Onora il sabato

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In uscita il 31/10/2017 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine ottobre e inizio dicembre 2017 (3,99 euro)

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MATTEO BARBIERI

ONORA IL SABATO

ZEROUNOUNDICI EDIZIONI


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ONORA IL SABATO Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-140-2 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Ottobre 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Scrivere è un modo per parlare senza essere interrotti Jules Renard



LA SUPERBA



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Il sabato dei poveri è alla pizzeria Superba. Siamo in cinque: io, Anna, Martina, Alessio e Paolo. Seduti di fuori, quando è estate; dentro, appena sotto il bancone dove il pizzaiolo sbatte la pasta, d'inverno. Il tavolo è sempre lo stesso, blu e rosso, con tre gambe di plastica diritte e una storta, che traballa tutta sera, fino a quando Paolo, bestemmiando, non le infila sotto un pacchetto vuoto di paglie. Paolo è così. Non fa niente senza bestemmiare. Mangiamo pizza e beviamo Coca-Cola. Sulle bottiglie leggo sempre "Bottiglia da confezione multipla. Non vendere separatamente" e allora rido e penso a Tommaso, il proprietario, che compra a poco e rivende al doppio, rivende a noi che per venire qui risparmiamo una settimana. Ma senza Coca-Cola non si mangia. La pizza è una gomma che sa appena appena di formaggio e passata scaduta, con la pasta sui bordi che non si secca, non è croccante, ma resta molle e appiccicosa, sporcandoti le dita. Con la Coca-Cola vai tranquilla. Due bicchieri, le bollicine nello stomaco e tutto passa, via, come nuova. Ricordo ancora che una volta ho provato a non berla, sfidando chiunque a costringermi. Paolo ci ha provato, poverino, ed era una bestemmia dietro l'altra, mentre capiva che io ero proprio testarda e volevo andarci in fondo. E ci sono andata in fondo. Con la testa sulla tazza del water e le mani di mia madre a tenermi su, tirandomi i capelli. Da allora sono quella che ne beve di più, di Coca-Cola, quasi mezza bottiglia da sola e allora Anna si arrabbia, mi tira i calci da sotto il tavolo e io le mostro la lingua tutta scura e sporca di saliva. La Superba è un posto come tanti. Certo, ogni tanto piacerebbe anche a noi cambiare, magari nei locali del centro, che tutti dipingono una favola. Ma sono lontani, siamo piccoli o forse troppo grandi, e la vita costa cara, soprattutto quando devi arrangiarti fin da bambino. La Superba ci piace. Ci piace mangiare con le mani, sporcandoci i vestiti, e ruttare forte con la bocca spalancata, sedere a cavalcioni delle sedie, allungare i piedi sul tavolo. Ci piace giocare a chi la dice più grossa, a chi la sa più lunga e osservare gli altri clienti che come noi passano da qui, di fretta e sempre ingrugnati. Ce n'è uno in particolare che ci dà soddisfazione. È un impiegato delle Poste, alto e magrissimo, la cera più bianca


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di un morto. La sua camminata mi ricorda un sonnambulo troppo nervoso e, sia prima di entrare sia appena uscito, scuote la testa in un tic che mette l'angoscia, rovesciando gli occhi quasi fossimo lì lì per sparargli. Poi recupera la sua strada, il cartone in mano, felice di aver dato anche per quella volta un senso alla serata. Ci chiediamo spesso che cosa faccia lui mentre noi siamo insieme. Quale rituale pratichi per santificare il sabato e non sentirsi solo. La Superba è così, ci aiuta a pensare. E non passano solo clienti stravaganti, ma anche bei ragazzi, ragazze in ordine che ci mettono invidia. Martina, poi, non li può vedere. Appena con la coda dell'occhio ne avvista uno, le leggi in faccia la fame, il desiderio del cane randagio che vorrebbe, ma resta comunque digiuno. E quando la portiera di un’auto se li porta via, alla fame subentra l'odio e all'odio la rabbia, tanto che spesso ci pianta in asso a metà serata, scomparendo oltre la zona dove non funzionano i lampioni. È quasi un sollievo. La serata si fa più accesa, con le battute dei ragazzi che salgono di tono, arrivando alla provocazione. Io e Anna ridiamo, allungando di tanto in tanto una mano sotto il tavolo, a incontrare corpi estranei. È più o meno allora che Paolo tira fuori di tasca un preservativo e comincia a masticarlo, ruminando fino a sentirne in bocca il sapore amarognolo. Lo fa per piacere, per vestire un'aria da duro che non ha. Alessio è più concreto. Non passa sabato che non riesca a toccarci, anche solo a infilarci una mano sotto la gonna o nella maglietta. Lo fa con sicurezza, come fosse un atto dovuto che a lui, il capo branco, spetta di diritto. Un po' mi dà fastidio questa sua aria da bullo e ne parlo anche con Anna, dal momento che spesso la pensiamo allo stesso modo. Ma non si risolve. Alessio continua a toccarci e Paolo a masticare il suo preservativo fino a quando la Superba chiude e noi allora dobbiamo andarcene. Questo capita più o meno alle undici e, dato che ci sembra troppo presto per tornare a casa, girovaghiamo un po', in attesa che Tommaso chiuda la saracinesca e vada a dormire. Poi torniamo davanti alla Superba, leggiamo la scritta spenta che mette tristezza e ci sediamo sul marciapiede, stretti stretti, passandoci a turno una paglia fatta su. Restiamo così per ore, con le macchine che passano a un metro e qualcuno che ogni tanto si ferma e chiede a me o ad Anna se vogliamo salire. Paolo è l'unico che se la prende, noi non ci facciamo neanche più caso. Del gruppo sono la più bella. Se studiassi al classico potrei dire di avere il seno come la Madonna Lattea del Fouquet o i fianchi come la Venere del Botticelli. Ma sono ignorante. La mia istruzione è iniziata con poca


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voglia in un professionale e continua adesso nel negozio di una parrucchiera amica di mamma, che mi fa lavare i capelli alle clienti. Quel poco che guadagno lo lascio in famiglia, perché a vivere senza un padre le difficoltà sono tante, e allora spesso mi ritrovo a pensare che la bellezza non serve, che non serve l'intelligenza, che il mondo va proprio male. E allora vengo alla Superba. «Sentite qua. Voi vi siete mai fatti?» domanda una volta Alessio a bruciapelo, proprio mentre con la mano mi stringe il ginocchio destro, promettendo di salire più su appena possibile. Paolo smette di masticare il preservativo che ha in bocca da un'ora e lo guarda storto. «Tu?». «Che c'entro io? A voi l'ho chiesto, mica a me». «No». «Ebbravo. Voi belle?». Anna sorride furbo. So che fuma da quando sua madre la lascia uscire sola di casa. Adesso se ne vanterà. «Ogni tanto. Quando mi annoio» e scuote la mano con un gesto di nonchalance. «Tu, Marta?». Scrollo la testa senza alzare gli occhi dal tavolo. Sento la mano di Alessio, calda e ferma sulla coscia. Non ho ancora capito se vuole salire fino in cima. «Mi sembra che qua gli unici siamo io e Anna. Ma non vi preoccupate, perché stasera ho intenzione di farvi provare». E cerca qualcosa nelle tasche della giacca. «Dove l'ho messo? Ah sì, eccolo». Appoggia sul tavolo un barattolo di vernice usato. Il colore, un verde pastello sbiadito, si è tutto raggrumato sul bordo, colando a coprire il logo della marca. «Che cos'è?» domanda Paolo, il preservativo immobile tra i denti. «Vernice. Vernice da carrozzeria» sibila Alessio trionfante. Ci guarda negli occhi uno a uno, come a comunicarci il suo stato d'animo. Forse però sulle nostre facce legge confusione, perché subito dopo comincia a spiegarsi. «Nelle vernici come questa mettono i solventi. Sono piene di solventi, cazzo. Basta metterci il naso sopra, aspirare a pieni polmoni e sbam, ti arriva dritta al cervello. E sballi».


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«Che cosa?» si intromette Paolo, che non mastica più. «Sballi. Vai fuori di testa. Il mondo ti sembra un'altra dimensione». «Tu l'hai provato?». «Allo sfinimento, amico. E ogni volta è diverso. Ti credi di camminare dove vuoi, con chi vuoi. I desideri diventano realtà». «Io non ci credo». «Prova» gli grida in faccia. «Prova e poi mi dici se non avevo ragione. Ma devi provare». Alessio si sta scaldando. «Dove l'hai preso?» gli chiede Anna, indicando il barattolo che resta chiuso. «Al lavoro. Quando il capo non mi sta addosso do un'occhiata in giro. È ancora mezzo pieno. Guarda». Solleva il coperchio, sprigionando un odore che sa di amaro e di marcio. Paolo si tappa il naso, io mi sposto per non prenderlo diritto in faccia. «Sentite, su. Su». Ma nessuno ha il coraggio. «Dai, avanti. Non vi fa mica niente». «È schifoso, Alessio. Mettilo via». «Zitto tu. Non ti ho detto di parlare». Paolo scuote la testa e riprende la lavorazione del preservativo. «Dai belle, almeno voi datemela questa soddisfazione». Anna mi guarda a disagio. So che adesso accetterà. E, infatti, la vedo che si sporge sul tavolo verso il barattolo, ci infila dentro il naso, ispira ed espira velocemente. Comincia a tossire, gli occhi rossi e si vede che le è piaciuto. Si ributta per un altro giro, ma Alessio la frena. «Alt. Ti fa male tutto in una volta. Poi qui ci vedono» e indica Tommaso, in piedi dietro il registratore di cassa. Guarda verso di noi. «Se ti va possiamo andare in bagno. Poi lì con tutto il tempo…». Anna è già in piedi e scorgo nei suoi occhi una luce che non mi piace. Le viene insieme alla voglia e forse oggi spera di concludere qualcosa, solventi o no. Si fa trascinare via e la porta sbatte ancora quando sono già dentro. Li immagino stretti attorno al cesso, il coperchio chiuso e il barattolo appoggiato sopra. A turno si chinano e prendono aria dal naso. Forse si baciano, magari si toccano. Non mi dispiace. Alessio va con tutte e Anna è proprio l'amica troia che ogni ragazza spera di non avere. Preferisco stare qui. E poi i bagni della


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Superba sono piccoli e sporchi e senza luce. Cerchi le maniglie al buio, ti lavi le mani con un'acqua che sa di ferro come il sangue. «È proprio un coglione». «Chi?». Paolo mi fissa ruminando plastica e saliva. «Alessio, no? Si avvelena. E così avvelena anche Anna». «Avvelena, esagerato». «Guarda che non scherzo. La vernice fa male. Quando mio fratello era piccolo ne ha bevuto da un barattolo trovato in casa. È stato in ospedale due mesi». «Cosa?». «Non dico balle. La vernice fa male. È veleno. C'è anche scritto sopra. "Non disperdere nell'ambiente". E ci mettono pure il disegnino del pesce morto». «Ma allora dobbiamo dirglielo». Scatto in piedi e mi precipito in bagno. La porta è bloccata e sento dall'interno gli strilli di Anna che si diverte come una pazza. Ogni tanto anche Alessio le risponde, ma i suoi sono più che altro versi, sussurri, gemiti. Sbatto una serie di colpi sul battente. «Aprite, scemi. Vi fa male». Non mi sentono. Continuano a parlare tra loro, sempre più concitati. Adesso mi sembra di sentirli piangere. Batto di nuovo alla porta. «Aprite matti». Niente. Accosto l'orecchio per cercare di capire che cosa stanno facendo. Distinguo solo un corpo, poi Anna apre la porta. «Marta aiutami». Sta piangendo, ha le mani bagnate e al buio subito non realizzo. Poi sento l'odore del sangue. «Anna, cos'è successo? Anna». Mi piange addosso, indicando un'ombra distesa sulla tazza, le gambe articolate in una posa innaturale. Finalmente capisco. «Oddio, Alessio. Alessio!» mi metto a urlare. Senza neanche rendermi conto ho la sua testa in grembo e il sangue mi cola sulla gonna e poi sulle gambe nude, giù fino ai tacchi. Non si ferma. «Alessio, Gesù, Alessio». Mi guarda con gli occhi spalancati e due fiumi che gli colano dal naso. Non respira più, il petto si alza e si abbassa a scatti troppo brevi perché


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i polmoni si riempiano d'aria. La faccia è tanto pallida che i capelli scuri sembrano tentacoli d'inchiostro. Prova a parlare. «Pan... Pan...» ma non ci riesce. Abbasso la testa sulle sue labbra, il sangue mi si appiccica all'orecchio. «Pan ... Pantene». Non capisco, poi noto che prova ad alzare una mano per toccare le mie. Manca la presa, scivola a terra, ma mi aiuta a seguire i suoi pensieri. Vuole dirmi che le mie mani profumano di shampoo Pantene, quello che uso tutto il giorno, tutti i giorni per la testa delle clienti. Mi viene da ridere. «Marta, tutto bene lì?». La voce di Anna mi ricorda che Alessio sta male. «No, non va bene. Chiama aiuto. Chiama un dottore». Anna corre fuori, inciampa, sbatte la testa contro la porta del bagno, ma si rialza ed entra urlando in pizzeria. Presto tutti i clienti saranno qui. Alessio parla di nuovo. «Il barattolo. Butta... Buttalo». E mi fa segno di raccoglierlo dal pavimento. Non so che fare. Se lo lascio rischio che cada, non ha le forze per reggersi in piedi. Ma insiste. Continua a indicare il barattolo, mi tira la maglietta. Alla fine gli appoggio la testa alla parete del bagno, poi con molta cautela mi alzo, afferro il barattolo ancora pieno e penso di buttarlo nel cestino. Non so perché ma all'ultimo cambio idea. Vuoto il contenuto nello scarico, apro l'acqua, pulisco il lavandino. Mentre il colore pian piano si scioglie comincia a entrare gente. Il primo è Tommaso. Incespica al buio, senza distinguere bene i contorni delle cose. «Che succede? Che succede?». Prende a pugni l'interruttore della luce finché la lampadina al neon che penzola dal soffitto non si illumina debolmente, aggiungendosi al faretto da pochi watt posizionato sopra la porta. Solo allora mi vede e vede Alessio nel bagno, riverso ormai sul pavimento. «Madonna, Lucia. Lucia! Chiama un'ambulanza, dai». Solleva Alessio per la testa e lo schiaffeggia sulle guance, mentre alle sue spalle si ingrossa la coda dei curiosi che vogliono dare un'occhiata. «Che hai fatto disgraziato? Che hai fatto? Così mi rovini». E non smette di colpirlo, sperando magari che rinvenga. Alessio non reagisce. Alla luce mi accorgo che un filo di bava rossastra gli cola lun


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go il mento e che il petto non si alza più. Il cuore rallenta. Lucia, la moglie di Tommaso, si apre la strada nella ressa per capire cosa succede. Le basta uno sguardo e già ha le mani nei capelli biondicci, le lacrime agli occhi. Nessuno parla. Quando arrivano i sanitari, la situazione è disperata. C'è Anna che piange in un angolo dopo aver vomitato la cena, Paolo che si torce le mani neanche fosse un isterico, Tommaso sprofondato in uno stato a metà tra il coma e la vita. Sicuramente calcola il danno per il suo locale, il danno d'immagine per la Superba. Io non so che fare. Seguo il lavoro dei medici attorno ad Alessio, mi offro di aiutare ma mi allontanano, provo ad andar via ma mi dicono di restare, perché hanno alcune domande da farmi. Alla fine lo appoggiano su una barella, lo fissano con dei legacci e a un segnale convenuto se lo issano in spalla. Escono così dal bagno, tra due ali di folla che accompagna il corteo fino al parcheggio. Sono uomini e donne delle case popolari qua attorno. Hanno sentito la sirena, hanno visto l'ambulanza, qualcuno è sceso preoccupato per un figlio o una figlia. Hanno saputo di Alessio, in breve la voce è corsa per tutto il quartiere. Adesso c'è chi si segna con devozione, chi allunga una mano a sfiorare il corpo svenuto, chi piange e chi grida alla strage, all'omicidio e però non sa indicare un colpevole che sia uno. A mezzanotte Tommaso chiude la Superba. Quando spegne l'insegna, si fa buio come all'improvviso e tutti guardano in alto, realizzando forse per la prima volta quanta luce quelle sette lettere proiettano sulla strada. È un momento triste. Anna e Paolo camminano abbracciati, cantando le canzoni dei giovani senza futuro, io li seguo tre passi indietro e ripenso al medico che ci ha tenuti per mezz'ora sotto interrogatorio. Ha voluto sapere tutto e appena uno di noi confondeva gli eventi minacciava di chiamare la Polizia. Alla fine ci ha soltanto rimandati a casa. «Vedrete che il vostro amico ce la fa» ci assicura mentre usciamo, ma voltandosi subito dall'altra parte, così da nascondere gli occhi mentre parla. È lì che ho capito. Alessio non ce l'ha fatta. È morto in ospedale due giorni dopo, i polmoni ridotti in cenere. Suo padre tra le lacrime ci dice che i medici hanno fatto il possibile, sua madre minaccia di querelare tutti, perché il suo Alessio era un ragazzo sano e non può morire così. Ai funerali di tanti amici restiamo io e Paolo. Anna non c'è. Non la sento dalla sera dell'incidente e in negozio le donne dicono che suo padre


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l'ha picchiata forte per quello che è successo e che lei si vergogna a girare com'è conciata. Io ci credo. La bara dove hanno messo Alessio è un parallelepipedo di legno scuro, che a toccarlo mi ricorda i suoi capelli e allora mi scappa anche una lacrima e Paolo mi stringe la mano, senza farsi vedere dai miei che siedono di fianco. È cambiato Paolo. Non mastica più, parla con un tono severo, ride poco. A volte mi spaventa con occhiate che non sono più quelle di un ragazzino. Ai funerali non piange, solo stringe i pugni ogni tanto, arriccia il naso, si morde la lingua. Non vuole cedere. Quando la bara viene portata fuori, si offre per il trasporto, se la carica su una spalla, la circonda con un braccio come a volerla stringere un'ultima volta. Alessio non c'è più. Siamo io e Paolo ormai a uscire, a vederci per il sabato sera. Sempre alla Superba, che porta ancora il nome di una volta. Dopo l'incidente, però, Tommaso ha ceduto l'attività e i nuovi proprietari, una giovane coppia del Pakistan, si danno da fare per non perdere la clientela. Nuove pizze, nuovi tavoli e nuove sedie. Io e Paolo siamo due avventori tra i tanti. Una volta dal niente lui mi prende la mano, se la passa tra le dita, la stringe. Io lo lascio fare e guardò lassù, in alto. Non le stelle, non il cielo, ma l'insegna della pizzeria, la scritta "Superba". Due lettere si sono spente, le altre ancora resistono. «Spera» leggo ad alta voce. Paolo non capisce, ma lo stesso sorride. Io chiudo gli occhi e smetto di pensare.


ORAZIONI



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«Te lucis ante terminum rerum Creator poscimus. Ut pro tua clementia sis praesul et custodia...». Si interruppe e aprì gli occhi che non si ricordava di aver chiuso. Era buio. La stanza ricordava la cella di un monaco, il pavimento freddo e duro, i muri bianchi, senza decorazioni che non fossero un vecchio crocifisso di ferro, appeso a un chiodo solo. Richiuse gli occhi. Forse aveva sentito male, forse era stanco e basta. Cominciò a mormorare l'inno dal principio, sgranando intanto la corona del Rosario che teneva in mano. Di nuovo quel rumore. Si arrestò sconvolto sulla parola "Creator", che gli si impigliava tra i denti, rifiutandosi di uscire. Allora strinse con più forza i grani della Beata Vergine di Loreto, vibrò un sospiro e riprese a pregare, questa volta senza richiudere gli occhi. E fece bene. Il rumore non lo colse impreparato. Balzò diritto e uscì dalla camera sbattendo la porta. La calma delle orazioni lasciava il passo alla furia e il suo viso, di solito bianco e glabro come quello di un tisico, si colorava di viola, gli occhi mandavano lampi. Scese le scale al trotto, l'abito lungo nero che rischiava di farlo inciampare, ma non rallentò. Intanto il rumore saliva di intensità per diventare continuo e aggressivo e violava senza pudore l'intimità solenne di tutto l'edificio. Non c'era stanza, corridoio o androne che non ne fossero pieni, tanto colmi da risputarlo fuori centuplicato a ogni aprirsi di porta. «Scellerati, senza Dio, con che coraggio venite qui?» diceva a mezza voce, ruminando rabbia e saliva, fino a quando non arrivò a un portone in ferro alto due metri. Spinse i battenti a spalancarlo. Il rumore esplose. Quella che apparve era una visione d'inferno, di corpi squassati e mezzi nudi, di liquidi e colori, di forme confuse e bizzarre che ricordavano Bosch e il suo giardino delle delizie. E la musica. La musica era la miscela che rendeva tutto infiammabile. Il martellare ossessivo come di


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una grancassa apriva le orecchie e accelerava il moto turbolento del sangue. Il cuore, lassù nel petto, si adeguava e di conseguenza il corpo era scosso da brividi e scariche d'energia e si divertiva nella danza, a suo agio come il torero nell'arena. «Ma che cosa…». Una ragazzina, perché quello era anche se sembrava un diavolo tentatore, gli corse incontro sorridente, la maglietta bianca bagnata a sottolineare con malizia i capezzoli eretti. Beveva una Corona. «Venga, venga con noi» gli urlò con tutto il fiato, provando a tirarlo per la mano e, visto che non ci riusciva, anche per l'abito scuro. «Ferma, lasciami stare, via». «Su, non si faccia pregare. Venga. Le piacerà» e ammiccava, umettandosi le piccole labbra da bambina. «Valeria. Che cosa fai?». Un uomo calvo, bagnato di sudore, proiettò in avanti la sua ombra. Afferrò Valeria per le spalle, la trascinò dietro di sé come a nasconderla. «Don Palma, buonasera. Non pensavo che ci avrebbe fatto compagnia». «No, infatti. Io non … Io ... Sono sceso per il rumore, ecco». L'uomo annuì con finta comprensione, come se con tutte le attrattive di quella serata Don Palma fosse sceso soltanto per la musica. «Le dà fastidio?». «È alta, non le pare?». «Forse ha ragione» e lo disse senza crederci, meccanicamente. «Però sa com'è, sono ragazzi». «E questa è la casa di Dio». «A dire il vero questo è l'oratorio, Don Palma. L'oratorio che affittiamo per le feste, ricorda? Più o meno ogni sabato, dalle otto a mezzanotte». «Affittiamo?» domandò con un filo di voce. «Ma sì, davvero non se lo ricorda? È per pagare i lavori di costruzione. Prendiamo una tariffa fissa per i locali. Il resto, pulizie comprese, è a carico dei clienti». «E oggi...». «Oggi è la festa di Marcellino». E vedendo che Don Palma scrutava la folla di ragazzini sotto le luci pensò bene di indicarglielo. «È quello laggiù. Con il ciuffo. Lo vede?».


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Don Palma guardava senza distinguere nulla. A un tratto si infilò anche le lenti da vista. Inutile. «Sua madre è sempre stata molto generosa con l'Azione Cattolica e oggi pensavamo di sdebitarci. Magari chiudendo un occhio sul contorno». Proprio in quel momento un ragazzo cadde in ginocchio per vomitare. Subito si formò intorno una folla di curiosi. Qualcuno rideva, le ragazze fingevano orrore, ma sbirciavano tra le dita. Partì anche un coro di sfottò. «Mi scusi, Don Palma, ma devo proprio intervenire». E cominciò a farsi largo tra la ressa. Don Palma restò fermo indeciso, poi si sentì tirare una manica dell'abito. La ragazzina era ancora lì. «Lei non si diverte mai?» gridò tutta rossa in viso. Don Palma provò a non rispondere, ma lei insisteva, gli si strinse addosso con fare possessivo. «Venga con noi». La allontanò in malo modo solo per vederla tornare. Sembrava che ci avesse preso gusto a tormentarlo. «Che cosa vuoi?». «Aiutarla. Lei non si diverte mai, vero?». Si strofinava sul suo corpo come una gatta. Don Palma sentiva sul ventre i capezzoli di lei, gonfi e duri più di quanto li avesse immaginati. Perché sì, Don Palma lo ammetteva a cuore aperto. Da qualche parte nel suo essere, in qualche angolo riposto, aveva desiderato quel contatto, quella commistione, pur superficiale, pur effimera, di carni. Era indecoroso, di certo sconveniente, forse sufficiente per aprire uno scandalo in seno alla comunità, ma tuttavia inevitabile. Don Palma se ne pentì come di una colpa gravissima, si vide sporco e indegno al cospetto di Dio, si vide tornato bambino, con le dita ancora appiccicose di miele e sua madre che lo picchiava. Si vide piangere anche, ma quella ragazzina era sempre lì, con due bracieri al posto degli occhi, a tentarlo. Era per lei e per quelle come lei che recitava ogni sera il Te lucis ante terminum, per non cedere, per non arrendersi al maligno. Si bloccò. Gli sorse per la prima volta nella vita il dubbio che in quella carne ci fosse per davvero il male. Dubitò per un attimo della sua educazione, del suo credo, del suo Dio che vietava qualcosa di così naturale, di così sano. Ma fu un attimo. Perché subito dopo si ritrovò ancora l'uomo posato di sempre, si liberò della stretta, corse via, riparandosi la coscienza ferita


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nel buio del corridoio. Qui si nascose a pensare. Presa la testa tra le mani, respirava piano, recuperando la calma. Poi si appoggiò alla parete. Era impuro adesso, lo sapeva bene, impuro secondo il Levitico, impuro secondo Dio. Doveva lavare vie le macchie sul suo onore, tornare il Don Palma di una volta, onesto e casto, che non aveva mai toccato una donna, neanche nel pensiero, neanche in sogno. Urgeva un'intercessione ai piedi di quel padre affettuoso che era Dio, perché accettasse il suo pentimento sincero e lo riscattasse dalla colpa. Urgeva al più presto un ciclo completo di orazioni davanti alla Madonna. Ricominciò a correre fin quasi a rotolare oltre la porta della chiesa. Il rumore tacque, la luce scomparve come aspirata. Non c'era niente intorno a lui. Sentiva solo la fragranza dei fiori sotto l'altare e poteva distinguere nell'ombra, laggiù in fondo, il tremore delle candele ormai consumate dopo la celebrazione della sera. Camminò sulle punte fino a scendere i gradini. Era nella navata di destra, la più buia e la più fredda. Con la forza dell'abitudine superò fila di banchi, immagini sacre appese alle colonne, ex voto che testimoniavano miracoli di secoli prima. Don Palma si segnava continuamente, stringendo il crocifisso d'avorio che portava al collo. Pian piano entrò in comunione con Dio. Quando vide la Madonna cadde in ginocchio con un sospiro, sbattendo sul pavimento di marmo dell'altare, senza curarsi del dolore, le mani giunte in preghiera. Il volto della madre di Cristo era scuro come il fumo di mille ceri lo aveva fatto, scuro ma lieto, sorridente di quella grazia che si trova sempre sul viso della Vergine. Era stato Don Palma a volerlo così, a opporsi a qualsiasi progetto di restauro, contro l'opinione dei fedeli che avevano anche protestato con violenza, per poi piegarsi alle sue ragioni. "Bruna sono, ma bella" si dice nel Cantico dei Cantici. "Non state a guardare che sono bruna perché mi ha abbronzata il sole" si rincara più oltre. E Don Palma, da amante, anzi da vero idolatra delle Scritture, non poteva non saperlo, considerando anche la sua venerazione per Loreto e per la Santa Casa. «Sancta Maria, ora pro nobis» cominciò a scandire lentamente, intonando la cantilena solita. Chinava il capo fino quasi a toccare terra e le mani, giunte in grembo, non stavano ferme, ma si muovevano l'una dentro l'altra, in un continuo strofinio di angosce e nervi. Don Palma combatteva contro il maligno.


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Pure davanti all'immagine per lui santissima della Vergine, non riusciva a vincere il ricordo della ragazzina. E nel dire il nome della Madonna, nel salmodiare lento dei suoi attributi, il pensiero (o il cuore?) correva sempre da lei, da lei che saltava nella danza, le trecce nere come catene, la bocca un tulipano e il sudore che le imperlava la fronte una rugiada di misericordia. Si conficcò le unghie nella carne fino a piangerne. Sbatté le nocche insanguinate sul legno dell'altare, si costrinse a fissare la Vergine negli occhi, ma non ne ricavò senso né conforto. La Vergine taceva, restava indifferente alle sue orazioni e Don Palma ne capiva la ragione. Le sue erano parole senza sostanza. Certo, la lingua si arrotolava in lodi mistiche e profondissime, il pensiero si edificava già nella promessa del perdono, ma il cuore era tiepido e distratto, lontano e prigioniero di ben altre trappole. Don Palma serviva il desiderio soltanto, in tutto dimentico di Dio. Cominciò a piangere, con la luce delle candele che ondeggiava tra le lacrime come la scia del faro in una notte di tempesta. Piangeva a dirotto, nascondendosi la faccia nelle maniche della veste, bisbigliando sempre orazioni in latino, fiducioso quasi che dovessero avere più peso, che dovessero salvarlo. S'ingannava. Nella sua mente spaccata a metà la parte ribelle divorava il terreno sotto i piedi dell'altra e mancava poco ormai che quest'ultima precipitasse nelle tenebre, da dove non sarebbe riemersa mai. «Mater purissima, ora pro nobis. Mater castissima, ora pro nobis. Mater…». Niente. Tutto inutile. Non c'era contatto, non c'era intimità. «Vas honorabile, ora pro nobis. Vas insigne devotionis, ora pro nobis. Rosa mystica, ora pro nobis». E si aspettava di vederla questa rosa, lassù, nel cielo a risplendere della luce di Dio. Non era questo il senso delle parole "sono bruna perché mi ha abbronzata il sole"? Invece si accorse disperato che della rosa sentiva il profumo soltanto, ma non del fiore, no, non dei petali. Sentiva il profumo, l'odore di lei che danzava adesso chissà dove. Era come avere il naso sulla sua pelle color del latte, carpirne quasi alla maniera di un ladro il segreto di bellezza. Si vergognò di provare un trasporto simile per quanto c'era in lei di animalesco, di selvaggio, tanto che ne avrebbe baciato le zone più impudiche senza pensarci che un attimo. Gridò per una fitta al costato.


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Ormai neppure in ginocchio la sua preghiera trovava la strada per arrivare a Dio. Don Palma era buttato ai piedi della Vergine, ne cingeva le gambe in stato di supplica, ne baciava i sandali. Alla fine perse i sensi. Si ritrovò a vagare per un deserto senza luci. Poteva sentire in faccia un vento caldo e secco sollevare la polvere, confonderlo tra le sagome scure dei palmeti, nel frusciare fastidioso della sabbia tra le dita dei piedi. Andava senza sapere dove, con una veste di lana grezza a coprirgli la nudità e un bastone di legno, scheggiato e troppo corto per potersi davvero appoggiare. Era stanco. Poi vide una luce, un'unica fiammella ancora lontana, così flebile e leggera da sembrare finta. Allungò un braccio, indicandola con la mano. Tremava. Non disse niente, consapevole com'era di essere solo, si limitò a correre, affondando nella sabbia che faceva di tutto per trattenerlo, incespicando sui sassi e graffiandosi le mani e il viso. Quella luce era più importante del dolore. Arrivò a una povera capanna di mattoni, costruita sotto l'arcata di una grotta. Era un edificio basso e rozzo, con una sola finestra che dava sul deserto e sul tetto le pietre al posto delle tegole. Dalla finestra filtrava una luce. Strizzò gli occhi per vedere meglio, si accostò all'apertura e scorse all'interno una donna velata, seduta a un tavolo, le mani piegate in grembo. La donna fissava il pavimento, dimentica di tutto. Decise di entrare. Percorse il perimetro della casa, attento a non ferirsi i piedi sulle rocce, finché non trovò una porta di legno. Il battente era accostato. Spinse e fu dentro. Si ritrovò in una sala semibuia, un letto e un catino colmo d'acqua nell'angolo, qualche stoviglia appesa alle pareti e il tavolo con la donna al centro. Prese ad avvicinarsi. Poi capì che la donna pregava ed ebbe paura di disturbarla, si fermò a un passo da lei, chinò la testa come in ossequio alla sua maestà. La donna si girò a guardarlo. Era la Vergine Madre di Dio. Riconobbe su di lei i tratti della fanciulla illibata, della signora che in tanti anni aveva onorato come e più di una regina. Cadde in ginocchio, tendendo le mani in una supplica, sentendosi nudo davanti a lei, ma anche colmo d'amore, d'affetto, di gioia. Voleva toccarle la veste, baciarle i piedi, bisbigliare assieme alla sue voce mille orazioni, che il Padre nel cielo sicuramente avrebbe accolto. La Vergine Maria, lì, davanti a lui, come era possibile? Un miracolo di sicuro, un grande grandissimo prodigio.


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«Ave Maria, gratia plena ...» ma si bloccò. Vedeva, infatti, che qualcosa non andava. Il volto della Vergine, prima così luminoso, andava via via spegnendosi e le sue vesti, le sante vesti che coprono la nudità della madre di Cristo, si sfilacciavano, lasciando intravedere ampi lembi di carne. Si coprì gli occhi e venne investito da un vento forte, terribile, che sembrava voler trascinare ogni cosa. Si aggrappò al pavimento, mentre la sua veste volava dalla finestra e restava nudo, nudo e bianchissimo nell'oscurità. Ci fu silenzio. Sentì in bocca il sapore amaro della sabbia, batté le palpebre per liberare gli occhi, si guardò intorno. La Vergine era scomparsa, ma davanti a lui, nell'oscurità morente dell'alba, stava una figura di donna. Figura perché ancora indistinta nel contorno, ancora nascosta, poi però venne alla luce che entrava dalla finestra e si chinò su di lui, gli accarezzò la faccia. Non indossava niente che non fossero i lunghi capelli sciolti sul collo. Aveva il volto arrossato, labbra piccole e guizzanti che si umettava continuamente con una rapida passata di lingua. Sul petto lasciato nudo i capezzoli duri come noci saltellavano al ritmo del respiro e una lieve peluria scura le copriva l'attaccatura delle gambe. Gli sorrise, scoprendo una fila di dentini aguzzi, bianchi come e più della sua pelle. «Venga con noi». «Noi chi?». «Noi. Venga» e gli prendeva le mani. Si accorse con orrore che il suo corpo la seguiva. Si alzò in piedi, la accompagnò al centro della stanza, la aiutò a salire sul tavolo, lo stesso tavolo a cui prima pregava la Vergine. Ma non contava più ormai. Era solo un futile dettaglio. Salì anche lui, attento a tenere l'equilibrio sulle gambe. Il piccolo diavoletto femmineo gli mordeva il collo, sussurrandogli parole senza nome, spingendosi a frugare il suo corpo nudo senza vergogna. Alla fine si unì a lui nella carne, mescolando alla realtà di quel volto impubere visioni della Vergine, che, scacciata da casa, lo ammoniva da qualche parte lassù nel cielo, indicandolo agli angeli, il viso solitamente bianco divenuto rosso di collera o forse di gelosia. Ma non se ne curava. O meglio, ne soffriva di una pena come attutita, confusa, come di una promessa che sapeva già disattesa, di una minaccia pronunciata da chi non ha più potere. E nell'amplesso con quella creatura dell'abisso,


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creata per lui e per lui soltanto, distingueva a sprazzi la felicità, la felicità piena e vera e … Si svegliò di colpo. La stanza, completamente buia, non dava riferimenti e neppure il crocifisso, appeso sopra il letto, vinceva le ombre. Si tirò su a sedere, arrotolando le coperte intorno alle ginocchia. Si grattò la fronte, ebbe anche il coraggio di tastarsi il viso, quasi temendo di non trovare più gli occhi al loro posto abituale, la bocca di un tempo, le orecchie. Invece tutto stava come sempre. Nelle tenebre diffuse anche il silenzio regnava senza ostacoli, un silenzio puro e assoluto, rotto solo dal ritmo angosciante dei suoi pensieri. In fondo si era trattato di un incubo, che male c’era? Un incubo capita a tutti prima o poi, è un semplice residuo del giorno che durante la notte sedimenta e … Dunque quella ragazzina era reale? Esisteva come esisteva lui, di un’esistenza di carne? La sola idea poté sconvolgerlo più di mille fantasmi. Scoppiò in lacrime. Strinse i grani del Rosario che per tutto il sonno aveva tenuto vicino, richiuse gli occhi, li riaprì non potendo contenere il pianto. «È stato un incubo, soltanto un incubo» si ripeteva all’orecchio, ma il tono che parlava non era affatto sicuro, anzi. Era sconvolto. Si alzò dal letto e si buttò in ginocchio sotto l’immagine della Vergine che teneva in camera. Giunse le mani in preghiera. «Non esiste, Madre. Esistete solo voi per me e l’amore che vi porto, quell’amore grande …». Un tuono esplose nella notte, facendo tremare le pareti. «Madre, vi prego, abbiate pietà. Sono un umile peccatore, un figlio che ha sbagliato, vi prego, possiate voi perdonarmi e …». Il tuono si ripeté, più forte di prima, più selvaggio. E non veniva da fuori, no. Lo sentì bene salire dalle stanze di casa sua, dal corridoio, dalla porta della camera lasciata socchiusa. «Madre, vergine madre di Dio, vi prego, vi supplico, liberatemi da questa sofferenza, datemi un segno che voi …». Il tuono esplose ancora a pochi passi, spalancando la porta. «Madre! Aiutatemi!». Nell’oscurità avanzava un coro di ombre, a passo lento, ritmato, strofinando i piedi nudi a terra. «No, no, Madre, vi prego, no».


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A un tratto una figura si staccò dal gruppo e venne verso di lui. Allungò una mano perché potesse toccarla. «Chi siete? Chi siete voi?». La voce sembrò attendere, quasi a voler creare un’atmosfera. Poi parlò piano. «Lei non si diverte mai, vero?». Una pausa, poi riprese. «Venga con noi». «No, non è possibile, no». «Su, venga con noi. Le piacerà». La voce si avvicinò ancora, ormai sussurrava a un passo dal suo volto. «Chi siete? Chi siete voi?». Di colpo una mano si appoggiò sulle sue spalle, poi un’altra e un’altra ancora sulle braccia, sul petto, sulle gambe. Dita invadenti gli si appiccicarono al viso, ai capelli, si infilavano sotto le sue vesti. «Fermi, vi prego, fermi!». Ma le mani continuavano a scavare, insinuandosi a solleticargli la pelle. In breve si sentì preso, stretto da ogni parte. Solo allora qualcuno fece luce nella stanza, illuminando i volti di chi lo teneva prigioniero. Don Palma lanciò un grido. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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