Prima di dormire, Dalila Faccio

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In uscita il 31/4/2018 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine maggio e inizio giugno 2018 (3,99 euro)

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DALILA FACCIO

PRIMA DI DORMIRE


ZeroUnoUndici Edizioni

ZeroUnoUndici Edizioni

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PRIMA DI DORMIRE Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-210-2 Copertina: immagine proposta dall’Autore

Prima edizione Maggio 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


“Di tutto l’essenza è il più straziante dei mali. Su tutto l’assenza cosparge amari sali.” M. Dose



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PREMESSA Considerate di aver notato molte cose nel corso della vita e di esservi fatti su di esse una vostra particolare idea, di aver accumulato opinioni, osservazioni e di non aver mai avuto modo di condividerle a fondo con qualcuno. Avrete visto altre persone la cui voce, soffocata, ha reso inespressi sentimenti e pensieri. Ora, annotando nella mente più ricordi possibili e aggiungendo episodi di pura fantasia, cercherò di porre rimedio alle parole inascoltate o mai dette, mie o di altri, spingendo però all’estremo il carattere e la personalità dei protagonisti del racconto, rendendoli chiaramente inventati. Un fondo di verità quindi è presente, ma talmente sottile che il lettore è pregato di non voler associare tali personaggi ad altri reali, conosciuti: sarebbe assolutamente dannoso. Dalila



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PARTE PRIMA Anche quella sera non riusciva a prender sonno: come le due precedenti non poteva fare a meno di fissare il soffitto della sua nuova stanza, appena rischiarata dalla luce del lampione in strada che filtrava attraverso i fori della tapparella leggermente riavvolta. In quella città di pianura l’estate era calda e i vicini si fermavano in cortile fino a tardi a chiacchierare, ma, anche quando sparivano nei rispettivi appartamenti e il silenzio diveniva assoluto, gli occhi di Agnes restavano sbarrati. Aveva sempre avuto l’abitudine di riflettere prima di dormire, ma, a differenza del solito, in quei giorni i suoi pensieri erano carichi d’agitazione: morto il padre, sua madre iniziò a detestare la vecchia casa in collina e a ogni costo volle trasferirsi in città; come se non fossero bastati il trasloco, il distacco dalle amiche e l’inserimento in una nuova scuola che presto avrebbe dovuto affrontare, aveva sentito, durante quel vociare tra vicini, che in quel periodo una banda di ladri s’aggirava nel quartiere ed entrava misteriosamente indisturbata nelle case senza farsi sorprendere dagli inquilini. Nessuno s’accorgeva delle intrusioni se non al risveglio mattutino, col capo stordito, trovando le stanze a soqquadro. L’intero paese sembrava impotente davanti a tanta astuzia e maestria. Cosa avrebbe fatto, si chiedeva, se degli uomini fossero entrati nel suo appartamento e lei, ancora sveglia, li avesse scoperti? Tra tutte era questa, in quei giorni, la sua maggior preoccupazione. Non si sentiva al sicuro, sola, con sua madre, in quel posto così poco familiare; lottare sarebbe stato inutile, lo sapeva, quanto urlare aiuto dalla finestra: nessuno avrebbe rischiato la pelle per soccorrerle. Anche la fuga non poteva essere una soluzione plausibile: di certo avrebbero bloccato l’ingresso e, sebbene abitasse al primo


8 piano, non riusciva a immaginare di avere il coraggio sufficiente per calarsi dal poggiolo e saltare a terra. Così decise di dormire con un pesante oggetto accanto – qualsiasi le capitasse a tiro: un mattarello, un piccolo manubrio con dei pesi o, in alternativa, un coltello o un attrezzo tagliente – per potersi difendere e di chiudere a chiave la porta della propria camera a scopo precauzionale: magari davanti a quell’ostacolo avrebbero desistito. Nonostante l’assetto studiato, la sua inquietudine non cessava: gli episodi di furto nel circondario sembravano essere in aumento e, a ogni minimo rumore, sobbalzava sul letto, tendendo l’orecchio per indovinarne la causa. Talvolta percepiva più di un rumore e si sentiva costretta ad alzarsi, mossa da ansia e curiosità, per vedere se nell’appartamento tutto fosse al solito posto: schiudeva la porta della sua camera, accendeva la luce all’improvviso e, con circospezione, controllava ogni finestra, ogni stanza, i poggioli, a volte sotto il suo stesso letto e, maniacalmente, dietro ogni porta aperta non perfettamente parallela al muro retrostante. Nell’arco di tre settimane, i ladri non erano più una novità e l’interesse dei vicini per i loro spostamenti calò, così l’argomento passò in secondo piano fino a non essere più preso in considerazione. Di pari passo anche le fobie di Agnes scemarono e scomparvero. L’estate stava per finire e ogni volta che ripensava a quelle notti insonni sorrideva del suo comportamento. Decise allora di mettere nero su bianco quelle sensazioni, quelle paure infondate, in modo che se le avesse provate nuovamente in futuro, rileggendo il suo stesso scritto forse non avrebbe ceduto a un’altra stupida influenza esterna. Trovò un quaderno bianco rovistando nel fondo di un cassetto: era a quadretti, ma andava bene lo stesso. Ebbe l’idea di raccontare i suoi pensieri fingendo di rivolgersi a qualcuno, perciò, dopo una breve cernita dei conoscenti, iniziò a scrivere: Ciao Billy… Billy era il gatto di zia Irma, la sorella di suo padre; una buona donna, certo, ma così tremendamente espansiva nei suoi affettuosi saluti da avere stampato in viso un sorriso sicuramente falso. Per questo Agnes non la soffriva e compativa quel gatto così diverso dalla sua padrona. Era il migliore amico che lei avesse, senza dubbio: solo a lui avrebbe raccontato i suoi sentimenti più intimi e i suoi timori; anche se non


9 avesse potuto darle alcun consiglio, di certo avrebbe mantenuto ogni segreto. Le dispiaceva non rivedere più Billy: sua madre non andava a trovare zia Irma nemmeno quando abitavano di fronte, su in collina, figurarsi ora che le separavano chissà quanti chilometri. Agnes avrebbe volentieri portato con sé Billy nella nuova casa, e anche Billy sarebbe stato felice di seguirla, ma sua madre odiava i gatti e per starne alla larga sosteneva di esserne allergica. Doveva essere allergica anche ai vicini di casa perché, trascorso un mese dal trasferimento, non aveva ancora conosciuto nessuno; non che loro si prodigassero per mostrarsi tanto più socievoli, ma per lo meno salutavano se li si incrociava sulle scale o nel vialetto d’ingresso. Mancava una settimana all’inizio della scuola e Agnes, come ormai era abituata a fare prima di andare a dormire, annotò sul quaderno: Ciao Billy, fra sette giorni vedrò la mia nuova scuola, avrò nuovi compagni di classe e spero di fare amicizia con qualcuno. Dicono che la terza superiore sia la più difficile, ma farò del mio meglio, non ti preoccupare! Poi, con la scusa dello studio, forse mamma mi chiederà un po’ meno come mai me ne sto tanto tempo chiusa in camera; ho provato a spiegarle che mi piace scrivere, in tranquillità, ma non riesce a concepirlo. Secondo lei le ragazze della mia età dovrebbero passare le giornate estive a fare shopping, a uscire con le amiche o a conoscere ragazzi… mah, per ora preferisco restarmene qui! Ti racconterò le novità appena ce ne saranno! Ciao e… una grattata dietro le orecchie! A Billy piaceva farsi grattare la testa e Agnes ricordava con nostalgia le fusa che faceva ogni volta che le sue dita sprofondavano nel pelo morbido. Se mai avesse avuto una casa tutta sua l’avrebbe riempita di gatti e avrebbe sposato solo un uomo amante degli animali, su questo non ci pioveva! Il primo giorno di scuola arrivò e, durante la passeggiata che Agnes fece per raggiungere l’istituto, fu presa dall’ansia: aveva mal di stomaco e avrebbe voluto tornarsene a casa; non sapeva cosa l’aspettava e gli imprevisti la turbavano. Non che disprezzasse le novità o le sorprese, ma faticava ad affrontare ambienti sconosciuti, da un lato


10 per paura di non superare eventuali prove, dall’altro per timore del giudizio altrui. Al primo impatto infatti risultava spesso timida o impacciata, caratteristiche che in realtà non le appartenevano. Il senso del dovere la indusse a varcare la cancellata d’ingresso della scuola, ma subito si arrestò per studiare la situazione: era in anticipo di una buona mezz’ora e già molti gruppi di ragazzi e ragazze si erano formati lungo il selciato che divideva giusto a metà il cortile che si apriva dinanzi a lei. Avrebbe voluto chiedere informazioni a qualcuno se solo non si fosse sentita così a disagio; ognuno appariva sicuro di sé, tutti ridevano, tutti sapevano cosa fare. Decise allora di avvicinarsi alla porta a vetri della scuola per leggere gli avvisi appesi dentro a cartelline trasparenti. Notò subito che la suddivisione delle classi era già stata compiuta e cercò tra le liste delle terze il suo nome, facendo scorrere il dito dall’alto verso il basso sugli involucri lucidi; lo fermò a mezz’aria quando scorse il suo cognome, quasi stupita che qualcuno lo avesse preso in considerazione e inserito nell’elenco. «Ehi, ti sei incantata?» la destò una voce alle sue spalle. Agnes si girò di soprassalto e si trovò faccia a faccia con una ragazza dal largo sorriso che le tese la mano. «Devi essere il nuovo membro della nostra classe, giusto?» «Credo… credo di sì, mi chiamo Agnes», rispose stringendole la mano. «Piacere di conoscerti! Io sono Elsa. Sono italiana, ma da tanti anni abito qui. Nella nostra classe c’è anche una ragazza russa: è la più bella della scuola! Tu di dove sei? Hai un accento strano!» «Abitavo in collina, vicino a Stoke-On-Trent. Era molto diverso da qui a Greenwich… non so…» «Che c’è? Non ti piace qui?» «Non è questo, forse mi devo solo abituare…» «O magari conoscere un po’ di gente! Eccola, eccola là! Ilina, la ragazza russa di cui ti parlavo! Non è bella? Dai, vieni che te la presento!» Agnes avrebbe preferito conoscere il funzionamento della scuola più che una bella ragazza, ma Elsa era stata così gentile e travolgente che il suo entusiasmo le impedì di rifiutare; perciò la seguì. Dal canto suo anche Ilina non sembrava poi tanto desiderosa di diventare sua amica: le strinse la mano giusto per concludere le presentazioni, disse «ciao» e proseguì la conversazione con alcuni


11 ragazzi che la pedinavano da quando era entrata. Elsa abbozzò un sorriso per colmare la freddezza della compagna e invitò Agnes a scusarla, asserendo che non di rado si mostrava volubile, ma in fondo era una cara ragazza. Agnes non si risentì: in verità non le importava granché dell’educazione di quella ragazza russa; nutriva in quel momento maggior interesse per la formazione delle classi. Stavano facendo l’appello da un altoparlante e solo allora notò che maschi e femmine erano divisi. Elsa glielo poté confermare e aggiunse che tutte le scuole private erano organizzate così, perché le attività extrascolastiche erano differenti per i ragazzi e in quel modo i gruppi di lavoro sarebbero stati già pronti. Agnes non si spiegava il motivo di quella separazione: nel suo paese di provenienza anche le donne giocavano a basket o a football e, viceversa, anche gli uomini facevano ginnastica e volley. Pensava che a quei tempi ormai non si facessero più certe distinzioni, che l’ultima generazione a sperimentarle fosse stata quella dei suoi nonni, invece si sbagliava e si trovò a seguire pedissequamente le istruzioni della voce altisonante che giungeva alle sue orecchie, raggiungendo sovrappensiero l’ala della scuola dedicata alle femmine. La sua classe dava sul cortile del retro e si trovava di fianco all’uscita di emergenza. I banchi erano biposto ed Elsa, che già si era messa a sedere in seconda nonché penultima fila, la invitò con un gesto ad accomodarsi accanto a lei. Agnes eseguì senza perdere tempo, nel timore di doversi sorbire una compagna meno gradevole. Osservò una a una le altre sedie riempirsi e per gioco cercò di indovinare i nomi delle ragazze che andavano a occuparle in base alle loro caratteristiche estetiche. Non le venivano però in mente nomi tanto belli: sfilavano davanti ai suoi occhi figure angeliche e, se la loro simpatia fosse stata proporzionale all’aspetto, certo avrebbe passato un anno scolastico indimenticabile. Le sovvenne però alla mente l’episodio poc’anzi trascorso con Ilina: forse sarebbe stato più prudente non farsi troppe illusioni e aspettare di conoscerle. In fondo questo suo desiderio non avrebbe tardato ad avverarsi: erano appena in dodici e presto sarebbero diventate amiche. I suoi sogni furono interrotti dall’ingresso dell’insegnante della prima ora, quella di lettere: una bella donna, sulla quarantina, con i classici occhiali da segretaria. Si diresse alla cattedra con passo spedito e,


12 poggiato il registro, poté alzare lo sguardo su quello che senz’altro considerava il suo piccolo popolo da istruire. Iniziò l’appello con voce ferma, decisa a portare a termine quella formalità nel più breve tempo possibile. Aveva impressi nella memoria tutti i nomi delle sue allieve; teneva sott’occhio l’elenco solo per segnare le presenze con una crocetta. Stava per saltare Agnes, quando, pronunciando a metà il nome della compagna successiva in ordine alfabetico, s’accorse dell’errore e della novità al contempo e sembrò mutare i suoi piani. Rallentò la sua corsa verso l’inizio del programma scolastico, come bloccata da questa nuova presenza non ancora inquadrata. «Agnes Rave… abbiamo una compagna in più… meno male… dovrebbero arrivarne dieci all’anno per compensare le bocciature e perché venga mantenuto nelle classi un numero decente di studentesse. Dove studiavi l’anno scorso, Agnes?» «Alla Hyton di Stoke-On-Trent; scuola statale, ma stesso indirizzo.» «Ah, vieni da quella zona… non conosco quella scuola statale, ma spero tu sia ben preparata, sappi che qua non scherziamo! In ogni caso ti consiglio di farti prestare gli appunti delle mie lezioni dell’anno scorso, la prossima settimana inizierò a interrogare: ciò che è stato appreso non va dimenticato! Vivian, passale il tuo quadernone ad anelli, potrà farsi delle fotocopie.» La ragazza chiamata in causa immediatamente si alzò per porgerle quanto ordinato e Agnes ringraziò con educazione, ma dentro sé non poteva fare a meno di biasimare il tono di disprezzo dell’insegnante e quell’ostentazione di superiorità. Avrebbe studiato, si sarebbe impegnata e le avrebbe portato rispetto comunque, senza che le venisse implicitamente imposto. Quel modo di fare la seccò. Stava per bisbigliare a Elsa la sua opinione, ma questa tenne gli occhi fissi sull’insegnante e la sgomitò per farle capire di starsene in silenzio. Quel clima di tensione la stupì: che c’era di male nel dire due parole a una compagna? L’insegnante non stava spiegando, non avrebbe disturbato nessuno, né interrotto nulla. Eppure, guardandosi attorno, vedeva in tutte lo stesso atteggiamento di doveroso silenzio e restò così a interrogarsi sulle conseguenze che sarebbero derivate da un comportamento diverso da quello tenuto. Nemmeno il suono della campanella che segnava l’inizio della seconda ora servì a far rilassare quei visi contratti e attenti. Nessun sussulto, nessun sospiro di sollievo, tutte impassibili come se non avessero sentito.


13 Al termine della lezione l’insegnante assegnò come compito per casa la lettura di un libro di Oscar Wilde: Il ritratto di Dorian Gray. Agnes lo aveva già letto l’estate precedente e per questo fu molto grata a se stessa e alla sua passione per la letteratura; come poteva trovare il tempo per leggerlo ora, viste le sei ore giornaliere di frequenza scolastica e la quantità di compiti da svolgere che certamente si sarebbe accumulata con il susseguirsi delle lezioni? Per fortuna arrivò il momento della ricreazione e poté rovesciare su Elsa tutte le sue perplessità; lei cercò di tranquillizzarla, sostenendo che al posto suo si sarebbe detta fortunata per svariati motivi: non aveva ancora conosciuto l’ira della Sig.ra Whilkins, aveva avuto facile accesso ai preziosi appunti che Vivian custodiva con gelosia come un tesoro ed elargiva con parsimonia, aveva già letto il libro su cui presto sarebbero state interrogate e poi era sua vicina di banco… di che si lamentava?! Le ultime ore trascorsero in un battibaleno e, ancora trasognata, Agnes rientrò a casa; quasi non si accorse del calar della sera, della cena fumante nel piatto, delle domande di sua madre. Quando costei la riprese per la sua distrazione, solo allora, per pochi secondi, si scosse dall’inerzia con cui aveva condotto quella giornata; forse si trattava solo di un trascinamento del malessere mattutino, ma, riflettendo, si rese conto che spesso si estraniava dal mondo che le girava attorno e, per una volta, sua madre aveva ragione. Mise mano al quaderno e, rivolgendosi a Billy, volle fare l’analisi di una sua giornata tipo e mettere in ordine una serie di pensieri che confusamente si affollavano nella sua testa: Al mattino, dopo il suono della sveglia, inizia il consueto rito della preparazione all’uscita. Impiego in media un’ora tra bagno, camera e cucina, per lavarmi, vestirmi e fare colazione. Un giorno mi sono sorpresa davanti allo specchio del bagno con lo spazzolino da denti in mano a mezz’aria, bloccata nell’atto di aprire un nuovo tubetto di dentifricio e questo perché mi era venuta in mente la prima volta in cui avevo sentito parlare di Unabomber: si trattava di un caso in cui una bambina, mi pare, era rimasta mutilata proprio nel tentativo di inaugurare la nuova confezione di pasta dentifricia e, da allora, ogni volta che mi accingo a fare la stessa operazione, mi soffermo sul


14 pensiero che potrebbe capitare una cosa simile anche a me. Ma generalmente non so come perdo il tempo; è come se fossi colta da sonnambulismo e mi destassi qualche minuto prima di uscire di casa. La cosa brutta è che questo fenomeno si verifica anche in altri momenti della giornata, mentre studio o anche quando qualcuno mi parla. Sono in grado di passare delle ore con gli occhi fissi su di una pagina, scorrendo l’indice sotto le parole e dando l’impressione di essere davvero concentrata, mentre la mia mente elabora tutt’altro: episodi vissuti, soluzioni a problemi, storie sentite, frasi dette. Vengo rapita dalla mia fantasia e tutto passa in secondo piano: ciò che devo fare, chi mi parla, i rumori, il mondo. Se in quei momenti mi capita di essere interpellata rispondo, ma poi non serbo il ricordo né della domanda, né di ciò che io ribatto. A volte cado in sogno finché sono in autobus o cammino: percorro dei tratti di strada senza sapere cos’è accaduto durante il tragitto; arrivo a casa e l’ultimo ricordo risale a qualche chilometro di distanza… da un lato trovo sia inquietante, dall’altro, per me, rilassante: è come svegliarsi dopo un riposo, solo che gli occhi sono sempre rimasti aperti! Mia mamma dice che vivo nel mio mondo e in un certo senso è vero; se è per questo ho anche un’intensa vita onirica: dormirei anche dieci ore filate continuando a sognare, sogno tantissimo! Lei dice che parlo nel sonno e per me è un problema perché temo di rivelare i miei segreti o di dire stupidaggini inconsciamente. Però è una soddisfazione non perdere tempo nemmeno di notte! Faccio sogni belli e brutti, ma ricordo solo quelli che mi danno emozioni, siano esse positive o negative, oppure quelli fatti per ultimi; mi sembrano tutti veri e il giorno dopo mi piace raccontarli per condividerli con persone reali e rendermi conto che effettivamente si è trattato di sogni. Sento proprio il bisogno di divulgarli, mi fa stare meglio, specie se erano incubi… per quanto possano essere fantasiosi o illogici, devo avere la conferma che niente di tutto quello che racconto sia mai accaduto. Eppure a volte nella vita reale ho dei déjà-vu, cioè mi trovo in situazioni che ho l’impressione di aver già vissuto in precedenza; essendo la cosa pressoché impossibile, sto valutando l’ipotesi che esistano i sogni premonitori. Mi succede forse di fare sogni che al mattino non ricordo, ma a distanza di tempo mi ritrovo davvero in una situazione che ho sognato e solo allora ‘sento’ che l’ho già vissuta.


15 Quando ciò accade cerco di ricordarmi tutti i particolari possibili, finché il fatto di sapere cosa succederà entro breve non mi spaventa a tal punto da indurmi a decidere di cambiare l’andamento degli eventi: allora, di punto in bianco, dico una frase stramba, in modo da stravolgere quel momento. Confesso che vorrei credere che queste sensazioni siano frutto di sogni fatti e memorizzati solo a livello inconscio: pensare che ci sia dell’altro mi turba. Più volte mi ha sfiorato l’idea di un mondo parallelo: non mi dispiace fantasticare su questo, ma pensare che esista veramente mi fa rabbrividire. Certo è che talvolta tengo dei comportamenti che io per prima non mi so spiegare… e se fossi ‘costretta’ ad agire in una determinata maniera perché ‘un’altra me’ ha deciso di prendere quella strada? E se i dissidi interiori, che spesso sono fonte di depressione, non fossero altro che dei litigi tra me e l’altra me che vive nel mondo parallelo? E ancor peggio: supponiamo che questo mondo parallelo preceda nel tempo il nostro mondo… il nostro destino sarebbe già deciso, le nostre azioni già scritte; facciamo delle scelte perché qualcun altro le ha già prese per noi ed ecco perché a volte ci sembra di non avere alternative. Non potrei sopportare di avere un futuro etichettato, sarebbe spaventoso! Ecco perché prediligo l’ipotesi dei sogni premonitori. Potrebbe esserci un’altra spiegazione ancora a questi déjà-vu, ossia la possibilità che, dopo la morte, iniziamo una seconda vita, identica alla precedente: rinasciamo senza alcun ricordo, ma, per errore, talvolta si apre uno spiraglio sul vissuto e abbiamo la sensazione di conoscere in anticipo come andrà a finire un episodio… non lo ricordiamo in modo nitido, ma sentiamo di esserci già passati. Devo dire che non abbraccio volentieri nemmeno questa soluzione, purtroppo però troppe volte attribuiamo al destino il verificarsi di certi eventi: vogliamo credere che il nostro futuro non sia già decretato, ma se lo fosse? Quante volte pensiamo di fare una cosa e poi non la facciamo: perché? È forse destino? Chissà… in ogni caso ora andrò a dormire, sperando ovviamente di fare sogni belli, visto che, tra le varie ipotesi, preferisco credere nei sogni premonitori. Detto questo mi esonero dal prendere in esame considerazioni ulteriormente negative e affido – ironicamente: non sono affatto superstiziosa – il mio avvenire all’acchiappasogni che


16 penzola dal lampadario sopra al letto della mia camera: spero catturi tutti gli incubi che potrebbero precludermi una vita tranquilla, minacciando di avverarsi giorno dopo giorno. Come da accordi presi con Elsa, al secondo giorno di scuola si sarebbero incontrate davanti alla vetrata d’ingresso, dove si conobbero. Agnes arrivò con consueto anticipo, non sopportava di dover far aspettare le persone con cui aveva appuntamento (allo stesso modo la infastidiva il ritardo altrui non giustificato), così cercò Vivian per restituirle gli appunti di lettere. Perlustrò il cortile in lungo e in largo, ma nessun risultato; finché non vide Elsa che si precipitò a salutare: «Ehi, ciao! Stavo cercando Vivian, ci tenevo a ridarle il quadernone: trovo sia brutto che chi presta una cosa poi la debba chiedere indietro! Preferisco restituirlo subito visto che non mi serve più. Soltanto credo non sia ancora arrivata!» «Ma va’… Vivian arriva un’ora prima di noi e con Ashley si interrogano a vicenda! Se vai in aula studio vedrai che le trovi.» «Ah però, si danno da fare!» «Diciamo pure che sono delle secchione e spesso prendono bei voti solo perché imparano tutto a memoria! In classe ci sono sicuramente ragazze più intelligenti di loro, ma non sono le cocche degli insegnanti, così non prendono dieci in condotta e, guarda caso, anche i voti in media non sono così alti! Prendi ad esempio Jannick, la compagna di banco di Ilina: lei ricorda tutto quello che viene detto in classe, capisce immediatamente, quasi non ha bisogno di studiare tanto è sveglia, ma in classe sta seduta scomposta, interviene poco e continua a disegnare, sicché per questa sua apparente distrazione viene penalizzata e appena gli insegnanti ne hanno l’occasione la stangano! Insomma bisogna essere nelle loro grazie per andar bene, quindi mostra attenzione, sii accondiscendente e parla solo quando ti viene richiesto: diverrai una studentessa modello!» «Tu stai scherzando… vero? Non siamo mica in una soap opera per cui ci dobbiamo atteggiare a piacimento degli altri! Adesso non dico che ho intenzione di comportarmi male, ma se uno sa le cose avrà bei voti e viceversa spero!»


17 «Come no… se vivi nel mondo delle favole, forse, ma qui contano le riverenze, il rigore, l’inquadramento e la disciplina, più dell’intelligenza, fidati!» «Beh, staremo a vedere! Sfido io ad appioppare un brutto voto a una persona preparata solo perché ha una propria personalità!» «Se vuoi combattere una guerra persa, fai pure, ma otterrai a malapena la sufficienza, come Jannick che, nonostante le svariate batoste, si ostina a tenere quel suo bizzarro comportamento con le conseguenze che ne derivano. Ha la testa dura e non vuole abbassarla.» «Ha ragione! Meglio camminare a testa alta ed essere se stessi che abbassarsi a fingere per ottenere degli stupidi risultati!» Agnes le girò le spalle indignata, infuriata, piena di rabbia per aver creduto che Elsa fosse una persona giusta; ora le sembrava disonesta, sleale ed era disgustata da quei consigli che le aveva dato. Elsa la osservò entrare nell’atrio senza provare a fermarla: capiva il suo stato d’animo e ammirava il suo essere combattivo. Sapeva però che non avrebbe opposto resistenza a lungo: si sarebbe piegata come tutti i fuscelli alla prima brezza, l’avrebbero lavorata, manipolata, sottomessa e zittita come tutti i membri di quel gregge; voleva solo metterla in guardia, da amica, per evitarle spiacevoli sorprese nell’imminente avvenire. Alla scena stavano assistendo incuriosite quattro loro compagne, quelle della terza e ultima fila: Kim e Kitty (sedute dal lato sinistro della classe, dietro di loro), Jessica e Crystal (a destra, dietro a Erika e MaryJo), famose all’interno della scuola perché parte del gruppo di ragazze pon-pon poste al seguito della squadra di basket. Kim, leader affascinante e indiscussa, espresse per prima la sua opinione: «Bene, la new entry è una ribelle, vogliamo darle qualche suggerimento?» «Ma certo», intervenne Kitty, «un buon consiglio non fa mai male…!» Le altre ridacchiarono sommessamente approvando le meschine intenzioni. Kim lasciò intendere che sarebbe entrata in azione lei stessa, perciò si staccò dal gruppetto e seguì Agnes all’interno dell’istituto. La nuova arrivata intanto riconsegnò, ancora colma di stizza, il quaderno a Vivian, la quale era troppo immersa nello studio per far


18 caso all’umore della compagna: le bastò riavere l’oggetto di sua proprietà, verificare che fosse perfettamente integro e sentirsi dire “grazie” per concludere l’incontro con un definitivo “prego”. Nel voltarsi, Agnes si trovò faccia a faccia con Kim che, col fare da veterana esperta, mostrò d’essere seriamente preoccupata per lei: «Cara, che ti prende? Credevi d’esserti fatta un’amica e già ti ha delusa?» Agnes alzò gli occhi su di lei e li riabbassò, confermandole così d’aver fatto centro. Forte di ciò, Kim riprese con voce persuasiva: «Mi spiace sai di non aver avuto il tempo di avvisarti prima: ci sono molte ragazze qui che faresti bene a evitare… sorridono tanto, sembrano gentili, ma quando ne hai bisogno ti voltano le spalle, come Elsa in questo caso. Comunque fortunatamente te ne sei accorta presto, non è successo nulla di grave, dai!» Le sue parole stavano producendo su Agnes l’effetto desiderato e proseguì: «Scusami, ma non ho potuto fare a meno di ascoltare la vostra conversazione e ti dirò che sono completamente d’accordo con te. Quella vuole farti diventare una rammollita, ascolta me e dimostrale che non lo sei affatto!» Agnes ora la guardava con interesse negli occhi: quel blu scintillava d’un fervore senz’altro sincero, Kim era dalla sua parte, non c’era dubbio e restò in attesa di conoscere il suggerimento che le avrebbe dato: «Stammi a sentire: se fossi in te, sai che farei? Aprirei quella porta, passerei a testa alta davanti a quella leccapiedi, le direi “grazie del consiglio, oggi io qui non ci resto” e me ne tornerei a casa lasciandola con un palmo di naso! Vedrai che domani non ti tratterà più come una a cui si può far fare qualsiasi cosa, ti porterà più rispetto, perché lei non avrebbe il fegato per fare una cosa simile.» «Già, ma poi chi spiega a mamma perché ho saltato il secondo giorno di scuola?» «Semplice: non lo spieghi, vai a farti un giro e per domani ti fai la giustificazione!» «Ma… io…non…» Agnes era titubante. «Ok, puoi contare su di me: so falsificare qualsiasi firma, ti aiuterò! Ma ora vai e fa vedere chi sei!» Kim la esortò con tono trionfale a uscire di scena e Agnes, vuoi per la voce incalzante della compagna, vuoi perché


19 indotta dallo spirito rivoluzionario da cui era pervasa, si trovò sulla via maestra che conduceva verso il centro della città compiendo ampi passi ben assestati, uno dopo l’altro, sempre più decisi e veloci. Man mano che aumentava la distanza tra lei e la scuola iniziò a sbollire la rabbia e a ragionare su ciò che stava facendo; rivedeva la faccia esterrefatta di Elsa, alla quale comunque non aveva rivolto parola, poi, indistintamente, le compari di Kim che ghignavano seguendola con lo sguardo. Stava cominciando a concepire che l’accaduto era una messa in scena tramata a sua insaputa come uno scherzo di cattivo gusto. Si arrestò e si reputò tanto stupida che volentieri avrebbe attribuito le sue gesta all’altra lei che nel mondo parallelo l’aveva portata a quel punto contro il suo volere, se solo fosse stata convinta della sua esistenza! Tornò sui propri passi e, con agitazione crescente per il misfatto, ne aumentò il ritmo fino a lanciarsi in una corsa sfrenata, lo zaino in spalle, i libri sconquassati. Giunse in cortile senza fiato, poco dopo il suono della campanella, e si fermò, prima di entrare, piegata su se stessa a prender grosse boccate d’aria. Si riassestò, percorse scale e corridoi e bussò alla porta della propria classe: varcò la soglia scusandosi per il ritardo, fra lo sgomento di chi conosceva il pregresso, e andò a sistemarsi al suo posto; l’insegnante di matematica, un mite omino dai piccoli occhi da furetto, forse notando lo scompiglio dei capelli o forse il viso rosso e accaldato, ebbe un moto d’ilarità e le sorrise amabilmente, mostrando di perdonare l’interruzione. Agnes non vedeva l’ora di chiarirsi con Elsa, le spiaceva molto d’essersi comportata così impulsivamente e, impugnata una matita, iniziò a scriverle una specie di lettera di scuse tra gli appunti della lezione. A Elsa piacque quell’idea e, da allora, iniziarono a scambiarsi messaggi d’ogni tipo, servendosi dei quaderni di scuola come mezzo di comunicazione. Pace fu fatta quel giorno stesso, pur mantenendo ognuna la propria opinione. Durante l’intervallo, l’animo sollevato, Agnes cercò le parole più adatte per un approccio con Jannick: era seduta sulla sua sedia e la faceva dondolare pur essendo in equilibrio su uno solo dei quattro appoggi; i capelli neri, mezzi raccolti e mezzi sciolti, le coprivano gli occhi con un ciuffo che in quel momento le terminava a punta sulla bocca: lo


20 spostava di tanto in tanto per dare qualche morso alla sua mela verde, cibo che subito abbandonava per riprendere un disegno a pastello, su cui era maggiormente concentrata. Timidamente Agnes la distolse da quell’occupazione: «Ciao Jannick…» La ragazza sollevò definitivamente la ciocca ribelle per liberarsi la visuale e individuare la provenienza di quella voce inaspettata. Scrutò Agnes e rimase in silenzio, in attesa che le venisse posto qualche quesito. «Caspita, sei brava a disegnare!» Agnes tentò quella via per rompere il ghiaccio; in effetti sul foglio stava prendendo forma un paesaggio incantevole, meritevole di un complimento. «Grazie», rispose l’artista, senza scomporsi. Agnes riprese la conversazione cambiando argomento: «Non ho ancora avuto occasione di conoscervi tutte qui in classe… sto cercando di stringere amicizie e capire come funzionano le cose. Mi è stata presentata Ilina, ma non le ho parlato molto; immagino a te sia simpatica visto che è la tua compagna di banco…» «No, veramente no. Siedo di fianco a lei solo perché mi lascia in pace. È disposta a stare in primo banco e in primo banco si fa silenzio, ecco tutto.» «Ah… beh, anche Vivian e Ashley sono in primo banco…» Spiazzata, Agnes non riuscì a tirar fuori un commento migliore. «Sì, ma quelle due sono inseparabili e talmente fissate col prendere appunti che fanno un dramma se perdono una virgola! Roba da matti! Poi, per carità, sono innocue, ma non riuscirei a stare un minuto in banco con loro. Piuttosto, se vuoi un consiglio, guardati bene dalle quattro in ultima fila. Se una vipera le morde ci resta secca!» Detto ciò, Jannick riprese a far scorrere i pastelli sul suo foglio e il ciuffo ritornò a sfiorarle le labbra, calato sugli occhi, in segno di conversazione chiusa. Agnes, nonostante i modi bruschi della compagna, apprezzò le sue parole; probabilmente, a giudicare dalle relazioni che intratteneva Jannick, era il discorso più lungo che avesse mai fatto. L’ultima ora di scuola era quel giorno dedicata all’educazione fisica e l’insegnante designato quell’anno, a dispetto delle aspettative, era un vecchietto – chissà perché non in pensione, tutte si domandavano – con


21 spessi fondi di bottiglia come occhiali, una tuta da ginnastica più grande del dovuto di almeno due taglie e scarpe bianchissime, sfoggiate senz’altro per inaugurare il corso. Portava in capo un basco che sistemava in continuazione di traverso, in modo che scendesse e dovesse risistemarlo. Si presentò con una bacchetta in mano, a mo’ di direttore d’orchestra, e con essa dirigeva la classe, indicava dove andare e come eseguire gli esercizi, facendola volteggiare a zig zag davanti al naso. Inutile dire che chiunque ne avrebbe approfittato per prendersi gioco di lui: chi chiacchierava, chi lo scherniva, chi si nascondeva per evitare la corsa di riscaldamento, tutto senza che egli se ne accorgesse. Una pacchia! Se non altro poteva essere un buon momento per socializzare, così Agnes si unì alla conversazione di Erika e Mary-Jo, le ultime due compagne, sedute come lei nella fila di mezzo, di cui doveva ancora far conoscenza. Frequentavano entrambe già da due anni la New Art Academy, una scuola semi-professionale divisa in tre sezioni: ballo, canto e recitazione. Erika era un’amante del teatro ed era entusiasta per il nuovo copione: già si era calata nella parte che le avevano assegnato e non vedeva l’ora di riprendere le prove a ottobre; Mary-Jo invece cantava in un coro, ma il suo gruppo doveva ancora decidere lo spettacolo da preparare per la stagione imminente. Chiesero ad Agnes se anche lei coltivasse qualche interesse nel tempo libero e, dal canto suo, fu molto contenta di essere coinvolta nel discorso con tanta cordialità; altrettanto gentilmente rispose: «Beh, veramente mi è sempre piaciuto ballare, ho seguito per due anni un corso di danza classica da piccola, poi ginnastica ritmica finché non ho dovuto abbandonare a causa del trasferimento. Mi piacerebbe riprendere, ma non saprei a chi rivolgermi.» Erika già stava battendo le mani: «Dai, dai, dai… devi assolutamente venire con noi all’accademia! Certo, dovrai sostenere un provino, ma con tutti gli anni di esperienza che hai alle spalle ti prenderanno sicuramente! A ottobre organizzano gli allenamenti di danza moderna e in base alle tue capacità e predisposizioni ti inseriscono in un gruppo piuttosto che in un altro! Beh, non sarà esattamente quello che hai sempre fatto, ma ti vedrei bene a fare esibizioni oppure nel corpo di ballo di un musical! Che ne dici?»


22 Agnes rideva nel vedere la compagna così convinta di quei progetti azzardati: «Mi sa che mi sopravvaluti, sai! Io vengo molto volentieri, ma non credo che mi prenderanno così facilmente!» Mary-Jo intervenne sulla falsariga dell’amica: «Ci vuole ottimismo, cara mia! Parti con buoni propositi e tutto andrà bene!» Agnes sorrideva ancora: «Eh, esagerata! Magari! Comunque mi fido, se lo dite voi… tentar non nuoce, no?» Mary-Jo fu soddisfatta: «Bello, bello! Tu, Erika, sai la data in cui faranno i provini di danza?» «Mah, credo siano lo stesso giorno di quelli di recitazione, il primo ottobre, solo alle cinque anziché alle tre. Comunque mi informerò e ti darò conferma, così poi ci potremo mettere d’accordo per andar là insieme. Magari è meglio se ti accompagniamo, così almeno vedi la strada, conosci il posto e ti presentiamo un po’ di gente!» Rimasero così in parola e Agnes le ringraziò molto prima di riprendere l’attività ginnica di quell’ultima ora di lezione. La sera stessa Agnes scrisse a Billy la gioia che provava per aver conosciuto altre due ragazze tanto disponibili, nonché la voglia che aveva di iniziare quella nuova esperienza danzante; ma valutando nel complesso il suo stato d’animo, sentiva che qualcosa non andava: Sai Billy, passo giornate di intensa e immotivata allegria, altre in cui vengo colta da improvvisa e altrettanto inspiegabile depressione, nonostante magari, come oggi, mi siano capitate cose belle; così sfoglio riviste, giornali, libri, ascolto canzoni sperando di trovare lì pronto un consiglio o un indizio, qualcosa a cui appendere le mie emozioni, qualche caso analogo al mio. Talvolta mi sorprendo a leggere speranzosa uno stupido oroscopo affinché mi confermi che tutto andrà bene: se non c’è scritto ciò che vorrei, ricordo a me stessa che è impossibile prevedere il futuro, se al contrario trovo ciò che avrei voluto leggere, si accende in me una tipica convinzione sulla fondatezza di quelle righe. Lo so, è assurdo, ma la voglia di vivere allora si riaffaccia, come quando mi fisso a voler dimostrare qualcosa. Prendi ad esempio oggi pomeriggio: avevo in mente di dare un’occhiata a Il ritratto di Dorian Gray, un libro che dovrei portare a scuola e che ho già letto, ma a causa del trasloco è finito in chissà quale scatola sepolta in cantina; ho deciso perciò di andare a


23 ricomprarlo. Mamma mi ha consigliato una nuova libreria che ha visto in città e così sono andata ad acquistarlo là. Al momento di pagare mi è stato chiesto se possedevo la loro tessera sconto e, non avendola, me ne sono fatta consegnare una per iniziare la raccolta timbri. Quando la ragazza al banco l’ha estratta dal cassetto per porgermela ho idea di aver fatto la faccia più stupefatta del mondo: quella tessera mi era familiare, io l’avevo già, era identica a quella della libreria del mio paese in collina ed ero certa di averla conservata! Se solo l’avessi scovata avrei avuto qualche timbro in più, adesso mi sarebbe tornata utile, non potevo averla gettata! Una stupidaggine? Sì, ma ecco la voglia di vivere. In un attimo ero a frugare in ogni angolo della casa, dovevo dimostrare a me stessa che non mi sbagliavo e l’avevo diligentemente riposta con cura in un luogo che solo io potevo conoscere, si trattava solo di ricordare, di ricostruire, di cercare. Dapprima, con pazienza, ho rovistato nel cassetto del mio comodino e nel portafoglio dove tengo le altre tessere, pur avendo la sensazione che non l’avrei in effetti trovata: nei posti più ovvi non c’era, mi sarebbe capitata sottomano di recente; poi, con maggior preoccupazione, ho buttato all’aria mezzo ripostiglio senza successo. All’ora di cena dovevo ancora prendere in mano il libro che avevo comprato e mia madre insisteva perché andassi a tavola e rinunciassi almeno per oggi alla ricerca, ma non capiva quanto quella faccenda mi animasse, non avevo nemmeno fame! Comunque ho partecipato alla cena, ma senza smettere la ricerca mentalmente; a un tratto mi sono ricordata del portafoglio che usavo a quel tempo: quando ricevetti la vecchia tessera, estrassi i contanti proprio da quello! Più ci pensavo, più mi persuadevo che non poteva che essere lì! Col boccone mezzo masticato, fermo in una guancia, ho posato la forchetta – non potevo perdere altro tempo, dovevo verificare se era lì davvero, controllare quanti timbri riportava, poi avrei mangiato con soddisfazione – e mi sono diretta al baule in cui tenevo le cose dismesse; nell’atto di aprirlo però, m’ha preso un sentimento d’apprensione, qualcosa mi bloccava scacciando l’euforia iniziale… un dubbio: e se non fosse stata lì? Doveva essere senz’altro lì, ma se per una remota possibilità non l’avessi trovata sarei rimasta delusa, mi sarei scoraggiata, non avrei saputo in quale altro posto cercarla perché poteva essere solo lì. Allora


24 che fare? Tornare a tavola con l’illusione di trovarla in un momento successivo o scoprire immediatamente la realtà a costo di restarci male e perdere l’appetito? Inutile rimandare: ho scelto la seconda opzione. Accovacciata davanti al baule, ho afferrato l’oggetto che avrebbe determinato il mio umore di questa sera. Così vicina alla verità, la convinzione che quel portafoglio potesse farmi raggiungere l’obiettivo prefissato veniva meno, a tal punto che mi sono meravigliata di esserne stata tanto persuasa poco prima. A ogni modo l’ho aperto: di soldi non ne conteneva più da un pezzo, fatta eccezione per una monetina che anni addietro consideravo un portafortuna. C’erano un sacco di scontrini sbiaditi e biglietti da visita di persone mai contattate, di cui non ricordavo nemmeno la fisionomia. All’interno di un altro scomparto ho trovato due tessere telefoniche, attualmente sorpassate: le usavo per effettuare lunghe chiamate, in modo che i miei non potessero rinfacciarmi che la bolletta era alta per colpa mia. Restava solo una tasca inesplorata ed essendo molto poche le probabilità di trovare il contenuto desiderato, già mi stavo rimproverando di aver piantato in asso mia madre e la cena per niente; in fondo però i ricordi scaturiti da quella ricerca avevano messo un po’ in secondo piano lo scopo della stessa e, a quel punto, avevo la sensazione che non m’importasse più tanto di quella benedetta tessera! Quando però le mia dita, dall’esterno dell’ultima tasca, hanno identificato la forma del suo contenuto, ho avuto un sussulto facendomi prendere nuovamente da quell’euforia insensata che anche prima mi animava! Ma è stato un attimo: ai miei occhi si è svelata una terza tessera telefonica e, in base al mio consueto meccanismo di auto consolazione, ho cercato di minimizzare la delusione ricordando a me stessa che non era il caso di prendersela per una cosa simile e comunque la ricerca aveva avuto altri risvolti positivi. Sono tornata a tavola – cibo freddo nel piatto – contenta di non essere così abbattuta come prevedevo sarei stata nel caso in cui la ricerca si fosse conclusa in quel modo. Proseguendo la cena pensavo alle vecchie abitudini, quelle che avevo ai tempi in cui usavo la tessera (quando mi fisso con una cosa non me la toglie dalla testa niente e nessuno!): dove caspita potevo averla messa? In prima superiore avevo la mania di tenere tutto nel diario di scuola: cartine delle caramelle, pezzi di stoffa di indumenti rovinati che buttavo, biglietti degli autobus obliterati,


25 ombrellini infilzati nei gelati che mangiavo e chissà cos’altro… su quelle pagine c’era appiccicato proprio di tutto, perché non anche la tessera della libreria? L’istinto sarebbe stato quello di farsi prendere ancora una volta dall’entusiasmo, ma, vista la precedente esperienza, non mi sono montata la testa. Era tardi, dovevo ancora terminare il contorno e, per non rovinare ulteriormente la cena, ho rimandato – che saggezza, eh? – i nuovi propositi di ricerca. Quando finalmente mia madre ha potuto lavare anche il mio piatto e il mio bicchiere, sono andata a scovare il vecchio diario: praticamente era già aperto tante erano le cose che gli avevo ficcato dentro! C’erano anche scritte colorate, massime, foglie di piante ben conservate, ricordi dei vecchi compagni di classe, la griglia con i voti presi nelle varie materie per calcolarne la media e molto altro… mi è venuta nostalgia, nonostante la mia vita nemmeno a quell’epoca fosse invidiabile. Già mi stavo scordando il motivo per cui avevo in mano quel diario, quando, riemersa quasi di soprassalto dai miei sogni a occhi aperti, ho dato fondo all’agilità delle mie dita facendo velocemente scorrere le pagine dalla prima all’ultima, senza alcun esito. Non avevo ancora guardato tra le cartine accumulate a inizio e a fine diario: presto fatto e, finalmente, eccola lì, identica a quella che mi avevano consegnato con l’acquisto fatto oggi in libreria. L’avevo trovata, che trionfo! Ho preso ad ammirare quel cartoncino arancione stretto tra pollice e indice ed ho notato che il timbro racimolato era solamente uno: ho avuto il coraggio di provare per un istante una certa delusione, ma poi ho pensato… caspita, non siamo mai contenti! Così ho ricordato a me stessa che lo scopo era stato raggiunto e dovevo essere soddisfatta. Infine il libro non l’ho letto, è ora di andare a dormire. A domani! Il terzo giorno di scuola era un mercoledì e al mercoledì erano previste nel pomeriggio le attività extrascolastiche: questa particolarità era uno dei motivi che aveva fatto svegliare Agnes già in preda all’agitazione, considerato che non le era ancora stato spiegato in cosa consistevano esattamente; l’altra causa consisteva nell’avvicinarsi delle tre ore che avrebbe trascorso in classe sua Miss Whilkins quel dì. Giunta all’istituto Agnes cercò subito di individuare le sue compagne e vide Elsa, Erika e Mary-Jo unite in un tinello a bisbigliare fittamente; le


26 raggiunse: «Ciao ragazze! Mi sembrate preoccupate, è successo qualcosa?» Erika la guardò con tanto d’occhi: «Eh, abbiamo tre ore col mostro, ti pare poco?» «Dai, adesso non spaventatemi… mi sa che la dipingete peggio di quello che è! Non eravate voi ieri quelle ottimiste?!» «Sì», ribatté Mary-Jo, «ottimiste su tutto fuorché su Miss Whilkins! Non c’è da stare allegri in sua presenza, non si sa mai cosa le passa per la testa… magari oggi si inventa di interrogare sul libro! Ci stavamo appunto confrontando sul nostro livello di preparazione.» «Beh», replicò Agnes minimizzando, «non può interrogare al terzo giorno di scuola su un compito che oltretutto ci ha assegnato per la settimana prossima!» Anche Elsa diede man forte alle altre: «Questo lo credi tu perché hai sempre avuto a che fare con insegnanti normali! Ma lei non è come gli altri e può fare ciò che vuole!» «Che caspita vuol dire non è come gli altri? Se ha detto una cosa, dodici persone testimoni, la manterrà! Che razza di esempio darebbe altrimenti? È un’insegnante, quindi la prima persona che si deve comportare in maniera coerente, equa e giusta!» Le altre tre la ascoltavano con divertimento crescente, sgranando gli occhi alla fine del discorso: scoppiarono a ridere. «Che c’è?» disse Agnes quasi risentita della loro ilarità che contrastava con le sue parole serie e agguerrite. Elsa volle calmarla: «Non te la devi prendere così; se ti arrabbi per ogni ingiustizia in cui ti imbatti sarai perennemente in guerra col mondo intero! Piuttosto, hai ripassato il libro? Io non sono riuscita a leggerlo tutto e, dato che loro due si sono messe d’accordo per leggerne metà a testa, mi stavo facendo raccontare la fine. Se ti interessa ascolta, sennò taci che suona la campanella e non siamo ancora pronte!» Agnes ammutolì e, con attenzione, cercò di cogliere il maggior numero di particolari dal riassunto di Erika, confrontandoli con ciò che ricordava della lettura fatta l’estate precedente. Scoccò l’ora della lezione di lettere: regnava un silenzio funereo e Miss Whilkins scrutava alternativamente il registro attraverso gli occhiali e le alunne al di sopra di essi, come se cercasse di individuare la vittima più debole, la preda più facile: «Rave… non ho sentito molto la tua voce la


27 scorsa volta, non la ricordo nemmeno… ci faresti la gentilezza di accomodarti qui, accanto alla lavagna, e deliziarci con un ordinato ripasso di quanto appreso lo scorso anno?» Ad Agnes balzò il cuore in gola, ma, tentando di non darlo a vedere, si alzò lentamente dirigendosi verso la postazione indicata: «Certo, subito.» E prese a descrivere quanto letto tra gli appunti di Vivian, parlando dei vari autori in ordine temporale, delle rispettive opere, finché non esaurì le idee. L’insegnante allora si voltò verso di lei: «Hai finito?» Agnes si tormentava la maglietta e i pantaloni, strofinando su di essi il palmo delle mani in continua sudorazione: «Sì, ecco, diciamo che ho voluto fare una panoramica sul programma dello scorso anno basandomi sugli appunti che ho avuto modo di ricevere dalla compagna.» Miss Whilkins ostentava un tono di voce pacato: «Piuttosto ampia come panoramica: in dieci minuti sei riuscita a riassumere il programma di un intero anno scolastico… io non so quante lezioni ho impiegato per trattare tutti gli argomenti che tu sei riuscita a spiegare in così poco tempo… devi avere delle ottime capacità riassuntive!» «Beh, come dicevo, ho studiato gli appunti di Vivian e, sì, ho fatto… un riassunto.» «Ottimo… allora certo saranno gli appunti di Vivian a essere carenti… ma guarda un po’… però, mi sembra di ricordare che Vivian sia uscita con pieni voti nella mia materia, che strana cosa!» «Gli appunti di Vivian sono completi infatti, posso approfondire qualche argomento se vuole, mi chieda pure.» «Uhm… parlami un po’ di Shakespeare, sentiamo!» Tra i banchi si levò un mormorio di disappunto e sorpresa: nessuna sapeva nulla di quell’autore, lo avrebbero infatti trattato durante l’anno in corso; ma immediatamente le alunne zittirono, temendo di essere a loro volta interpellate e trovarsi nelle condizioni della malcapitata. Agnes non si perse d’animo: era andata qualche volta con sua madre a teatro a vedere qualche commedia di Shakespeare e, apprezzandolo, aveva in seguito letto le sue opere più famose di cui non disdegnò di iniziarne il racconto.


28 Tra lo stupore delle compagne, parlò con fervore per altri dieci minuti, senza però che Miss Whilkins lasciasse trapelare nulla dalla sua maschera d’impassibilità. Al termine della dissertazione non fece alcun commento in merito e il suo tono di voce diventò più secco: «Passiamo al prossimo quesito: Il ritratto di Dorian Gray, signorina Rave… dovevate leggerlo se non vado errando… cosa mi sai dire di questo romanzo e del suo autore?» Agnes raccolse tutte le nozioni che vagamente ricordava e, dopo un’esposizione succinta, fornì un breve commento sul testo esaminato. L’insegnante si accomodò meglio sulla sedia appoggiandosi allo schienale e puntando i gomiti sui braccioli, poi, volgendo nuovamente il consueto sguardo implacabile nella sua direzione, mostrò d’aver riacquistato il suo tono pacato: «Bene, dicono che il tre sia un numero perfetto, perciò non potevo inaugurare meglio il nuovo registro che con un tal voto…» Agnes si sentì gelare il sangue nelle vene: «Tre?!» sbottò incredula, strabuzzando gli occhi. «Tre…» sorrise Miss Whilkins, «non mi trovi estremamente generosa?» Tutti i membri della classe erano a bocca aperta, ma non osavano fiatare. «Tre?!» ripeté Agnes iniziando a innervosirsi. La sua interrogazione era stata esemplare, non poteva essere, stava sognando. «Certo è piuttosto alto, ma scoprirai che la mia magnanimità non ha confini…» Miss Whilkins ora stava esagerando e non era uno scherzo, stava stappando la biro per accingersi a mettere nero su bianco quel voto inventato per alimentare la propria sete di potere: era un abuso, un sopruso, era una folle! Agnes non poté trattenersi ulteriormente, cresceva in lei un furore incontenibile, stava scoppiando di rabbia, e, con uno slancio verso la cattedra, le strappò la penna di mano inveendole contro: «Non è giusto! Mi ha chiesto cose che non ci era dato di sapere! Nessuno qua dentro le avrebbe sapute! Le chieda alla sua Vivian, vediamo se termina l’interrogazione a pieni voti!» «Restituiscimi la penna!» Miss Whilkins era sbalordita, scioccata. «Andrai in presidenza per quest’affronto! Nessuno si è mai permesso…»


29 Agnes era fuori di sé e non la lasciò finire: «No, lei andrà in presidenza! È stata scorretta, sleale! E qui ci sono undici testimoni che lo possono confermare!» «Sarai espulsa! Chi oserebbe? Chi?!» Miss Whilkins urlava come una forsennata, il suo volto non era mai stato così avvampato e una grossa vena che le solcava la fronte minacciava di esplodere a ogni parola pronunciata. Puntò l’indice ossuto verso le astanti, sfidandole a unirsi alla ribelle: «Allora? Chi vuole mettersi contro di me? Chi vuole decretare la propria fine? Fatevi avanti!» Un silenzio di tomba faceva risaltare i respiri affannosi delle due contendenti, finché non venne inaspettatamente interrotto da una voce placida e ferma: «Le faccio notare che ci sta ricattando Miss Whilkins. Se sarà necessario testimonierò in favore della compagna.» Dodici paia d’occhi vennero istantaneamente puntati in direzione di Jannick e l’espressione di vittoria che poco prima andava disegnandosi sul viso di Miss Whilkins si dissolse; l’odio per quelle piccole impertinenti le deformava i connotati e, in un impeto d’ira, chiuse il registro, estirpò con violenza la sua valigetta, parzialmente incastrata, dal vano in cui era riposta e imboccò l’uscita senza una parola. L’intera classe proruppe in un fragoroso applauso per quella battaglia vinta, in segno di apprezzamento per le poche coraggiose. Anche le quattro dell’ultima fila si aggregarono; non Vivian, che mantenne la sua compostezza. Durante il frugale pasto consumato presso il bar della scuola, Elsa non fece che commentare l’accaduto, adulando Agnes che masticava senza fame, ingigantendo la vicenda, senza quasi prender fiato; quel chiacchierio ad Agnes sembrava inutile, si sentiva sfinita, svuotata, come se avesse lavorato duramente per giorni senza dormire: non la stava ad ascoltare ed Elsa di tanto in tanto la scuoteva dicendole che doveva esser fiera di sé. Agnes trangugiò l’ultimo boccone aiutandolo a scendere con un bicchiere d’acqua, le ronzavano le orecchie e avrebbe desiderato solo un po’ di tranquillità. Aveva l’impressione che tutti quei complimenti avessero lo scopo di distogliere l’attenzione dal supporto non dato nel momento del bisogno, di attenuare quel mancato aiuto, di scusare un egoistico menefreghismo. Non poteva più starla a sentire e si


30 allontanò andando a chiudersi al gabinetto; nemmeno si accorse che le lacrime affioravano spontanee, finché non le invasero le pupille dilatate. Piangeva a dirotto senza aver chiaro il motivo, la invadeva un senso di spossatezza e si accoccolò in un angolo ripensando a quella mattinata. D’un tratto rivide Jannick, una perla rara, più sola di lei, ma più forte di un leone: come faceva? Forse le bastava il suo buon cuore per essere serena, non temeva nulla perché in pace con se stessa. Era impavida e Agnes avrebbe tanto voluto possedere quel pregio, eppure non la invidiava: trovava che l’invidia fosse uno dei peggiori difetti che potesse avere una persona, tanto brutto che chi la provava meritasse di soffrirne. Aveva smesso di piangere: le fu sufficiente rivolgere la sua concentrazione altrove. Si soffiò il naso con la carta igienica e si asciugò la faccia, preparandosi mentalmente per quel pomeriggio di attività extrascolastiche: ora non le apparivano più motivo d’agitazione. Il sole splendeva anche quel pomeriggio e due insegnanti si davano da fare per suddividere gli allievi nei due gruppi che avrebbero fatto attività ginniche e volley; la classe di Agnes venne indirizzata verso il campo di volley, adiacente alla rete che separava il cortile dedicato alle ragazze dallo spazio, decisamente più ampio, in cui si esercitavano i ragazzi. Questi avevano a disposizione un campo da basket e uno per il football, raggiungibile svoltando l’angolo a sud della scuola. Le attività iniziarono in parallelo e per Agnes fu piacevole potersi cimentare in una partita di pallavolo: amava praticare sport in genere, inoltre in quel momento poté scaricare la tensione accumulata e rilassarsi un po’. Era prevista una mezz’ora di pausa dopo la prima ora di gioco e molte ragazze si avvicinavano alla rete divisoria, alcune aggrappandosi con le dita, per vedere la fine della partita di basket, sorseggiando bibite o smangiucchiando uno snack; Agnes era tra queste e, dopo una breve occhiata, già simpatizzava per una delle due squadre: l’altra le sembrava troppo fallosa. Crystal la raggiunse offrendole il suo spuntino: «Ne vuoi un pezzo?» Agnes staccò gli occhi dalla partita, sorridendo amichevolmente: «No, ti ringrazio, bevo e basta.» Crystal cercava di aprire un dialogo: «Ti piace il basket?» «Sì, abbastanza. Mi piacciono un po’ tutti gli sport veramente. E a te?»


31 «A me piace pattinare. Del basket mi piacciono i giocatori… non trovi che siano carini?» «Mah, non ci ho fatto molto caso», tagliò corto Agnes. Non intraprendeva volentieri quel genere di discorsi, sfociavano sempre in pettegolezzi che non poteva soffrire. «Dai, guarda bene», insisté Crystal, «ce ne sarà pur uno che ti piace…» «Non saprei, non conosco nessuno.» «Se è per questo te li posso presentare anche tutti: li vedo ogni domenica, alla partita, faccio sempre il tifo per la mitica squadra della scuola!» Agnes rimase di pietra: Crystal era gentile, ma lei non era interessata e non sapeva come dirglielo; così la compagna interpretò il suo silenzio come timidezza o titubanza e la spronò a farsi avanti: «Su, non dirmi che quello alto e biondo è brutto! Ora te lo chiamo così lo conosci!» «Ma no, lascia stare…» protestò Agnes. Ma Crystal già urlava a squarciagola: «Ehi Sean… vieni qui, per piacere?» «Crystal, lascia perdere, fa lo stesso!» Per Agnes era tardi, ormai il ragazzo si stava avvicinando e, giunto nei loro pressi, si rivolse a Crystal con un largo sorriso: «Eccomi qua! Dimmi tutto!» «Ti volevo presentare la mia nuova compagna di classe, Agnes! Dice che sei carino…» Crystal le fece un occhiolino. «Ma…» Agnes la fulminò per quell’assurdità, ma Sean non le lasciò il tempo di smentire: «Ehi, anche tu sei molto carina… piacere, io sono Sean, a tua completa disposizione! Vieni a vedere la partita domenica? Poi possiamo andare a mangiare qualcosa insieme, ti va?» Crystal era certa che, come tutte, non avrebbe resistito davanti a quel fascino, e già assaporava il “lieto fine”; ma Agnes, a quel punto, era davvero scocciata e declinò l’invito: «Ti ringrazio, ma ho da fare domenica. Puoi andarci tu Crystal, visto che l’opinione sulla sua bellezza era esclusivamente tua!» E si diresse al campo di volley piantandoli entrambi in asso. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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