Pioggia battente

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Collana LaRossa Serie BIG‐C Grandi Caratteri La serie Big‐C, Grandi Caratteri, grazie all’alta leggibilità del carattere utilizzato in stampa e alle sue dimensioni (gene‐ ralmente 13 o 14), propone testi di agile lettura rivolti in par‐ ticolare a lettori con problemi visivi (ipovedenti). Precisiamo che per i lettori con problemi di dislessia sono in commercio pubblicazioni a stampa realizzate con caratteri e accorgimenti particolari, che i libri della nostra serie non uti‐ lizzano. Tuttavia, il carattere utilizzato nella serie Big‐C (Candara) si presta comunque molto bene allo scopo. La presente opera è stata realizzata SENZA alcun finanzia‐ mento o contributo statale, pubblico o privato, ma esclusi‐ vamente con il capitale della Casa Editrice.


Ogni riferimento a luoghi, persone o situazioni riscontrabili nella realtà è da ritenersi puramente casuale, essendo questo scritto pura invenzione della fantasia dell’autore.


Walter Serra

Pioggia battente

www.0111edizioni.com


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PIOGGIA BATTENTE Copyright Š 2012 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-468-0 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Dicembre 2012 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova


Questo romanzo è dedicato a mia moglie, per la gioia e il dolore che la storia racconta, accanto a speranza, passione e desiderio di cambiare le cose. Un grido fuori e dentro una storia inventata. Il romanzo peraltro non parla solo di persone, fra cui il caro ricordo di nonno “Dolfo”, ma di Lei. Per una volta non una donna, non una madre, ma una città: Cesenatico.



“Una delicata e complessa storia d'amore tra due ragazzi che hanno paura d'innamorarsi ancora, si intreccia con un segreto del passato che ha le sue radici nella guerra in Etiopia. Il tutto in una Cesenatico magistralmente descritta, quasi sospesa fra realtà e sogno. La cura con cui viene tratteggiata la psicologia dei personaggi, anche di quelli secondari, e lo stile fluido ed evocativo, catturano il lettore sin dall'inizio.” Francesca Ramacciotti



Introduzione È tanto che volevo scrivere una storia ambientata a Cesenatico, dove non sono nato ma dove ho vissuto spesso, fisicamente e col cuore, a partire dalle vacanze estive a casa del nonno Dolfo. Trovato il filone della storia, ho scritto di getto la prima bozza ambientando a memoria, dal momento che mancavo dalla cittadina da parecchi anni. Sono così tornato, con gli occhi dell’emigrante che rientra dopo una lunga assenza. Trepidante, ho rivisto le istantanee del mio passato, ho colto le novità, le sfumature, le consistenze. Liberando la mente, ho aspirato l’odore del canale, camminato lungo le sponde fino al faro, il passo leggero come un bambino. Certo, tante cose sono cambiate nei luoghi e nelle persone, ma in un qualche modo la gioia di essere tornato a casa è rimasta. Così, una volta riaperto il file ho apportato i necessari aggiornamenti all’ambientazione, mettendo ancor più nostalgia in bocca al protagonista. È mia abitudine, accanto alla trama principale, unire una storia con un’ambientazione storica, utile e necessaria a spiegare tutto o parte dell’intreccio. In questo caso racconto qualcosa della campagna d’Africa in Abissinia, in ricordo di mio nonno che ne ha vissuta gran


parte. Purtroppo nulla mi ha raccontato delle sue vicende, forse troppo dolorose e poco adatte al ragazzo che ero. Mi sono quindi dovuto ancorare ai fatti storici e solo dopo lasciare sfogo alla fantasia. La storia che presento è forte e delicata assieme, racconta del dolore di vivere, delle scelte sbagliate e delle compensazioni che spesso ci vengono offerte. Ma non capita a tutti di meritare una seconda occasione, e con quella espiare e dimenticare il passato. Io mi colloco dalla parte della speranza. L’autore


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I Al largo del mar Ionio, Febbraio 1936 Alfredo ha spiato per ore quel mare calmo che tanto gli ricorda il suo, ma il cacciatorpediniere “Niburna” non assomiglia affatto al peschereccio del padre, col quale era stato migliaia di volte a pescare. Un ammasso di legno marcio. Attorno a loro, una fregata e un paio di altre grosse imbarcazioni, tutte cariche di soldati ansiosi di raggiungere la terra promessa. Taranto e la costa sono sparite in fretta, cancellate dai loro occhi puntati al Continente Nero, alla loro missione. Il sergente Mariani ha fatto loro una testa così sull’Abissinia, un paese ricco di buona terra e risorse naturali, pronto per ricevere la bandiera italiana e un posto nell’impero coloniale, nonostante l’ostilità della popolazione. In realtà ha parlato più spesso delle abissine e di quanto sono dolci a letto. Attorno sono risate e occhiate salaci ogni volta che torna sull’argomento.


12 Alfredo non è venuto fin qua per farsi qualche faccetta nera, ma per conquistare, a pacificazione avvenuta, un bel pezzo di terra da lavorare con la sua Vincenzina. Ha sopportato senza lamentarsi il lungo trasferimento interno su treni, camion e chiatte, ora può finalmente respirare l’aria di una nuova casa. Sono alloggiati in una caserma costruita fuori Addis Abeba, un campo di addestramento reclute con annessa la polveriera. È passata una settimana dal loro arrivo, ormai sono ambientati e pronti all’azione. Si sente chiamare. «Soldato Ferreri, si presenti alle quindici‐zero‐zero all’adunata nel cortile, in attesa d’istruzioni!» «Signorsì, sergente!» Corre a lavarsi la faccia sudata e a lucidare gli scarponi, che non si presenti il Duca d’Aosta in persona per un’ispezione improvvisa. Nella caserma c’è un via vai impressionante, camion, moto Guzzi scoppiettanti col sidecar, blindati. Lontano, si sente ogni tanto un colpo di mortaio o una raffica di mitragliatrice, l’ennesimo attacco di un pugno di ribelli che tenta di resistere alla modernizzazione offerta dal popolo italiano. “Illusi” pensa “finiranno tutti sottomessi. O sotterrati.” Alle quindici‐zero‐zero un plotone di uomini sta allineato sotto al sole cocente. Alfredo fissa incuriosito il sergente in completo abito coloniale, impeccabile anche nei calzettoni al ginocchio. Ha le gambe storte e ai più ne vien fuori come


13 una caricatura, ma è meglio non ridergli in faccia, non è la prima volta che punisce qualcuno a colpi di frustino… «Alfredo, che dici, ci trasferiscono di già?» Ernesto è di Taranto, vent’anni appena e tanta smania di menar le mani. «Zitto, che quel cane ci fa rapporto!» Dal casermone di lato arriva il comandante, seguito come un cagnolino dall’attendente di campo. «At‐tenti!» Il sergente si erge impettito, seguito all’unisono da tutti i soldati allineati. All’improvviso tutta la loro attenzione si concentra sull’ometto coi baffi che inizia a parlare. «Soldati, domattina alle cinque‐zero‐zero sarete trasportati all’interno, verso le montagne. I nostri genieri stanno costruendo una strada di collegamento per migliorare le comunicazioni verso Jima, e sono bersagliati da continui attacchi di guerriglia. Il vostro compito sarà di pattugliare la zona, rendendola sicura e sgombra da quei selvaggi rivoltosi. Sono stato chiaro?» «Sissignore!» «I lavoratori locali non dovranno lasciare la zona di scavo per nessuna ragione, per evitare che divulghino notizie ai ribelli sul dislocamento e le potenzialità delle nostre truppe. Portatevi tanta acqua, la zona è arida e fa molto caldo. Saluto al Duce!» Le braccia scattano veloci in aria, mentre il grido comune di risposta risuona nel vasto piazzale.


14 «Cristo, ci mandano all’inferno!» bofonchia fra sé il ragazzo, mentre Ernesto squadra con le mani ai fianchi il contorno dei monti all’orizzonte, sognando un bersaglio per il mirino del suo moschetto. Alfredo corre in camerata per scrivere a Vincenzina una lettera prima di partire. Da lassù sarà più difficile. Fatica a trovare le parole giuste e a metterle in buon ordine sul foglio di carta stropicciata che cava fuori dallo zaino. A metà è costretto a scappare di corsa al bagno. Quella maledetta acqua fetida…


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II Cesenatico, ottobre 2007. L’acquazzone arriva all’improvviso. “Doveva piovere stamattina, e invece si sta sfogando proprio adesso, accidenti!” Costernato, chiudo la telefonata e butto il cellulare sul sedile accanto. Fra i tuoni e il picchiare della pioggia sulla macchina non si sente più niente. La strada si sta trasformando in una lucida lastra bagnata, ho davanti a me un muro d’acqua che i tergicristalli faticano a smaltire. Poca gente in giro, il vialone è quasi deserto. Tanti giorni ad aspettare questo momento per vederselo affogare dentro a un temporale. Le nuvole si sono chiuse e una nebbia impalpabile prende il posto dell’orizzonte. Sospiro, sarà per un’altra volta. Una donna si stacca da un portone chiuso e s’avvia di corsa fra la strada e le piante di lato, quasi piegata in due per proteggersi. Il suo incedere incerto e caracollante sotto al diluvio mi fa decidere di fermarmi. Arresto la macchina poco oltre e scendo brandendo un ombrello, sfidando le sferzate del vento che lo vogliono strappare via. Mi pento quasi


16 subito: ho i piedi ammollo in dieci centimetri d’acqua, ma ormai… «Salga, le do un passaggio!» Lo sguardo che sbuca fra i capelli appiccicati alla faccia non è eloquente e grato come mi sarei aspettato, comunque si affretta verso lo sportello incurante del mio ombrello, quasi del tutto inutile di fronte alla furia degli elementi. Mi accascio sul sedile, bofonchio qualcosa all’indirizzo di una giornata sbagliata e del tempo impazzito. Mi giro verso di lei, cercando una parola di circostanza e per chiederle un indirizzo presso il quale separarsi velocemente. Un essere informe sbuca da sotto le falde del pesante giaccone, dipana braccia e gambe intirizzite e una lunga treccia bagnata. Due occhi smarriti mi fissano mentre mi allaccio la cintura di sicurezza, inzuppato dalla testa ai piedi. Butto l’ombrello dietro e tiro il fiato. «E tu, da dove sbuchi fuori, piccola?» Mi sforzo di sorriderle. La bambina nasconde il volto contro la spalla della madre, dove crede io non la possa vedere. Avrà poco più di tre anni. La donna si scosta i capelli dalla faccia. Ansima, inghiotte a vuoto e trema vistosamente per lo sforzo. «Tutto bene?» Accendo il riscaldamento per togliere l’umidità dal vetro che si sta appannando velocemente e per riscaldare le due ospiti inattese. Le allungo una bottiglietta d’acqua, da cui beve avidamente. Poco importa che io possa o no aver tracannato direttamente, sta soffocando per la corsa.


17 A terra, banane e cartoni del latte fra i piedi intrecciati, la spesa del sabato. Sposto tutto quanto dietro, cercando di non rovinare niente. Non insisto con le domande, è molto provata. Se ne sta con la testa di lato, gli occhi chiusi. Respira col naso, lunghi sorsi d’aria per i polmoni martoriati dalla fatica della corsa. Attorno, il temporale non accenna a diminuire, a ogni lampo la bambina si stringe più forte. Quando la donna riapre gli occhi nocciola, ora un poco più distesi, le allungo dei fazzoletti di carta. «Grazie, è stato davvero gentile…» Passa e ripassa il fazzoletto sui capelli della bimba, indifferente al fatto che lei pare appena uscita da un bagno fuori programma. Ha i tratti ancora giovani ed è abbastanza carina anche conciata così. «Siete tutte bagnate. Abiti qui vicino?» Un poco la osservo, un poco la ignoro. Mi fisso sulle gambette irrequiete della piccola per non guardare le sue, coperte appena da una gonna appiccicata di traverso. Mormora rassegnata il nome di una via, nei pressi della piazzetta delle Conserve. Mi avvio lentamente, la strada è vuota. Oltrepasso il ponte sul canale e la piazza che si allarga oltre di esso; anche se è dedicata a Pisacane, per tutti è piazza Garibaldi, il cui busto guarda impettito i bragozzi che ondeggiano alla fonda nel canale di fronte. Piglio una traversa e sfilo una strada costellata da murales scoloriti e zuppi d’acqua. Sorrido; ci sono ancora, dall’ultima volta che sono stato qua. «Davvero una disdetta, questo temporale, vero?»


18 Non so che altro dirle, pochi minuti ancora e me ne torno a casa. Mi metto in pigiama a guardare un bel film. Una vocina scivola fra gli abiti bagnati della madre e giunge flebile fino a me, imprevista. «È lui, il mio papà, mamma?» «Sssh! Fai la brava.» Le carezza le spalle. «Eravamo uscite per una passeggiata e per un poco di spesa, poi è venuto giù il finimondo. Se non ti fossi fermato…» «È lui, il mio papà, mamma?» insiste la bimba, io mi sento a metà fra disagio e un moto di tenerezza. «No, non è lui, Arianna. Non insistere, ti prego. Fra poco siamo a casa.» Nasconde a sua volta il viso contro il suo, ma ormai siamo arrivati. Mi indica il cancello di una palazzina. Fermo la macchina nel piccolo piazzale. Non c’è né un terrazzo né una pensilina sotto a cui farle scendere. Recupero l’ombrello e mi preparo ad affrontare una seconda doccia fuori programma. «Non è necessario, aspetta…» attacca lei. «La bambina…» Ho già un piede fuori e l’ombrello s’inceppa, ma si riapre appena giungo dalla sua parte. La piccola frigna, non vuole lasciare l’abbraccio della madre, e lei non ce la fa a scendere con quel fagotto appiccicato. Alla fine la ragazza accetta la mia mano tesa, si gira di lato e mette i piedi a terra. Siamo


19 fuori, col vento che ci sbatte addosso una pioggia bastarda e gelata. Passi affrettati verso il portone, la chiave che non si trova subito, istanti preziosi che ci regalano i primi tremori per il freddo. Lei non fiata, annaspa nella borsa, nelle tasche, poi la chiave appare e le cade di mano. La afferro e apro io. Siamo dentro, la luce automatica rischiara un pavimento anni sessanta e un ascensore dalle porte ammaccate. Una scala s’inerpica lì accanto come un vilucchio su di una spirale d’aria. La ragazza chiama l’ascensore e io mi sento di troppo. «Allora, ciao!» Un buffetto sulla guancia alla piccola, che non mi toglie gli occhi di dosso. La madre mi sorride, poi guarda i numeri avvicinarsi al piano. «Grazie davvero…» Le porte si chiudono sul suo sguardo a terra e la portano via, io col pensiero bloccato a realizzare quanto sia carina. “Che pomeriggio assurdo” mi dico. Torno sui miei passi. Dietro mi saluta lo sbatacchiare dei cavi dell’ascensore, davanti mi accoglie il rumore crescente di pioggia grossa. “La spesa!” L’ombrello grondante accanto al portone me l’ha fatta tornare in mente. Oggi proprio non me ne va dritta una. Raccolgo tutto quanto nella busta stracciata e mi ritrovo nuovamente davanti all’ascensore, con un piano e un campanello da indovinare.


20 “Secondo piano…” Il display è fermo su quel numero, che mi affretto a raggiungere, poi è facile seguire la scia d’acqua fin sotto alla porta che l’ha inghiottita. Un tocco leggero sul campanello genera un ronzio sommesso all’interno. «Chi è?» mi scuote una voce aspra, apprensiva. «Il garzone del latte!» La battuta mi esce allegra, spontanea. La sento trafficare con la catena, lunghi secondi impacciati, poi si apre uno spiraglio e rivedo una fetta del suo viso. «Accomodati…» Spalanca l’uscio e si ritrae. Mi volta le spalle, un grande asciugamano addosso mentre si friziona i capelli. Sparisce oltre una porta. «È papà?» A quel richiamo lei risponde con un singhiozzo, soffocato forse dall’incavo della mano. Mormora una risposta, ma non la percepisco. Chiudo la porta d’ingresso, ma non vuole essere un gesto spavaldo, solo l’abitudine di chi vive in città, dove al giorno d’oggi si perdonano poche distrazioni. «La metto sul tavolo della cucina!» Allineo le mele sul piano e raddrizzo il pack del latte. Le banane si sono rovinate. Annuso per un attimo l’ordine e la pulizia. Disegni incerti occhieggiano dalle pareti, dai pochi mobili e dal frigorifero, appiccicati con nastro adesivo. “Non c’è papà a guardarli, piccola, l’ho capito…”


21 Mi appresto a uscire elegantemente di scena, giusto un saluto fugace dall’uscio socchiuso, quando una voce mi ferma mentre ho la mano già sulla maniglia. «Dove pensi di andare, tutto bagnato?» Mi porge un accappatoio, rassegnata. «Mentre faccio la doccia ad Arianna, puoi indossare questo. Mettiamo i tuoi abiti dieci minuti nell’asciugatrice, poi vai via…» La osservo mentre torna di là, scalza e la gonna ancora appiccicata addosso. Prima la bambina. Jeans e felpa piegati alla bell’e meglio, le scarpe da tennis a gocciolare sullo zerbino. Rimango con le calze zuppe e lo slip umido, che tanto qualche peccatuccio ancora lo devo scontare. Il divano mi accoglie con un sospiro, la pioggia batte sui vetri e sul tetto mansardato, la doccia picchietta, la bambina pigola stranita. Mi sento scivolare da qualche parte lontano da qui…


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III Qualcosa s’è mosso nella mia testa, staccandomi dal sogno e dal brivido per la sensazione di umido. Fuori sta ancora piovendo, me lo dice il sordo rumore di fondo. Sbatto le palpebre due o tre volte per cercare di smorzare la narcosi, ritrovandomi in un soggiorno non mio. Istintivamente giro la testa alla mia sinistra, scorgendo nella penombra due occhi ammiccanti sul sorriso a labbra dischiuse. «Russi…» Lo dice quasi con rammarico. «Sul serio?» protesto debolmente, a disagio. «Dovresti farti vedere, russare è un disturbo che può dare dei problemi. Io sono Laura. » Se ne sta a gambe raccolte sulla poltrona di lato, lontana quanto basta per mantenere una composta distanza. Veste una calda tuta da ginnastica e spesse calzette di cotone. «Forse hai ragione, sentirò col medico. Come sta Arianna?» Allontano il discorso, ma lei non se ne accorge. «Dorme, con la doccia s’è riscaldata. Che razza di temporale! Prendiamo un tè?» «Volentieri. Poi devo andare, è quasi sera.»


23 Deve essere la nebbia, fuori è davvero tutto scuro, attraverso le tendine tirate. «Allora preparo. Se vuoi rivestirti, gli abiti sono asciutti, in lavanderia. È quella con la porta a vetri.» Sparisce nel piccolo cucinotto e la sento trafficare con l’acqua e un bollitore. Noto che non ha acceso la luce. Il piccolo bagno è occupato da box doccia, lavatrice e asciugatrice impilate, nell’aria ancora una vaga essenza di lei. Raccatto i vestiti piegati su uno stendino appeso al soffitto. Sanno di una mano femminile. Sanno di buono. Quando rientro c’è già la tavola apparecchiata per due, zucchero di canna e due tazze di porcellana, biscotti e miele d’acacia, morbido e color dell’oro. «Che sbadato, io sono Emanuele.» Ci stringiamo la mano, poi lei arrossisce violentemente. Si ritrae, ponendosi a braccia conserte a sorvegliare l’acqua nel bollitore, dandomi le spalle. «Scusa, non volevo metterti in imbarazzo.» Mi siedo nella penombra davanti a una tazza vuota, per riguadagnare la distanza. Ci sentiamo entrambi fuori posto. «È per questa assurda situazione, io in casa con uno sconosciuto e…» «Arianna non ha mai conosciuto suo padre?» le tolgo le castagne dal fuoco. Si volta verso di me, grata per avere abbattuto quel muro di vergogna. «Suo padre!» Non mi sembra disprezzo, solo un cattivo ricordo.


24 «Quando sono rimasta incinta, in principio sembrava intenzionato a restare, diceva d’amarmi. Ci siamo sposati in civile e in tutta fretta, perché il prete ha fatto un sacco di storie, vista la mia condizione, i corsi pre‐matrimoniali da fare e tutto il resto. Abbiamo trascorso sei mesi assieme, lui sempre via con gli amici. Poi ho ricevuto una raccomandata dal suo avvocato. Sono uscita dal suo studio con la mente sconvolta e un assegno per il disturbo, così ha commentato. In pratica mi ha liquidato come un dipendente diventato scomodo. Ho preso l’assegno e cambiato città appena conclusa la pratica di separazione, tagliando i ponti anche con i miei genitori, che non avevano approvato la mia scelta.» Tace, le labbra strette per essersi lasciata sfuggire quello sfogo con me. La guardo meglio, alla luce traversa della finestra. I suoi occhi sono lucidi, ma mantengono la fierezza delle proprie decisioni. Arianna è il suo frutto più prezioso e l’ha difeso con le unghie e con i denti. È bastato un guizzo del suo sguardo per capirlo. «Dev’essere stata dura» la consolo. Ora, con i capelli pettinati e la faccia rilassata, dimostra molti meno anni di quando l’ho raccolta. La comoda tuta non lascia presagire quasi niente del suo corpo. Mi soffermo sulle unghie curate, la pelle morbida e un leggero profumo che giunge delicato fino a me. Mi sorprendo a fissarla con un certo interesse, poi un pungolo acuminato mi attraversa lo stomaco e riporta a


25 galla ricordi e rimorsi antichi, prendendosi l’ennesima rivincita. Sposto lo sguardo altrove, rassegnato. Il fischio del bollitore ci fa trasalire, poi scoppiamo a ridere. Lentamente, il dolore mi si smorza dentro e posso respirare. Laura si avvicina e versa l’acqua nelle tazze. Osservo la busta salire in superficie e un leggero fumo che sprigiona l’aroma del tè. Lei torna e depone sul tavolo un piattino con delle fettine di limone. Mentre si ritrae le afferro la mano, con un gesto lentissimo che non ha la forza di evitare. «Accendi la luce, Laura…» Attimi di silenzio, appena il respiro e il tiepido calore fra le nostre mani. «Poi te ne andrai?» mormora indecisa. «Solo se me lo chiedi…»


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IV Laura ha acceso la luce, poi mi ha chiesto di lasciarla sola, visibilmente a disagio. Ho abbassato lo sguardo sulle tazze fumanti e me ne sono andato, chiedendomi dove avessi sbagliato. Me lo sto chiedendo ancora adesso. «Allora, ciao» aveva detto. Non mi era rimasto altro che assecondarla. «Grazie di tutto…» Aveva richiuso la porta in fretta, lasciandomi sul pianerottolo buio in compagnia della puzza del piscio di gatto. Ha smesso di piovere. Mi sono incamminato in mezzo alle pozzanghere, con poca voglia di scansarle, lo sguardo fisso oltre le nuvole. Le mani in tasca, seguo il filo dei miei pensieri, cercando di scacciare la confusione che ho in testa, come in un ripostiglio troppo pieno. Cammino svelto, richiamato dal lamento lontano della sirena sul molo. C’è nebbia e qualcuno potrebbe essere ancora in mare. Sbaglio traversa e mi ritrovo nei pressi del ponte, occhieggio le vele scolorite dei vecchi barconi. Mancano un paio di mesi a Natale, fra


27 poco esporranno i presepi di legno sulle tughe. Mi assale l’odore salmastro dell’acqua marcia e molto alta, e io mi sciolgo nella malinconia. Accelero il passo verso la piazzetta della pescheria e vengo sommerso da infiniti ricordi. Ero qua per questo… Mi avvicino incerto, spio la gente che esce con le borse piene di pesce. Allungo il collo, una stretta galleria mi risucchia e mi spalma di tenerezza a ogni passo. La via è come la ricordavo, la vecchia casa di mio nonno l’hanno ristrutturata da poco. Sorrido compiaciuto. Gli infissi nuovi sono colorati di un blu deciso che perfora la nebbia che li carezza. Il terrazzo è stato coperto per ricavarne un piccolo ambiente. Quando volto le spalle a tutto quanto, l’insegna del ristorante lì accanto, Il pirata, non mi dice più nulla. Per me, sarà sempre Da Macafér… Un vento teso sposta verso l’interno i banchi di nebbia, che vanno e vengono come il ricordo di Laura e della bambina. Non dovevo più tornare a Cesenatico, ma tutto è andato storto nella mia vita e non ho trovato di meglio che venire qua a leccarmi le ferite, inseguendo gli inutili ricordi di quand’ero un bambino felice. Poco è cambiato, ma io non mi ci ritrovo per queste vie che un tempo facevo di corsa, poi questa nebbia confonde tutto in una sfocatura di sogno. Lungo il marciapiede che costeggia il canale mi accorgo che


28 il livello dell’acqua è davvero molto alto, arriva a lambire la strada. Una lunga, nera onda di marea risale il flusso sospinta dal vento. I pescherecci ondeggiano uno addosso all’altro, ombre indistinte nella nebbia. Eppure c’è qualcosa, in Laura, che mi attrae. La sua determinazione, la sua fragile sicurezza. Tenere la luce spenta, incoraggiare l’uomo a fare il primo passo, ad avvicinarsi e accenderla. Cacciarlo via. Sospiro. Deve avere sofferto enormemente, l’ho intuito dalla reazione che ha avuto alla richiesta di sua figlia, quando ha chiesto del suo papà. Tanta delusione, tanto sconforto su quel volto gentile. E io, che avrei da offrirle? Cambio lavoro ogni sei mesi, che alzarmi la mattina è una rottura. Piuttosto che ubbidire a disposizioni di chi secondo me non vale nulla, preferisco farmi cacciare. E poi mi conosco; le donne non le sopporto a lungo, specie quando mi smaniano addosso. Dell’ultima ho ancora l’odore nel naso, ed è nauseante nonostante siano trascorsi più di otto mesi. Della prima porto ancora i segni cuciti addosso… No, non fa per me, per fortuna non è nemmeno iniziata. La sirena ora suona più forte, là davanti a me. Cerco con gli occhi il cemento del bunker tedesco, ma non lo vedo. Poco oltre, attraverso stupito un lungo dosso che si solleva davanti al faro della guardia costiera. Hanno rialzato il marciapiede per impedire al mare di riprenderselo. Mi


29 avvicino a quel suono sgraziato. Poco più in là il mare ha avuto la sua rivincita; l’acqua ha superato la banchina e invaso la sede stradale, seppure per le poche decine di metri rimaste al vecchio livello. Qui il canale è immenso, spazia dai capanni da pesca del lato opposto al muro che un tempo racchiudeva i campi da tennis. Già, anche quelli non ci sono più, mi rimane solo il ricordo dentro. Al loro posto, le insegne dello Sloppy Joe’s, vaporose nella nebbia, ammiccano sfoggiando il volto di Hemingway del murales e promettono birra e un parco giochi per bambini. Sacchi di sabbia impediscono che sia invaso dall’acqua. Osservo preoccupato questo strano braccio di mare che mi taglia la strada: attende e m’invita, una leggera onda che lambisce sorniona il marciapiede. Conosco questi luoghi come le mie tasche, ma osservo perplesso quest’acqua limacciosa che m’insidia il calcagno, fa davvero paura. Sotto a quel velo, ancora per metri attorno, c’è solido asfalto prima della voragine del canale. So che è solo suggestione, eppure percepisco dentro di me tutto il peso di quel richiamo di abisso. Inspiro l’aria salmastra, poco oltre risuona sordo il rimestare della risacca sui flutti, distante pochi passi eppure irraggiungibile. Devo prendere una decisione, davanti a me mancano un paio di metri di marciapiede per passare indenne dall’altra parte e devo decidere se posare il piede nell’acqua oppure rinunciare. Là in fondo, l’urlo del mare.


30 Torno sui miei passi, il vento a soffiarmi nelle orecchie e a scompigliare i capelli sul capo abbassato. Sibila, sussurra. Sfida. Piglio la rincorsa e volo oltre quel solco, approdando dall’altro lato del marciapiede sulle assi poggiate di lato per spianare i sacchi di sabbia. Non rallento, supero di slancio il nuovo rialzo del molo senza nemmeno dare un’occhiata di rimpianto al Gambero Rosso, il ristorante conficcato sulla spiaggia sotto al quale ho seppellito tutta la mia illusione di bambino durante le vacanze estive col nonno. Ora siamo solo io e il mare. L’odore di salsedine e pesce marcio riempie i polmoni, mentre gli spruzzi già spazzano l’aria per le onde che s’infrangono sui macigni di lato, sollevando una schiuma sporca. Per fortuna la nebbia qui è molto fitta e mi risparmia una vista completa sullo scempio che appare e scompare a tratti, fra barriere frangiflutti e una bassa laguna moribonda che anni fa non c’era. Meglio non vedere, meglio ricordare la caccia ai pesci ago e alle stelle marine, in un tempo che adesso mi pare non essere mai esistito, tanto è lontano. La sirena è assordante, ancora pochi metri e la raggiungo. Il vento spinge molto forte di lato, il mare gonfia e pare strapparmi la terra da sotto ai piedi. La banchina trema, sottoposta alla pressione del mare che penetra dentro alle cavità sotterranee. Sono arrivato alla punta estrema del molo, stordito dal vento, dalla sirena incessante e dal fragore della risacca sugli scogli.


31 Davanti a me solo il mare, nascosto da un muro di nebbia che confonde i pensieri e paralizza le decisioni. Devo ritrarmi, ogni onda è una doccia, ogni folata uno schiaffo al mio animo corrugato. Le mani in tasca, spio la duna artificiale allungata lungo la spiaggia, a proteggere il litorale. Pochi metri e sparisce alla vista. Un volto di donna riaffiora alla mia mente, della mia donna, e con esso dolorosi rimorsi. È tanto che m’insegue, che chiede un prezzo per scomparire. Ora, potrei pagarlo ora, basterebbe allungare un passo a occhi chiusi oltre questo marciapiede spazzato dal vento… Un lamento mi scuote dal turbine dei ricordi. Vacillo, ma è solo un gabbiano che taglia l’aria sopra di me e porta nuova pioggia, e non mio nonno che solca la sabbia bagnata con la bicicletta cigolante, a cercare monete perse dai bagnanti… Luci e ombre della memoria, nulla più. Mestamente, riguadagno il paese. FINE ANTEPRIMA Continua...


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