Parrucche, Francesca Cutino

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In uscita il 28/9/2018 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine sHttembre e inizio ottobre 2018 (3,99 euro)

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FRANCESCA CUTINO

PARRUCCHE

ZeroUnoUndici Edizioni


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PARRUCCHE Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-227-0 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Settembre 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Ad Ale e Leo



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PROLOGO

«Federica Lorenzi…?» «Sì, sono io… chi parla?» «Signora Lorenzi chiamo dalla segreteria personale del candidato sindaco Gianni Comelli…» «S… sì, mi dica…» «Abbiamo selezionato il suo curriculum tra i vari pervenuti e il candidato sindaco ritiene che il suo sia in linea con la strategia di comunicazione che ha intenzione di mettere in campo nell’imminente campagna elettorale. Il suo contratto, pertanto, mi faccia controllare… inizia…» pausa «domani mattina.» «Cooosa? Domani mattina? C… come domani mattina? Io devo trasferirmi, ho da fare le valigie e… non ho organizzato niente!» «Signora Lorenzi, non so che dirle, il candidato sindaco vorrebbe incontrarla domani mattina alle 11 e le chiede massima puntualità… sa… il dottor Comelli ha un’agenda piena di appuntamenti…» «Immagino. Capisco, nel senso di…o… ok. Ci sarò.» «Perfetto, a domani e non si dimentichi di portare con sé il suo curriculum in formato cartaceo.» «Va bene.» «A domani.» «A domani.»


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I

Credo che a guidare un viaggio sia quella totale incoscienza su cosa accadrà durante il tragitto e una volta giunti a destinazione. Trascinavo il trolley con una mano e con l’altra il passeggino traballante di Simone come una perfetta equilibrista. Il treno stava per arrivare. Era l’alba, e io non avevo sonno, neanche un po’. Ero concentrata a osservare gli altri viaggiatori. Un uomo sulla cinquantina vestito come un ragazzino di venti, una signora di colore con un turbante giallo, un ragazzotto elegante che aveva lasciato una coda di profumo fresco e inebriante dietro di sé. Tante vite. Miriadi di storie mi sfioravano, senza sapere che la mia, storia, quella mattina, avrebbe subito una virata violenta, anzi una retromarcia verso il mio passato. Tornavo a casa. Tornavo dove ero nata, dove ero cresciuta, tra la gente che mi aveva visto andare a scuola con lo zaino pesante sulle spalle o mangiare un gelato con i calzoncini corti e i calzini di merletto. Tornavo nei posti che avevo lasciato per inseguire un amore, quell’amore che pensavo potesse durare tutta la vita, quell’amore che mi aveva regalato un figlio, quell’amore che, però, contro ogni aspettativa, era svanito, perché una sera, un’auto di grossa cilindrata, guidata da due ragazzi alticci, gli si era scaraventato addosso con la velocità di un treno. Tornavo da mia madre, costretta in un letto per via della malattia o, come soleva chiamarlo lei, del “mostro”. Una madre che avevo paura di guardare negli occhi, per non rivivere il dolore dell’assenza e della precarietà. La mia vecchia vita l’avrei lasciata lì, tra quella gente, nella brecciolina delle rotaie, nella confusione di una stazione semideserta. L’aria pulita e limpida di una nuova alba mi accoglieva


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come se non aspettassi altro, come se delle dita leggere avessero mosso i fili della mia esistenza e avessero deciso di portarmi fino a lì. Con me, c’era Simone, la mia vita, il mio senso, il mio tutto, il mio bambino, tutto ciò che avevo e che mi portavo dietro come un tesoro da proteggere, tutto ciò che era rimasto di quel grande amore andato via troppo presto. Il treno era arrivato. Faceva caldo e avevo la fronte imperlata di sudore. Difficile trovare qualcuno che mi aiutasse a sollevare valigie, bagagli e passeggino. Nessun problema. Feci tutto da sola. Avevo forza ed energie per sollevare il mondo. Il sangue pulsava ritmico nelle vene. Il calore alle tempie. L’alba aveva tolto il disturbo per dare spazio a un sole delicato ma già presente. Salii sul primo vagone che mi si parò davanti. Simone dormiva tranquillo e già questo bastava a rasserenarmi il cuore. «Andiamo», sussurrai piano, come se suggerissi al treno cosa fare. Il treno partì, con la sua ritmicità e i suoi rumori da caffettiera rotta. Fuori frastuono di rotaie, dentro il silenzio della meditazione, intervallato dal ruggito di un leone in gabbia. La mia vita di prima era ormai alle mie spalle. Colline, prati, palazzi diroccati e poi mucche, strade, paesaggi, scorrevano come diapositive davanti ai miei occhi. Tutto scivolava via con facilità. “Ce la faremo, ce la faremo”, mi ripetevo, mentre Simone riposava beato, sereno come un angelo, cullato dalle vibrazioni del vagone più in fondo. Ce la faremo.


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II

Io e Simone eravamo arrivati a destinazione. Già dal finestrino del treno avevo intravisto qualche paesaggio familiare, ma fu fuori dalla stazione che mi sentii mancare il respiro. L’edicola delle figurine della “Bella e la Bestia” era ancora lì, anche il fruttivendolo accanto. Attilio il macellaio aveva chiuso i battenti per lasciare il locale a un negozio di abbigliamento dalla griffe importante. Più avanti, c’era il bar più frequentato della città, quello dove la domenica mattina ero solita ordinare il cornetto integrale al miele e il cappuccino, con papà che leggeva il giornale. «Simo tesoro, hai visto? Siamo arrivati!» Gli ripetevo come se avessimo varcato la soglia del paese dei balocchi. Simone mi guardava sorridente, specchiandosi divertito nei miei occhialoni da sole. Era felice perché avvertiva che la sua mamma era felice. I figli sono una spugna. Se si è tristi loro lo avvertono subito, come se percepissero tutte le vibrazioni della voce e del cuore dei propri genitori. I suoi occhi brillavano, probabilmente anche i miei, ma li nascondevo con cura. Da troppo tempo nascondevo anche le mie emozioni, nascondevo le mie forme dolcemente arrotondate dalla maternità, nascondevo le mie lacrime e la mia femminilità. Quegli occhialoni non erano lì solo per proteggermi dal sole, ma per schermare la mia vita da tutto ciò che potesse arrecarmi dolore. Ecco perché avevo accettato l’incarico. Ecco perché mi ripetevo come un mantra “ce la devo fare, ce la devo fare”, perché nella mia vita non volevo e non potevo più concedermi fallimenti. Non era più il tempo di piangermi addosso, di fermare il tempo, anche perché il tempo non si ferma, mai.


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Saverio e Roberta erano lì, tra la banca e la pescheria. Li riconobbi subito, non erano affatto cambiati. Lei, sempre più rassomigliante a mia madre o a mia zia e lui, altissimo, sempre un po’ curvo, ma dolce nello sguardo. Saverio era il capo staff del “candidato sindaco”, era lui che aveva presentato il mio curriculum, facendo presente a chi di dovere le mie numerose qualifiche e la mia professionalità. Probabilmente la scelta era ricaduta su di me anche perché ero sua cugina e quindi in nome di quel rapporto fiduciario che è naturale si instauri tra il possibile sindaco e il suo addetto stampa. In ogni caso avrei dovuto dimostrare sul campo quanto sapevo della mia professione. In caso contrario, avrei dovuto rifare le valigie e salire di nuovo su quel treno. Erano dieci anni che non vedevo mia cugina Roberta, esattamente dal giorno del suo matrimonio con Saverio. Anche all’epoca scesi dal treno con mille bagagli, ma questa volta avevo con me un bagaglio decisamente più importante, di quelli dove apporre la scritta “fragile” o “maneggiare con cura”. Simone li vide e li salutò con la manina, senza sapere chi fossero. Gli avevo detto che lo avrei portato dagli zii e che avremmo trascorso un po’ di tempo a casa loro, che ci avrebbero ospitato, ma che dopo qualche mese avremmo tolto elegantemente il disturbo. Ci avviammo verso di loro, mentre ci venivano incontro sorridenti. «Fede!» gridò Roberta, abbracciandomi forte. «Rob! Cuginetta mia!» Saverio saltò ogni tipo di manifestazione sdolcinata, come suole fare un uomo tutto d’un pezzo, ma intravedevo con la coda dell’occhio una certa commozione nel guardare Simone, quel piccolo scricciolo che gli sorrideva dal basso del suo passeggino, sul quale era seduto solo per comodità. A soli due anni, infatti, aveva già tolto il pannolino e camminava come un maratoneta. «Lui… è Simone, giusto?» mi chiese Saverio timidamente. «Sì, è proprio lui, il mio ometto!» Saverio non aggiunse altro, mentre Roberta intervenne bruscamente per spezzare quel momento di apparente imbarazzo…


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«È splendido Fede! E tutto suo padr… ehm ti somiglia tanto!» «Non preoccuparti Rob», la rassicurai. «Hai perfettamente ragione. È la fotocopia del papà.» Non so se gli occhialoni avessero assolto la loro funzione di “schermo protettivo”, ma speravo con tutta me stessa che Rob e suo marito non si fossero accorti delle lacrime che mi affollavano l’iride. Rob cambiò espressione. Mi prese per mano, carezzò Simone e mi trascinò verso la loro auto, parcheggiata lì vicino. In auto parlammo del viaggio, del nuovo lavoro al quale mi sarei dovuta precipitare subito dopo aver sistemato Simone e i bagagli. «Lo sai», disse Roberta, «per me è un piacere occuparmi di Simone mentre lavori! Saverio è fuori tutto il giorno per lavoro, mi farà compagnia! È vero amore della zia? Ci andiamo a mangiare un bel gelato giovanotto?» Simone acconsentì alzando le sopracciglia. Mi sembrava a suo agio. Mi sentivo tranquilla. Finalmente. «Grazie Rob! Non sai che aiuto mi stai dando, non lo sai…» «Non sai tu che gioia mi stai donando…» Capii subito a cosa si riferisse. Ci scambiammo uno sguardo d’intesa più eloquente di miliardi di parole. Io ero mamma, perché avevo un figlio. Lei, dopo dieci anni di matrimonio, non aveva figli, ma era mamma ugualmente, glielo leggevo negli occhi. Il suo istinto materno era più forte delle false gravidanze e delle inseminazioni non andate a buon fine. Questa volta, alzai gli occhiali e li usai a mo’ di fermaglio, per tenere a bada i capelli. La guardai diritto negli occhi e le accarezzai le guance. Lei comprese. Mi sentiva e io sentivo tutto il suo dolore in un’empatia perfetta. Due cuori feriti, chi per un motivo, chi per un altro, ma pur sempre in piedi a lottare, perché la vita è una continua sorpresa e niente, niente avrebbe fermato la nostra voglia di ruggire e correre verso la felicità.


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«Allora vado», le dissi. «Simo, tesoro, Roberta ti porta a mangiare un gelato, mentre mamma va al lavoro… ok?» «Sì mamma bella.» Mamma bella, disse proprio così. Quando me lo ripeteva con quell’aria dolce, era l’unico che aveva il potere di farmi sentire davvero una donna piacente e mi caricava come non mai. Gli schioccai un bacio sulla fronte. Vestita di tutto punto mi diressi nel luogo dell’appuntamento, un grande palazzone a specchi, al centro di una serie di palazzoni a specchi. L’indirizzo era proprio quello: via dei Gerani, 13. Suonai il citofono. «Sono Federica Lorenzi, salve, sono qui per il lavoro, per la campagna elettorale intendo.» «Prego, salga pure al diciottesimo piano.» Diciottesimo? Che ansia! Non amavo prendere l’ascensore, ma ero costretta a farlo. Le porte dell’ascensore si chiusero veloci alle mie spalle. Una porta massiccia con su scritto “Dott. Comelli” mi si parò davanti. Respirai. Tossii. Una, due, tre volte. Mi sistemai i capelli lunghi e il tailleur blu. Un’ultima sbirciatina alle scarpe. Ok, erano pulite. Bussai. Mi aprì una donnina minuta, che accennò un saluto con la sua manina altrettanto minuta e molle. Con l’altra mi indicò la direzione dell’ufficio. «Prego, signora, il dottor Comelli la sta aspettando nel suo ufficio.» Annuii ed entrai con circospezione nella stanza. «Buongiorno dottore», salutai con educazione. «Buongiorno, si accomodi», rispose il “candidato sindaco” senza alzare gli occhi da un documento che tratteneva tra le mani, mentre anelli di fumo provenienti da un posacenere poggiato sul tavolo si dileguavano contro il suo mento. Per circa cinque minuti non proferì parola, intento e assorto com’era nella sua lettura. Minuti interminabili, ansiosi, imbarazzanti. La


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sigaretta era ormai consumata, ma l’odore di nicotina, ormai, avvolgeva tutto. Poi, si tolse gli occhiali da vista, si stropicciò la fronte, come a massaggiarsela e puntò il suo sguardo verso di me. «Allora? Lei è la grandissima social media manager, esperta di comunicazione politica e digital media strategist?» L’imbarazzo crebbe a dismisura. In una dimensione parallela, probabilmente, sarei scivolata dalla sedia e sarei caduta sul pavimento, sperando di trasformarmi in una mattonella. «Beh, sì», risposi con fermezza, scimmiottando la sua caricatura. «Diciamo che le mie esperienze di studi e lavorative mi hanno portato fino a qui.» «Bene. Vedremo, dottoressa Lorenzi, vedremo… intanto le dico da subito che questa campagna elettorale è una sfida all’ultimo sangue. Dobbiamo vincere. Punto. Non c’è altra alternativa. Lei se la sente di combattere insieme a noi, insieme al mio staff di soldati?» Più che con un politico mi sembrava di parlare con il comandante di un esercito che sta per affrontare la più grande delle guerre. «Certo che me la sento!» risposi, ostentando sicurezza. «Ottimo. E le dico un’altra cosa. Lei deve essere a nostra disposizione ventiquattro ore su ventiquattro, anche la notte, nulla deve impedirle di essere al nostro servizio. Le elezioni si terranno fra due mesi. In questi due mesi, dobbiamo mettere in campo una strategia di comunicazione fortissima, capace di scardinare le convinzioni astruse della gente, dobbiamo usare tutti i mezzi a nostra disposizione per far comprendere a tutti che la “nostra” proposta politica è migliore di quella del nostro avversario, il dottor Erminio Sacconi. Politico preparato, ma soprattutto imprenditore ricco, capace di comprarsi anche il “consenso” della gente… mi comprende?» «Comprendo dottore, cercherò di fare del mio meglio!» «Cercherà? Come cercherà? Lei “deve” dare il massimo. Dottoressa, questa è la battaglia delle battaglie. Le confido, in tutta franchezza, che abbiamo pochissime speranze. Davide contro Golia.»


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Le sue spiegazioni erano incalzanti, a malapena riuscivo a proferire parola. «Oggi non le sto firmando solo un contratto di lavoro. Oggi le sto affidando un’enorme responsabilità e lei non mi deve deludere>>. «Io non sono un politico, io sono un uomo che ama questo paese, che è nato qui e che non può più tollerare di vederlo mortificato, rosicchiato da una politica asservita al potere, da una politica di palazzinari in cerca di ricchezza, da una politica capace di calpestare la gente comune>>. «Io non ci sto. Lei non ci crederà, ma io sono l’eccezione. Io sono quella mosca bianca che vuole, davvero, cambiare le cose>>. «Vede dottoressa Lorenzi», indicò una foto sulla scrivania, «questi sono i miei figli. Farei un torto a loro se non vincessi questa campagna elettorale. Lei ha figli? Se la sentirebbe di far frequentare loro scuole fatiscenti o peggio non avere spazi aperti dove farli correre spensierati>>? «Io ho un progetto. Ho le idee chiare. Mi creda, non vendo fumo.» Non stava recitando, né interpretando il discorso di un comizio pubblico. Glielo leggevo negli occhi e dal tremore delle mani. Mi sembrava sincero. Nella mia vita, mi era già capitato di avere a che fare con i politici, ma, dovetti ammetterlo, mai, prima di quel momento, avevo visto tanta passione, tanta verità nelle parole di uno di loro. Quell’uomo mi convinse. E non tanto per quello che disse e che aggiunse ancora parlando di quel paese, di quella città che aveva sognato e che finalmente aveva l’opportunità di cambiare, ma per le decine di foto della sua famiglia che popolavano la sua scrivania. In un quadretto più piccolo s’intravedevano due bambini mano nella mano e una donna dietro di loro, probabilmente sua moglie. In un’altra, lui che giocava con i suoi figli, mentre la moglie era intenta a guardarli, in un’altra ancora, la sua famiglia al mare. In quelle foto, c’era tutto quello che sognavo anche io. In quelle foto c’era la mia famiglia mancata. C’era una coppia felice che condivideva un sogno.


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Furono quelle immagini a farmi credere alle sue parole, niente di più. Io ero una sognatrice e avevo bisogno di credere in quello che facevo per farlo bene. Quell’uomo mi aveva convinto. Era palese. Era chiaro e lampante. Nei suoi occhi ardeva un fuoco scoppiettante e dentro il suo cuore ruggiva un sogno, come nel mio ruggiva un leone. Firmai il contratto. L’indomani, avrei dovuto seguirlo al suo primo comizio. Uscii dal palazzo a specchi con il petto gonfio. Il vento mi sollevava i capelli. Non avevo voglia di metterli a posto e di addomesticarli. Che volassero pure coprendomi il viso! Il mio leone scalpitava, ruggiva più che mai mostrando i denti… per quella volta l’avrei lasciato fare, senza mettergli la museruola.


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III

Quando feci ritorno a casa ebbi la sensazione che tutto stava procedendo come doveva. Roberta e il mio piccolino stavano cenando e io stavo per aggiungermi a loro. Saverio era rimasto nella sede operativa per organizzare il comizio del giorno dopo. L’avevo sentito parlare al telefono, con toni accesi, con qualcuno che avrebbe dovuto rifornire la piazza di sedie e non l’aveva ancora fatto, poi impartire ordini al service audio-luci perché tutto funzionasse a meraviglia. Nella sala da pranzo, invece, c’era un clima sereno, quello di una vera famiglia che si ritrova la sera dopo una giornata di lavoro. «Mamma, lavoro?» chiese Simone mentre gustavo l’ultimo pezzo di parmigiana di melanzane. «No, amore, adesso stiamo insieme. Vieni qui, fatti abbracciare!» Bastava poco, bastava veramente poco per ritrovarci, tanti bacetti sulle guance, un po’ di solletico sotto le ascelle e le nostre canzoncine allegre. L’indomani sarebbe stata per me una giornata molto impegnativa, avrei dovuto seguire il mio candidato sindaco nel suo primo comizio, ci sarebbe stata una miriade di gente e avrei dovuto cogliere il lato umano di quella situazione, per far sì che le persone si innamorassero di lui, della sua sensibilità, ma, soprattutto, che rimanessero affascinate da un uomo che aveva davvero voglia di cambiare le cose. Dovevo pensare, dovevo spremermi le meningi, inventarmi qualcosa, qualcosa che riuscisse a stupire tutti… d’altra parte l’inventiva e la creatività non mi mancavano. Si era fatto tardi. Simone si era addormentato fra le mie braccia, con delicatezza, senza svegliarlo, gli misi il pigiamino, lo presi in braccio e lo condussi nel suo lettino. Quel contatto così intimo, quella vicinanza di cuori e di anime, quel sentirci respirare, era ciò che di più bello


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c’era fra di noi. Niente è più totalizzante, più appagante, di stringere il proprio figlio tra le braccia e sentirlo abbandonarsi perché al sicuro con la sua mamma. «Roberta, devo scendere, è tardi, devo scappare.» «Vai, tesoro, non ti preoccupare. Noi andiamo a fare una passeggiata al parco, ci raggiungi lì?» «Mi piacerebbe», risposi trafelata, «ma non credo di riuscirci. Ci vediamo a casa, mi raccomando mettigli il maglioncino blu sulle spalle… fa caldo, ma tira un po’ di venticello.» «Sì, sì», mi rassicurò, «non preoccuparti vai, tranquilla.» Roberta mi spinse verso la porta ridacchiando. Una macchina blu, molto lunga stile limousine, venne a prendermi sotto casa. Alla guida, un autista dalla divisa impeccabile e accanto a lui il dottor Comelli, dietro, con me, Saverio. Ero talmente assonnata che non mi ero resa conto di averlo accanto mentre uscivo di casa. C’era un po’ di tensione nell’aria, probabilmente dovuta a quel primo incontro pubblico. Saverio era assorto e serioso… avevo una strana sensazione e mi venne naturale domandare se fosse successo qualcosa. «Non voglio farmi gli affari vostri, né voglio essere invadente, ma… è accaduto qualcosa?» Il dottore si accese una sigaretta, aprendo simultaneamente il finestrino. «Il nostro leader di partito ci ha dato forfait, non verrà. Cosa cazzo andiamo a dire a quella gente?» Questa, la risposta secca e seccata del dottore, mentre buttava via un altro boccone di fumo. «Diamine! Questa non doveva capitare! Il nostro avversario, in questo preciso momento, sta tenendo un comizio con il leader del suo partito… che figura di merda… non ci voglio pensare… che figura… cazzo!» Rimasi un po’ perplessa per il linguaggio adottato dal dottore. Rispetto al giorno del colloquio, in cui si era mostrato molto accorto


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nella scelta delle parole, in quel momento stavo scoprendo un altro lato del suo carattere, un lato decisamente più spigoloso. Mi feci coraggio. «Dottore», cercai di rassicurarlo, «non si preoccupi, ci inventeremo qualcosa… non si preoccupi… mi lasci pensare…» Per tutto il tragitto rimuginai a lungo su come uscire da quel baratro, dovevo trasformare quel momento difficile in un’occasione per noi. Ebbene, a un certo punto, la lampadina si accese. Non ero Einstein, ma in quel caso un pizzico di “populismo” a fin di bene non avrebbe guastato, anzi… «Dottore! Chiami la sua famiglia, chiami i suoi figli, chiami i suoi genitori. Li faccia venire qui! Chi l’ha detto che il primo comizio bisogna aprirlo con il leader di partito? Dove sta scritto? Non sarebbe meglio aprirlo con la sua famiglia che si presenta al grande pubblico? Non sarebbe meglio farsi conoscere prima come persone e poi come politici? Lasci che la gente veda la sua verità, lasci che sbirci nella sua vita e nel suo mondo. Non pensa che questo sarebbe più utile per lei e per loro? Non pensa che la gente abbia bisogno di più trasparenza e più umanità? Il leader verrà la prossima volta…» Silenzio. Il dottore accennò un piccolo sorriso. Preferì non voltarsi verso di me, ma i suoi gesti erano eloquenti. Prima si toccò il mento, poi si aggiustò la cravatta e, infine si grattò la testa, tutti segnali di gradimento verso quanto gli avevo consigliato. Evidentemente anche la comunicazione non verbale rientrava nelle mie competenze… Digitò un numero sul display del suo telefonino, senza perdere tempo, probabilmente era quello di sua moglie, le disse di correre in via Borromeo 17, dove si teneva il comizio e di portare con sé figli e genitori. La moglie, dall’altro capo del telefono, acconsentì. Saverio, accanto a me, tirò un sospiro di sollievo e mi guardò con riconoscenza. Poverino, si sentiva responsabile anche del raffreddore del leader…


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Dopo neanche mezz’ora eravamo tutti lì, uno squadrone o per meglio dire una famiglia. Il dottor Comelli iniziò il suo discorso, sebbene dovette modificare la parte inziale. Notai, con un pizzico di soddisfazione, che mise in tasca il fogliettino sul quale annotava i punti salienti del suo intervento e finalmente andò a braccio. Partì dai suoi figli, li presentò uno a uno, senza far mancare qualche battuta ironica sui rispettivi fidanzati o sull’andamento scolastico. Poi, fu la volta dei suoi genitori, due anziani eleganti e raffinati e, infine, fu il momento di sua moglie, una perfetta first lady, dolce, rassicurante e sicuramente tenace. La folla di sostenitori e di curiosi giunta sul posto per ascoltarlo applaudiva con entusiasmo. Il ghiaccio si era rotto. Il dottore passò così a spiegare le ragioni della sua discesa in campo e a elencare il suo programma elettorale. Il pubblico pendeva dalle sue labbra. Decisi di scattare qualche foto, nell’intento di cogliere i momenti più significativi. La carezza al figlio minore, il bacio alla first lady, il saluto alla folla, l’indice sollevato in aria come a sottolineare l’imperiosità delle sue intenzioni. Anche i giornalisti, giù dal palco, scattavano foto a raffica, prendendo appunti sulle loro agendine stropicciate e sudate. L’assenza del leader era passata in secondo piano. Il comizio si concluse con un bagno di folla. Il dottore venne sommerso da abbracci e strette di mano, chiunque voleva portarsi a casa una foto con il “candidato sindaco Comelli”, come accade a molti vip sul red carpet. Assaporavo quel successo da un angolo della piazza, più distante. Comelli si accese un’altra sigaretta. La moglie gli rivolse una sorta di rimprovero, ma non poté completarlo perché un’amica la trascinò verso un altro gruppo. La limousine mi riaccompagnò a casa. Non vedevo l’ora di raccontare tutto a Roberta e poi, mi mancava tremendamente Simone.


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Girai piano la chiave temendo di svegliarlo. Entrai e vidi un piccolo batuffolo avvolto in una copertina di cotone, con tanto di pezza fredda sulla fronte. «Fede, Simone ha la febbre alta. Ho chiamato il dottore e…» «Roberta, ma perché non mi hai chiamato, sarei venuta subito…» chiesi rammaricata. «Proprio per questo, Fede, non volevo disturbarti e farti preoccupare per niente. Il dottore ha detto che si tratta di una banale influenza. Stai tranquilla, vedrai che con un po’ di latte caldo e miele, tanto calore e i bacetti della mamma, la febbre andrà via.» «Ok, scusami, è che non mi va di lasciarlo…» Non riuscii a trattenere le lacrime. Sentivo montare una rabbia e un forte senso di colpa dentro, che faticavo a contenere. Sentivo di non essere una mamma perfetta, anzi di essere la più imperfetta delle mamme, rea di aver lasciato suo figlio un’intera giornata per un lavoro, un incarico che non sapevo neanche dove mi avrebbe portato. I sensi di colpa delle mamme sono atroci. Sono lì, ti lasciano un’impronta sul cuore senza dare spiegazioni, un dolore sordo, di quelli che non sai da dove provengono, ma si riverberano in tutto il corpo. È un malessere, il senso di colpa che non ti lascia, ti tiene per il collo, ti spezza il respiro, anche se cerchi di pensare ad altro. È quell’assurda convinzione di non essere abbastanza, di essere mancante e manchevole in qualcosa. «Ok, adesso chiamo e mollo tutto!» «Ma sei impazzita?» mi redarguì Roberta. «Vuoi davvero perdere questa grande occasione? Mi stai deludendo cuginetta mia, ti facevo più forte e invece… ti stai tirando indietro al primo ostacolo.» Rimasi in silenzio. Aveva ragione. Dovevo riflettere. Eh sì, riflettere. Come se fosse facile… Riflettere. E chi ne aveva più il tempo? Io di certo non ne avevo.


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La vita è una corsa inarrestabile, dove non ci si può permettere di perdere i treni che passano. Dove ci svegliamo e dobbiamo correre per andare prima a scuola e poi al lavoro, non possiamo fare tardi. Punto. Dove cresciamo e dobbiamo correre per conseguire una laurea, per cercare un lavoro, dobbiamo correre per fare soldi, che non possiamo spendere come vogliamo, perché quelli che “corrono” non sono bei tempi. Dove corriamo per fare tutto in tempo, anche sposarci, anche i figli, perché se non corriamo noi è il tempo che lo fa al posto nostro. Dove corriamo per prendere il taxi, per essere puntuale a un appuntamento, per incastrare il dentista nella miriade di cose che abbiamo da fare. Dobbiamo correre per curarci, per stare bene, ammesso che il nostro corpo risponda. Ci sono corse e corse. Corse che ci portano lontano, ma che non cambiano nulla dentro di noi, e corse brevi, che lasciano il segno. Ci sono corse che hanno obiettivi chiari e lampanti e corse senza meta. Ci sono corse che affrontiamo in piena forma fisica e corse in affanno. Riflettere. Lo facevo poco. E chi ne aveva il tempo? Bisognava farlo.


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IV

Avevo la mattinata libera. Il dottore Comelli era fuori paese per impegni istituzionali e fuori c’era un sole primaverile perfetto per una passeggiata nella villa comunale. Simone nel passeggino era rilassato e contento di trascorrere del tempo con la sua mamma, finalmente. «Guarda, Simo, questa è la Villa comunale, è un giardino bellissimo, ci sono piante rare da trovare nel mondo e alberi secolari… hanno più di cento anni!» «Wow!» esclamò sgranando gli occhioni blu. Mano nella mano ci incamminammo in quel posto meraviglioso che mi riconduceva alla mia infanzia, quando al posto di una piattaforma di legno, uno specchio d’acqua dava refrigerio a delle leggiadre paperelle. Camminando in quel percorso naturale ci imbattemmo nelle giostrine, dove alcuni bambini giocavano a spingersi e a rincorrersi. Poco distante c’era un fiume, quel fiume, un pugno nell’occhio dopo tanta natura incontaminata. «Simo, tappati il naso, qui non si respira…» gli dissi scoraggiata. Simone si coprì la faccia mal celando una smorfia di disgusto. «Sai tesoro, tanto tempo fa i tuoi nonni si tuffavano in questo fiume e bevevano quest’acqua a piene mani. Era fresca e pulita…» Mio figlio mi guardava incredulo. «Davvero! Poi sai cosa è successo? Qualche prepotente ha iniziato a non averne più cura e a gettarvi carte, cose vecchie, rifiuti e lo ha sporcato, facendolo diventare una fogna. Non credi che sia un vero peccato?» «Sì, mamma, peccato! Bagnetto?» Beata ingenuità. «Magari, amore… forse è meglio andare in piscina…»


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Tra un giro sulle giostre e qualche aneddoto raccontato sul filo dei ricordi, la mattina era volata via. La macchina blu venne a prendermi nuovamente. Saverio era già a bordo, ormai, parte integrante della tappezzeria. Il dottor Comelli era scuro in volto e fumava nervosamente una sigaretta martoriata fra le dita. Non impiegai molto a capire che, ancora una volta, le cose non andavano nel verso giusto. «Cos’altro è successo?» chiesi con l’aria di chi si aspetta il peggio. Saverio mi fece cenno di tacere. Le cose si stavano mettendo male. «Dottoressa Lorenzi!» mi chiamò in causa serafico il dottore. «Sì?» «Legga i giornali!» mi ordinò, porgendomi la Voce del Paese, il giornale più letto del comprensorio. Con attenzione sfogliavo quelle pagine, fino ad arrivare a un servizio centrale, dove campeggiavano titoloni imbarazzanti e la foto in primo piano di Comelli. “Auto blu e lusso per il candidato Comelli”. Più in basso un trafiletto annesso a una foto di una mountain bike: “Sacconi e il porta a porta in bicicletta”. In quel momento compresi tutto. Lo sconforto, il silenzio, gli occhi spenti del mio candidato. «Ma non è giusto!» esclamai non riuscendo a contenere la rabbia. «Questa è una pagliacciata, solo uno stupido può credere a questa operazione di facciata! Sacconi ha persino i rubinetti del bagno placcati d’oro, mentre lei… lei nel suo programma elettorale ha previsto un progetto di ampliamento del verde cittadino e la costruzione di parchi a tema, altro che biciclette e tricicli…» Comelli rimase in silenzio, poi, si lasciò andare: «Sacconi vuole abbattere gli alberi secolari della Villa comunale per costruirci altri palazzi. È un piano che non è riuscito ad attuare nel primo mandato perché i comitati ambientalisti avevano intuito la sua idea ostacolandolo in ogni modo. Se vince queste elezioni, però, temo che nessuno possa riuscire a fermarlo.»


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Saverio ascoltava con gli occhi sgranati, fissando qualcosa di indefinito fuori dal finestrino. «Sono dispiaciuta… proprio questa mattina sono stata in Villa ed è stato come tornare bambina. Anche io sono cresciuta qui. Fa male tutto questo.» Ci recammo in un’industria conserviera. Lì ci aspettavano i nostri attivisti, i proprietari e le maestranze. Dopo Sacconi, volevano sentire anche il programma di Comelli, per farsi un’idea chiara su chi votare. Il dottore iniziò a spiegare le sue idee, ma si percepiva un’aria di indifferenza e scetticismo. Evidentemente, Sacconi aveva già gettato l’amo e i pesciolini avevano abboccato senza troppa fatica. Era chiaro che Comelli, in quel posto, non era il benvenuto, forse perché quell’industria era tra le maggiori responsabili dell’inquinamento del tratto di fiume che costeggiava la Villa e aveva intuito che la nostra parte politica non avrebbe più chiuso gli occhi di fronte a tale scempio. Il programma di Sacconi, invece, per loro, era molto più calzante. Andammo via con il morale a terra. Dopo il successo del debutto, le speranze di vincere quelle benedette elezioni si stavano sempre più dileguando. Avremmo potuto chiamare le maggiori forze politiche, i leader più grandi della terra, ma se hai il fisico di Davide non puoi stendere Golia. «Saverio», gli chiesi una volta a casa, «che cosa facciamo adesso?» «Se ti dicessi che ho un’idea mentirei», rispose facendo spallucce. Roberta ascoltava i nostri discorsi, mentre versava un bicchiere d’acqua a Simone, ignaro dei discorsi “dei grandi” e felice di quella nuova dimensione. Mentre ingannavamo il tempo guardando una nota trasmissione televisiva, di quelle più trash dei palinsesti, notai che Roberta era rimasta in silenzio tutto il tempo. La raggiunsi in cucina, dove stava pulendo le verdure. «Robby, cos’hai? Ti vedo strana…» «Niente, Fede, ho un gran mal di testa», rispose dandomi le spalle.


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«Robby, ha a che fare con Simone, ha fatto il monello oggi?» «No, no per carità. Quel bambino è un angelo!» «E allora, perché hai questa faccia?» Non ci mise molto ad abbattere i suoi muri. Fu un attimo e si abbandonò a un pianto liberatorio sulla mia spalla. Singhiozzava proprio come una bambina, mentre le accarezzavo i capelli raccolti in uno chignon perfetto. Qualcosa mi diceva che quella serenità familiare nascondeva un dolore più profondo e che quel dolore avesse a che fare con la sua mancata maternità. Me ne ero accorta giorni addietro osservandola giocare con Simone. I suoi occhi non erano felici, ma malinconici. Quella donna desiderava un figlio più di ogni altra cosa, fino a non sentirsi più una vera donna. Nulla di più sbagliato, ma assolutamente comprensibile. Se non avessi avuto Simone, dopo la morte di mio marito non avrei avuto la forza di rialzarmi e di lottare. Era stato lui che mi aveva dato quella carica per affrontare di nuovo la vita, per rimettermi in gioco. I figli sono un dono, il più bel regalo che la vita può farti, e se una donna che si sente mamma non può fare la mamma, perde pezzi di sé, si sgretola, si consuma, fino a non desiderare più niente. Roberta era satura. Le aveva provate tutte. Dapprima si era affidata a Dio, sperando in un aiuto divino, poi aveva provato con la scienza, sottoponendosi a cure ormonali e inseminazioni artificiali. Aveva trasformato un evento naturale in un calcolo matematico e razionale, consumando le sue scorte di fede. «Robby, ho capito. Se non vuoi parlare, non dire niente», la rassicurai. «Federica, sono a pezzi. Pensavo che questa volta, dopo le cure prescritte dal ginecologo, le accortezze, le pillole e tutte le schifezze ingerite, il nostro sogno si sarebbe avverato… e invece… ho paura che non avrò mai un figlio. Ho paura di dover rinunciare per sempre al mio desiderio di diventare madre.» Erano parole, le sue, soffocate dal dolore. Mentre si sforzava di liberarsi da quel peso sul cuore, inghiottiva lacrime e amarezza.


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«Da quando sei qui con noi», continuò il suo sfogo, «sono rinata. Simone ha portato una ventata di gioia in questa casa, ma ha risvegliato in me quel desiderio che tenevo nascosto in fondo al cuore. Giocare con lui, cambiarlo, vestirlo, mi sta facendo capire che non posso rinunciare a tutto questo, che devo lottare, ma…» «Ma?» «… Ma Saverio non vuole saperne, non vuole più affrontare l’argomento.» «Cioè? Saverio non vuole figli?» «Ha detto che non vuole più soffrire e che l’attesa lo devasta. Sono a pezzi…» Comprendevo lo stato d’animo di Saverio. Caricarsi, ogni volta, di grandi aspettative e puntualmente dover ricalcolare il percorso non doveva essere facile per un uomo che desiderava diventare padre. Capita di pensare al dolore delle madri e di mettere loro al centro di una gravidanza. E anche questo è naturale, visto che è nel loro ventre che si forma il bambino, ma mai commettere l’errore di accantonare le emozioni dei papà, di metterle da parte, di ritenerle meno importanti. La paternità, come la maternità, è un’esperienza unica e ogni volta diversa. «Vedrai che è solo un momento… cambierà idea e ci riproverete, ne sono sicura!» «Lo spero con tutto il cuore e se Dio ha deciso diversamente, potrò sempre adottarlo un bambino no? Ho tanto amore da offrire…» «Lo so, cuginetta, mia. Ti conosco, sei speciale.» La abbracciai forte. Ci raggiunse anche Simone, con il suo sorriso e la sua luce. Saverio sentì una sonora risata provenire dalla cucina. Eravamo noi.


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V

Non ero andata via solo per seguire l’amore. Ero andata via perché scappavo da una realtà che non potevo combattere senza armi: la malattia di mia madre. Il “mostro”, invece, era rimasto lì, nei suoi polmoni e non se era andato, anzi, aveva messo radici e mi aspettava per l’ultimo braccio di ferro. Una luce bluastra invadeva la stanza della clinica dove era ricoverata. Poche cose, ma ordinatissime, in quel cubo dai pavimenti e dalle pareti candide. Un tavolino accanto al letto in ferro battuto, una pianta grassa sul davanzale che dava sul parcheggio, una poltroncina barocca nell’angolo più buio e una lampada a illuminare i suoi capelli. Ma una penombra bluastra invadeva la stanza. E neanche la luce che filtrava da dietro le tendine riusciva a contrastarla, neanche il neon della lampada, neanche il riverbero delle pareti bianche. Difficile comprendere quale fosse la fonte di quel colore, doveva essere la sommatoria di questi diversi fasci di luce a generarla, una strana mescolanza di fotoni. Una stanza singola che papà si era fatto riservare appositamente dal primario amico suo, Giovanni Sforza, medico chirurgo. Gli aveva telefonato come era solito fare e con tanto garbo e dovizia di particolari aveva spiegato la sua situazione. Il dott. Sforza, vuoi per l’amicizia trentennale con mio padre, vuoi per l’emergenza del caso, la fece ricoverare subito in quel posto privilegiato. Il “mostro” negli ultimi tempi si era esteso notevolmente. Il polmone destro era ormai completamente compromesso per le metastasi e a breve avrebbe dovuto affrontare il più importante degli interventi. Nel frattempo, i bravi medici amici di mio padre avrebbero effettuato tutti i controlli e le analisi del


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caso. Il rischio che le cellule cancerose si fossero staccate dalla fonte per nidificare altrove, non era così improbabile. C’era solo da aspettare. La vita, a volte, ti mette in standby. Quella donna che dormiva respirando affannosamente davanti ai miei occhi era in standby, aspettava qualcosa, forse di riappropriarsi di quel corpo che credeva stupidamente di sua proprietà. E invece no. Il suo corpo era solo un involucro che poteva decidere, da un momento all’altro e in piena autonomia, di impazzire in maniera incontrollata, di lasciarla. Da tempo, ormai, non riusciva più a domarlo, a fermarlo, a gestirlo. Aveva cercato, invano, di abbracciarlo, di parlargli come fosse un amico o un familiare, di accarezzarlo con tenerezza, ma niente. Era sordo alle sue richieste. Aveva iniziato un viaggio senza portare con sé i bagagli e, forse, non conosceva neanche lui la meta. Lei avrebbe potuto solo limitare i danni e assecondare le sue scelte. Anche i suoi capelli avevano fatto la loro scelta. Se ne erano andati via. Con la leggerezza di una piuma erano caduti per terra, sul cuscino, in cucina e la sua testa era diventata un uovo di cui, conoscendola, si vergognava terribilmente. C’erano altre due stanze sul pianerottolo che ospitava mia madre. Nella 10, esattamente alla sua destra, c’era Osvaldo, un uomo sulla sessantina ricoverato d’urgenza per metastasi al pancreas. Era spacciato. Lo sapevamo tutti. Chiunque su quel piano conosceva il suo destino, ma con lui, ancora vigile purtroppo, si sprecavano parole di vita e di conforto. Durante l’orario di visita, c’era un viavai di parenti, amici, probabilmente giunti fino alla clinica nell’intuizione di poterlo perdere da un momento all’altro. Osvaldo diceva di non sentire dolore. Il “mostro” era silenzioso ma agguerrito. Aveva divorato tutto indisturbato e ora chiedeva il conto. Cerano anche i figli accanto a lui o almeno così avevo percepito dai discorsi ovattati che si potevano sentire dalla stanza blu. «Papà, stai tranquillo. Sei una roccia.» «Osvaldo, tieni duro, abbiamo un bel po’ di cose da fare insieme.» «Amore, oggi ti vedo meglio…»


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Parole di circostanza, pianti incontenibili e poi il suo continuo, costante, lamento. Ma se non sentiva dolore perché si lamentava? mi chiedevo, in preda all’ansia e al panico che mi sopraggiungeva associando quelle voci all’immagine inerme di mia madre. Era tutto un brusìo di visite che si dileguavano in poco tempo e il lamento di un uomo sul finire della vita. Quella vita che non voleva abbandonare e alla quale si aggrappava con le poche forze che gli erano rimaste. Quel lamento voleva essere un grido, un urlo fortissimo, un “vaffanculo” globale a tutti, al mondo, alla gente, ai medici, a quel letto d’ospedale, alla vita stessa che aveva deciso per lui, che prima gli aveva dato e poi gli avevo tolto, come una puttana che ti fa credere di essere il miglior amante, ma presi i soldi va via di spalle. Perché non c’è niente da fare. La odiamo, la calpestiamo, ma la vita è un miracolo, la vita è la vita. Pensavo di trovarla sveglia e invece i medici mi avevano detto che da qualche giorno il respiro si era fatto molto pesante, tanto da doverle somministrare un farmaco soporifero e dell’ossigeno attraverso due tubicini conficcati nel naso. Era talmente debole che il sonno sembrava la migliore soluzione per non sprecare energie. Il “mostro” aveva stretto il pugno e stava per schiacciarla al tappeto. Anche l’infermiera incaricata di cambiarle l’ossigeno me lo aveva confermato, nel modo tipico delle infermiere, che parlavano di morte con la stessa leggerezza con cui cambiano una coppia di lenzuola e le federe ai cuscini. C’era poco tempo. Una condanna per noi, che ci eravamo rincorse per tutta la vita, perennemente in contrasto, eppure così simili. Da piccola elemosinavo il suo tempo, sempre troppo fugace, per via del suo lavoro. Da adulta glielo negavo, pensando di non doverle nulla per il tempo che mi aveva sottratto. Con il sopraggiungere della malattia, la mia rigidità si era trasformata in paura e la paura in egoismo. Avevo realizzato che lei non aveva più tempo per me. Decisi di andare via, salendo sul treno che mi avrebbe portato verso l’amore, quell’amore finito troppo presto, ma che aveva fatto in


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tempo a generare nuovo amore. Ero tornata a casa per recuperare tempo, non mettendo in conto che, ormai, proprio il tempo era diventato il mio nemico. Al mio rientro, in casa, c’era un gran silenzio. Roberta, Saverio e Simone dormivano. Per non farmi brancolare nel buio avevano lasciato la luce della cucina accesa e lì, appoggiata alla credenza, mi fermai a pensare. L’immagine di mia madre calva continuava ad affacciarsi alla mente. Pensai, allora, che forse Google poteva aiutarmi. Una volta avviato il motore di ricerca, digitai la parola “parrucche”. Sì, parrucche. Perché no? Le immagini che scaturirono dalla ricerca erano diverse. Parrucche gialle, rosse, verdi, parrucche da clown, parrucche per parrucchieri in erba, parrucche per carnevale, parrucche per travestimenti erotici, parrucche per vezzo, parrucche per imitazioni, parrucche di ogni specie, tranne le parrucche per malati di cancro. E allora cambiai le parole chiave di ricerca. Digitai “Parrucche per malati”. Le immagini che scorrevano sotto ai miei occhi erano ahimè quelle che cercavo, ma innescarono un turbinio di sensazioni che misero a dura prova la mia fermezza. A indossarle, infatti, erano per lo più bambini e a loro veniva spiegato come farlo affinché non sembrassero posticce. Che amarezza. Il cuore cominciò a battere forte, irrorato da sangue pompato alla velocità della luce. Lo sentivo ribollire e riscaldarmi il petto. Fu proprio in quel momento che mi convinsi. Pigiai il pulsante “ordinazioni” nell’angolo inferiore della schermata, che intanto lampeggiava in un rosso brillante. Spensi il computer velocemente quasi a voler oscurare anche i pensieri. Non le avrei regalato il tempo, ma almeno…


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VI

Dopo gli articoli che bollavano Comelli come “amante del lusso” non avevamo più riaperto la faccenda. Difficile smentire ciò che corrispondeva alla realtà: il nostro veicolo continuava a essere una splendida, luccicante, costosa limousine. Il punto era un altro. Non dovevamo essere noi a correggere il tiro, ma erano le bugie di Sacconi a dover essere smascherate. «Simo, tesoro, questa sera verrai con Roberta in piazza. Ci sarò anche io, ma non potrò stare molto tempo con te, perché mamma dovrà lavorare.» Era quello, uno dei comizi più importanti, perché Comelli avrebbe dovuto parlare a un pubblico molto vasto, al centro del paese. Avevo organizzato tutto alla perfezione e non era un caso che quel comizio coincidesse con un altro evento di non poca rilevanza: la festa del Santo Patrono. Non avevo dimenticato quanto i cittadini credessero in quella ricorrenza, quanta fede, quanta speranza riponevano in quella preghiera unanime, recitata per le strade cittadine, nei rioni, nelle periferie, negli anfratti meno frequentati. Il ricordo del passaggio del Santo fuori casa era ancora vivo nei miei ricordi. Pare che la statua fosse destinata a un altro paese vicino, ma una volta sul nostro territorio, cominciò ad appesantirsi tanto da impedire ai buoi che la trascinavano di proseguire il cammino. La statua del Santo fu allora portata nella chiesa più vicina e lì, proprio nella casa di Dio ubicata nella piazza centrale, mise le sue radici, le stesse radici a cui sentivano di appartenere gli abitanti della mia città. Tra tanti problemi, primo fra tutti la presenza di un fiume inquinato e portatore di morte, uno spiraglio di luce c’era ed era ravvisabile in


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quel culto profondo che riappacificava l’uomo con la natura e univa il sacro e il profano fondendoli insieme. Dal momento che un’intera comunità, nonostante tutto, continuava a sentirsi figlia della stessa terra e devota allo stesso Santo, qualcosa voleva pur dire e cioè che c’era ancora terreno fertile per migliorare le cose. Il palco c’era e questa volta lo staff che ci aiutava nella preparazione degli allestimenti si era superato. Sullo sfondo le luminarie pacchiane della feste di paese illuminavano anche i vicoli più diroccati, un piacevole pugno nell’occhio molto simile a un presepe. “Non devono esserci sedie”. Si era raccomandato il candidato sindaco. “Non voglio che le istituzioni si seggano in prima fila a discapito dei cittadini. Non voglio privilegi e favoritismi di sorta”. Una decisione che non osai contraddire per il suo senso di equità sociale. La campana era ormai al suo terzo gong. Il cielo carta da zucchero del tardo pomeriggio si era tuffato in un intenso blu cobalto. L’atmosfera era di quelle molto vicine all’attesa, all’Avvento. Tutto intorno croci e simbologie da liturgia. Tutto era pronto. I microfoni piazzati, le luci puntate, il motivetto del partito in filodiffusione. Era il momento di cominciare. Comelli salì sul palco, dietro di lui una scia di candidati si dispose silente sullo sfondo. Notai Saverio esprimere il suo dissenso per quella invadente presenza. Ormai era tardi, non poté fermarli. Poco distante Roberta teneva per mano Simone che, a sua volta, stringeva tra le sue minuscole dita il filo di un palloncino a elio, guardandosi intorno curioso. Un carretto di zucchero filato produceva uno strano odore acre che mi penetrò nelle narici, fino a farmi starnutire. Qualcuno mi porse un fazzoletto. Alzai lo sguardo e, con un po’ di imbarazzo, raccolsi quel gesto più che gradito e mi coprii il naso.


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«È allergia? Questo è il periodo dell’anno più infame per chi ne soffre…» domandò un uomo con una valigetta in pelle nera. «No, credo sia quel fumo proveniente dal carretto dello zucchero filato… grazie per il fazzoletto!» «Se vuoi lo faccio spostare», aggiunse sarcastico. Mi scappò una risatina compiaciuta, ma il comizio stava per iniziare e sinceramente flirtare con qualcuno non era contemplato in quel periodo della mia vita. «No, dai, stanno lavorando… e anche io devo, ti saluto.» «E che lavoro fai?» continuò l’uomo dai capelli sale e pepe, ignorando il mio invito a stroncare quella comunicazione. «Lavoro per il candidato sindaco Comelli», risposi sempre guardando verso il palco, cercando di captare qualche parola del suo discorso. «Piacere, allora, io sono Gabriele Rodari, vicedirettore della Voce del Paese!» «Ah Rodari… come Gianni!» «Gianni? Gianni chi?» «Gianni, lo scrittore!» Mi guardò interdetto, ma accennò anche lui un sorriso di complice intesa. Ricambiai, perché c’era ancora un pizzico di vanità nel mio essere donna, che guidava le mie azioni e reazioni. Così, se un occhio era vigile verso il mio lavoro, l’altro aveva notato due splendidi occhi neri che mi fissavano con interesse. Di certo quel giornalista era un bell’uomo, di certo aveva un timbro di voce interessante, di certo aveva scelto un approccio simpatico, ma con me era capitato male, anzi malissimo. Un iceberg, probabilmente, sarebbe stato meno gelido e poi l’ultimo servizio sulla Voce riguardo alle auto blu non mi era piaciuto affatto. «Perdonami, devo andare, il lavoro mi chiama», dissi, sperando di concludere al più presto quella conversazione, mentre un applauso scrosciante prevaricò la mia voce. «Aspetta… puoi lasciarmi i tuoi contatti? Ho intenzione di organizzare un’intervista face to face tra i due candidati sindaci…»


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«Ah sì certo, questo è il mio numero…» Gli porsi il mio biglietto da visita. L’iceberg non si era sciolto, aveva solo fornito i suoi contatti per una questione lavorativa. Comelli stava quasi terminando il suo discorso, mancavano pochi minuti alla fine. Con lo sguardo cercavo di scorgere tra la folla la testolina del mio bambino, volevo dargli un bacio al volo per poi correre dietro le quinte a gestire le interviste dei giornalisti. Un tentativo che risultò vano, di Roberta e Simone neanche l’ombra. Poi, una vocina briosa alle mie spalle. «Mamma!» Era Simone, era venuto lui da me per abbracciarmi. «Amore mio! Vieni qui…» Roberta sorrideva, amorevole come quella sorella che non avevo mai avuto e che, in certi momenti, avevo tanto desiderato. Una sorella a cui raccontare le mie angosce e le mie delusioni, una sorella con cui condividere storie futili e importanti. In compenso avevo un fratello, Graziano, ma erano più di dieci anni che viveva a Francoforte e le occasioni per vederci erano diventate davvero poche. Anche lui, come me, si era allontanato dalla sua città natale per inseguire l’amore, una biondissima modella tedesca conosciuta sul set dove lavorava come fotografo. Tutti pensavamo tornasse indietro dopo neanche una settimana e, invece, quella settimana diventò ben presto un mese, poi un anno, poi dieci, durante i quali erano nati due bambini altrettanto biondi. Era stato decisamente più fortunato della sottoscritta. Gli avrei mandato un messaggio per avvisarlo delle condizioni di salute di nostra madre. In fondo al cuore speravo prendesse il primo aereo per stringermi la mano, con la forza e il coraggio che sanno infondere i fratelli maggiori. Dopo aver abbracciato Simone e avergli dato appuntamento a casa, mi diressi verso il palco. Comelli stava scendendo le scalette che portavano sul retro, quando iniziarono a suonare le campane, solenni, mistiche, per annunciare la fuoriuscita del Santo dalla


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Chiesa, che si apprestava a portare la sua misericordia tra le strade della città. Comelli era ormai fra la gente, ma in quel momento si fermò in raccoglimento, invitando chi si avvicinava per complimentarsi a fare lo stesso. I candidati al consiglio comunale lo imitarono a specchio. Mi scappò una risatina che mi sforzai di contenere. Il momento era solenne, la piazza si unì in preghiera e si passò dal profano al sacro in un attimo. «Comelli è stato benedetto dal Santo. Vuoi vedere che vince le elezioni?» esclamò qualcuno tra la folla. Un’altra signora sgomitava per farsi spazio nel goffo tentativo di raggiungere Comelli e stringergli la mano. «La mia famiglia è con lei! Dottore non ci deluda!» «Dottore, mio figlio è disoccupato… siamo nelle sue mani!» E ancora: «Ci aiuti, faccia pulire questo maledetto fiume, stiamo morendo tutti!» Comelli era diventato per tutti Dio in carne e ossa e le campane in sottofondo erano una perfetta cornice a quel momento di fede e di folklore. Terminarono anche le domande dei giornalisti, una sequela di taglienti quesiti sulle auto blu e sull’apparente lusso ostentato da Comelli. Quesiti ben presto soddisfatti con la massima tranquillità e nessun segnale di imbarazzo da parte del candidato che, al riguardo, aveva studiato una risposta che poteva andare bene per placare ulteriori agitazioni. Salimmo sulla limousine e sfrecciammo via, diretti ognuno presso la propria abitazione. Comelli sembrava piuttosto soddisfatto e contento di com’era andata. Per la prima volta, si voltò verso di me e Saverio sigillando le labbra e annuendo con il capo, quasi per invogliarci a continuare in quel modo, con quella energia. Lessi nei suoi occhi una piccola, impercettibile speranza, che non avevo visto prima di quel momento.


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«Dottore», approfittai di quello scambio di energie positive, «credo che a breve La Voce del Paese organizzerà un’intervista face to face con l’altro candidato. La terrò aggiornata.» «Ottimo», commentò con un pizzico di ostenta sicurezza. «Sacconi troverà pane per i suoi denti.» Quando rientrammo in casa, Simone era già a letto, abbracciato al suo pupazzetto di stoffa a forma di elfo. Lo accarezzai facendo attenzione a non disturbare il suo sonno. Saverio si diresse direttamente nella sua stanza, mi aveva detto di essersi stancato molto per seguire l’organizzazione del comizio. Roberta mi aspettava sul divano per la consueta chiacchierata di fine giornata. «Robby, com’è andata con Simone oggi?» le domandai. «Fede, lo sai, con lui è tutto un gioco. Ci divertiamo. E poi, devo farti i miei complimenti, hai tirato su un giovanotto molto educato.» Le strinsi la mano. «Non sai quanto mi rasserenano le tue parole, cuginetta mia. A volte, ho la sensazione di abbandonarlo, di sottrargli del tempo che gli spetta. So bene cosa significhi per un bambino l’assenza della propria mamma!» «A cosa ti riferisci?» Roberta non immaginava che stessi parlando di mia madre e del rapporto conflittuale che ci eravamo sempre portate addosso come una zavorra. «A mia madre. Tu non lo sai, ma ci siamo amate e odiate allo stesso tempo. Da piccola ho sofferto tanto la sua lontananza, i suoi lunghi viaggi lontana da me. Credo ne abbia sofferto anche mio padre, ma lo conosci, lui non parla mai di queste cose…» «Tornerai a trovarla in clinica?» «Assolutamente sì. Ho un conto in sospeso con lei.» Roberta mi abbracciò, in silenzio. Nessuna frase di circostanza avrebbe retto alla profondità di quelle confidenze. Il silenzio mi bastava ed era la migliore risposta agli interrogativi che urlavano nel petto. Fine anteprima. Continua...


INDICE

Prologo ................................................................................................... 5 I ............................................................................................................... 7 II ............................................................................................................. 9 III .......................................................................................................... 16 IV .......................................................................................................... 22 V ........................................................................................................... 27 VI .......................................................................................................... 31 VII ........................................................................................................ 37 VIII ....................................................................................................... 52 IX .......................................................................................................... 57 X ........................................................................................................... 62 XI .......................................................................................................... 70 XII ........................................................................................................ 76 XIII ....................................................................................................... 81 XIV ....................................................................................................... 88 XV ........................................................................................................ 95


XVI ..................................................................................................... 104 XVII.................................................................................................... 112 XVIII .................................................................................................. 124 XIX ..................................................................................................... 132 XX ...................................................................................................... 136 XXI ..................................................................................................... 144 XXII.................................................................................................... 150 Ringraziamenti: .................................................................................. 159


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO: In occasione del suo 10° anniversario, la 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio "1 Giallo x 1.000" per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2018) http://www.0111edizioni.com/

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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