Poltrone vista mare, Pina Fortuna

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In uscita il 3 / /2019 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine DSULOH e inizio PDJJLR 2019 ( ,99 euro)

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VESPINA FORTUNA

POLTRONE VISTA MARE

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ POLTRONE VISTA MARE Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-300-0 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Aprile 2019 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


ad Antonio, il mio amico terribile.

Siamo solo poche manciate di grano sciocco chi crede d’essere qualcosa di piÚ.



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CAPITOLO I

“Se c’è una cosa che non sopporto, è cambiare i miei programmi!” penso mentre scendo la rampa di scale aggrappata al corrimano gelato, attenta a non scivolare sul ghiaccio. Giuro che se è un altro scherzo di Congiu, stavolta mi sente! Sono sicura che sia stata proprio un’idea di quel cretino, che cavolo può essere successo di tanto urgente, qui dans le trou du monde? Possibile che non si poteva aspettare domani anziché richiamarmi in ufficio alle sei di domenica sera, con questo freddo becco? No, non ci credo, questo è uno scherzo di quel cretino di Congiu, mi ci gioco la testa! Sto qui da quasi un mese a morire di noia e poi, tutto insieme accade qualcosa d’improrogabile? Qui? In Sardegna? Ad Arzudili? Ma va! La piazza è deserta, persino il bar è chiuso. Menomale che il commissariato è a due passi, ancora qualche metro e gli faccio passare la voglia di scherzare. Merde! Appena entrata, però, capisco subito che mi sbagliavo. Solinas, coi gomiti sulla sua scrivania dal bordo bruciacchiato da mille sigarette abbandonate, mi guarda stravolto. È la prima volta che lo vedo senza berretto e la giacca sbottonata. Dopo avermi fissato a lungo con i suoi occhi bovini, prova a muovere le labbra per dire qualcosa, poi ci rinuncia e mi indica la porta del capo. Certo che se è uno scherzo è stato architettato bene, mi dico camminando lungo il corridoio spoglio e puzzolente di vernice fresca. La stanza di Congiu è vuota ma la luce è accesa, la mia invece è al buio e ha la porta socchiusa, come l’ho lasciata ieri sera.


6 Mi affaccio in quella di Sotgiu presentandomi con l’espressione di chi non ci casca, ma non appena incrocio il suo sguardo, capisco che non è uno scherzo. I suoi begli occhi verdi si sono fatti grigi e cupi, ha le sopracciglia aggrottate e una mezza dozzina di rughe sulla fronte. Mi guarda come se mi vedesse attraverso mentre con una mano tamburella nervoso sul bloc–notes e con l’altra mi indica la sedia di fronte a sé. Solo adesso mi accorgo che non è solo, da questo lato della scrivania è seduto Tore Mele, l’unico macellaio del paese, anche lui mi fissa stralunato stringendo il guinzaglio del cane che tiene fermo in mezzo alle gambe. Avvicinandomi vedo la fronte di Tore madida di sudore e la lingua rosa del cane penzolare da un lato, avrebbero bisogno entrambi di un po’ d’acqua, mi volto per andare a prenderla ma Sotgiu mi blocca. «Siediti!» mi ordina senza possibilità di replica. Obbedisco. Tore si solleva appena per salutarmi, peserà un centinaio di chili, la maggior parte li porta intorno alla vita e sotto il mento. Di solito lo vedo dietro al bancone del negozio in grembiule bianco e col sorriso, mai avrei pensato di trovarlo così disfatto e sporco di fango. Allunga la mano libera per salutarmi, poi si gira per finire il discorso lasciato a metà. «È uno schifo da vedere, mì1, commissà» mormora con la voce tremante. Sotgiu non parla, adesso fissa il muro di fronte a sé con gli occhi di ghiaccio e un ciuffo brizzolato che gli copre un sopracciglio. 1

Per semplificare la lettura e favorire una corretta pronuncia, le parole in lingua sarda sono state volutamente riportate in base alla fonetica anziché alle regole grammaticali.


7 Anche lui dev’essere arrivato alla svelta, ha la barba lunga e la faccia di chi è stato tirato giù dal divano. Il cane si accosta ad annusarmi le scarpe. «Cuccia, Bobby!» gli ordina Tore richiudendoselo fra le gambe. «Che è successo?» gli chiedo preoccupata. «Dice di aver visto un cadavere» mi risponde Sotgiu con lo sguardo ancora incollato al muro. «Un cadavere? E dove?». «Nella sughereta». «Chi era?». «Non si capisce» sospira Tore passandosi il dorso della mano sulla fronte. «Non ha più faccia né mani, tutto gli hanno mangiato». «Chi?». «I cinghiali, i corvi, non lo so. È una cosa schifosa da vedere, ispettrice, mì!». «Chi c’è adesso là?» chiedo ancora. «Nessuno, ero solo e sono corso subito qui… male ho fatto commissà? Restare là dovevo? Ma non c’era nessun altro, come facevo ad avvisarvi? E poi, la verità, cominciava a farsi scuro, paura ho avuto, non mi vergogno a dirlo». «Hai fatto bene come hai fatto» lo tranquillizza Sotgiu staccando lo sguardo dal muro per incollarlo sulla mia faccia. «Tornate subito là insieme, fatti accompagnare da Congiu, Dufour». «Devo proprio andarci anch’io, commissà, con questo freddo, a quest’ora?» piagnucola Tore. «Certo, malannu! Come lo trovano quel disgraziato dentro la sughereta senza di te, da soli e al buio?». «Ajò Bobby, ajò» sospira lui alzandosi di malavoglia. «Ma ve lo indico da lontano, mì, io là non mi ci accosto più!». «Come sia» ringhia Sotgiu mentre con la cornetta del telefono in mano sfoglia la rubrica. «Intanto avverto il medico legale e il magistrato». Congiu deve averlo sentito, perché si affaccia alla porta con le chiavi della camionetta già in mano. Prima di seguirlo, aspetto


8 che Tore esca dalla stanza con Bobby e intanto mi riabbottono il cappotto, Sotgiu emette un sibilo alle mie spalle. «Che c’è?» gli chiedo voltandomi. «Te la senti di andarci, tu?». «Sì, tranquillo». «Sicura?». «Certo, merde, è il mio lavoro!». «Cambiati almeno quelle scarpe, allora, sarà un pantano laggiù!». «Queste vanno benissimo». «Fa come ti pare!». «Bien sûr!». «Dufour!» mi richiama ancora quando ho già varcato la soglia. «Che c’è ancora?». «Quel cane, nella camionetta, dietro!». La camionetta altro non è che una vecchia Renault 4 color bronzo, con un unico sedile anteriore, ci si starebbe comodi anche in tre se non fosse che chi siede nel mezzo si ritrova il gomito del guidatore piantato nello sterno a ogni cambio di marcia. Il sedile posteriore non c’è più per far spazio alle cose da trasportare. C’è di tutto là dietro, dalla pala agli scatoloni vuoti, a ogni buca si sente un fracasso terribile. Fuori dal portone trovo Congiu in macchina e col motore acceso, Tore seduto accanto a lui e Bobby sdraiato dietro su una coperta tutta buchi. Mi siedo vicino a Tore facendomi spazio quel tanto che basta per richiudere lo sportello. Congiu procede piano sulla strada ghiacciata, stasera non ha la solita faccia da schiaffi, ha dismesso il sorriso e indossato un’espressione preoccupata e seria. Senza quel ghigno perpetuo è persino gradevole: capelli neri appena dietro le orecchie, fronte spaziosa, naso regolare, labbra carnose e mento volitivo, sì, sarebbe proprio un bell’uomo se non fosse così cretino. Il bosco di sughere che stiamo per raggiungere sta proprio ai piedi del monte da quanto ne so, mi ero ripromessa di farci una passeggiata in primavera, mai avrei immaginato che ci sarei venuta


9 con questo freddo a cercare un cadavere smangiucchiato dai cinghiali, merde! Guardo la strada che mi scorre piano accanto, se non fosse per i nostri fari che la illuminano, sarebbe al buio, non c’è neppure la luna stasera a fare un po’ di chiarore. Il luogo del ritrovamento non dev’essere molto lontano se Tore è andato e tornato a piedi. Si dev’essere preso un bello spavento, poveretto, alla sua età poteva venirgli un colpo. Quanti anni avrà? Una settantina? Lo osservo con la coda dell’occhio la sua pappagorgia mi ricorda un po’ il profilo del mio ex capo a Roma. Roma, dico, non questa caccola di paese! Rimasto come noi in silenzio per tutto il tempo con lo sguardo fisso sulla strada, Tore urla all’improvviso a Congiu di svoltare a destra per addentrarsi nel bosco, alla brusca frenata della camionetta Bobby scatta in piedi e comincia a raspare sul portellone posteriore abbaiando eccitato. Sento le mani farsi fredde e umide all’improvviso, le nascondo d’istinto nelle tasche del cappotto come se qualcuno potesse accorgersene. Gli abbaglianti illuminano il terreno sconnesso pieno di radici e sassi ricoperti di neve. «Da qui in poi è meglio andare a piedi» ci dice dopo un po’ Congiu indicandoci col mento una specie di lago fangoso. Spegne il motore, tira il freno a mano e prende la torcia da un ripiano sotto il cruscotto. Scendiamo tutti in silenzio col fiato sospeso, io accosto piano lo sportello, Tore corre ad aprire a Bobby che continua a raspare e abbaiare, poi gli infila il guinzaglio per farsi guidare alla sughera giusta. Partiamo tutti accostati, intorno si sentono solo il crocchiare dei nostri passi sulla neve e l’ansimare strozzato del cane. Fatti un centinaio di metri schivando pozzanghere e piccole stille di ghiaccio che piovono dagli alberi, Tore si blocca trattenendo a fatica Bobby.


10 «La sughera è quella, mì» sussurra con la mano tremante. «Io più avanti di qua non vado». Noialtri due continuiamo da soli, spalla a spalla, con gli occhi dritti su un cumulo di foglie secche ammonticchiate ai piedi dell’albero che c’è stato indicato. Solo adesso mi viene in mente che forse Congiu non sa che cosa ci aspetta là sotto, gli afferro un braccio per prepararlo ma lui deve equivocare quel gesto con un mio momento di debolezza perché, senza nemmeno darmi il tempo di parlare, si divincola e accelera per lasciarmi indietro e andare da solo. «Fermati!» urlo mentre lui prosegue maledicendo col braccio un frullio d’ali improvviso sulla sua testa. Gli corro dietro, a un passo dalla sughera lo vedo prima allargare le braccia come per cercare l’equilibrio sull’orlo di un burrone, poi diventare una statua di sale. Rallento. La sua torcia è puntata sul cumulo di foglie. Mi avvicino fino a sfiorargli il braccio, fino a vedere le sue mascelle contrarsi, fino a scorgere un tendine vibrargli lungo il collo. Trattenendo il fiato mi volto piano verso la sughera: i rami cristallizzati, il fusto rigonfio in alcuni punti, il fogliame umido ai suoi piedi. Quando vedo spuntare un paio di mocassini scuri e l’orlo sporco di un pantalone sussulto, chiudo un attimo gli occhi per prendere coraggio, poi ricomincio a far scivolare piano lo sguardo da destra a sinistra. Proprio adesso, però, Congiu si affloscia all’improvviso cadendo a peso morto, mi affretto a sollevargli le gambe per aiutarlo a rinvenire, ma prima che riesca a farlo lui scatta in piedi e mi chiede scusa, ancora stralunato. «Tutto a posto?» gli chiedo mentre mi mette in mano la torcia per scappare via. Gli illumino la strada fino a una sughera a una decina di metri, Congiu ci si appoggia e inizia a vomitare .


11 Rimasta sola, spengo d’istinto la luce per non guardare né lui né altro, ma so che a sfiorarmi la punta delle scarpe c’è un cadavere e non è una bella sensazione così al buio. Con i conati di vomito di Congiu nelle orecchie, e la nausea alla bocca dello stomaco, prendo un secondo respiro e riaccendo la torcia ripartendo dai mocassini scuri, fermo per qualche istante il cono di luce sull’orlo dei pantaloni che già conosco, poi lo lascio scorrere piano sulla stoffa nera e pesante del cappotto. Proprio là, lungo il fianco, in mezzo al fogliame umido, mi appare improvvisa una mano rosicchiata, chi l’ha ridotta così ha scartato i nervi del dorso preferendo i polpastrelli. Immobile, trattengo la nausea che adesso mi strizza le viscere a intermittenza, vorrei spegnere ancora la torcia ma ho il terrore di essere circondata da topi o da chissà quale altro animale notturno. Illumino le foglie intorno ai miei piedi, poi ripunto la luce sul resto del cappotto fino al bavero e là, sotto una foglia appiccicata, scorgo ciò che resta del volto di questo poveretto: non ha più guance né labbra né naso e gli sono stati cavati anche gli occhi. Chissà chi avranno visto per l’ultima volta? Fa freddo qua sotto, un freddo umido che ti trapassa la carne fino alle ossa. Per confortarmi annuso l’aria profumata di muschio, c’è anche un altro odore qua intorno, un profumo familiare… Il motore di un’auto in arrivo interrompe i miei pensieri, mi volto a guardarla puntandole contro la torcia, nella penombra riconosco la sagoma di una Fiat Tipo, dev’essere il magistrato; subito dietro arriva anche il carro della polizia mortuaria con l’anatomopatologo. Anche Congiu deve averli visti, torna indietro barcollando, io intanto lancio un segnale con la torcia ai nuovi arrivati. Camminando appaiati verso di noi, il magistrato e il medico mi strappano un sorriso. Uno peserà un quintale, l’altro non arriverà a sessanta chili, un elefante e una pulce, non so chi dei due sia l’uno o l’altro, ancora non li conosco.


12 Appena ci raggiungono, Congiu, pallido come un cencio e aggrappato al mio braccio, me li presenta: l’elefante è il magistrato Claudio Graziani: occhi neri, capelli radi e naso a patata; la pulce, il dottor Giovanni Scattolini: naso appuntito, una montagna di capelli rossi, occhi chiari dietro le lenti tonde. Ci stringiamo tutti la mano in silenzio, poi Congiu e io ci facciamo da parte per lasciarli lavorare. Vedo Graziani restare impassibile di fronte al cadavere, gli dà solo uno sguardo rapido, più interessato al fogliame e al terreno. Sulla sessantina, avvolto nel cappotto si muove lento respirando affannato. Anche Scattolini dimostra all’incirca la stessa età, ma il suo fisico segaligno gli permette ancora di saltellare accucciato. Fa un paio di giri intorno al corpo a terra, poi, all’improvviso si volta per passare a qualcuno la sua piccola torcia, la prendo io, lui mi ordina il punto preciso dove puntarla. «Qua» dice indicandomi il fianco destro del cadavere. Obbedisco con gli occhi fissi sulle sue mani guantate che scostano con cura il fogliame, sbottonano il cappotto pesante, la giacca e, infine, la camicia. Ci mostra in silenzio tre piccoli fori proprio all’altezza del fegato, poi li sfiora piano con l’indice e resta a fissarli a lungo. Quando anche Graziani si accosta a osservarli, Scattolini aspetta paziente che finisca e indica ai barellieri appena arrivati, di avvicinarsi per portare via il corpo. «Pensa che a causare la morte siano stati quelle tre stilettate che ci ha mostrato?» gli domando mentre torniamo indietro insieme. «Sembrano profonde a prima vista, ma non posso ancora confermarglielo, devo osservarlo meglio alla luce e con gli strumenti giusti, qui ho potuto vedere poco». Di fronte alle nostre auto, gli stringo di nuovo la mano, Graziani si è fermato a interrogare Tore, aspetto che finisca poi mi avvicino a salutare anche lui. Subito dopo si sente il fruscio leggero delle guide che scorrono sul carro mortuario, è una consolazione sa-


13 pere che quel povero Cristo adesso sia al riparo dagli animali del bosco. Il carro e la Fiat Tipo ripartono, Bobby è già risalito nel bagagliaio, Congiu e Tore stanno per entrare nella camionetta, io invece, mi guardo ancora intorno insoddisfatta. Voglio tornare ancora a quella sughera adesso che è stata finalmente liberata da quel terribile peso. «Aspetta a mettere in moto» dico a Congiu. «E passami la torcia, per favore». «Perché? Che ci devi fare?». «Voglio dare solo un’ultima occhiata al terreno là intorno, prima di ripartire». «Tieni, sbrigati però Caramè, che fa freddo». Lo odio quando mi chiama così, lui lo sa e me lo fa apposta, gli lancio un’occhiataccia che dice tutto. «Come l’hai chiamata?» sento Tore Mele chiedergli ridendo mentre mi allontano. «Caramella, per il suo cognome mì! Duffuru si chiama». Faccio spallucce e proseguo verso la sughera con la torcia accesa stretta in mano nel silenzio inquietante, non un frullare d’ali, non un cinguettio, i suoni del bosco sembrano tutti intrappolati nel gelo della notte. Fa un freddo boia, mi sollevo il bavero del cappotto tenendolo stretto con la mano libera, intanto cammino spedita senza neppure badare più alle pozze di fango. Arrivo alla sughera con l’orlo dei pantaloni inzaccherati e i piedi inzuppati, dovevo ascoltare il consiglio di Sotgiu e cambiarmi le scarpe, merde! Con un ramoscello secco raccolto a terra, smuovo piano il fogliame: c’è rimasta l’impronta del cadavere, mi accuccio, gratto piano il suolo in cerca di qualsiasi cosa illuminandolo avanti e indietro, a destra e sinistra. Non trovando nulla, infilo piano qua e là il ramoscello secco nella terra, intanto annuso l’aria per cercare di risalire a quell’odore che non riesco ancora a individuare, sebbene mi sembri familiare.


14 Forse mi ricorda la Camargue, gli odori del bosco si somigliano ovunque. Non trovando nulla d’interessante, faccio un ultimo tentativo appoggiando il ramoscello sul terreno, raspo sulle zolle indurite e su qualche sasso finché, a un certo punto, un breve scintillio riverbera su un oggetto appuntito alla luce della torcia. Con le dita tremanti raccolgo una foglia per non lasciarci sopra le mie impronte e tiro piano. Di sicuro non è né una zolla né un sasso: dev’essere qualcosa di molto sottile. Tiro ancora muovendo le dita piano, avanti e indietro fino a intravederne bene la punta. Sembra un medaglione dorato. Tiro ancora e vedo che di qualunque cosa si tratti, è di fattura antica e ricoperta di pietre violacee, se fosse d’oro e, queste fossero vere ametiste, varrebbe una fortuna. Afferro meglio e tiro ancora, sempre con la medesima cautela, probabilmente ci sarà attaccata una catenina, bisogna fare attenzione a non spezzarla. Al contrario di come avevo previsto, pur tirando con cautela, l’oggetto si sfila subito. Non è un medaglione e non c’è alcuna catenina attaccata, sembra piuttosto un fermaglio saldato su uno spillone di circa quindici centimetri. Lo rigiro alla luce della torcia per osservarlo meglio: è troppo lungo e spesso per essere una spilla da giacca, forse è un fermaglio per capelli. Guardando la parte appuntita mi chiedo se non sia compatibile con i fori che Scattolini mi ha appena mostrato. Mentre ci ragiono il cuore mi sconquassa il petto e la fronte s’imperla di sudore. Più osservo questo fermaglio, più mi convinco che chi ha ucciso quel poveretto lo avesse in mano, chiunque sia stato deve aver agito di fretta e fregandosene di lasciare tracce dietro di sé. Mentre mi sollevo da terra sento centinaia di domande affastellarsi nel cervello: perché l’assassino ha solo ricoperto il corpo con le foglie anziché seppellirlo per bene? Era a mani nude? L’ha portato qui col proposito di ucciderlo o non l’aveva premeditato? È stato un litigio finito male? Perché sotterrare qui sotto l’arma del


15 delitto anziché buttarla lontano? È stata messa qui apposta? Se sì, perché? Con l’intenzione di incolpare qualcun altro? E chi? Una donna, forse, giacché si tratta di un fermaglio per capelli!


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CAPITOLO II

Una civetta sul ramo mi punta i suoi occhi gialli in faccia e ride forte facendomi quasi morire di paura. Col cuore in gola corro verso la camionetta, la luce della torcia che tengo in mano mi ballonzola davanti illuminando la strada a singhiozzi. Da qui posso già vedere Congiu e Tore, mi sento un po’ più tranquilla. «Quanto cavolo ci sei stata laggiù, ci hai fatto preoccupare!» bofonchiano quando sono a un passo da loro. «Scusate, ma ne è valsa la pena» dico col fiatone mostrando il fermaglio che tengo sempre stretto nella foglia. «E quello?» mi chiede Congiu prendendomi sottobraccio. «Stava sepolto là sotto, spero che sia l’arma del delitto». «Malannu Caramè, complimenti! Vieni, in macchina da qualche parte dovrebbe esserci una bustina pulita per mettercelo dentro. Se è davvero quella, metà del caso è già risolto mì, brava!». Rientrando tutti ad Arzudili col cuore più leggero dell’andata, Tore ci spiega che un tempo, fermagli come questo lo mettevano fra i capelli le donne nel giorno del matrimonio. Anche sua moglie ne aveva ereditato uno per le loro nozze. Arrivati in paese, lo lasciamo con Bobby vicino a casa, poi andiamo in commissariato a riferire. «Che cos’è?» chiede Sotgiu vedendomi entrare con la bustina di plastica contenente il fermaglio. «L’arma del delitto» mi anticipa Congiu. «Proprio sotto il cadavere era, mì!». «Davvero? Fate vedere?» chiede Solinas sgranando gli occhi.


17 «Calma, calma» mormora Sotgiu allungando la mano. «Per adesso è solo un… che cos’è di preciso, una specie di spilla?». «Un fermacapelli» gli rispondo secca porgendoglielo. «Potrebbe darsi che abbia a che fare con quel cadavere» mormora ancora rigirandosi la bustina tra le mani. «Oppure, stava là sotto da chissà quanto tempo». «Se avessi visto anche tu i tre fori che quel poveretto aveva sul fianco, forse non avresti molti dubbi, il diametro dello spillone è lo stesso, mi ci gioco la testa!». «Questa bella testolina bionda?» sorride lui passando il palmo contropelo sui miei capelli a spazzola. «Sono sicura!» ribatto scansandomi. «Io un po’ meno, ma ci spero tanto. Se fosse come dici, qua sopra potremmo trovarci le impronte dell’assassino, sarebbe già qualcosa». «Solo qualcosa?» ringhio stizzita. «Qui in archivio avremo sì e no un centinaio di persone schedate, se nessuna di quelle impronte corrisponde a queste, bisognerà estendere la ricerca altrove, impiegheremmo mesi, anni forse. E Scattolini che dice?» chiede alla fine senza staccare gli occhi dal fermaglio. «Niente!». «Perché sei così sgarbata? Che c’è, vuoi l’applauso?». «No, mi accontenterei anche solo di un “brava”, pensa un po’». «Brava, allora! Va bene adesso?». «Va te faire foutre!» sussurro fra le labbra mentre gli giro le spalle. «Ma, mi domando e dico» butta là Solinas per smorzare i toni, «con tanto mondo, proprio qui dovevano venire ad ammazzarlo quel poveretto?». «Che cazzo dici?» sibilo acida. «No, è che di queste faccende non ne capitano mai da queste parti… ammazzare per ammazzare, tanto valeva che lo facevano altrove».


18 «Quando hai finito di dire stronzate, fammi un fischio!». «Va a casa, Dufour!» mi ruggisce in faccia Sotgiu. «Sei stanca!». «Che c’è, alla chioccia hanno toccato i pulcini?» ribatto sarcastica mentre mi mordo la lingua e raggiungo l’uscita senza lasciargli possibilità di replica. Attraversata la piazza infischiandomene delle pozzanghere e di ciò che adesso staranno commentando in commissariato, salgo piano i gradini di casa, attenta a non scivolare sul ghiaccio. A metà rampa, mi sento chiamare dalla voce ruvida di Gavina, la padrona di casa che anche a quest’ora deve avermi sentito arrivare. «Scusa, è tardi» le dico senza fermarmi. «Sono molto stanca e infreddolita, mi faccio subito un bagno caldo e me ne vado a letto, ci vediamo domani». «Asciugati e torna giù, allora» mi ordina perentoria. «Non si va a dormire senza mangiare qualcosa, no! Ti bevi solo un po’ di brodo caldo e te ne torni a casa! Ajò, sbrigati bella bè, già ti aspetto». Al brodo caldo non riesco a resistere, anche stasera Gavina ha stravinto, ma questa storia deve finire, da che sono arrivata non sono mai riuscita a starmene una sera per conto mio, maledetta ospitalità sarda! Appena entrata a casa accendo subito il camino, mi asciugo al volo, m’infilo una tuta comoda, la giacca a vento, un paio di galosce e scendo da Gavina. A differenza del solito, stasera trovo un’atmosfera cupa: la figlia Maddalena ravana curva con la paletta nella cenere del caminetto, intanto Mario, il maschio, seduto al tavolo col tovagliolo ancora infilato al collo, picchia nervoso il cucchiaio sul bicchiere fissando il piatto sporco di fronte a sé. «Allora, bella bè» esclama Gavina con voce inadeguata alla mestizia della casa. «Un morto, avete trovato, stasera?». «C'est incroyable, come corrono qui le notizie!» le rispondo sorpresa. «Arzudili piccolo è, mì! Allora, chi era, si sa?».


19 «No, e comunque non posso parlarne, mi dispiace». «Neanche a noi di casa, puoi dirlo?». «No, chéri, neanche a voi». Senza nascondermi il suo disappunto, Gavina gira la manopola del gas e si volta stizzita per appoggiare la pentola bollente sul tavolo, scodella il brodo nel mio piatto incurante delle gocce che cadono sulla tovaglia pulita, poi posa tutto e raggiunge la figlia per strattonarla da un braccio fino al tavolo. Senza opporre resistenza, Maddalena si siede a testa bassa con gli occhi gonfi di pianto. Di solito siamo io e Gavina a portare avanti la conversazione, Maddalena è sordomuta e Mario si esprime in dialetto, quelle rare volte che apre bocca. Oggi però si sta tutti in silenzio. Non so che pensieri passino in questo momento nella testa degli altri, i miei sono di rabbia per essermi lasciata trascinare in questa situazione di merda. Sorprendendo tutti, Maddalena spinge indietro la sedia e sparisce oltre la tenda che delimita la cucina dalle stanze da letto, noi restiamo a guardarla curiosi finché non riappare con un quaderno in mano. Tornata al suo posto me lo porge sfidando lo sguardo accigliato della madre, senza capire, inizio a sfogliarlo incuriosita. «Eja, eja, Michelangelo» la sbeffeggia il fratello. «Già sono belle le tue opere d’arte!». «Mutu!» lo zittisce Gavina minacciandolo col braccio alzato. «Non ti permettere di parlarle così, mì!». Continuo a sfogliare il quaderno fingendomi interessata, ma l’unico pensiero che ho in mente è di trovare il modo più garbato di tornarmene a casa. «Sei brava!» dico a Maddalena scandendo bene le parole, poi le riconsegno il quaderno, ringrazio e mi alzo pronta ad andarmene. «Solo disegni sa fare, mì, non l’hanno voluta a scuola» mi spiega Gavina seguendomi con lo sguardo. «A quindici anni ancora non sa né leggere né scrivere, meschineddha!».


20 «Mi dispiace» sussurro sulla porta seguita da Maddalena. Allungo la mano per accarezzarle le trecce bionde, lei mi risponde con un sorriso e mi punta l’indice contro il petto. «Che vuole dire?» domando alla madre. «Ti sta chiedendo di farle scuola». «Io?». «Sì, ma non preoccuparti, già gliel’ho detto che non hai tempo per lei». Rivolgo un sorriso dispiaciuto a Maddalena che lei deve scambiare per un cenno di consenso perché mi getta le braccia al collo, felice. «Va bene, va bene» le dico mentre cerco di liberarmi dalla presa. «Un giorno o l’altro lo farò, promesso». «Eja!» starnazza Gavina strappandomela di dosso. «Adesso lasciala andare a letto, però che è stanca!». Poco dopo, piombata subito in un sonno pesante, ripercorro chissà perché il viaggio in traghetto di qualche settimana fa, che da Roma mi ha portato qui in Sardegna. Il mare è mosso, io sto al freddo sul ponte a guardare le nuvole che cambiano forma: un serpente acciambellato che partorisce un orsacchiotto dalle orecchie a punta, un leone con un corno in mezzo alla fronte, la criniera viola e due piumini per coda, un’aquila con la proboscide al posto del becco; un coccodrillo a tre teste, no, una sola, no, due. «Peccato!» mi sussurra all’orecchio una voce svegliandomi di soprassalto. Mi era parsa così reale che devo accendere l’abatjour per accertarmi di essere sola nella stanza, respiro per riprendere fiato pian piano, ma quel suono mi è rimasto ancora nelle orecchie. «Peccato!» ripeto, e solo adesso ricordo che a sussurrarmelo era stato Giulio Boncampi, il professore di psichiatria che avevo conosciuto quella notte sul traghetto. Chissà perché la sua voce mi è arrivata così spaventosa in sogno? È un uomo così garbato, così premuroso…


21 Ancora un po’ scossa mi alzo per andare a bere un bicchiere d’acqua, poco dopo, appoggiata al lavello, un piede sull’altro sulla pietra gelata, ripenso ancora a lui e ai nostri discorsi infiniti per non vomitare in quella notte terribile. Sorrido al pensiero di quel suo sguardo rassicurante e a quel saper ascoltare, diventato ormai così raro. Gli dissi tante cose di me, troppe forse. Della mia infanzia in Camargue, del salotto di casa sempre pieno di artisti senza un soldo e affumicato di cannabis e vapori di Bordeaux. Lui invece aveva parlato poco, mi aveva giusto confessato di avere un indelebile errore sul petto: la faccia di Freud che si era fatta tatuare ancora studente universitario, in un periodo di esaltazione. Pochi capelli bianchi, occhialetti a mezza luna, cravatta stile regimental, camicia con le cifre e sotto una bella faccia di Freud, poveretto! Non riesco a immaginarmelo con quel tatuaggio sul cuore. Ricordo che mentre me lo raccontava ho pensato che stesse mentendo per mettermi più a mio agio e farmi aprire. Se fosse così gli è riuscito bene, gli ho raccontato quel che non ero mai riuscita a confidare a nessun altro, persino il suicidio di mamma e la conseguente rottura con mio padre. E poi, mi era sembrato di sentire dei cocci andare in frantumi dentro di me, come se avessi liberato quei segreti da una gabbia di cristallo. Glielo dissi e lui mi sorrise annuendo. Diable d'un psychiatre! Magari non è neanche vero che ce l’ha, quel tatuaggio. L’orologio vicino alla finestra segna già le due, tra cinque ore dovrò già andare al lavoro, merde! Torno a letto ripensando alla risata buffa del professore mentre gli raccontavo di aver scambiato il punto sull’atlante che indica questo paese per una cacca di mosca, tanto era piccolo, e di aver cercato persino di scalfirlo con l’unghia. Se lo fece ripetere tre volte il nome di Arzudili, poiché, ridendo in quel modo, non riusciva mai a sentirlo bene.


22 Coprendomi con la trapunta, mi tornano in mente anche le sue mani nodose che mi sfiorarono il viso con un plaid in quei pochi minuti di sonno. Avevano un profumo agrodolce quelle dita, come di… «Merde!» grido saltando sul letto, è lo stesso odore che ho sentito ieri sera vicino al cadavere! Mi stringo le gambe con le braccia e incomincio a dondolarmi avanti e indietro con gli occhi fissi al muro di fronte. No, non quello può essere il corpo del professore, ç’est impossible! Lui non era diretto da queste parti, andava a un convegno a Cagliari, sono sicura, l’ho visto salire sulla limousine che era venuto a prenderlo. C’era anche un suo collega, in piedi accanto alla macchina, sulla quarantina, alto, magro, pallido, si sono stretti la mano e sono saliti dietro. Era così pallido, quell’uomo, che pensai fosse malato. Anche lui era vestito bene, ma con uno stile più originale del professore, aveva un cappotto nero, un cappello di feltro a falda larga e al collo portava un bel foulard di seta. Quel corpo sotto la sughera non c’entra proprio niente col professore, perché sarebbe venuto ad Arzudili se nemmeno lo aveva mai sentito nominare? Era diretto a Cagliari, non qui au trou du cul du monde! Punto! Eppure quel profumo gliel’hai sentito addosso – mi ripete un tarlo all’orecchio mentre spengo la luce e provo a dormire – ce l’aveva sulle mani quando ti copriva e l’hai sentito ancora più forte poco prima di sbarcare, quando era tornato dalla cabina, lavato, rasato e con una camicia diversa. Forse era dopobarba, centinaia di uomini useranno quella stessa marca! – mi dico trovando finalmente la frase giusta per convincermi a dormire. Pensieri in libertà scorrono diventando pian piano sogni. Torno di nuovo a quella notte sul traghetto, ma non c’è più quel maledetto dondolio né quelle scomode poltroncine del bar, sto seduta sul divano della mia vecchia casa in Camargue. Con noi c’è anche la mamma, indossa un abito a fiori e scarpe con la zeppa di corda.


23 Benché non riesca a vedere più su del suo decolleté, sono sicura che sia proprio lei. Io sto nel mezzo e quando annuncio a entrambi di essere ispettrice di polizia vedo esplodere uno dopo l’altro, tutti i bottoni dalla camicia del professore. All’improvviso mi appare la faccia di Freud con la bocca spalancata in una smorfia orribile, le guance gli si sciolgono come cera e cadono a goccioloni. Faccio per chinarmi a raccoglierle prima che si appiccichino sul tappeto, ma i bulbi oculari di Freud scoppiano dalle orbite rotolandomi ai piedi. Li raccolgo con naturalezza per porgerli al professore che, dopo avermi ringraziato se li rimette sul petto insieme ai brandelli di guance ricomponendo la faccia al tatuaggio. «Mi scusi per questa reazione così eccesiva» dice Freud con la voce del professore. «Ma saperla un poliziotto mi ha del tutto spiazzato, avrei giurato che fosse una mannequin». «Una mannequin io, sta scherzando?». «Perché? È così alta, magra, slanciata…». «Secca allampanata, vorrà dire, e poi, con questo naso!» sorrido toccandomelo. Solo adesso mi accorgo di non averlo più, non ho più naso né guance né faccia! Mi risveglio tutta sudata e mi tocco il viso, è tutto al suo posto, heureusement! Sono già le otto e quaranta, è tardissimo, merde!


24

CAPITOLO III

A pochi metri dal commissariato vedo Congiu arrivare di corsa come me, con una mano si tiene il cappello, con l’altra mi fa cenno di aspettarlo per entrare insieme. Ha un complice stamattina, lui che è sempre in ritardo. Troviamo Solinas già al lavoro, impeccabile come sempre nella sua divisa che stride con la scrivania vecchia e dai bordi bruciacchiati. «Buongiorno, è già arrivato il capo?» gli chiedo piano per non farmi sentire. «Buongiorno ispettrice!» esclama invece lui con la solita voce da gallina strozzata. «Sì, qui da un pezzo è!». Per evitare il richiamo m’infilo subito nella mia stanza lasciando Congiu a cazzeggiare tranquillamente all’entrata con Solinas. Mentre apro gli scuri alla finestra, però, sento Sotgiu arrivarmi alle spalle, prima che possa dire qualcosa, lo anticipo. «Non ho dormito un granché stanotte, scusa per il ritardo». «Per il cadavere, per il freddo che hai preso con quelle scarpette da passeggio o per la discussione di ieri sera?». «Per nessuno dei tre… quale discussione?». Lui scuote la testa. «Ah, quella fra noi due! No, è che ho fatto un brutto sogno. Anzi, scusa anche per ieri, ero molto stanca». «Ok. Non raccontarmelo, però il sogno, non lo voglio sapere, io non ne faccio mai e se mi capita, poi non me li ricordo». «Tutti sogniamo, a volte ci tirano fuori problemi che nemmeno immaginavamo d’avere».


25 «Appunto! Mi bastano quelli che so, che è, t’intendi di psicologia?». «Diciamo che mi ci sono accostata per necessità». «Perché, che ti è successo?». «Entra e chiudi la porta, è una questione personale, non mi va che gli altri sentano». Sotgiu esegue, ci sediamo alla scrivania una di fronte all’altro. Non so da dove cominciare, se prendere il discorso alla lontana come feci col professore sul traghetto o tagliare corto. Alla fine scelgo la seconda ipotesi, lui non è altrettanto paziente. «Mia madre si è suicidata quando avevo appena dieci anni, l’ho trovata io in giardino col cranio fracassato sui mattoni del vialetto». Scioccato e senza parole, Sotgiu protende la mano per confortarmi, ma la mia resta immobile, attorcigliata all’altro braccio e chiusa a pugno. «Mi dispiace, non lo sapevo» sussurra ritraendola subito. «Dev’essere stato terribile!». «È acqua passata… se ti dico che cosa mi è rimasto in mente di tutta quella scena non ci credi». «Che cosa?». «Gli occhi di mia madre spalancati verso il sole. Ricordo che pensai che si fosse trasformata in una specie di supereroe e diventata così forte da poterlo affrontare senza restarne accecata». «A quell’età si fanno i pensieri più strani». «Già. E non sai per quanto tempo sono rimasta convinta che la morte rendesse invincibili. È servito un bel lavoro su me stessa per togliermi dalla testa quell’idea». «Non sei stata dallo psicologo?». «No, non rivelai mai a nessuno quei pensieri». «Perché?». «Sono figlia unica e abitavamo in una villetta isolata in campagna, non avevo né fratelli né amici con cui parlare e mio padre aveva altro per la testa in quel momento».


26 «Immagino, poveretto!». «Poveretto un corno, si risposò subito dopo con la sua amante». «Ancora non l’hai digerita questa storia, o sbaglio?». «Non lo so, forse no, ma non ho voglia di parlarne». «Va bene, dimmi di quel sogno, allora, dai» mi dice per cambiare discorso. Gli sorrido facendogli cenno che non importa, ma lui insiste. «Prima però, allora, devi anche lasciarmi fare una premessa». Lui sospira sbirciando l’orologio da polso a righe argento e nere. «Ieri sera, sotto quella sughera c’era un odore che conoscevo, anche se non mi ricordavo dove l’avessi già sentito». «E allora? Odore di che?». «Di dopobarba. Mi è tornato in mente stanotte in sogno, e ti assicuro che non è stato un bel momento». «Di dopobarba?». «Oui, quel cadavere profumava di dopobarba». «Che cazzo dici, Dufour? L’hai visto bene quel poveretto? Non ha più la faccia! Dove gliel’hai sentito il dopobarba?». «Addosso!». «Ma fammi il piacere! Con tutti gli odori che ci sono in un bosco, come hai fatto a sentire un dopobarba? Su quel cadavere scuoiato da chissà quanti giorni, poi! E comunque, seppure quel poveretto fosse stato imbevuto di profumo, tu dove vuoi arrivare?». «Da nessuna parte. Quando hai intenzione di vedere quel corpo?». «L’ho già visto stamattina. Sono passato all’obitorio prima di venire qua». «Che bel buongiorno ti sei regalato!». «Infatti». «Novità da Scattolini?». «Nessuna, spera di dirci qualcosa in giornata. Ma poi, dove ti sei ricordata di averlo già sentito quell’odore?». «Lo portava l’uomo che ho conosciuto sul traghetto, venendo qua».


27 «E che ci veniva a fare lui, a febbraio in Sardegna?». «Un convegno, a Cagliari». «Che genere di convegno? Non farti tirare fuori le parole con le pinze, Dufour, chi era, come si chiamava?». «Giulio Boncampi, è uno psichiatra e andava a un convegno di psichiatria, non so altro». «Se andava a Cagliari, non può essere suo quel corpo». «Non lo so, gli avevo parlato di Arzudili, sapeva che sono ispettrice di polizia». «E allora?». «Che ne so, allora! Magari era venuto a chiedermi aiuto». «È assurdo! Perché farsi più di cento chilometri sulle strade ghiacciate con tutti i commissariati che poteva trovare a Cagliari? Se uno ha bisogno d’aiuto, cerca la via più breve, o no?». «Oui». «Non sai quanto mi piacerebbe che fosse lui quel cadavere all’obitorio e che quel fermaglio nella busta fosse proprio l’arma del delitto! Pensa che bello, mi sarei già tolto dalle scatole questa grana». «A me invece dispiacerebbe, e molto! Quella notte, sul traghetto, l’ho conosciuto il professore, è una bellissima persona». «Dimmi che altro sai di lui». «Quasi nulla, però… forse so una cosa che potrebbe toglierci qualsiasi dubbio! L’hai visto nudo, stamattina?». «No, coperto dal lenzuolo. Perché, tu l’hai visto nudo sul traghetto?». «No, però so che ha un tatuaggio». «Di’ la verità, c’è stato qualcosa fra voi, per questo temi che possa essere suo quel corpo». «Que dites vous? Per favore, potrebbe essermi padre!». Sotgiu mi guarda poco convinto, poi afferra la cornetta del mio telefono e preme il pulsante rosso per chiamare Solinas. «Cercami subito Scattolini» gli ordina secco.


28 «Di sicuro, se c’è» mi dice poi in tono scettico, «avrà già visto quel tatuaggio. Che raffigurava?». «La faccia di Freud» gli rispondo alzandomi per andare alla finestra. Fuori il cielo è grigio, qualsiasi altro colore adesso sarebbe inappropriato. Sugli alberi è rimasta ancora un po’ di neve sporca che aspetta di essere lavata dalla pioggia in arrivo, è la cipolla al piede sinistro ad anticiparmi il temporale. Torno a sedere, l’ansia sale. Sotgiu ha lo sguardo fisso sul telefono. Ancora pochi attimi, poi il tasto bianco s’illumina, io mi paralizzo, lui alza subito la cornetta lasciandola scostata dall’orecchio per farmi sentire. «Obitorio» risponde poco dopo una voce femminile senza intonazioni. «Buongiorno Maria, mi passa Scattolini, per favore? Sono Sotgiu». «Un momento, commissario». «Che succede?» sento squittire subito dopo dall’altro capo del filo. «Nulla forse, dottore, vorrei solo togliermi un dubbio». «Mi dica». «Il nostro cadavere ha per caso un tatuaggio sul petto? Pronto, dottore? C’è ancora?» chiede Sotgiu a Scattolini rimasto muto. «Sì, sì, mi stavo solo chiedendo come faceva a saperlo». «Allora, ce l’ha!». «Sì, ce l’ha, ce l’ha! Una bella faccia di Freud stampata sul petto!». «Freud…» ripete Sotgiu guardandomi sconcertato. «È proprio lui, merde!» dico mordendomi le labbra. «Sì, Freud, Sigmund Freud, lo psicologo! Mai, l’ha sentito nominare, commissario?». «Sì, sì, certo, certo, come no! Solo che… grazie, buona giornata, a risentirci presto, e grazie ancora».


29 «Merde!» bisbiglio mentre Sotgiu riaggancia con la faccia più stravolta della mia. «Avevi ragione» sussurra incredulo. «Avevi ragione, è proprio il corpo di quello psichiatra, come hai detto che si chiamava?». «Boncampi, Giulio Boncampi. Merde!». I pensieri mi frullano rapidi accalcandosi l’uno sull’altro come mille falene impazzite: che cavolo ci faceva qua il professore? Era venuto a cercare me? Era inseguito? Da chi? Chi può avercela con lui qui in Sardegna? Qualcuno del suo ambiente? Mi sembra impossibile! E se fosse stato semplicemente scambiato per qualcun altro? Da chi, però? E chi era allora il vero bersaglio? Le falene continuano a sbatacchiarmi nella scatola cranica alla ricerca d’una via d’uscita. Dall’altro lato della scrivania vedo la bocca di Sotgiu aprirsi per un attimo e poi richiudersi senza alcun suono. La testa mi gira, ho la nausea alla bocca dello stomaco e negli occhi, il volto scarnificato del professore. Come ho fatto a non riconoscerlo subito ieri sera, nel bosco? Quella giacca blu, la sua cravatta regimental azzurra e grigia! «È lui, è proprio lui» continuano a ripetere le falene scavando nel labirinto delle mie orecchie. Chiudo gli occhi, mi turo il naso e soffio per spingerle via, le sento resistere, affastellarsi una sull’altra svolazzando verso il timpano e, alla fine, esplodere fuori. Apro gli occhi e mi sembra di vederle sparire risucchiate dalle spirali incandescenti della stufa. «Oh, incantata ti sei?» mi dice Sotgiu scuotendomi. «Mi hai capito?». «Dicevi?» gli rispondo ancora un po’ stonata. «Che bisogna sentire se qualcuno ha visto Boncampi in giro, nei giorni addietro». «Va bene». «Di sicuro il colpevole non è di qua. Chi poteva conoscerlo ad Arzudili? Mi sembra anche improbabile che quel fermaglio per capelli c’entri qualcosa, a questo punto, non ti pare?».


30 «Magari stava già là sotto, anche se sarebbe una strana combinazione, con tanto bosco». «Vedremo, una cosa alla volta. Dai, comincia subito, fatti accompagnare da Congiu, lui conosce tutti qua in paese». «Va bene» ripeto ancora senza alzarmi dalla sedia. «Vai, Dufour!». Sobbalzo, poi m’infilo il cappotto, prendo la borsa, chiamo Congiu e usciamo. Partiamo dal bar, il luogo più frequentato, ma nessuno qui sa dirci nulla, così come al minimarket, dal giornalaio e in frutteria. Passiamo anche in Comune per chiedere ai vigili se hanno notato un’auto con dei forestieri a bordo, ma nemmeno loro ne sanno niente. Allora battiamo a tappeto ogni casa, andiamo a chiedere persino alla scuola elementare e alle medie, ma né il preside né gli insegnanti hanno notato auto o persone diverse dal solito, stessa risposta riceviamo dal meccanico e dall’orologiaio. «Non sarà mica caduto dal cielo, merde!» grugnisco alla fine. «Da qualche parte sarà pur passato per arrivare in quel bosco, possibile che non l’abbia visto nessuno?». «Potrebbe essere passato di notte o da sopra» ipotizza Congiu. «Da sopra, dove?». «Da Locumari. Alla sughereta ci si può arrivare anche da là» dice indicandomi la strada larga in salita alla nostra destra. «Certo è più scomoda, ma magari hanno cannato la prima entrata per Arzudili». «Perché, questa caccola di posto, ha persino due ingressi?». «Eja, nord e sud!». «Dici davvero? Ammettiamo pure che tu abbia ragione, ma allora, perché non è mai arrivato qua? Che c’è andato a fare in quel cavolo di bosco invece di venire in paese?». «Questo non lo so». «E poi, dov’è finita la sua auto? Non ce n’erano, là in giro, né sulla strada né nella sughereta». «Infatti».


31 «Sauf que, qualcun altro non l’abbia voluto portare là per ammazzarlo o lasciarcelo già cadavere». «Per scegliere la sughereta, però, chi l’ha ucciso doveva conoscere bene il nostro territorio». «O magari, passandoci vicino per caso ha deciso di fermarsi proprio là». «Non ci vieni ad Arzudili per caso, no!». «Hai ragione. Merde! È molto distante questo Locu…?». «Locumari? No, è una frazione di Arzudili, da qua sono una decina di chilometri scarsi». «Andiamoci, allora!». «Adesso? Con questo freddo? Lassù sarà pieno di neve!». «Vuoi aspettare il disgelo per cominciare le indagini? Dai, forza, prendi le chiavi della camionetta e andiamoci subito». Tornati indietro, mentre aspetto Congiu vado a fare rapporto a Sotgiu e avvisarlo della mia decisione di andare a Locumari. «Va bene, state attenti alla strada, però» mi risponde mangiando un panino senza neppure sollevare lo sguardo dal quotidiano. Congiu dà una sonata di clacson, esco e lo trovo già col motore acceso e il riscaldamento al massimo. Fatto il giro della piazza, prendiamo la strada larga in salita e incominciamo a inerpicarci. A destra e sinistra, una fila di pini ci protegge a tratti dalle raffiche di vento. Più saliamo, più la neve si fa alta e soffice. A un certo punto, però, dietro a una curva gli alberi finiscono all’improvviso, adesso tutto intorno c’è solo neve, Congiu accende i tergicristalli per spazzare via quella che il vento ci soffia contro togliendoci la visuale. Getto uno sguardo fugace al volto contratto di Congiu, sono sicura che mi stia maledicendo per averlo costretto a venire quassù. Mi verrebbe quasi da dirgli di fare retromarcia e tornare indietro, ma non voglio dargliela vinta né rientrare in commissariato senza aver nulla in mano. «Perché sei così silenziosa, Caramé? Paura hai?» mi chiede a denti stretti Congiu dopo un po’.


32 Sì, dovrei confessargli, ma non lo faccio. «Lo conoscevo» gli dico invece, cambiando discorso. «Chi?». «L’uomo che abbiamo ritrovato nella sughereta, l’avevo conosciuto sul traghetto, venendo qua». «Perché non me l’hai detto subito? E… ascò, come fai a dire che è proprio lui?». «Ieri, nel bosco avevo riconosciuto il suo profumo e poco fa Scattolini mi ha tolto ogni dubbio confermandomi che ha un tatuaggio». «Tatuaggi? Profumi? Io niente ho sentito né visto ieri sera». «Il tatuaggio non l’ho visto ieri, sapevo già che l’aveva sul petto e per quanto riguarda il profumo, con questo naso sono meglio di un cane da tartufo». «Sei tutta da scoprire, ogni giorno una sorpresa. Tornando a quell’uomo, perché sapevi di quel tatuaggio? Siete stati… intimi sul traghetto?». «Nossignore! Me l’ha detto lui di averlo. Se l’era fatto fare quando era ancora studente. Un indelebile errore di gioventù, mi aveva confessato quella notte. Di certo allora non poteva immaginare che sarebbe diventato il suo segno di riconoscimento dopo morto, merde!». «Che raffigurava?». «Sigmund Freud». «Freud, lo psicologo?». «Sì». «E come si chiamava, lui?». «Giulio Boncampi». «E che cavolo ci faceva qui?». «Un congresso». «Ad Arzudili? E tu creduto gli hai? Dove lo facevano, al bar di Mario?». «Senti, cambia tono, non mi va di scherzare su quest’argomento». «Scusa». )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

CAPITOLO I .................................................................................... 5 CAPITOLO II ................................................................................. 16 CAPITOLO III ............................................................................... 24 CAPITOLO IV ............................................................................... 33 CAPITOLO V................................................................................. 39 CAPITOLO VI ............................................................................... 47 CAPITOLO VII .............................................................................. 57 CAPITOLO VIII............................................................................. 72 CAPITOLO IX ............................................................................... 81 CAPITOLO X................................................................................. 90 CAPITOLO XI ............................................................................. 100 CAPITOLO XII ............................................................................ 112 CAPITOLO XIII........................................................................... 117 CAPITOLO XIV .......................................................................... 125 CAPITOLO XV ............................................................................ 139 CAPITOLO XVI .......................................................................... 148 RINGRAZIAMENTI: ..................................................................... 161Â



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