimenticata delle sue caviglie. Però mi offrì, insieme alla visione di quelle, un pezzetto di torta alle mele, estratta da un involucro più capiente di quello che aveva abbandonato la volta precedente alla mia custodia. C’era un sapore particolare, in quella torta. «È diversa dalle altre torte. Ha un sapore più buono.»


28 «Deve essere per via della cannella. Ne ho messa un po’. L’ho fatta io, ti piace?» Annuii mentre addentavo felice il dolce che mi aveva offerto su un fazzoletto a quadretti. Dunque l’aveva preparata lei. «Sei molto brava con i dolci» commentai per dire qualcosa, che lei evidentemente sopravvalutò come un gran complimento. «Grazie. In effetti mi piace molto prepararli. Solo quelli, però. Cucinare non mi piace, mi piace solo fare i dolci. Tu vivi da solo?» «Sì, da solo.» «E sai cucinare?» «No. Mi arrangio, diciamo.» «E non hai una governante, nessuno?» «No. Vivo da solo. Non ho nessuno.» «Noi siamo tantissimi a casa. Ho quattro sorelle e un fratello e anche la zia abita con noi. La sorella più grande si è sposata, però, quindi ora siamo rimaste senza di lei. Fra poco si sposerà anche mio fratello. E le altre sono fidanzate. Io sono la più piccola.» «E sei fidanzata anche tu?» «No, cioè sì, ma contro la mia volontà.» «Non dispiace al tuo fidanzato che vuoi scappare?»


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«È ovvio che lui non lo sa, che voglio scappare. Non ti pare?» chiese con aria spazientita senza aspettare la risposta. «Anzi, è proprio per colpa sua che voglio andarmene.» Silenzio. Manina che fruga nel sacco profumato, svolge un’altra fetta di torta e me la porge, speranzosa. Inizio a capire come funziona. «Grazie. Perché dici che è colpa sua?» Martina si rasserena, vuole parlare, non aspetta altro. «È un’ingiustizia assoluta. Essere una donna fa schifo. Non puoi mai decidere nulla. Sono sempre i maschi che comandano. I miei genitori mi hanno fatta fidanzare senza nemmeno chiedermi un parere con un bell’imbusto stupido e arrogante, che non mi piace nemmeno un po’.» «Non puoi protestare?» «Certo che ho protestato! Ma non mi danno ascolto. È il figlio del banchiere, capisci? È ricco. Dicono che è un buon matrimonio. E poi possiede il podere vicino al nostro. Ma io non voglio sposarlo.» Il viso era un ovale infantile, le manine piccole piccole sfornavano doci speziati, gli occhi carbone erano grandi e belli, occhi sognatori, occhi di giochi. Anche i biscotti erano per lei un gioco. Persino la torta. Questo era chiaro. La fuga, un gioco.


30 «Non sei troppo piccola per sposarti?» «Ci sono un sacco di ragazze che si sposano alla mia età. Cosa credi? Che sia una bambina?» chiese offesissima. Non sapevo cosa rispondere, anche perché non sapevo se avesse dell’altra torta nella sacca, che avrebbe potuto richiudersi alla prima avvisaglia di una reazione sbagliata. «La mia amica si è sposata alla mia età e ha già un bambino» affermò decisa. «Ma tu non vuoi sposarti e avere un bambino.» «Cosa c’entra? Non farmi spazientire! Io non voglio sposarmi, ma potrei, se lo volessi. Potrei avere una famiglia mia, un marito, una casa.» Le sorrisi, immaginandola in una casa minuscola, quella delle bambole, con un marito adulto che è troppo grande per la casa stessa, con la testa che ha sfondato il tetto e le braccia e le gambe che escono dalle finestre, e lei piccola piccola, in una cucina giocattolo, sforna le sue buonissime torte, ma sono briciole per lui. «Non arrabbiarti. Io sono sincero con te. Sarai una donna bellissima. Davvero. Ma adesso devi ancora crescere un po’.» Arrossii perché il mio sguardo si era fermato sulla sua scollatura, confermando l’evidenza che le sue forme erano ancora completamente acerbe. Poteva un uomo trovarla desiderabile? A me faceva solo molta tenerezza.


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Ora, visto che è notte e abbiamo tempo, immaginiamo la scena. Io sono il prescelto, entro in chiesa elegantissimo, lei indossa un abito da sposa, giocattolo anche quello, s’intende, e andiamo all’altare. «Vuoi tu, eccera eccetera?» Certo che voglio, altrimenti perché sarei qui? Non mi piace far perdere tempo alla gente che lavora. Sono imbarazzato, tutti mi guardano. Non vedo l’ora di andarmene. Dopo la festa, un banchetto a base di dolci, solo dolci, andiamo a casa. La porto nella Torre dell’orologio e andiamo a letto. Cosa devo fare, adesso? Lei indossa la sua camicia da notte, quella che esce malamente dal vestito anche ora, mentre la immagino sposa e siede accanto a me pronta alla fuga. La abbraccio, le do un bacio leggero sulle labbra, che è già troppo. Infatti lei arrossisce. E tenendola fra le braccia come una bambolina le racconto una storia per farla addormentare. Questo dovrebbe essere il suo matrimonio. Non con me, intendo. Ma credo che il figlio del banchiere non apprezzerebbe la sua bellezza prematura, non si accontenterebbe del suo sonno. La assalirebbe come un lupo cattivo, quello delle favole. Questa, però, non finisce bene. Fine anteprima. CONTINUA...


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