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VINCENZO PADOVANO
OLTRE OGNI EVIDENZA
ZeroUnoUndici Edizioni
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OLTRE OGNI EVIDENZA Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-277-5 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Febbraio 2019 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
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DICEMBRE 1
Il dottor Michele Colizzi parcheggiò lungo il marciapiede antistante al liceo scientifico che anche lui aveva frequentato quando era ancora un ragazzo alto e allampanato ma con le idee già ben chiare riguardo a cosa fare della propria vita. Dopo un sospiro, spense il motore. «Quanti ricordi!» esclamò guardando l’edificio scolastico, una struttura bigia e triste come solo le scuole sanno essere. Sua figlia Naomi, seduta accanto a lui, si gonfiò le guance e sbuffò. «Papino, ti rendi conto che lo dici ogni volta che mi accompagni?». Michele la guardò, sorridendole e costatando per la milionesima volta quanto fosse bella. In pensiero, ringraziò il cielo che la ragazza somigliasse più a sua madre che a lui. «No. A quanto pare non me ne rendo conto, altrimenti non lo ripeterei tutte le volte» rispose. «Ehi, forse devi cominciare ad abituarti all’idea di avere un padre sulla via della demenza senile». Naomi rise. «Non preoccuparti, mi sono rassegnata da tempo ad avere tra i piedi due vecchi rincitrulliti» scherzò. Poi chiese: «Demenza senile o meno, ti sembra giusta una cosa del genere?». Michele inarcò un sopracciglio. «A cosa ti riferisci?». Sua figlia gli puntò contro il dito indice della mano destra. «Ti sembra giusto che io debba essere costretta a rinchiudermi là dentro per cinque ore, mentre tu e la mamma ve ne andrete in giro per negozi?». Michele si pizzicò il mento, fingendo di rifletterci. «No» rispose alla fine. «Non mi sembra giusto per niente. Ma chi ti ha detto che la vita è giusta? A te sembra giusto avere tutti i pomeriggi liberi, mentre io me ne sto chiuso in una sala operatoria a squartare persone solo per permettere a te di dilapidare una fortuna in scarpe, vestiti e borsette?».
4 «Bleah» fece Naomi, storcendo gli occhi e la bocca in una buffa espressione di disgusto. «Non appena torno a casa, lo dico a mamma che hai descritto il tuo lavoro in termini di squartamenti. Vedrai quante te ne dirà. Lo sai che vuole che faccia medicina, all’università. Non sarà per niente contenta quando verrà a sapere che hai cercato di farmi schifare la professione». Michele scosse il capo, sorridendo. «Schifare?». «Hai capito bene, caro il mio vecchio demente senile». Michele chiuse un occhio in quello che credeva essere uno sguardo indagatore. «Hai per caso intenzione di ricattarmi? Ti ricordo che tuo padre ha operato il boss di uno dei principali clan della provincia, salvandogli la vita. Non mi sembra opportuno ricattare un uomo che può vantare un simile credito». Il volto di Naomi si accese. «Se vuoi che tenga la bocca chiusa, portami lontano di qui. Subito». Michele ridacchiò. «Lo sai che non posso. Tua madre mi ammazzerebbe. Pertanto, per me è più conveniente che mi sgridi per averti illuminato su quello che realmente accade durante un’operazione a cuore aperto. Ti pare?». «E allora convincila almeno a comprarmi quel telefonino con gli strass per Natale. Non credere che non sappia che stamattina avete intenzione di comprare i regali». «Telefonino con gli strass! Ma che roba è?». Naomi agitò una mano. «Lo sa mamma. Tu convincila e basta». Fece una pausa. «Convincila, e io non dirò che mi hai dato un’immagine disgustosa del lavoro del chirurgo». «Affare fatto» si accordò Michele. Poi Naomi si protese verso di lui e gli stampò un bacio su una guancia. «Sei il papino più bravo del mondo» cinguettò. «E tu sei la figlia più manipolatrice dell’universo» ribatté lui. Quindi Naomi aprì la portiera e uscì. Rimettendo in moto, Michele la vide confondersi fra la moltitudine di adolescenti che si attardavano davanti al cancello della scuola, in attesa dell’inevitabile campanella d’ingresso. E fu assalito da altri agrodolci ricordi.
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Rientrato in casa, Michele trovò sua moglie Elisabetta in soggiorno, ancora in pigiama, intenta a guardare l’albero di Natale che aveva finito di allestire il giorno prima. «Che fai?». «Qualche altra lampadina e qualche altra pallina e sarebbe perfetto» meditò lei, senza voltarsi. «A me sembra perfetto così» replicò lui. Elisabetta si girò. A quarantacinque anni era ancora più bella di quando ne aveva venti di meno, aveva appena cominciato a insegnare e aveva accettato di fidanzarsi con uno spilungone dall’andatura sgraziata specializzando in cardiochirurgia. «Ti ho mai detto che sei tirchio?» gli chiese. Michele le si avvicinò, le mise le mani sui fianchi e l’attirò a sé. «Solo qualche miliardo di volte» le rispose, baciandola sulle labbra. «Lo sai che essere tirchi è una cosa brutta?» rilanciò Elisabetta. «Qualcuno dice che sia addirittura una malattia». Michele la baciò di nuovo. «La mia non è tirchieria. È solo buon senso. Perché spendere soldi per comprare altri addobbi per un abete finto che non riesce a reggere nemmeno quelli che ha già addosso? Non sarebbe meglio investire in panettoni farciti?». Elisabetta si divincolò. «Tirchio e mangione» disse. «E meno male che sei alto e hai un metabolismo veloce, altrimenti saresti pure un grassone». Michele le cinse la vita e la tirò di nuovo, facendola aderire al proprio corpo. «Se fossi ciccione, mi lasceresti?». «Immediatamente» disse Elisabetta. «Ho una soglia di tolleranza tarata su due difetti, non uno di più». Michele cominciò a mordicchiarle il lobo di un orecchio, facendola ridacchiare. «A prescindere dal numero di pregi?» le chiese. «A prescindere dal numero di pregi» confermò lei. Michele rise, liberandola.
6 «Allora, che ne facciamo di questa bella mattina invernale, cara professoressa Di Candia?». Elisabetta tornò a girarsi verso l’albero. «Se non ci fossi tu fra i piedi, farei quello che sempre faccio durante le mie giornate libere». «E sarebbe?». «Mi incontro con il mio amante. È naturale». «Nel nostro letto?». «Anche». «È bravo?». «Bravissimo». «Più di me?». «Non ci sono paragoni». «Ce l’ha…?». «Hai presente cosa cucina mia madre per capodanno?». «Il capitone?». Elisabetta annuì solennemente. «Ebbene, sì». Michele la prese per un braccio e la fece voltare. «Ma visto che ci sono io, cosa si fa?». «Come prima cosa, negozio di elettronica. Naomi vuole un cellulare pacchiano. Considerando che è migliorata moltissimo in matematica, credo proprio che se lo meriti. Poi vestiti, vestiti e ancora vestiti». Michele protese il labbro inferiore. «E per questo povero dottorino non sono previste ricompense se scorrazza la regina per la città, quando invece vorrebbe godersi il giorno di riposo stravaccato sulla sua poltrona preferita?». Elisabetta gli lanciò uno sguardo lascivo. «Se questo povero dottorino la accompagna per negozi senza lamentarsi a ogni piè sospinto e, soprattutto, senza metterle fretta, allora, forse, la regina potrebbe prendere in considerazione l’idea di rincasare un’oretta prima che la principessa esca da scuola e...». Michele alzò le braccia al soffitto. «E vai! Sesso coniugale!» esultò. Poi cominciò a muoversi come preso dalla frenesia. «Dai, sbrighiamoci. Prima ti vesti e usciamo, prima rientriamo e ti svesti». Elisabetta scoppiò a ridere, facendo ondeggiare i suoi meravigliosi capelli biondi. «Ho appena finito di dirti che non devi mettermi fretta. Lo hai già dimenticato?». Michele cominciò a trascinarla.
7 «Certo che l’ho già dimenticato. Demenza senile. Anche Naomi se n’è accorta». Elisabetta rise ancora più forte e si lasciò portare fuori dal soggiorno. Chiese: «Che c’entra Naomi adesso?». «È una lunga storia» la liquidò lui. Poi, arrivati in camera da letto, la lasciò andare. «Dai, muoviti. Io ti aspetto sulla porta». Elisabetta sghignazzò, divertita. «Da bravo cagnolino?». «Da bravo cagnolino».
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«Là c’è un posto libero» proruppe Elisabetta, indicandogli uno spazio vuoto fra due automobili delimitato da linee blu. «Ma è a pagamento» obiettò lui. Elisabetta lo guardò di bieco. «Sarei tentata di scendere a quota un difetto» disse. Michele alzò gli occhi e mise la freccia a destra per presegnalare la manovra di parcheggio al conducente dell’auto che seguiva la BMW. Poco dopo, tirato il freno a mano e spento il motore, Michele vide Elisabetta estrarre qualche spicciolo dalla borsa. «Vedi come è generosa la tua regina?» fece lei. «Ti offre addirittura il posteggio». Michele le fece la linguaccia e prese in consegna le monete. «Le metto tutte?» chiese dopo averle contate. Elisabetta crollò il capo. «Sei terribile. Dico sul serio». E aprì la portiera per scendere. Michele la trattenne, mettendole una mano sulla spalla. «Non lo dico per risparmiare. È che vanno bene per quattro ore. Non eravamo d’accordo di rincasare prima del ritorno della principessa?». Elisabetta lo guardò divertita. «Noto che sei preoccupato per la tua ricompensa». Michele annuì con veemenza. «Altroché. E non solo io. Anche Michelino è sulle spine» disse, abbassando lo sguardo in maniera allusiva. Elisabetta scoppiò a ridere e uscì dall’abitacolo. Michele fece lo stesso un attimo più tardi. Subito cominciò a guardarsi intorno, chiedendosi se anche gli altri automobilisti residenti in quella città avessero bisogno di farlo ogni volta per individuare il parchimetro più vicino. A un certo punto si mise teatralmente una mano sulla fronte come per ripararsi dal sole e scrutare meglio l’orizzonte. «Tu lo vedi?» chiese avvicinandosi a Elisabetta. Poi aggiunse: «Ti sembra normale che una persona, oltre a pagare, debba pure fare questo sport tutte le sante volte?». Sua moglie gli prese il mento fra due dita e gli orientò il capo in direzione di una colonnina che distava al massimo un metro e mezzo.
9 «Ah, non ci avevo fatto caso» disse lui. «Deve essere perché non ho mai avuto la fortuna di fermarmi così vicino». Elisabetta aprì le braccia. «Chi me lo doveva dire che avrei sposato un soggetto del genere?» si lagnò, scherzando. Michele infilò le monete nell’apposita fessura, ritirò il biglietto e, dopo aver sbloccato le portiere del SUV che aveva chiuso in previsione di un lungo tragitto, lo posizionò dietro al parabrezza, sul cruscotto. Quindi richiuse la macchina e sorrise a sua moglie. «Andiamo?». Elisabetta lo prese sottobraccio e, insieme, imboccarono un vicoletto che sfociava nel corso principale della città, ovverosia in una strada non tanto lunga, situata in piena zona pedonale e fiancheggiata da palazzoni stracolmi di studi professionali ai piani alti e di esercizi commerciali ai pianterreni. «Ma questa gente non ce l’ha un lavoro?» chiese Michele, vedendo le persone che già affollavano i marciapiedi a quell’ora di mattina. Elisabetta gli tirò il braccio al quale era aggrappata. «Ricordi quello che ho detto sul non lamentarsi?». «Non mi sono lamentato. Ho fatto una costatazione. Però, va bene. Sto zitto. Se prima non ti ho promesso di farlo, lo faccio adesso. D’ora in poi non mi sentirai più pronunciare una parola che non sia di ammirazione per i vestiti che comprerai». «Ah, ah» simulò una risata Elisabetta. Poi si sganciò da lui all’improvviso. Come attirata da una calamita, puntò verso una vetrina dietro la quale manichini muliebri senza volto, alcuni seduti su sgabelli rotondi altri in piedi, sfoggiavano capi d’abbigliamento e accessori all’ultima moda, mentre sulle loro teste pendevano strisce led natalizie. Michele le si accodò alzando gli occhi al cielo. «Prima stazione» disse con voce salmodiante. Elisabetta si voltò per fulminarlo con lo sguardo. Michele si chiese se si fosse urtata per davvero e alzò le mani. «Scusa. Scusa. Mi cucio la bocca». «Ecco, bravo» disse Elisabetta, e tornò a studiare la vetrina. Michele trasse un profondo respiro, accorgendosi quanto fosse fredda l’aria. Il Gargano era già imbiancato e si diceva che entro il venticinque sarebbe nevicato anche in pianura. Michele lo sperava tanto. Pur avendo studiato in città (liceo, università e specializzazione), vi si era trasferito solo a seguito del matrimonio; ma era nato in montagna, e aveva un po' di nostalgia dei bianchi Natali della sua infanzia. Elisabetta lo riscosse dai suoi pensieri, prendendolo di nuovo sottobraccio. «Vieni, andiamo. Le novità di quest’anno fanno tutte pena» sostenne.
10 Prima di farsi trascinare via, Michele diede un’occhiata a un manichino che indossava un cappotto molto simile a quello di Elisabetta. Avrebbe voluto far notare la cosa a sua moglie. Bramando la ricompensa che gli era stata promessa, decise di tenere la lingua a freno.
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«Secondo te, quel giaccone è d’oro?». Elisabetta si era incantata davanti a un’altra vetrina e stava osservando proprio l’indumento a cui aveva appena fatto riferimento lui. Michele pensava spesso che se le donne avessero cominciato a ragionare come gli uomini, l’economia sarebbe colata a picco in un battibaleno. Lo pensò anche quella volta. «Quando la smetterai di borbottare?» gli chiese sua moglie. «Nessun borbottio» si difese lui. «Solo un’altra domanda legittima. E poi, per quale motivo voi donne vi sentite in obbligo di assurgere a paladine dei commercianti di vestiario, zittendo gli uomini che vi fanno notare che i prezzi sono esagerati?». «Io non ti ho zittito» disse Elisabetta distrattamente. «Oh, sì che lo hai fatto, mia cara». Elisabetta indicò la vetrina. «Qui dobbiamo entrare» decretò. «Non hai detto che le novità di quest’anno fanno pena?». «Queste fanno meno pena delle altre» sentenziò lei, e spinse la porta d’ingresso del negozio. Michele la seguì. «Seconda stazione» cantilenò. Dentro c’erano almeno venti gradi più di fuori, tanto che la commessa indossava una t-shirt a maniche corte che le aderiva al corpo come una seconda pelle, mettendole in evidenza il seno generoso. Michele apprezzò nel segreto dei suoi pensieri. «Ti devo cavare gli occhi?» gli bisbigliò Elisabetta, cominciando ad analizzare i vestiti esposti sullo stender più vicino all’entrata. «Perché, cosa ho fatto?». «La stai spogliando con gli occhi. Credi che non me ne sia accorta? Sarà al massimo un paio di anni più grande di Naomi. Porco!». «Ma che dici?». Fu allora che la commessa chiese loro se poteva essere d’aiuto. Michele le sorrise. «No, grazie. Gentilissima. Stiamo dando solo un’occhiata». Elisabetta gli rifilò una piccola gomitata.
12 «Ehi, ma che fai?» protestò lui «Porco» ripeté lei, sempre sottovoce per non farsi sentire né dalla commessa né dagli altri clienti. Quindi riprese a esaminare i vestiti come se nulla fosse. Michele borbottò qualcosa che capì solo lui. Poi Elisabetta cominciò a caricarlo dei capi che aveva intenzione di provare. Uscirono dal negozio dopo tre quarti d’ora, senza aver comprato nulla. L’escursione termica fu impressionante in maniera uguale e contraria a quella provata all’entrata. «Con questi sbalzi rischiamo un accidente. Faremmo meglio a tornarcene a casa e a metterci subito sotto le coperte» disse Michele, ammiccando. Elisabetta sorrise. «Ti piacerebbe, vero?». «A te no?». Elisabetta lo riprese sottobraccio. «Anche a me. Ma mi piace anche farti soffrire, quindi vedo nel nostro futuro almeno un’altra decina di negozi, oltre a quello di elettronica per il regalo a Naomi». «Non doveva essere il primo?» chiese Michele. «Fare progetti nella vita serve solo a vederli naufragare» replicò sua moglie, serafica. Si rimisero in cammino tra il vociare elettrizzato della gente e le musichette natalizie che promanavano dagli altoparlanti che l’amministrazione comunale faceva istallare ogni anno sui lampioni della zona, insieme a luminarie che rappresentavano perlopiù stelle comete, renne, babbi natale e angioletti. Dopo un po' Michele indicò alcuni piccoli chioschi di legno allineati uno a fianco all’altro nel bel mezzo della strada. Notò che vendevano prodotti tipici, dolciumi natalizi, libri di seconda mano e svariati tipologie di chincaglierie. «E quelli da dove spuntano?» domandò. «L’imitazione locale e malriuscita dei mercatini di Natale di una grande città» disse Elisabetta. «Suvvia, non essere cinica» la rimbrottò Michele. Elisabetta non replicò. «Andiamo a dare un’occhiata?» le propose lui. Elisabetta annuì. «Te lo concedo. Ma solo qualche minuto. Non voglio che il cellulare che vuole Naomi finisca. Anzi, dovevamo già averlo acquistato». Michele agitò una mano. «Chi vuoi che compri un cellulare con gli strass?». Elisabetta si fermò e lo guardò piegando la testa su una spalla.
13 «Da quando sei al corrente dei desideri di nostra figlia?». Michele sospirò in maniera teatrale. «Sono un padre attento, io. E poi dimentichi che sono stato il Santa Claus di Naomi almeno fino a quando ci ha creduto». «In che senso?» chiese Elisabetta, aggrottando la fronte. Michele alzò gli occhi al cielo. «Nel senso che ero io a comprarle i regali. Più Babbo di Natale di così!». «Diciamo che più che altro eri tu che mi accompagnavi a comprarle i regali» precisò Elisabetta. «E l’anno in cui ti sei andato a divertire negli Stati Uniti con i tuoi amici, ho provveduto da sola. Lo hai dimenticato?». Michele tirò fuori la mano sinistra dalla tasca del giaccone e cominciò ad agitare il pollice. «Primo: non mi sono andato a divertire, ma sono stato a un convegno». Al pollice aggiunse l’indice. «Secondo: gli uomini con cui ci sono andato non erano miei amici, ma miei colleghi». Elisabetta si strinse nelle spalle. «Sarà» concesse. Ripresero a camminare. «A proposito di telefonini, come va quello nuovo?». La settimana prima Elisabetta aveva smarrito il suo Samsung. Michele era dell’avviso che le fosse caduto senza che lei se ne accorgesse dalla tasca del cappotto che indossava anche in quel momento. L’indumento aveva delle tasche piccolissime che ogni volta che lei si piegava, magari per entrare in auto, lasciavano fuoriuscire tutti gli oggetti che vi erano dentro. «Come quello di prima» rispose con noncuranza Elisabetta. «Perderai anche questo?». Elisabetta batté una mano sulla borsa che portava a tracolla. «Ora lo porto qua dentro» disse. E dopo una pausa aggiunse: «E poi, adesso lo tengo sempre collegato a Internet, con il GPS attivo e la funzione di geolocalizzazione accesa». «Brava» disse Michele, sebbene, dall’alto della sua ignoranza in fatto di tecnologie non mediche, fosse convinto che tutte quelle accortezze non sarebbero servite a ritrovare il cellulare se sua moglie lo avesse smarrito un’altra volta. Era certo che in quel caso altro non avrebbero potuto fare che ripetere la procedura da poco eseguita: denunciare lo smarrimento del dispositivo, far bloccare il codice IMEI e far disattivare la SIM per poter traslare il vecchio numero su una nuova scheda. Proprio in quel momento si fermarono davanti al primo chiosco della fila. Primo almeno per chi proveniva dalla loro direzione. All’interno c’era un uomo panciuto, baffuto e rubizzo, che indossava una camicia di flanella a quadri sotto a un paio di spesse bretelle che gli tenevano su un jeans
14 sformato e sbiadito. Sulla sua testa penzolavano caciocavalli e salumi vari. A Michele questi ultimi sembravano quello che erano, mentre i primi gli parevano cadaveri nudi e pallidi di obesi impiccati e non ancora rimossi dalla forca. Michele si chiese se a Naomi sarebbe piaciuta quell’immagine, o se magari le avrebbe fatto schifare i latticini di cui era tanto ghiotta. «Assaggiate, prego». L’unico grassone dentro il chiosco a non avere un cappio al collo indicò i piatti di plastica allineati sul bancone. Erano colmi di fette di salame e prosciutto e di pezzi di formaggio. «Assaggiare per credere». Elisabetta declinò l’offerta con un gesto della mano. Michele, invece, non se lo fece ripetere due volte e si avventò sulle cibarie, fino a vuotare uno dei piatti. «Se non glieli toglie da davanti, si spazzolerà anche gli altri» disse Elisabetta al commerciante, che scoppiò a ridere. «Non si preoccupi, signora. Avere appetito è buon segno». «Ben detto» fece Michele, la voce impastata per la bocca piena. Il venditore si fece comparire in mano un bicchiere di plastica. Con il capo accennò a una botte con tanto di piccolo rubinetto incorporato addossata alla parete di fondo della struttura. «Vuole anche un bicchiere di buon vino?». Michele guardò Elisabetta come un bambino che aspetta l’autorizzazione della madre per prendere una caramella da uno sconosciuto. «Posso?». «Non è un po' presto per bere alcolici, dottore?» gli chiese lei. «Il prossimo intervento ce l’ho dopodomani» cercò di farla ragionare lui. Elisabetta si strinse nelle spalle. «Uno solo però» gli concesse. Poi, rivolgendosi al proprietario del chiosco, aggiunse: «Mi raccomando con lei. Non gliene dia più di uno nemmeno se dovesse supplicarla in ginocchio. E tolga di mezzo quei piatti, se non vuole andare in fallimento». Detto questo, Elisabetta si voltò e cominciò ad allontanarsi. Michele ne approfittò. Con una mossa fulminea, prese un’altra fetta di salame e un altro pezzetto di caciocavallo e se li cacciò in bocca. Il venditore gli strizzò un occhio e gli mostrò il pollice. «Benfatto» bisbigliò. Michele si portò l’indice destro sulle labbra per intimargli di tacere. Quindi chiamò Elisabetta. «Cara, dove stai andando?». Elisabetta gli indicò uno degli ultimi chioschi.
15 «Laggiù. Sembra che abbiano delle belle pashmine». Michele deglutì. «Ehi, ma che diavolo è una pashmina?» domandò. Ma ormai Elisabetta non era più a portata di orecchio e non gli rispose. Con un sorriso a trentadue denti, Michele si rigirò quindi verso l’uomo che, dopo averlo stuzzicato con salumi e formaggi, si era offerto anche di dissetarlo. «Allora, veniamo a noi» disse. «Deve capire che mia moglie non voleva essere categorica quando ha parlato di un solo bicchiere. Credo pensasse più a due bicchieri, massimo due e mezzo». Il grassone scoppiò a ridere. Poi, all’improvviso, sgranò gli occhi e il salutare colorito del suo viso sbiadì in un grigiore cadaverico. Michele aveva visto succedere una cosa del genere solo in sala operatoria e solo a quei pazienti con forti emorragie. «Cosa…?». Fu allora che il brusio della folla a spasso per il corso crebbe d’intensità. E fu allora che Michele udì l’urlo belluino che gli fece ghiacciare il sangue nelle vene.
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«Allahu akbar!» gridò qualcuno alle sue spalle. Michele si voltò. A nemmeno dieci metri dal punto in cui si trovava lui, la gente aveva fatto il vuoto intorno a un uomo con il viso coperto da un passamontagna nero e all’adolescente urlante e terrorizzata che cingeva da dietro con il braccio sinistro. L’individuo berciò qualcos’altro in una lingua che Michele immaginò essere arabo. Poi alzò al cielo il braccio libero, come per mostrare a tutti gli astanti il coltello che stringeva nella mano guantata. Quindi urlò di nuovo e cominciò a pugnalare la ragazzina al collo. Fu così che la maggior parte delle persone che assistevano alla scena si riscosse. Molti cominciarono a strillare e correre in ogni direzione. Alcuni scapparono portandosi dietro buste e sportule; altri scapparono abbandonando a terra tutto quello che avevano in mano. Alcuni caddero e si rialzarono; altri caddero e fecero inciampare qualcun altro. Furono pochi quelli che rimasero immobili come Michele, inebetiti dal terrore. Nessuno si attivò per difendere la teenager, che al massimo poteva avere quattordici anni. Non un popolo di eroi, pensò in quel drammatico frangente Michele. Poi, chissà per quale motivo, si mise a contare le pugnalate. A quel punto, l’individuo con il volto coperto aveva già colpito la sua vittima per due volte, quindi Michele cominciò il suo conteggio da tre. Per fortuna, non dovette arrivare nemmeno a cinque. L’aggressore lasciò andare la poverina, che stramazzò faccia a terra, cominciando quasi subito a sussultare, mentre una pozza di sangue si allargava inesorabilmente sotto la parte superiore del suo corpo. Un attimo dopo, l’accoltellatore si mise a correre in direzione dei chioschi in fondo alla fila. Michele lo vide allontanarsi e si chiese per quale assurdo motivo non si sentisse sollevato. Dopo qualche istante pensò a Elisabetta, e una scarica di adrenalina lo svegliò dal torpore causatogli dalla cruenta aggressione che aveva visto svolgersi sotto i suoi occhi.
17 Sentì i muscoli tendersi e i sensi acuirsi. Guardò verso il negozietto che Elisabetta aveva detto di voler visitare e vide sua moglie correre verso di lui, mentre la maggior parte della gente fuggiva in direzione contraria. Poi vide anche l’uomo con il passamontagna piombare su di lei e immobilizzarla da dietro come aveva fatto con la ragazzina. Michele urlò con quanto fiato aveva in gola, ma non sentì alcun suono. Fu come se all’improvviso qualcuno avesse tolto l’audio al mondo. Poi il suo sguardo incontrò quello di Elisabetta, e il tempo parve rallentare come avviene nei film durante le scene più drammatiche. In quella frazione di secondo che sembrò durare un’eternità, Michele vide l’espressione di sua moglie virare dall’orrore all’incredulità e dall’incredulità alla rassegnazione. Quindi i suoni tornarono di botto così come erano scomparsi e il tempo ricominciò a scorrere alla solita velocità. L’uomo con il passamontagna cominciò a menare fendenti, affondando la lama del pugnale nel lato destro del bel collo lungo di Elisabetta. Una, due, tre, quattro, cinque volte. Il braccio dell’uomo si alzava e si abbassava implacabile. Sembrava un congegno meccanico creato all’unico scopo di perpetrare quell’orrore. Sei, sette, otto, nove, dieci volte. Il sangue di Elisabetta zampillava come nebulizzato da un irrigatore. Schizzava e imbrattava vittima e carnefice. Undici, dodici, tredici, quattordici, quindici volte. L’uomo perse la presa sul pugnale, che volò in aria e ricadde con un tintinnio sull’asfalto. Poi lasciò andare anche la sua seconda vittima. Elisabetta si afflosciò a terra e finalmente Michele si decise a scattare verso di lei. Quando la raggiunse, le si inginocchiò accanto. Si chiese cosa fare. Si chiese se fosse possibile che un medico dovesse chiedersi cosa fare. Il sangue, pensò poi. Bisognava bloccarne la fuoriuscita. Trattandosi di plurime ferite al collo con emorragia massiva, bisognava comprimere la carotide. Bisognava agire in fretta. A giudicare dal lago rosso sul quale Elisabetta giaceva, non ne avrebbe avuto ancora per molto. Michele le sbottonò il cappotto e le tolse il foulard. Il sangue di sua moglie gli schizzò sulle mani, sul volto, sui vestiti. Il battito c’era ancora ma era molto debole. Troppo. Tuttavia, fu per quello che vide che Michele intuì che sua moglie non ce l’avrebbe fatta. Le coltellate l’avevano quasi decapitata. Vene, arterie e tendini del collo le fuoriuscivano dalle ferite come cavetti tranciati. Era un miracolo che non fosse già morta. «Mio Dio. Mio Dio. Mio Dio» cominciò a disperarsi Michele con voce malferma.
18 Ciononostante, schiacciò il palmo di una mano nel punto esatto in cui andava schiacciato. Poi udì un bisbiglio. Senza smettere di esercitare pressione nell’illusione di fermare il fiume che si riversava fuori dal corpo di Elisabetta, alzò la testa e vide l’uomo con il passamontagna incombere su di lui, fradicio di sangue anch’egli, immobile come una statua, intento a osservare il risultato ultimo delle sue azioni. Michele lo guardò negli occhi con odio, e l’uomo tornò a bisbigliare con un accento straniero. Questa volta Michele capì quello che disse e non credette alle proprie orecchie. Come per dargliene conferma, l’attentatore ripeté: «Mi dispiace». Poi si voltò e scappò via. Michele lo seguì con lo sguardo e notò che nei paraggi non c’era più nessuno che avrebbe potuto fermarlo. Chi era caduto si era ormai rialzato ed era fuggito. Coloro che in un primo momento erano rimasti intontiti alla fine si erano destati ed erano scappati, o al massimo si erano rintanati nei negozi circostanti, i cui proprietari avevano poi abbassato le saracinesche. L’intera zona sembrava essere stata evacuata come dopo un allarme bomba. L’uomo con il passamontagna stava per infilarsi in una stradina perpendicolare al corso, quando riecheggiò uno sparo.
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L’accoltellatore girò su se stesso e cadde schiena a terra, sforbiciando le gambe all’aria. Fu come se di punto in bianco avesse deciso di fare una rovesciata senza pallone. Michele si chiese se si sarebbe rialzato. Lui non voleva che lo facesse. Sperava tanto che fosse morto. Quell’animale non meritava altro. Michele prese atto di non aver mai provato un odio più profondo verso qualcuno in tutta la sua vita. Passò qualche secondo, ma il terrorista (perché era così che andava definito a quel punto) non si mosse di un millimetro. Bene. Poi Michele notò un movimento dietro a un chiosco-edicola situato a quindici metri circa dal corpo dell’attentatore. Un uomo con un giubbotto di pelle, jeans e scarpe da ginnastica venne allo scoperto impugnando una pistola con due mani. Michele lo vide avanzare con prudenza, l’arma puntata sul bersaglio appena abbattuto. Quando fu a meno di mezzo metro dal corpo inerte del terrorista, lo sconosciuto gli esplose contro un altro colpo, centrandolo in pieno petto e provocandone un sussulto involontario. Con la vita di sua moglie che gli stava letteralmente scivolando fra le dita, Michele pensò che, negli anni di vedovanza che lo aspettavano, richiamare alla memoria ciò a cui aveva appena assistito gli sarebbe stato di grande aiuto per lenire il dolore. Nello stesso momento vide lo sparatore accoccolarsi sul cadavere dell’attentatore e cercare conferme della sua morte tastandogli il collo. Fu allora che Elisabetta fu attraversata da un tremito. Michele tornò a guardarla proprio mentre lei spalancava gli occhi. «Elisabetta» le bisbigliò. Sua moglie non gli rispose. Lui sentì un groppo in gola e cominciò a piangere. Avvertì un’afflizione atroce e presagì che essa sarebbe peggiorata con il tempo, fino a raggiungere punte insostenibili. «Elisabetta» ripeté. Avrebbe voluto dirle qualcosa di più, ma si rese conto di non riuscire a trovare nessun argomento. Poiché sua moglie aveva perso una quantità impressionante di sangue, Michele si stupì quando lei lo afferrò per il bavero del cappotto e lo tirò a sé.
20 Michele la lasciò fare, prestando attenzione a non diminuire la pressione sul collo, anche se si trattava di uno sforzo vano. «Michele». La voce di Elisabetta era ridotta a un agghiacciante gorgoglio. Michele le accostò un orecchio alla bocca, chiedendosi come lei riuscisse ancora a parlare, dove trovasse la forza di farlo e per quale miracolo le pugnalate non le avessero reciso le corde vocali. Avrebbe voluto consigliarle di rimanere in silenzio, di non dissipare le ultime forze che le rimanevano, ma non disse nulla. Quelle erano di sicuro le ultime parole che sua moglie gli rivolgeva, e non c’era alcun motivo valido per non sentirle. «Dimmi, amore. Dimmi tutto. Ti sento». «Michele» ripeté Elisabetta. Poi fece una lunga pausa. «Aiutami». Michele si allontanò un tantino. Si produsse in un sorriso tirato, di quelli che si usano per allietare gli ultimi istanti di vita di un moribondo. «Sono qui per questo, amore. Sei in buone...». La voce gli si ruppe. Il sorriso di prima fu ingurgitato dal pianto e dal dolore. Sciorinando ancora una volta una forza inaspettata, Elisabetta tornò ad attirarlo a sé. Fu quasi brusca. Michele volle illudersi chiedendosi se per caso non avesse sopravvalutato l’emorragia. «Michele. Aiutami. Fallo per il bambino». A quel punto Michele non poté fare a meno di domandarsi se Elisabetta stesse delirando o se, cosa più probabile, la mancanza di irrorazione sanguigna al cervello non le stesse incasinando il linguaggio, inducendola a usare il maschile per riferirsi alla loro figliola. «Naomi starà bene. Non preoccuparti per lei, adesso». Elisabetta lo strattonò, come per rimproverarlo. «Il bambino» biascicò. «È dentro di me. Sono incinta, Michele. Aiutami». Poi ebbe un sussulto. Quindi rimase immobile. I suoi occhi vitrei comunicarono a Michele che l’amore della sua vita aveva concluso il proprio viaggio su questa terra. È morta, pensò Michele. Elisabetta non c’è più, si disse non riuscendo a capacitarsi. E cosa ancora più terribile, se alla fine non stava sragionando a causa dello shock e delle ferite, se ne era andata portandosi dietro una creaturina di cui non gli aveva mai parlato prima di allora. Forse voleva trovare il momento giusto, rifletté anche Michele. O forse voleva fargli una sorpresa, magari per Natale. La cosa certa era che affrontare una gravidanza a quell’età sarebbe stato per entrambi un’avventura entusiasmante, che li avrebbe riportati indietro nel tempo di sedici anni, tanti ne aveva Naomi adesso. E invece tutto è perduto, realizzò Michele.
21 La cosa gli parve da subito insostenibile. Nello stesso tempo raggiunse la certezza che per lui non ci sarebbe stata nessuna fase di Kubler-Ross di elaborazione del lutto. Anzi, ce ne sarebbe stata solo una, la quarta, quella della depressione, che non sarebbe mai passata e lo avrebbe consumato lentamente. In maniera del tutto estemporanea, il suo cervello gli suggerì una soluzione e lo convinse che fosse l’unica via percorribile. Il pugnale del terrorista giaceva a terra a qualche metro di distanza. Aveva un aspetto militare. La lama doveva essere lunga almeno una quindicina di centimetri. Michele si ritrovò a sperare che fosse ben affilata. Più era tagliente minore sarebbe stata la pressione che lui avrebbe dovuto esercitare per tagliarsi le vene dei polsi. E minore sarebbe stato il coraggio che ci sarebbe voluto per farlo. Almeno così la pensò lui in quei frangenti. Sempre inginocchiato sul corpo di sua moglie, visualizzò tutto quello che avrebbe dovuto fare per raggiungere Elisabetta dall’altra parte. Doveva muoversi in fretta, prima che l’anima di sua moglie volasse in Paradiso senza di lui. E tanto sempre che anime e Paradiso non fossero invenzioni per superare tragedie come quella. Guardò le spoglie mortali dell’unica donna che avesse mai amato in vita sua. Andremo insieme, le promise, sicuro che adesso lei fosse in grado di sentire i suoi pensieri. Fece per alzarsi. Ricadde in ginocchio quando sentì una presenza torreggiare su di lui. Alzò lo sguardo. L’uomo che aveva sparato al terrorista gli fece un cenno del capo. Aveva le braccia lungo il corpo, la pistola stretta nella mano destra. Michele si chiese quante probabilità avesse di sottrargli l’arma e di spararsi un colpo in testa. Poche, pensò dopo qualche attimo di riflessione. Molto poche. Lo sconosciuto sembrava parecchio sicuro di sé. A farlo apparire tale, contribuiva il fatto che fosse alto e robusto, che avesse uno sguardo tranquillo nonostante tutto quello che era accaduto, e che fosse appena riuscito a colpire un bersaglio in movimento da una quindicina di metri di distanza. Michele tornò a occhieggiare il coltello. «È morta, vero?» gli chiese l’uomo con la pistola. Michele annuì. «Sì. Morta. Dissanguata». Poi domandò: «Lei chi è?». «Ispettore capo Giulio De Monte. Squadra Mobile. Al momento sono fuori servizio. Ero a piedi in quella stradina quando ho sentito il trambusto. Mi
22 dispiace non aver potuto seccare quel bastardo prima. Mi dispiace molto. Ma dovevo avere una linea di tiro pulita». Michele scosse il capo in un gesto di desolazione. «Ormai è andata così. Comunque sia, credo che le daranno una medaglia. Ora lei è un eroe». Michele fu sorpreso di constatare come la sua voce non apparisse affatto quella di un aspirante suicida, e nemmeno quella di un uomo che aveva appena perso l’amata moglie. Il poliziotto sospirò. «Avrei voluto tanto finire la mattina senza diventarlo, mi creda». Michele si strinse nelle spalle, senza dir nulla. «Mi dispiace» ripeté l’ispettore. Michele alzò di nuovo la testa per guardarlo negli occhi. «Lo ha detto anche lui, sa?». Il poliziotto rabbrividì vistosamente. «Lui chi?». Michele indicò l’attentatore riverso al suolo. «Lui» disse. Poi tornò a concentrarsi sui suoi intenti suicidi. Con un poliziotto a mezzo metro di distanza, quante possibilità aveva di raggiungere il coltello del terrorista e di incidersi i polsi senza essere fermato? La riposta era la stessa di prima: poche. Molto poche. Tuttavia, decise di perseverare. Se non ci fosse riuscito in quel momento, ci avrebbe riprovato più tardi. Nel corso della giornata, se non lo avessero sottoposto a TSO dopo il tentativo che stava per perpetrare, si sarebbe di certo ritrovato solo con una lama a portata di mano. In quel momento forse Elisabetta sarebbe già stata in cielo e non avrebbero potuto fare insieme il viaggio di andata, ma lui l’avrebbe ritrovata e si sarebbero ricongiunti per l’eternità. «Era con qualcun altro?» gli chiese il poliziotto. Michele fece un cenno di diniego. «Con chi altri avrei dovuto essere? Mia figlia...». Di sicuro era stato a causa dello shock per quello che era accaduto, fatto sta che solo allora Michele realizzò che non poteva andarsene. Fu come se il suo cervello fosse andato in tilt per un paio di minuti, per poi rimettersi a funzionare in maniera corretta. I propositi suicidi evaporarono con la stessa subitaneità con la quale avevano cominciato ad ammorbargli i pensieri. Naomi: c’era ancora lei nella sua vita. Era per lei che doveva andare avanti. Non poteva renderla orfana di entrambi i genitori, come un maledetto incidente stradale aveva fatto con lui, portandogli via madre e padre in un
23 sol colpo. Era poco più che una bambina, anche se lei, a sedici anni, non sarebbe stata d’accordo. Aveva ancora bisogno di una guida. Tanto più adesso che aveva perso la madre. Pensando a sua figlia, Michele si ricordò dell’altra vittima del terrorista. Sempre rimanendo in ginocchio, si voltò verso il punto in cui giaceva la ragazzina accoltellata prima di Elisabetta. Michele fu sollevato nel constatare che il suo corpo si muoveva ancora. I sussulti dai quali era stata scossa dopo essere caduta faccia a terra erano passati, ma adesso la poverina sembrava cercare in tutti i modi di rigirarsi sulla schiena. Strattonò l’ispettore per i pantaloni. «La ragazza» disse, quasi in tono di rimprovero. «È ancora viva. Perché prima di avvicinarsi qui non è andato a dare un’occhiata a lei?». «Stanno arrivando i soccorsi» si giustificò il poliziotto, ma subito si avviò verso la giovane. Michele pensò che sarebbe dovuto andare anche lui. Era un medico e per quella poverina il suo intervento poteva fare la differenza fra la vita e la morte, mentre per Elisabetta ormai non c’era più nulla da fare. Un momento prima di rialzarsi, tornò a prestare attenzione al corpo di sua moglie. Amorevolmente, le chiuse gli occhi. Il gesto gli provocò un dolore sconquassante. «Riposa in pace, amore» le sussurrò. Un giorno ci rivedremo. Ne sono sicuro, le garantì in pensiero. Si sforzò di sorridere. Perciò non credere di esserti liberata di me così facilmente. «Ma ora devo andare, scusami» le bisbigliò. «C’è qualcuno che ha bisogno di un dottore».
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MAGGIO, GIORNO 1 7
Michele si girò sul fianco destro. Distesa accanto a lui sotto le coperte, Elisabetta gli sorrise, il volto illuminato dalla luce che filtrava tra le stecche della tapparella. La pelle bianca e levigata, gli occhi di un azzurro abbacinante, i biondi capelli vaporosi, sua moglie sembrava un angelo. Avendo temuto per tanto tempo di averla persa per sempre, nel rivederla Michele avvertì una gioia straripante, quasi dolorosa. «Sono felice che tu sia tornata» le disse. Lei batté un paio di volte le sue lunghe e folte ciglia. «Non me ne sono mai andata» ribatté. «Sono sempre stata qui con voi». «Prometti che non te ne andrai più?». Elisabetta tacque, continuando a sorridere. Contento oltre ogni immaginazione, Michele allungò un braccio per accarezzarle una guancia. Ma non appena la toccò, Elisabetta si dissolse come se fosse fatta di vapore. Pian piano, le coperte che la coprivano si sgonfiarono, andando ad appiattirsi sul materasso. Michele aprì gli occhi. La metà del letto alla sua destra era vuota come lo era stata negli ultimi mesi a partire da quel maledetto giorno di dicembre. L’unica lacrima che Michele versò dopo aver capito di aver sognato fu l’ennesima, infinitesimale manifestazione della devastazione che gli divorava l’anima. Come aveva previsto quel giorno inginocchiato accanto a sua moglie morente, fino ad allora per lui non c’era stata nessuna fase di negazione, tranne che a livello inconscio, come nel sogno appena svanito. E non c’erano nemmeno state le fasi di patteggiamento e di rabbia. Fino a quel momento, a lui era stata riservata solo una depressione nera e totalizzante, che lo faceva rimanere dell’avviso che non sarebbe mai approdato all’agognato stadio di accettazione che la Kubler-Ross vedeva come meta di un lutto ben elaborato. Con uno sforzo che gli apparve sovrumano, Michele si portò in posizione supina. In bocca aveva il sapore stomachevole del whisky scadente con cui si era ubriacato la sera prima. La superficie della lingua pareva essere fatta
25 di carta vetrata. Le orecchie gli ronzavano, la testa gli girava, lo stomaco era in subbuglio. «Ecco a voi il dottor Colizzi alle prese con il suo ennesimo hangover» bisbigliò temendo che Naomi potesse sentirlo dalla sua stanza. Poi, quando si rese conto dell’intensità della luce che la tapparella non completamente abbassata faceva entrare nella camera da letto, Michele si disse che in realtà sua figlia non avrebbe mai potuto sentirlo, neanche se si fosse messo a urlare. E tanto per il semplice motivo che a quell’ora doveva essere già a scuola. Come ogni mattina da quando aveva cominciato a bere forte, Michele si chiese se sarebbe riuscito a raggiungere la tazza del cesso prima di vomitare. I conati mattutini erano una vera incognita. Talvolta lo aggredivano appena si metteva seduto sul letto. Molto di rado gli facevano il favore di lasciarlo in pace fino a quando non entrava in bagno. Altre volte gli tendevano una specie di tranello, nel quale lui cascava sempre. In pratica, lo facevano illudere di averla scampata, per comparire solo dopo che aveva fatto colazione. Con un sospiro, Michele si tolse di dosso le coperte. Facendosi coraggio, mise i piedi sul pavimento e cominciò a muoverli alla ricerca delle pantofole, visto che nella sua condizione era poco consigliabile abbassare lo sguardo per cercarle con gli occhi. Non fece in tempo a trovarle. Mettendosi una mano sulla bocca, si alzò e cominciò a correre scalzo verso il bagno. Riuscì a inginocchiarsi davanti al water un attimo prima dell’eruzione. Con dei versi che avevano poco di umano, si liberò. Quella mattina, in via del tutto eccezionale, il liquido che rigettò aveva una colorazione rossastra. Poiché di sera non mangiava quasi mai, di solito il vomito del mattino era quasi sempre di natura biliare e quindi aveva un colore che variava dal giallino al verde. Colpa di quelle patatine alla paprika che mi sono sbafato ieri, pensò ora Michele, sperando nel contempo che invece l’insolita tonalità non fosse dovuta a un po' di sangue mescolatosi al contenuto gastrico. Sorreggendosi al termosifone alla sua sinistra, si rimise in piedi, ma non si allontanò dalla tazza. Quando ebbe la certezza che lo stomaco si fosse stabilizzato, si portò davanti al lavabo. Aprì il rubinetto e si lavò la faccia, evitando di fare movimenti passibili di scatenargli altri conati. Quando ebbe finito, interruppe il getto dell’acqua, prese un asciugamano dalla piantana alla sua destra e se lo tamponò sul viso. Quindi decise di specchiarsi. Quello che vide non gli piacque per niente. Aveva gli occhi cerchiati di nero, il viso scavato, l’incarnato pallido. Negli ultimi mesi aveva perso almeno dieci chili ed era ufficialmente diventato un alcolizzato. Un alcolizzato che ci andava pesante anche se beveva solo la sera o a pomeriggio inoltrato, quando
26 Naomi usciva di casa e lui poteva farlo in tutta tranquillità, dopo aver tirato fuori la bottiglia dal primo tiretto del guardaroba. La cosa più preoccupante, comunque, era la velocità con la quale stava scalando Monte Cirrotico. Ad andare così veloci si rischiava di non arrivare mai alla vetta. In breve tempo era passato dalla birra, al vino, ai superalcolici. Approdato a quota 40%, aveva aumentato la dose da un bicchiere da 20 cl a due bicchieri da 20 cl nel giro di una sola settimana. Era un po' che si manteneva stabile, ma da qualche giorno a quella parte aveva cominciato a pensare di aver bisogno di altri 10 cl giornalieri. Se avesse ceduto, considerando che ormai pesava sui settanta chili, dopo ogni bevuta si sarebbe ritrovato con un tasso alcolemico vicino ai 4 g/l. A quel punto sarebbe bastato un piccolo sgarro in eccesso per arrivare al coma etilico e, di lì, a qualcosa di più grave tipo una cassa in rovere verniciata in decapé. Inspirando a fondo, Michele aprì la mano destra e se la mise davanti agli occhi, dalla parte del dorso. Dopo qualche secondo, la girò dalla parte del palmo e rimase in osservazione per qualche altro istante. Forse era solo l’impressione, ma il tremito che l’affliggeva pareva peggiorato rispetto al giorno prima. Si chiese se una volta tornato in ospedale avrebbe potuto riprendere a operare. Subito dopo l’assassinio di Elisabetta aveva preso un lungo periodo di malattia. Non gli era stato difficile farsi diagnosticare un profondo stato depressivo da lutto. Quando il collega psichiatra al quale si era rivolto aveva cominciato a blaterare sulle capacità terapeutiche del lavoro, consigliandogli di tornare in corsia per superare la propria infelicità, Michele si era giocato la carta dell’aspettativa. Comunque fosse, prima o poi, se non voleva essere licenziato, sarebbe dovuto tornare agli Ospedali Riuniti, ma con tutta probabilità con quel tremore alle mani non lo avrebbero mai più fatto entrare in una sala operatoria. La cosa brutta era che non sarebbe stato sufficiente smettere di bere. Anzi, non sarebbe servito a nulla, visto che le sue mani da chirurgo, un tempo ferme come se fossero un oggetto inanimato, avevano cominciato a tremare nel corso della settimana successiva alla morte di Elisabetta, quando gli pareva di vivere in questura, comunque ben prima che decidesse di attaccarsi alla bottiglia. Chi se frega, si disse ora, abbassando il braccio. Spesso si chiedeva che senso avesse salvare la vita di altre persone, se non era stato in grado di impedire la morte di sua moglie. Quando era sobrio non si dava certo la colpa per quel che era successo a Elisabetta. Sapeva che non era stato lui a radicalizzare Mahmoud Al Salih, il siriano che aveva ucciso sua moglie e ferito una tredicenne che quel giorno aveva avuto l’insana idea di marinare la scuola. Era consapevole che non sarebbe riuscito a fermare in nessun modo l’emorragia massiva causata dalle coltellate al collo ricevute da Elisabetta. Ma quando beveva si vedeva come l’unico artefice della tragedia
27 che si era abbattuta su tutti loro: su di lui e su Naomi, ma anche sui genitori e sulla famiglia dell’unica sorella di sua moglie. E i pensieri illogici che faceva da ubriaco non se ne andavano fino a quando gli effetti dell’alcol non passavano completamente, e vale a dire fino a quando non era quasi arrivato il momento di bere di nuovo. Cominciando a commiserarsi come faceva ogni mattina dopo aver vomitato, Michele si chiese se tagliarsi la barba e farsi una doccia. Si guardò allo specchio, si annusò sotto le ascelle e giudicò che per quel giorno poteva risparmiarsi quelle rotture. «Ho ben altro da fare» disse alla sua immagine riflessa, ridendo per la disperazione e trasformandosi ai suoi stessi occhi in un pazzo da manicomio. «Devo andare di là, sedermi davanti al televisore e aspettare che Naomi rientri, prepari qualcosa da mangiare, si chiuda in camera ed esca di nuovo». Questo aveva da fare. Poi sarebbe stato di nuovo tempo di tirar fuori la sua medicina importata dal Tennessee.
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Tornato in camera, Michele prese il telefonino che giaceva sul comodino. Prima di andarsene in salotto, guardò il letto e valutò se rifarlo. Alla fine decise che quella era un’altra seccatura che poteva evitarsi. Elisabetta non avrebbe potuto rimproverarlo, e a Naomi non importava un fico secco se la casa andava in malora. Michele aveva paura che un giorno o l’altro sua figlia sarebbe scappata con qualcuno dei suoi nuovi amici. «Brutta gente» li aveva definiti Giulia, ex amica del cuore di Naomi, quando un giorno gli aveva telefonato in gran segreto, sostenendo di essere preoccupata per la compagnia con la quale Naomi se la faceva dopo aver litigato con lei. Un po' in imbarazzo, lui aveva ringraziato la ragazzina per la soffiata, assicurandole che avrebbe approfondito la questione con la diretta interessata. Ma poi non aveva fatto nulla. Crollando il capo, Michele si trascinò fino alla sua poltrona preferita e vi sprofondò dentro, gemendo come un vecchio artritico. Poggiò il telefonino sul bracciolo e prese il telecomando. Accese il televisore. Fece un po' di zapping. Dopo un po' si ritrovò davanti a un uomo pingue e pelato che, secondo la scritta sovrimpressa al suo pancione, era un esperto di fenomeni immigratori. Michele alzò il volume. L’uomo era seduto su uno sgabello, tra un politico e una criminologa. Stava sostenendo a gran voce che non si poteva fare di tutta l’erba un fascio: gli immigrati non erano tutti terroristi o delinquenti. Michele sentì il sangue salirgli alla testa. Prima che potesse lanciare il telecomando contro il televisore, cambiò canale. Ciononostante, cominciò a rimuginare sulle parole dell’esperto. Come poteva certa gente essere così ingenua? Come si poteva credere che fosse possibile distinguere coloro che di punto in bianco si sarebbero messi a massacrare malcapitati per strada da chi avrebbe sempre rispettato le leggi del Paese che li aveva accolti? Mahmoud Al Salih era un cazzo di avvocato trentacinquenne di Damasco, avrebbe voluto urlare Michele a quell’esperto e ad altri suoi simili. Era arrivato in Italia per scappare dal conflitto che insanguinava da anni la propria terra. Non era mai stato segnalato per terrorismo o per attività a esso correlate. Non era particolarmente religioso. Dal suo arrivo in Italia non
29 aveva più nemmeno frequentato una moschea né altri luoghi a rischio radicalizzazione. Anche se a lui e a sua moglie era stato negato lo status di rifugiati, entrambi avevano ottenuto il permesso di soggiorno per protezione sussidiaria. Cinque mesi prima, al momento dell’attentato, Mahmoud lavorava regolarmente come meccanico in un’officina Ford. Sua moglie faceva la casalinga e gli aveva dato un figlio appena una settimana prima che lui venisse abbattuto con due proiettili 9x19 mm Parabellum, dopo aver accoltellato una ragazzina e una madre di famiglia con pugnale militare EXTREMA RATIO dalla lama in acciaio inox al cobalto N690. Indagata anche lei ma poi scagionata, durante gli interrogatori, la moglie di Mahmoud aveva dipinto suo marito come un uomo che si dedicava a lei anima e corpo, tanto più da quando avevano scoperto la gravidanza. La mattina della strage, prima di raggiungere il luogo in cui si era scatenato, Mahmoud aveva accompagnato moglie e figlio dal pediatra, e aveva promesso alla donna che, andando al lavoro, avrebbe provveduto a fare la spesa. L’unico neo che gli inquirenti avevano trovato nella sua vita era la frequentazione con un altro siriano che tempo prima era stato dentro per spaccio di droga ma che, indagato anch’egli per concorso nell’attentato, era risultato pulito, tanto da non venire nemmeno rinviato a giudizio. In definitiva, chi mai avrebbe potuto prevedere che Al Salih si sarebbe trasformato da un momento all’altro in un terrorista feroce? Come si poteva non fare di tutta l’erba un fascio, se non era prevedibile quando un immigrato modello sarebbe diventato un pazzo omicida? Michele cercò di darsi una calmata. Si chiese se l’agitazione che le parole di quel deficiente in tv gli avevano scatenato non gli dessero il diritto di fare una capatina in camera da letto, per aprire il primo tiretto del guardaroba prima del tempo. Alla fine riuscì a resistere alla tentazione. Ancora qualche ora e anche quel giorno sarebbe arrivato il momento di spegnere il cervello. Fu allora che il cellulare cominciò a vibrare. Michele guardò il display. Liceo A. Volta. Michele ebbe un tuffo al cuore. Doveva essere successo qualcosa a Naomi. Non poteva essere altrimenti. Mai prima di allora aveva ricevuto una chiamata dalla scuola. Sentendo arrivare un nuovo accesso di nausea, Michele si affrettò a rispondere.
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«Pronto?». «Dottor Colizzi?» gli chiese una voce femminile. «Sono io. Mi dica». «Chiamo dal Liceo Scientifico Volta». «Lo so. Ho il numero in memoria. Mi dica». «Sono la dirigente». «Ah, buongiorno. Mi dica. C’è qualche problema?». «Si tratta di sua figlia». E di chi, sennò? avrebbe voluto dire Michele, ma si limitò a ripetere: «Mi dica». «Durante la ricreazione si è azzuffata con un ragazzo di quinta» gli rivelò la preside. «Naomi?» proruppe Michele. «Con un ragazzo di quinta?». «Proprio così, dottor Colizzi». A Michele parve che il tono della donna sottintendeva problemi più gravi di una semplice baruffa. «Le ha fatto male? È ferita?» chiese con urgenza. «No, dottor Colizzi. Naomi sta bene». Michele tirò un sospiro di sollievo, anche se con tutta probabilità sua figlia si sarebbe buscata una bella sospensione, cosa che non le avrebbe giovato al momento degli scrutini finali, tanto più che dalla morte di Elisabetta il suo rendimento scolastico era calato di parecchio. «Be’, meno male» disse. «Meno male un bel niente, dottor Colizzi» lo rimbeccò la dirigente. «Il problema è l’altro studente. Ho convocato anche i suoi genitori. La madre sarà qui a minuti. Spero tanto per lei che la signora non voglia sporgere querela». «Addirittura!» si sorprese Michele. «Se non si è fatto male nessuno, perché...». «Naomi non si è fatta male» lo bloccò la dirigente. «L’altro ragazzo in questo momento è in infermeria. A quanto pare, sua figlia gli ha rotto il naso». Michele spalancò la bocca con uno schiocco liquido. «Naomi? Penso ci sia un errore».
31 «Non tenti di difenderla, dottor Colizzi. Le farebbe solo del male. Comunque sia, l’ho chiamata per pregarla di venire qui immediatamente. La ragazzina mi ha detto che sarebbe rimasto in casa per tutta la giornata». Michele si stropicciò gli occhi con due dita della mano libera. Quella proprio non ci voleva. Non che non avesse a cuore Naomi, ma proprio non gli andava di prendersi una ramanzina al posto di sua figlia. Non nelle condizioni in cui versava. Non con la sbornia che ancora non gli era passata del tutto. «Sarò lì fra una trentina di minuti» promise. «Non si preoccupi». «Non sono io a dovermi preoccupare, dottor Colizzi» replicò dura la dirigente. Quindi interruppe la chiamata. Michele si alzò dalla poltrona gemendo come quando si era seduto. In camera da letto si vestì in tutta fretta. Non badò al fatto che gli indumenti che indossò fossero tutti spiegazzati, perché erano pur sempre quelli meno arricciati fra quelli puliti. Quando fu pronto, aprì la finestra per valutare le condizioni meteorologiche. Era una calda e luminosa giornata di maggio: poteva pure fare a meno della giacca. Il maglioncino che si era messo al solo scopo di nascondere la camicia, ovverosia l’indumento nelle condizioni peggiori, sarebbe stato più che sufficiente. Un attimo prima di uscire dalla stanza, senza nemmeno pensarci, aprì il primo tiretto della cassettiera del guardaroba. Mise una mano sotto a un accappatoio che ormai non usava più e portò alla luce una bottiglia di whisky mezza vuota. Ne devo comparare un’altra per domani, prese nota mentalmente. Poi svitò il tappo e fece per bere a canna, lo sciabordio del liquido ambrato che gli faceva venire l’acquolina in bocca. «Jack, pensaci tu» disse un attimo prima di attaccarsi alla bottiglia.
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Per fortuna, quella mattina Michele si bagnò solo le labbra. Un attimo prima di versarsi il whisky in gola, riuscì ad abbassare la bottiglia di colpo, come se si fosse scottato. «No» quasi urlò. Rimise il tappo e ripose la bottiglia sotto l’accappatoio. Se avesse cominciato a bere anche di mattina, a nulla sarebbe valso non tagliarsi le vene con lo stesso coltello che aveva ucciso il suo amore. Non doveva cadere più in basso di quanto già non si trovasse. Doveva farlo per Naomi. E doveva farlo per Elisabetta: nessuno doveva poter dire che aveva sposato un ubriacone in grado di farsi sottrarre la figlia dai servizi sociali nonostante la sua posizione di medico chirurgo stimato. Uscendo di casa, sul pianerottolo, Michele incrociò la dirimpettaia, che lo salutò con un silente cenno del capo. Sapendo che la donna era una maniaca salutista che scendeva e saliva sempre a piedi, Michele optò per l’ascensore. Non ne poteva più di discorsi di circostanza con estranei che a cinque mesi di distanza dalla tragedia continuavano a mostrarsi contriti, quando in realtà quello che era successo a Elisabetta li tranquillizzava perché li spingeva a credere che in quella piccola città una cosa del genere non sarebbe mai più accaduta, almeno non per mano di un terrorista venuto da lontano. Arrivato in strada, Michele si avviò verso il SUV tutto impolverato. Prima della morte di Elisabetta, lo portava all’autolavaggio una volta alla settimana. Adesso non lo metteva nemmeno più in garage per la notte. Prima o poi lo avrebbe trovato senza ruote, adagiato su un paio di blocchi di cemento. Oppure glielo avrebbe rubato per intero, magari per poi chiedergli un riscatto nel caso lo volesse indietro. Quelle erano cose all’ordine del giorno in quella ridente cittadina, ragione per la quale nessuno ci faceva più caso. Figurarsi cosa sarebbe importato a lui. Se gli avessero fatto sparire la macchina a cui un tempo teneva così tanto, ne avrebbe comprata un’altra. Questa volta si sarebbe accontentato di un’utilitaria di seconda mano. Aveva imparato a sue spese che quando si perdeva una persona cara in maniera assurda, erano molte le priorità che perdevano di significato. Sbloccò le portiere con il telecomando, si mise dietro al volante e fece partire il motore.
33 Un quarto d’ora più tardi, dopo aver rischiato di tamponare almeno un paio di vetture e di mettere sotto un ciclista che aveva protestato mostrandogli il dito medio e minacciandolo di tagliargli la gola, Michele parcheggiò davanti alla scuola di Naomi, facendo stridere lo pneumatico anteriore destro contro il marciapiede. Sperò di non aver lesionato la ruota. Non che gliene importasse più di tanto, ma non era dell’umore adatto per andare a perdere tempo dal gommista. A dire il vero non sono dell’umore adatto per fare qualsiasi cosa. E non solo oggi, si disse scendendo dall’auto con un sorriso amaro dipinto sul volto. Il profumo dei tigli che ammantavano il viale in tutta la sua lunghezza rendeva l’aria quasi irrespirabile. A Michele un tempo quell’odore era piaciuto perché lo aveva sempre associato alla primavera, stagione di rinascita e di speranza. Adesso invece gli procurò solo un forte conato, che lo costrinse a piegarsi in due. Quando la crisi fu passata senza che rigettasse alcunché, Michele si rimise in posizione eretta. Guardò l’edificio scolastico davanti a lui, sentendo il vociare pieno di vita degli studenti al suo interno. Sperò che nessuno lo avesse visto dalle finestre mentre lottava con se stesso per non vomitare. Ravvivandosi i capelli si avviò verso l’entrata. Avendo frequentato anche lui quella scuola ed essendoci stato più di recente negli ultimi due anni per i colloqui con i docenti di Naomi, Michele si diresse verso la presidenza senza chiedere nulla al collaboratore che, seduto dietro un banchetto poco oltre l’ingresso, lo squadrò da capo a piedi con sguardo arcigno dopo aver messo da parte il giornale che stava leggendo. Accasciata su una seggiola alla destra della porta che introduceva all’ufficio della dirigenza c’era la ragazza dark (goth, diceva lei) in cui si era trasformata Naomi. Aveva cominciato a vestirsi di nero un mese dopo la morte di sua madre, subito dopo essere tornata a scuola, aver litigato con la sua amica di sempre e aver cominciato a frequentare la compagnia con la quale se ne andava in giro ancora adesso. Dopo un altro mese, si era tagliata quasi a zero i lunghi capelli biondi di cui un tempo era andata tanto fiera, se li era lisciati e se li era tinti di nero. Poi aveva cominciato a dimagrire e a truccarsi per apparire più pallida di quanto già non fosse a causa della sua carnagione chiara e del fatto che avesse cominciato a battere la via dell’anoressia e della denutrizione. Da ultimo, per la precisione da qualche settimana, erano arrivati gli accessori: girocollo con spuntoni come il collare di un cane feroce, catenelle, piercing alle labbra, orecchini a forma di croce rovesciata e simili. Michele le si avvicinò. «Ciao» la salutò non sapendo in che altro modo approcciarsi.
34 Naomi era intenta a scrivere chissà cosa e chissà a chi sul suo inseparabile cellulare. Continuò a farlo senza degnarlo di uno sguardo o di una risposta. «La preside... mi ha chiamato». Naomi annuì, limitandosi a mugugnare. «Vuoi dirmi cosa è successo?». Finalmente Naomi smise di scrivere e si infilò il cellulare in una tasca del pantalone in pelle nera che indossava quella mattina. «Te ne frega qualcosa?». Michele rimase basito dall’acrimonia di Naomi. I funerali di Elisabetta si erano tenuti una ventina di giorni dopo l’attentato, all’indomani dell’esame autoptico disposto dal pubblico ministero titolare delle indagini. La sepoltura era coincisa con il momento in cui lui e Naomi avevano cominciato a parlarsi poco, quasi per nulla. Tuttavia, prima di allora, sua figlia non gli aveva mai risposto tanto male. «Certo che me ne frega. Sono tuo padre». Naomi rise e allungò le gambe, facendo scricchiolare la sedia. «Adesso sei mio padre» disse. Michele aggrottò la fronte, non cogliendo il senso di quella frase. «Tu che dici?» replicò, non sapendo che altro dire. Per tutta risposta, Naomi sventolò una mano all’aria. «Lascia perdere» disse riabbassando lo sguardo. Sentendo le ginocchia scrocchiare in maniera alquanto rumorosa, Michele si accoccolò per potersi trovare alla stessa altezza degli occhi di sua figlia. Naomi avvampò per l’imbarazzo. «Ma che stai facendo?» gli chiese guardandosi attorno all’evidente scopo di sincerarsi che nei paraggi non ci fosse nessuno a osservarli. «Rialzati. Non fare il ridicolo» gli disse poi. Quindi rise. Fu una risata breve e sincera. In quel frangente Michele rivide la vera Naomi. Rivide la ragazza spensierata, seria e intelligente che era stata prima di nascondersi dietro quel look da vampiro che mal le si confaceva. «Non mi rimetterò in piedi fino a quando non mi dirai cosa è successo». L’espressione di Naomi tornò a essere infelice e dura. «Uno stronzo della quinta C. Sono settimane che continua a chiamarmi twilight. Lo ha fatto anche prima, durante la ricreazione. Solo che questa volta, dopo avermi insultata, ha pure osato abbracciarmi da dietro. Gli ho detto più volte di lasciarmi andare, ma lui non mi ha dato ascolto. A quel punto, non ci ho visto più e ho fatto scattare la testa all’indietro, colpendolo al naso con la nuca». «Twilight nel senso del film?» chiese Michele. «Sì, papà. Twilight nel senso del film» gli rispose Naomi con tono di impazienza. «Adesso vuoi farmi il favore di alzarti?».
35 Prima che gli venisse un forte capogiro e qualche altro conato, Michele si riportò in posizione eretta. «La dirigente mi ha detto che adesso il ragazzo è in infermeria, con il naso rotto». Naomi mise la mano destra a pugno, poi distese il pollice e l’indice. «Sai che vuol dire?» gli chiese. «No. Non lo so». Naomi agitò la mano. «Cos’è questa?». «La tua mano?». Naomi fece un cenno di diniego. «No, è una bottiglia» spiegò. «La preside beve, lo sapevi?». Michele le indicò la porta. «Non ti preoccupa che possa sentirti?». «Neanche per il cazzo. E poi quel coglione non si è rotto nessun naso. È appena tornato dall’infermeria. Adesso è là dentro con la sua mammina. Gli è uscita solo una goccia di sangue e gli hanno infilato un po' di ovatta in una narice». Fu allora che la porta della presidenza si aprì. Una donna sulla cinquantina con una perfetta permanente bionda fece capolino. Michele riconobbe la dirigente della scuola e notò in effetti che sugli zigomi aveva qualche capillare rotto di troppo. Forse beve per davvero, pensò. La donna lo chiamò: «Dottor Colizzi». Michele dovette fare solo un passo per raggiungerla. «Vi ho sentiti parlottare. Avrebbe fatto meglio a farsi annunciare». «Mi scusi» disse lui. La dirigente fece spallucce. «Ok. Comunque adesso può entrare». Michele vide Naomi alzarsi. «Tu no, signorinella» la bloccò la dirigente, puntandole contro il dito indice della mano sinistra. Michele temette che Naomi le rispondesse. Per fortuna si limitò a risedersi sbuffando. «Venga, dottor Colizzi». Michele entrò nell’ufficio. Non ricordava di esserci mai stato prima. Ai suoi tempi era sempre stato un ragazzo disciplinato, e fino ad allora Naomi non aveva mai dato problemi. Come si suol dire: c’è sempre una prima volta.
36 «Dottor Colizzi, le presento la signora Parise, madre dello studente aggredito da sua figlia». Davanti alla scrivania della preside erano seduti una donna obesa sulla quarantina e un ragazzo alto e magro, con la testa rovesciata all’indietro e un tampone nasale infilato nella narice destra. Né la madre né il figlio si degnarono di salutarlo. Seguendo le indicazioni gestuali della padrona di casa, Michele si accomodò accanto alla grassona, prendendo atto che puzzava di sudore peggio di lui. Nel frattempo, la dirigente prese posto sul suo trono, dietro alla scrivania. «Io non direi aggredito...» esordì Michele, cercando di metterla su un piano differente. Ma non riuscì a portare a termine il concetto. La madre del ragazzo con il naso sanguinante cominciò a strillargli in faccia. Sembrava una cagna che gli abbaiava contro e che non lo azzannava solo perché mantenuta al guinzaglio. «Io invece sì» urlò la donna. «Io direi proprio aggredito. Per poco non gli rompeva il naso. Dove siamo arrivati, dottor Colizzi? Vorrebbe difendere l’indifendibile? Con me non attacca. Oh, no. Per niente. Quello di sua figlia è un atto di bullismo vero e proprio. Andrebbe denunciato. Anche per il bene della ragazza, mi creda. Ringrazi la dirigente scolastica qui presente se non vi querelo. Mi ha spigato la vostra situazione, ma lasci che le dica una cosa, dottor Colizzi. Aver perso un genitore, non autorizza sua figlia a malmenare gli altri bambini». Bambini? Michele si trattenne a stento dal mettersi a ridere. La signora Parise dovette accorgersene, perché si alzò indignata e ordinò a suo figlio di fare lo stesso. «Andiamocene, Ciccio. Prima che cambi idea e decida di andare dai carabinieri». Ciccio? Michele si passò una mano sul volto, sperando di apparire costernato per la situazione, in realtà per distendere i muscoli facciali e impedire loro di dargli un’espressione divertita. Poi la signora Parise fece un cenno del capo all’indirizzo della dirigente che aveva assistito in silenzio alla sfuriata e, trascinandosi dietro il suo Ciccio, uscì dall’ufficio a passo di carica.
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Quando la porta si fu richiusa alle spalle della signora Parise e del suo bambino, Michele guardò la dirigente. «Sono desolato per quello che è accaduto e me ne scuso. Se la signora me ne avesse dato il tempo, mi sarei scusato anche con lei e con suo figlio». La dirigente annuì. «Apprezzo, ma non è così che si risolve il problema, dottor Colizzi». Fece una pausa come per scegliere le parole giuste. «Glielo dico papale papale, dottore: i professori sono seriamente preoccupati per Naomi. Fino al giorno della tragedia che vi ha colpiti, è stata una delle migliori della classe. Aveva qualche problemino in matematica, ma era poca cosa. Dopodiché il suo profitto è colato a picco». Michele sospirò. «Lo so. Ho visto la pagella del primo quadrimestre. Disastrosa. E dire che allora era passato solo un mese e mezzo dalla morte di Elisabetta». «I docenti della classe di Naomi riferiscono che ora la situazione è di gran lunga peggiorata» rincarò la dose la dirigente. «Se fosse venuto ai colloqui dopo Pasqua, lo saprebbe». «Mi creda, preside. Lo so. Non sono stato ai colloqui, ma di tanto in tanto mi collego al registro elettronico per rendermi conto dei voti». «Bene, allora saprà anche che ci sono altre questioni che preoccupano i docenti». Michele si allarmò. «Quali altre questioni?». «Quello che oggi ha fatto Naomi è stato gravissimo, pertanto non ho potuto fare a meno di convocarla qui. Ma ci sono stati altri episodi di minor gravità, che comunque le sono costati un paio di note in condotta. Se avesse spulciato per bene il registro, saprebbe anche questo». Michele rimase interdetto. Quelle poche volte che aveva aperto il profilo di Naomi si era limitato a controllare i voti. Non era mai entrato nella sezione dedicata alle note disciplinari, visto che sua figlia non ne aveva mai preso una. «Ha picchiato altri ragazzi?». La dirigente si abbandonò contro lo schienale della sedia.
38 «Più o meno. Una volta ha spinto a terra una compagna di classe. Un’altra, ha avuto un alterco con una ragazzina di prima. In un’occasione ha risposto male a un professore. Un giorno si è persino messa a urlare in corridoio contro un collaboratore che non le voleva aprire il bagno». Michele scosse il capo. «Devo confessare che non ne sapevo nulla». La preside riportò il busto in avanti e intrecciò le mani sulla scrivania. «Dottor Colizzi, tempo fa sua figlia si è confidata con una professoressa e le ha detto che era seguita da uno psicologo. Posso chiederle se continua a vederlo?». «No, è andata alle sedute solo per un paio di settimane. Si trattava di uno psicologo che lavora da noi, agli Ospedali Riuniti. Ce l’ho mandata su consiglio di un’operatrice dei servizi sociali che si è presentata a casa nostra circa un mese dopo la tragedia, preoccupata che Naomi non fosse ancora tornata a scuola. Ho dato per scontato che foste stati voi ad avvisare i...». «Dottor Colizzi» lo bloccò la preside, «non voglio sostituirmi a lei, ma non crede che sarebbe meglio se Naomi ricominciasse a frequentare qualcuno in grado di darle un aiuto professionale? Voglio dire, il cambiamento è stato radicale. Basta vedere il suo nuovo look. Devo stare dietro a oltre cinquecento alunni, ma li conosco tutti. E mi creda, voglio il bene di ognuno di loro». Michele annuì. «Sto facendo il possibile» disse, sebbene in cuor suo sapesse che non era affatto così. Lo sguardo della preside divenne più dolce. «Bene, dottor Colizzi. Ora può andare. Sua figlia… La porti a casa. La faccia calmare e cerchi di farle capire la gravità di quello che ha fatto e della situazione in generale. Oggi pomeriggio ci sarà un consiglio di classe straordinario per decidere il numero di giorni di sospensione. Se domani aprirà il registro di classe, conoscerà il responso. Comunque sia, alla riunione sarò presente anch’io». Fece un occhiolino che stupì Michele. «E cercherò di convincere i prof ad andarci piano, in modo da non pregiudicare del tutto la promozione finale». Michele si alzò e strinse la mano della dirigente con calore. «La ringrazio» disse. «La ringrazio tanto anche a nome di Naomi». La donna si strinse nelle spalle. «Ho cresciuto i miei figli da sola» spiegò sorridendo. «So cosa vuol dire non avere un compagno su cui contare nei momenti difficili».
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Michele trovò il coraggio di parlare solo quando erano ormai quasi arrivati a casa. «La preside ha detto che verrai sospesa e che hai già avuto un paio di note». Naomi aveva entrambe le orecchie tappate dalle cuffiette del telefonino. Era ovvio che stesse ascoltando della musica, ma poiché il volume non era così alto da far sentire anche lui, Michele non avrebbe potuto dire di che genere. Di certo si trattava di qualcosa che faceva pendant con il nuovo stile di sua figlia. Naomi si tolse un solo auricolare. «Hai detto qualcosa?» chiese in tono indolente. Michele la guardò per un attimo, poi tornò a prestare attenzione alla strada. «Verrai sospesa» disse. «E allora?». «Potresti perdere l’anno, considerato che hai già un paio di note e i voti non sono più quelli di una volta». «Niente è più come era una volta. Non te ne sei accorto?». Certo che me ne sono accorto, pensò lui. Poi chiese: «Non ti preoccupa venire bocciata?». Naomi lo mandò a quel paese con una mano. Michele si chiese la ragione di tutto quell’astio, quando avrebbe dovuto essere lui quello a essere incazzato nero. D’istinto, decise di mostrarsi un po’ più duro. «Se a te non importa, sappi che importa a me. Lo so che è stata una tragedia immane, ma devi cercare di reagire trovando in te stessa la forza di farlo. Non voglio costringerti a riprendere le sedute dallo psicologo». Naomi lo trafisse con uno sguardo carico d’odio. Mai prima di allora Michele aveva visto un’espressione simile sul volto di sua figlia. Ne fu quasi intimorito. «Vacci tu, dal tuo amico psicologo del cazzo» gli abbaiò contro. «Vedi se riesce a farti passare la voglia di bere. Si chiama dipsomania, o qualcosa del genere». Per poco Michele non investì un pedone. Adesso sul volto di Naomi c’era solo malvagia soddisfazione per aver colto nel segno.
40 «Credi che non me ne sia accorta? Pensi che non sappia dove tieni la bottiglia? Un giorno ci ho fatto un sorso anch’io. Ma non preoccuparti, non te ne prenderò altro. Mi ha fatto schifo. Preferisco di gran lunga le canne». All’improvviso, Michele si sentiva come un pugile messo all’angolo da un avversario che gli scaricava addosso pungi a ripetizione. «Hai cominciato a….» biascicò. «Sì, papà. Ho cominciato a fumare erba. Te ne frega qualcosa? Io penso di no. Non te ne è mai fregato niente né di me né della mamma. E adesso è un po’ tardi per cominciare a farlo: la mamma non c’è più e io non ho bisogno di te». Michele era certo che Naomi stesse straparlando. Ciononostante, si chiese se veramente lui avesse mai dato l’impressione di essere disinteressato alle donne della sua vita come sosteneva sua figlia. «Ma che stai dicendo? Mi sono sempre…». «No, papà. Non ti sei mai veramente preso cura di noi. Da quando ho memoria, sei sempre stato impegnato in ospedale. Sei sempre stato concentrato su te stesso. Per te, io e la mamma siamo sempre state personaggi secondari della tua storia. Una storia in cui tutto era perfetto, tutto andava per il verso giusto e di cui tu eri il protagonista principale, se non l’unico». «Io…non…». «Credo sia per questo che mamma non trovava il coraggio di dirtelo. Poverina». Michele sentì l’ormai familiare pressione del dolore espandersi all’interno della gabbia toracica. Se non fosse riuscita ad alleggerirla al più presto, sarebbe venuta fuori sotto forma di lacrime. Doveva evitarlo. Non voleva dare a sua figlia il piacere di farlo crollare, visto che per qualche strana ragione sembrava proprio quello il suo obiettivo. «Ti riferisci al fatto che fosse incinta?». Naomi scosse il capo con forza. «No, papà. Non mi riferisco al fatto che non ti abbia detto di essere incinta. D’altra parte, non lo ha rivelato nemmeno a me». «E allora…». «Mi riferisco al fatto che non trovava il coraggio di dirti che aveva in mente di lasciarti perché aveva un altro. Forse, nonostante tutto, ti amava ancora al punto da essere incapace di ferirti, rovinandoti la favola che quotidianamente raccontavi a te stesso». In quel momento Michele stava infilando il SUV in retromarcia fra due veicoli in sosta davanti al loro condominio. Per la sorpresa, affondò il piede nel freno. La vettura si arrestò di botto andando a formare un angolo di quarantacinque gradi con il marciapiede.
41 «Ma che dici? Tua madre non voleva lasciarmi e non aveva nessun altro». Naomi rise. «Illuditi pure, se vuoi». «Da dove ti vengono queste fantasie?». Naomi aprì lo sportello. «Non sono fantasie. Con me ha avuto la forza di aprirsi. Mi ha detto di prepararmi a scegliere con chi stare, perché era sicura che prima o poi ce l’avrebbe fatta a parlarne anche con te». Michele sperò tanto che Naomi si stesse inventando tutto per farlo soffrire. Sperò che di punto in bianco lei fosse diventata crudele oltre ogni immaginazione, magari a causa della roba che per sua stessa ammissione aveva cominciato a fumare. Il problema era che sua figlia pareva sincera. Non era mai stata una mitomane, e anche in quel momento non aveva l’aria di una bugiarda. Voleva fargli del male, su questo non c’erano dubbi. Ma voleva farlo nel modo peggiore possibile, usando una verità che fino quel momento gli aveva taciuto forse per lo stesso motivo che aveva impedito a Elisabetta di metterlo a parte dei suoi propositi. «Ti ha detto chi…?». «No, papà. Non mi ha detto chi era. Ma doveva trattarsi di qualcuno migliore di te». Naomi uscì dall’auto. Poi si piegò per sporgersi nell’abitacolo e poter continuare a parlare con lui mantenendo il contatto visivo. «E sì, l’ho pensato anch’io» disse. «È possibile che il bambino non fosse figlio tuo». Quindi sbatté la portiera con una forza tale che il robusto SUV ondeggiò e cigolò.
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Michele avrebbe voluto chiederle dove stesse andando. Avrebbe voluto dirle di tornare indietro e di salire in casa con lui per parlare. Avrebbe voluto chiederle scusa per essere stato egoista e non essersene mai accorto. Avrebbe voluto implorare il suo perdono, inginocchiandosi davanti a lei per strada. Avrebbe voluto fare e dire queste e tante altre cose. Alla fine guardò Naomi allontanarsi senza muovere un muscolo. Quando sua figlia scomparve dietro a un angolo, completò la manovra di parcheggio, scese dall’auto e salì in casa. Richiudendosi la porta d’ingresso alle spalle, nel silenzio dell’appartamento sentì una specie di ronzio. Capì subito che in realtà il rumore proveniva da dentro la sua testa. Devo darmi una calmata, si disse. Dopo le rivelazioni di Naomi, c’era solo un modo in cui sarebbe riuscito a farlo. Jack, pensò. Solo tu puoi aiutarmi! Sapeva benissimo che se l’acufene era causato da pressione alta il whisky non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione. Ma era consapevole anche che, come tutti gli alcolizzati, anche lui ormai non poteva fare a meno di vedere nella bottiglia la soluzione a tutti i problemi. Ciabattò in camera da letto e, per la seconda volta quella mattina, aprì il primo tiretto della cassettiera del guardaroba. Stava per scostare l’accappatoio, quando il cordless che si trovava in salotto cominciò a squillare. Michele approfittò della situazione per vincere di nuovo la tentazione. Si affrettò a chiudere il tiretto e corse a rispondere, non perché non volesse fare attendere chiunque lo stava chiamando, ma per paura che rimanendo in camera da letto un istante più del necessario si sarebbe convinto a concedersi un sorso. Il telefono era sul basso tavolinetto con pianale in vetro antistante alla sua poltrona preferita. Michele si sedette. Prima di rispondere diede un’occhiata al display, apprendendo che la chiamata proveniva da un numero di cellulare non registrato in memoria. Quasi certamente si trattava di qualcuno che voleva vendergli qualcosa di imperdibile o proporgli l’abbonamento a Internet più conveniente al mondo.
43 Quella volta, considerato che la telefonata lo aveva salvato dal fargli imprimere un’ulteriore accelerata sulla via per il coma etilico, Michele si ripromise di non riattaccare subito dopo aver urlato all’operatore di non volere essere scocciato. «Pronto?» disse. Dall’altra parte solo un respiro pesante. Altro che telefonata commerciale, qui c’è di mezzo un serial killer, pensò Michele con un mezzo sorriso. «Pronto?» ripeté. «Pronto» gli fece eco questa volta la voce di una persona anziana. «Chi parla?». Michele fece schioccare la lingua. «Veramente dovrei essere io a fare questa domanda. Non le pare?». Nessuna replica. Adesso non sentiva più nemmeno il respiro di prima. Michele tornò a guardare il display per sincerarsi che la chiamata fosse ancora in corso. Poiché lo era, si riportò il telefono all’orecchio. «Pronto? Mi sente?». «Io la sento. Lei mi sente?». Se a parlare non fosse stato un vecchio, Michele avrebbe pensato a uno scherzo e avrebbe chiuso. «Sì, la sento. Potrebbe farmi il piacere di dirmi con chi sto parlando?». «Giovanni Iovine, al suo servizio». Michele tornò a sorridere. «Credo che volesse chiamare qualcun altro, signor Giovanni Iovine». «Io invece non lo credo» replicò l’anziano con convinzione. «Ho trovato questo numero sulla memoria di un cellulare che qualcuno ha abbandonato fra le siepi del giardino di uno dei villini che ho in custodia». Michele socchiuse gli occhi. «Si può spiegare meglio, signor Iovine?». Il vecchio sospirò come spazientito per il fatto che il suo interlocutore si ostinasse a non capire la situazione. «Vede, d’inverno, e per inverno intendo da settembre a giugno, io e mio figlio arrangiamo qualche soldo custodendo alcune villette che sono abitate solo d’estate. Stamattina, potando una siepe, ho visto un riflesso al suo interno. Ci ho infilato una mano e ho tirato fuori un cellulare rosa. Marca Samsung». Michele ebbe un violento capogiro. Nello stesso momento, l’acufene aumentò d’intensità. Fu una fortuna che fosse seduto, altrimenti avrebbe anche potuto cadere. Era evidente che il vecchio avesse trovato il cellulare che Elisabetta aveva perso una settimana prima di essere accoltellata. Si chiese perché la cosa lo turbasse così tanto.
44 «Ho cercato di accenderlo, ma era scarico» raccontò il signor Iovine. «Quindi l’ho attaccato al caricabatteria del mio telefonino e finalmente ho potuto metterlo in funzione. Pensando che appartenesse a qualcuno della famiglia proprietaria del villino, ho aperto la rubrica per averne conferma. Così facendo ho scoperto che i nomi sotto i quali erano salvati i numeri non mi dicevano niente. Ho aperto quindi il contatto chiamato CASA e ho trovato questo numero. Dal prefisso ho capito che il cellulare non apparteneva a nessun membro della famiglia proprietaria. Consideri che gli Scotti sono milanesi veraci e in provincia possiedono solo la casa al mare di cui ci occupiamo io e mio figlio. E da queste parti il prefisso è diverso dal vostro. Ho cercato di chiamare con il telefonino stesso, ma a quanto pare la scheda non è attiva». Mio Dio! «Le posso chiedere dove ha trovato il cellulare?». Iovine sospirò di nuovo. «Gliel’ho detto: nel giardino degli Scotti». «E, di grazia, dove si trova questo giardino?». «Qui» rispose il vecchio senza esitazione, come se quella potesse essere un’indicazione valida. Dopo qualche istante, per fortuna aggiunse: «Località Manacore». Michele fece un veloce calcolo mentale. Poi si chiese cosa ci facesse il Samsung di sua moglie a oltre novanta chilometri di distanza dalla città. «È ancora in linea?» gli chiese il signor Iovine. «Sì, certo. È che mi chiedevo come ci è arrivato il cellulare di mia moglie fin là. Vede, l’anno scorso siamo stati in Salento e due anni fa siamo stati in Romagna. Pertanto, sono almeno due anni che non veniamo al mare da quelle parti. E poi mia moglie lo ha perso ai primi di dicembre, quindi...». «Io credo di saperlo» asserì Iovine. Michele si passò una mano nei capelli. «Cosa di preciso crede di sapere?». «Come ha fatto il cellulare ad arrivare fin qua». «Sentiamo». «Secondo me sua moglie non se l’è perso. Secondo me glielo hanno rubato senza che se ne accorgesse. E credo di sapere anche chi sia il colpevole». Michele si abbandonò contro lo schienale della poltrona. Poiché per sua sfortuna aveva tutto il tempo che voleva, ripeté: «Sentiamo». «È stato Ibrahim». Michele drizzò le orecchie e spalancò gli occhi. «E chi sarebbe questo Ibrahim?».
45 «Ibrahim Al-Youssef» disse il signor Iovine, come se fosse la cosa più scontata al mondo. Per poco Michele non saltò in aria. Si costrinse ad allentare la presa sul cordless altrimenti avrebbe rischiato di stritolarlo. «Se è uno scherzo, non è per nulla divertente, signor Iovine». «Perché dovrebbe trattarsi di uno scherzo, signor... Ehi, non mi ha ancora detto come si chiama». «Colizzi. Sono il dottor Michele Colizzi». «Mi spieghi, dottor Colizzi» riprese Iovine, «perché crede che la stia prendendo per il naso? Ho ottant’anni. Pensa che con quel poco che mi resta da campare mi metta a perdere tempo con degli stupidi scherzi telefonici?». Michele scosse il capo, anche se il vecchio non poteva vederlo. «Non è per questo, signor Iovine. Mi scusi. È per quel nome: Ibrahim AlYoussef». «Lo conosce?». «Non è per caso…?». Iovine rise. «Proprio lui. Vedo che è un uomo molto attento ai fatti di cronaca accaduti nella sua città. Certo, se si fosse trattato di Al Salih, non mi sarei stupito più di tanto. È ancora presto per scordare il suo nome dopo quello che ha combinato. Ma ricordare come si chiamava il siriano indagato per complicità nell’attentato non credo sia da tutti. Tanto più che è stato scagionato quasi subito». «Lei sa chi è mia moglie, signor Iovine? La prego di non mentirmi». «Come faccio a sapere chi è la sua signora, dottor Colizzi?» ribatté piccato Iovine. «E perché dovrei mentirle?». Incapace di star fermo, Michele si alzò in piedi e cominciò a camminare intorno al tavolinetto che aveva davanti.
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«Per ora lasciamo perdere mia moglie» disse Michele, decidendo per il momento di non svelare come stavano le cose nel timore che il signor Iovine si spaventasse e decidesse di riattaccare o di non rispondere più alle sue domande. «Mi può dire cosa le fa pensare che sia stato Ibrahim Al-Youssef a rubare il cellulare di mia moglie?». «Be’, lo penso perché Ibrahim abitava lì in città. Anzi, credo ci abiti ancora. E fino a un paio di settimane fa, prima di scomparire nel nulla, era lui che si occupava della custodia della villa degli Scotti». Michele continuava imperterrito a circumnavigare il tavolinetto. «La prego. Può spiegarmi tutto per filo e per segno? Un po' mi preoccupa che mia moglie possa aver avuto a che fare in qualche modo con un soggetto come Al-Youssef». «Dottor Colizzi, deve sapere che mio figlio, due inverni fa, si è rotto il malleolo giocando a calcio con quei fannulloni dei suoi amici. Nello stesso periodo, a mia moglie, che Dio l’abbia in gloria, è stata diagnosticata una brutta malattia al colon. Quella malattia con la C maiuscola, dottor Colizzi. E io ho dovuto prendermi cura di lei fino a quando non è volata in cielo. Poiché far da custodi alle case significa farci anche dei lavoretti di manutenzione di tanto in tanto e curare i giardini quasi giornalmente, ci siamo visti costretti a cercare un aiuto. Mio figlio ha chiesto in giro, ma non ha trovato nessuno disposto a darci una mano per la paga che eravamo disposti a corrispondere. Poi un nostro conoscente, originario di qui ma residente in città fino a quando anche lui non ha fatto la fine che ha fatto, ci ha parlato di un immigrato di sua conoscenza che aveva tanto bisogno di lavorare. Ci ha detto che si trattava di un uomo serio, onesto e lavoratore, e ci ha messo in contatto con lui. È stato così che abbiamo assunto Ibrahim Al-Youssef. Tutto rigorosamente in nero, è ovvio». Michele fece ruotare la mano libera all’aria come se volesse spronare Iovine ad andare avanti più velocemente. «Ma cosa le fa pensare che sia stato lui a rubare il telefonino?». «Ci sto arrivando, dottor Colizzi» rispose il vecchio, che forse non poteva farsi capace di essere incappato in qualcuno interessato a sentirlo. «Vede, Ibrahim ci è parso sospetto fin da subito. Gli abbiamo assegnato dieci ville in zona Manacore e ci siamo accordati per uno stipendio di appena duecento
47 euro mensili, più vitto e alloggio. Poi gli abbiamo proposto di abitare nella rimessa di una delle ville di sua competenza, dopo aver ricevuto l’autorizzazione dal proprietario. Il fatto strano è che Ibrahim ha rifiutato, sostenendo che per lui era più comodo tornare in città ogni sera. Non che venisse qui tutti i giorni, ma in media faceva su e giù tre volte alla settimana. Novanta e passa chilometri all’andata, novanta e passa chilometri al ritorno. Cinquecentoquaranta e passa chilometri alla settimana con una Delta vecchio tipo a benzina che doveva bere come un cammello del deserto. Il tutto per duecento euro, senza alloggio e rifiutando pure il cibo che gli preparavo io. La conferma che ci fosse qualcosa di losco ci è arrivata dopo solo un mese che il siriano ha cominciato a occuparsi delle abitazioni. È ancora all’ascolto, dottor Colizzi. La sto annoiando?». «No, signor Iovine. Anzi, sono molto interessato. Continui, la prego. Che tipo di conferma avete avuto?». «Voci» rispose Iovine. «Sono cominciate a circolare voci secondo le quali in alcune delle villette di competenza di Ibrahim c’era un continuo viavai di gente, soprattutto di notte, in un periodo dell’anno in cui avrebbero dovuto essere disabitate. È stato così che abbiamo capito». Michele si arrestò per un momento a metà di un ennesimo giro intorno al tavolinetto. «Cosa avete capito, signor Iovine?». «Che Ibrahim non era come ce lo aveva descritto il nostro conoscente. Era chiaro che aveva accettato il lavoro solo per avere le chiavi delle abitazioni e utilizzarle per i suoi sporchi affari». Michele riprese a camminare in tondo. «Che tipo di sporchi affari?». «Ah, non ne ho la minima idea, dottor Colizzi» rispose a sorpresa Iovine. «Io e mio figlio abbiamo ipotizzato che usasse le ville per spacciare, o che fosse un protettore e vi facesse entrare le prostitute che sfruttava. Cose così, insomma». Michele si fermò di nuovo. «Non glielo avete chiesto? Non gli avete chiesto cos’era quel viavai di cui avevate sentito parlare?». «Certo che glielo abbiamo chiesto. Ma lui ci ha risposto che era tutto sotto controllo e che se non volevamo aggiungere problemi a quelli che già avevamo, avremmo fatto meglio a chiudere tutti e due gli occhi. “I proprietari non si accorgeranno di niente” ci ha assicurato. “Quando torneranno in estate, troveranno le case immacolate così come le hanno lasciate” ci ha detto». «Non potevate cacciarlo?». «Dopo che ci aveva minacciato tanto apertamente?».
48 «E il vostro conoscente, quello che vi aveva messo in contatto con Ibrahim, non gli avete detto che razza di persona era in realtà il suo amico onesto e lavoratore?». «Certo che glielo abbiamo detto». «E cosa vi risposto?». «Ci ha risposto che non dovevamo preoccuparci. Che era tutto sotto controllo. Che quando i proprietari sarebbero tornati per le vacanze, avrebbero trovato le case linde e pinte come le avevano lasciate l’estate precedente». «Vuole dirmi che...». «Sì, dottor Colizzi. Il tizio che ci ha fatto conoscere Ibrahim, c’era dentro anche lui». «Scusi, ma perché non vi siete rivolti alla polizia?». Iovine rise. «Buona questa, dottor Colizzi. Anche se involontaria». «Perché, cosa ho detto?». «Dottor Colizzi, il conoscente di cui sopra era un poliziotto. Un pezzo grosso, per giunta. Commissario capo. Adesso è morto, pace all’anima sua. Ma quando era vivo era una persona molto influente. Con un figlio disoccupato e una moglie in fin di vita, non me la sono sentita di mettermi contro uno così. E poi, per cosa? Per salvaguardare le case di qualche riccone settentrionale che non sarebbe mai venuto a sapere nulla?».
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«Le dirò: se il commissario non si fosse suicidato una settimana esatta dopo l’attentato, avrei pensato che Ibrahim se la fosse cavata per sua intercessione». L’affermazione colse Michele sovrappensiero. «Come, scusi?». Iovine si schiarì la voce. Forse, pensò Michele, non era abituato a parlare così tanto. D’altronde, è un dato di fatto che quando si diventa vecchi nessuno vuole più starti a sentire. «Il commissario che ci ha fatto conoscere il siriano si è tolto la vita una settimana dopo che Al Salih ha pugnalato quelle due poverine in città» ribadì Iovine. «E allora?» chiese Michele, ancora confuso. «E allora vuol dire che si è tolto dalla circolazione ben prima che Ibrahim venisse indagato. Se fosse stato ancora vivo al momento delle indagini, si sarebbe potuto pensare che Ibrahim l’avesse sfangata grazie al suo amico poliziotto altolocato. Non le pare?». Michele non seppe come replicare. «Dottor Colizzi, è ancora lì?». Michele si riscosse. «Senta, come si chiamava questo commissario?». «Giordano. Antonio Giordano» rispose senza indugio il signor Iovine. Michele memorizzò il nome, che prima di allora non aveva mai sentito, sebbene per un mese dopo l’assassinio di sua moglie fosse praticamente vissuto in questura da mattina a sera inoltrata. Nello stesso momento promise a se stesso che, non appena avesse finito di parlare con il vecchio, si sarebbe lanciato in una bella ricerca su Internet. «Allora, come facciamo per il telefono?» gli chiese Iovine. «Se mi dà un indirizzo, glielo spedisco». Michele tornò a sedersi. Girare intorno a un tavolino era il modo migliore per farsi tornare il capogiro che lo aveva aggredito quando aveva capito che l’anziano con cui stava parlando aveva ritrovato il cellulare di Elisabetta. «Scusi se torno sull’argomento, signor Iovine. Sa per quale motivo il commissario Giordano si è tolto la vita?».
50 Anche se aveva preventivato di informarsi sul web, non gli avrebbe fatto male sentire cosa sapeva della faccenda un uomo che si era qualificato come conoscente del suicida. «Chi può dire cosa passa per la testa di una persona che ha deciso di levarsi di mezzo con le proprie mani, dottor Colizzi?». Io, avrebbe voluto rispondere Michele, ripensando ai drammatici momenti successivi all’accoltellamento di Elisabetta, quando aveva deciso di farla finita con il pugnale del terrorista. Io, signor Iovine, potrei dirle cosa passa per la testa di un aspirante suicida. Ovviamente non disse nulla di tutto ciò. «Io penso che c’entri quello che è successo a Carla» continuò Iovine. «E chi è Carla?». «Era l’unica figlia del commissario e di sua moglie. Bella ragazza. Alta, slanciata. Carla ha perso la vita in un incidente d’auto, circa un anno prima del suicidio del padre. Statale 16, dottor Colizzi. La strada della morte. Lo sa che la chiamano così? Comunque sia, dopo l’incidente è venuto fuori che la poverina era incinta. A quanto si racconta, né il commissario né sua moglie sapevano della gravidanza. Vede, Carla non era sposata e non aveva un fidanzato ufficiale. E poi era solo al secondo mese. Forse non lo sapeva nemmeno lei, di essere in attesa. Comunque, può immaginare lo shock di quei poveri genitori. Scoprire che la loro bambina se ne era andata portando con sé il bocciolo di vita che aveva in grembo... Fatto sta che entrambi hanno retto bene fino all’attentato di Al Salih». Michele si rialzò. «Cosa c’entra l’attentato con questa storia?». «Qualche giorno dopo il suicidio, la moglie del commissario ha raccontato a un giornalista che l’uccisione della professoressa avvenuta poco più di una settimana prima aveva ricordato a suo marito la loro povera Carla, al punto da rinnovargli i dolori del lutto e indurlo a spararsi un colpo in bocca con la pistola d’ordinanza. Perché è così che ha scelto di farlo, dottor Colizzi». «Ma prima ha detto che Carla è morta in un incidente stradale. Mia… La professoressa è stata uccisa. Cosa potevano avere in comune le due vicende?». Solo un attimo dopo aver posto la domanda, Michele arrivò alla risposta. Ormai, però, non avrebbe potuto impedire al signor Iovine di ribadirgliela. L’anziano disse: «Deve sapere che anche la prof è morta senza che né suo marito né la loro figliola sapessero che era incinta. Questo avevano in comune le due vicende, dottor Colizzi». Michele chiuse gli occhi sentendo un forte dolore al petto. Si sedette di nuovo, abbandonandosi contro lo schienale della poltrona.
51 Si impose di non mettersi a singhiozzare almeno fino a quando non avesse chiuso la chiamata. «Vuole sapere una cosa che ha dell’incredibile, dottor Colizzi?» fece Iovine in tono allegro. Michele non disse nulla. Una gran moltitudine di lacrime si stava facendo strada sulle sue guance e, se avesse parlato, la voce sarebbe risultata malferma. «La professoressa morta nell’attentato» continuò Iovine, «una settimana prima della strage è stata da queste parti».
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«Cose dei pazzi» disse Iovine, la voce che trasudava eccitazione. «Venerdì 8 dicembre la prof è stata fotografata in un bar sulla litoranea a nemmeno un chilometro di distanza dalla casa in cui il commissario Giordano si è tolto la vita, e a nemmeno un chilometro di distanza da dove mi trovo adesso, ovverosia dalla proprietà degli Scotti, gestita allora da un siriano che sarebbe stato indagato per complicità nell’attentato. Venerdì 15 dicembre c’è la strage e la prof viene uccisa. Venerdì 22 dicembre, il commissario che un anno prima ci aveva fatto assumere Al-Youssef si suicida perché la prof gli ha ricordato sua figlia Carla. A me sembra una cosa pazzesca. A lei no, dottor Colizzi?». Michele non piangeva più. All’improvviso era lucido e stava litigando con la memoria nella speranza di trovare la conferma che il signor Iovine avesse appena cominciato a sparare cazzate. Forse è uno di quei vecchi che parte per la tangente solo dopo averti fatto credere che è ancora in possesso delle proprie facoltà mentali, rifletté. Poi si rimise d’impegno per ricordare. Per concentrarsi meglio, chiuse gli occhi. Lo scorso 8 dicembre era stato di venerdì: di questo Michele era sicuro. Lo scorso 8 dicembre le scuole erano state chiuse per l’Immacolata. Poiché quell’anno la festività era caduta di venerdì, le attività didattiche erano state sospese anche sabato 9 dicembre. Giovedì 7 dicembre, nel pomeriggio, Naomi era partita per la Toscana con quella che all’epoca era ancora la sua migliore amica: anche di questo Michele era sicuro. La zia di Giulia era una professoressa di storia dell’arte zitellona che abitava a Firenze, e aveva invitato a casa sua le due ragazze in occasione del lungo week-end con l’intento di scorrazzarle per musei. Per quanto lo riguardava, Michele si ricordava bene dello scorso venerdì 8 dicembre. Turno massacrante dalla mattina alla sera. Un’operazione delicata e, come se non bastasse, un paio di emergenze difficili. Ma Elisabetta? Erano anni che prendeva come giornata libera proprio il venerdì, ma l’8 dicembre era festa comunque. Cosa aveva fatto quel giorno senza andare a scuola, senza Naomi fra i piedi e sapendo che lui sarebbe rimasto in ospedale per almeno quattordici ore?
53 Possibile che fosse stata nella zona di Manacore e non gli avesse mai detto niente al riguardo. E poi, cosa c’era andata a fare là da sola, in dicembre? E come c’era arrivata, visto che non guidava mai fuori città e comunque, quel giorno, la loro unica auto era rimasta ferma nel parcheggio dell’ospedale da mattina a sera? Mi riferisco al fatto che non trovava il coraggio di dirti che aveva in mente di lasciarti perché aveva un altro, gli urlò in testa una voce che somigliava a quella di Naomi, ripetendogli quello che sua figlia gli aveva detto per davvero poco prima, uscendo dall’auto. Forse, nonostante tutto, ti amava ancora al punto da essere incapace di ferirti, rovinandoti la favola che quotidianamente raccontavi a te stesso, strillò ancora la voce. E Michele aprì gli occhi. Forse, dopotutto, il vecchio non stava dicendo puttanate. «Come fotografata?» gli chiese. Il signor Iovine ci mise qualche secondo prima di rispondere. «Il proprietario del bar le ha scattato una fotografia senza che lei se ne accorgesse. A detta sua, lo ha fatto per avere una prova che il locale è frequentato anche da gente di classe. Con tutta probabilità, era già sbronzo di prima mattina. Dopo l’attentato, quando su Internet sono cominciate a circolare le immagini della prof uccisa, l’ha identificata come la donna che aveva fotografato una settimana prima. E da allora ha cominciato a raccontare la storia a tutti quanti, a ciclo continuo». «Lei ha visto quella foto?». Iovine rise. «Almeno un milione di volte». «Era sola o in compagnia di qualcuno?». Questa volta ci fu un silenzio prolungato. Forse il vecchio cominciava a trovare il suo interesse un po' sospetto. «Perché questa domanda, dottor Colizzi?». Michele capì che, se voleva saperne qualcosa di più, non doveva calcare la mano. Almeno non per telefono. «Niente, signor Iovine. Niente...Torniamo alla faccenda del cellulare...». «Se mi dà un indirizzo, glielo spedisco» ribadì Iovine. «A spese mie, non si preoccupi. Glielo consegnerei di persona, ma né io né mio figlio abbiamo in programma di venire in città nei prossimi giorni». Michele pensò alla foto scattata dal proprietario del bar. Se non era stata cancellata, doveva vederla a tutti i costi. Inoltre, voleva che il suo autore gli dicesse cosa ricordava del giorno in cui l’aveva fatta. «Potrei fare un salto io lì da voi» propose. «Oggi sono libero e mi farebbe proprio bene prendere un po' d’aria».
54 «Come vuole lei, dottor Colizzi. Sarò a casa degli Scotti fino al pomeriggio. Ho ancora tutte le grondaie da pulire e un pluviale da sostituire». Ottimo. «Mi può dare l’indirizzo? Se parto subito, posso essere là in meno di due ore». Iovine sospirò. «Poiché venendo dalla città non le conviene passare per la foresta, presumo che opterà per la Garganica. Pertanto, deve prendere l’uscita per…». «Scusi se la interrompo, signor Iovine. So come arrivare là. O almeno nei pressi. Volevo solo avere l’indirizzo preciso di casa Scotti». Il vecchio rise come se avesse sentito la più grande stupidaggine della sua vita. «Che le prende, signor Iovine?». «Mi scusi. Mi scusi tanto. Ridevo perché qui non siamo in città. Non ci sono indirizzi precisi. Nemmeno gli alberghi della zona ne hanno uno. Con la gente che viene da fuori andiamo avanti a punti di riferimento, oppure a coordinate terrestri». Iovine fece una pausa come se stesse pensando a una soluzione. «Tagliamo la testa al toro, dottor Colizzi. Adesso interrogo un’applicazione che mio figlio mi ha installato sul cellulare e, se lei mi dà un numero di telefonino, gliele mando subito. Come le preferisce?». «Come le preferisco cosa?» domandò Michele, aggrottando la fronte. «Le coordinate» spiegò il signor Iovine. «Per gradi decimali o per gradi, primi e secondi?».
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Michele chiuse la chiamata frastornato al massimo. Dopo qualche secondo il telefonino gli vibrò in tasca. Senza alzarsi, lo tirò fuori e guardò il display. Il signor Iovine, a dispetto dei suoi ottant’anni, aveva già provveduto a inviargli le coordinate della villa in cui si erano messi d’accordo di incontrarsi. Prima di andare, Michele fece altre due cose. Per entrambe dovette utilizzare il cellulare. In primo luogo, aprì il browser e avviò una ricerca sul commissario Antonio Giordano. Dalle fotografie a corredo di un articolo riguardante una retata dell’Antidroga effettuata un paio di anni prima del suicidio, Michele vide che il poliziotto all’epoca era un uomo sulla sessantina, grassottello e un po' stempiato, dall’espressione bonaria, ma dallo sguardo intelligente. Gli articoli scritti all’indomani del gesto estremo ripercorrevano tutti con dovizia di particolari la carriera e la vita privata del commissario, descrivendolo come una persona tutta d’un pezzo e come un investigatore di grande acume, nascosto dietro modi affabili e un aspetto pacioso. In tutti i pezzi aleggiava il sospetto che la decisione di togliersi la vita fosse scaturita dal dolore per la tragica perdita dell’unica figlia, morta un anno prima in un incidente stradale mentre era al secondo mese di gravidanza. Un trafiletto del quotidiano online Capitanata Today era più preciso a riguardo, e riportava le parole della moglie del commissario, la professoressa Elena Urbano, che il giornalista autore dell’articoletto sosteneva di aver recentemente raggiunto per telefono. “… mio marito sembrava aver superato bene la morte di nostra figlia Carla. A circa un anno dalla sua morte, non dico che non ci pensasse più, ma sembrava essere venuto a patti con il dolore e aver deciso di voltare pagina, di impedire che la disperazione continuasse a condizionargli la vita. Quando però è venuto fuori che Elisabetta Di Candia, la professoressa uccisa per mano del siriano che la settimana scorsa ha seminato il terrore per le strade del centro, nonostante l’età avanzata, al momento della morte era al secondo mese come la nostra Carla senza che suo marito e la loro figliola sapessero nulla della gravidanza, allora è come ripiombato
56 nell’afflizione più nera. E due giorni fa ha deciso di mettersi in bocca la sua Beretta d’ordinanza e di farla finita...” Con il groppo in gola per aver scoperto solo ora come, seppur in maniera indiretta, la turpe azione di Al Salih avesse causato la morte di un’altra persona oltre a Elisabetta e alla creatura che portava in grembo, Michele chiuse Internet e aprì il registro degli sms che lui e sua moglie si erano scambiati quando lei era ancora viva. Andò indietro fino al giorno 8 dicembre scorso. Verso mezzogiorno lui le aveva scritto: “Ciao, amore. Che fai? Io ho appena finito quel brutto intervento di cui ti ho parlato ieri. Ma la giornata è ancora lunga. Mi manchi tanto. E mi manca anche Naomi.” Seguiva una faccina imbronciata. Qualche minuto più tardi, lei gli rispondeva: “Io ho corretto un pacco di compiti. Non ti dico le stupidaggini che ho dovuto leggere. Per non parlare degli errori. Non credo che nessuno dei miei studenti diventerà mai uno scrittore. Tra poco mi preparerò qualcosa da mangiare. Anche a me mancate tanto. Senza di te e Naomi, la casa è troppo silenziosa. Ti amo!!!” Seguiva una faccina con due cuori rossi al posto degli occhi. Sempre più turbato, Michele si rimise in piedi. Che mattinata! Sorvolando su quello che Naomi aveva combinato a scuola e sulle rivelazioni della preside riguardo ai recenti trascorsi disciplinari della ragazza, in meno di un’ora lui aveva scoperto che sua moglie aveva un amante e che quindi, di punto in bianco, non si poteva più dire con certezza chi fosse il padre del figlio che lei aspettava. Poi aveva anche scoperto che, una settimana prima di essere uccisa, Elisabetta era stata fotografata in un bar lontano dalla città almeno una novantina di chilometri, quando in un sms gli aveva fatto intendere che si trovava a casa, a correggere compiti e a struggersi di malinconia perché lui e Naomi non erano lì con lei. Inoltre, era venuto a sapere che il cellulare di Elisabetta era stato ritrovato nella siepe di una casa custodita da un uomo che per breve tempo era stato sospettato di essere complice di Al Salih e che, a quanto pareva, era stato invischiato in loschi affari con un commissario che si era suicidato una settimana dopo l’attentato, apparentemente perché il fatto che Elisabetta fosse incinta gli aveva fatto ripensare a sua figlia morta un anno prima in un tragico incidente stradale. Proprie cose dei pazzi!, rifletté Michele, uscendo di casa. E pensare che non era nemmeno mezzogiorno. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
INDICE
DICEMBRE 1 ...................................................................................................... 3 2 ...................................................................................................... 5 3 ...................................................................................................... 8 4 .................................................................................................... 11 5 .................................................................................................... 16 6 .................................................................................................... 19 MAGGIO, GIORNO 1 7 .................................................................................................... 24 8 .................................................................................................... 28 9 .................................................................................................... 30 10 .................................................................................................. 32 11 .................................................................................................. 37 12 .................................................................................................. 39 13 .................................................................................................. 42 14 .................................................................................................. 46 15 .................................................................................................. 49 16 .................................................................................................. 52 17 .................................................................................................. 55 18 .................................................................................................. 57 19 .................................................................................................. 62 20 .................................................................................................. 63 21 .................................................................................................. 66 22 .................................................................................................. 69 23 .................................................................................................. 71 24 .................................................................................................. 75 25 .................................................................................................. 78 26 .................................................................................................. 80
27 .................................................................................................. 83 28 .................................................................................................. 84 29 .................................................................................................. 86 30 .................................................................................................. 88 31 .................................................................................................. 95 32 .................................................................................................. 97 33 ................................................................................................ 100 34 ................................................................................................ 106 35 ................................................................................................ 107 36 ................................................................................................ 110 37 ................................................................................................ 112 38 ................................................................................................ 113 39 ................................................................................................ 115 40 ................................................................................................ 124 41 ................................................................................................ 127 42 ................................................................................................ 130 43 ................................................................................................ 132 44 ................................................................................................ 135 45 ................................................................................................ 137 GIORNO 2 46 ................................................................................................ 141 47 ................................................................................................ 143 48 ................................................................................................ 146 49 ................................................................................................ 149 50 ................................................................................................ 154 51 ................................................................................................ 159 52 ................................................................................................ 167 53 ................................................................................................ 172 54 ................................................................................................ 175 55 ................................................................................................ 177 56 ................................................................................................ 179 57 ................................................................................................ 180 58 ................................................................................................ 182 59 ................................................................................................ 183
60 ................................................................................................ 186 61 ................................................................................................ 188 62 ................................................................................................ 193 63 ................................................................................................ 195 64 ................................................................................................ 197 65 ................................................................................................ 198 66 ................................................................................................ 200 67 ................................................................................................ 203 68 ................................................................................................ 208 69 ................................................................................................ 216 70 ................................................................................................ 219 71 ................................................................................................ 222 72 ................................................................................................ 225 73 ................................................................................................ 227 74 ................................................................................................ 231 75 ................................................................................................ 233 76 ................................................................................................ 235 77 ................................................................................................ 239 GIORNO 3 78 ................................................................................................ 243 79 ................................................................................................ 248 80 ................................................................................................ 252 81 ................................................................................................ 256 82 ................................................................................................ 261 83 ................................................................................................ 263 84 ................................................................................................ 269 85 ................................................................................................ 273 86 ................................................................................................ 276 INDICE ....................................................................................... 279