In uscita il 2 / /2019 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine OXJOLR e inizio DJRVWR 2019 ( ,99 euro)
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SALVO FIGURA
SAPORE DI PANFORTE E MANDORLE PIZZUTE
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ SAPORE DI PANFORTE E MANDORLE PIZZUTE Titolo originale: “Rule number 2: Honour” Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-329-1 Copertina: immagine Shutterstock.com
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PROLOGO
Siena, 2 luglio, Piazza del Campo, Palio di Provenzano. Il fantino lo fiancò due volte, poi gli diede di nerbo sulla natica e Demonio nero, le froge dilatate e gli occhi spiritati, si avventò di rincorsa sul tufo tra i canapi, a divorare terra e funi. Il corsiero contrasse i potenti muscoli della groppa, piantò gli zoccoli sul tufo e una piccola zolla bruna schizzò verso gli spettatori delle logge più basse. Pareva uno dei destrieri di Herakles nell’atto di attraversare l’Acheronte per tuffarsi negli inferi. Il mossiere notò i movimenti di fantino e cavallo e indugiò sul pulsante del cannone. Poi si ravvide e pigiò, secco, il pedale del verrocchio. Il tramonto senese incendiava Palazzo Sansedoni e colorava d’arancio i volti dei tre figuri dentro la cella campanaria, sulla Torre del Mangia. I canapi caddero, lasciando il passo ai dieci assassini che presero a nerbare i loro cavalli: dieci diavoli che infilarono San Martino, in discesa, e poi il Casato, appena in salita. Mentre tutti gli occhi della piazza erano incollati alla pista, il raggio di un puntatore laser tremolò, smeraldo, sul bianco dell'orologio della Torre; salì dentro la cella e puntò il campanone, ormai muto. Nessuno, forse, se ne avvide perché l’adrenalina era ormai salita dalle pupille alla testa. Tre colpi di mortaretto esplosero insieme alle armi da fuoco dei tre figuri e fu tutta una sarabanda di urla, sangue, polvere, zoccoli e di una strana e preziosa polvere bianca, lieve come neve, che iniziò a quagliare nell’angusta cella campanaria del Mangia. Furono questi gli ultimi ricordi di Minicu ‘u ruossu, al suo risveglio: un'accecante luce verde in mezzo al bianco, prima del blu e del buio.
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Il questore Righi gettò con rabbia i giornali sulla scrivania, quasi addosso a LaCiurca che, fradicio di sudore e col sopraffiato, aspettava sull’attenti i rimproveri. Aveva finito di scalare i tre piani dell’antico palazzo in via di Pantaneto e trenta gradini con trenta gradi all’ombra, in luglio, sarebbero stati un tormento per chiunque, figurarsi per lui, in giacca e cravatta secondo le disposizioni del Signor Questore; e con l’ascensore guasto. L’aria condizionata… manco a parlarne; al signor Questore procurava la cervicale. La convocazione urgente dal suo diretto superiore non lo aveva colto di sorpresa. Questa semmai, era dovuta al ritardo con cui era giunta. Legga, legga, Commissario LaCiurca, e poi mi dica se io non abbia ragione ad avere questo gran giramento di palle. Legga codesto costì, è il quotidiano del 4 luglio: “Cavalleria rusticana in cima alla Torre del Mangia, il giorno del Palio. I particolari in cronaca”. Ha visto cosa titola il Corriere di Siena? Ha dato più risalto alla notizia di nera che a quella del Palio». «Ma eccellenza, oggi è il cinque, perché mi parla del giornale di ieri?». «Perché speravo che nel frattempo lei sarebbe riuscito ad assicurare alla giustizia esecutori e mandanti di codesti fattacci che ci insozzano la città» continuò il Questore lisciandosi la pregiata cravatta di Marinella. «Eccellenza, ci stiamo provando, ma vorrà ammettere che sgominare o catturare una banda di agguerriti mafiosi, non è cosa semplice che si possa risolvere in quarantott’ore». «Be’ ci provi allora, commissario LaCiurca, ci provi, perché posti di ispettore ancora liberi in Italia ce ne sono tanti, specialmente in Sardegna: costà nel Gennargentu! E legga con più attenzione cosa dicono di noi i giornali. Legga, legga codesto costì». «Ma sì l’ho già letto Signor Questore» cercava di replicare imbarazzatissimo. «L’ha letto? E allora legga anche i dettagli, legga, legga qui: “L’arrivo di orde di meridionali, coi loro traffici illeciti, ha turbato la quiete e la serenità della nostra ridente cittadina…”» concluse leggendo con enfasi, il Questore. «Capisce Commissario? “La nostra ridente cittadina” come
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scrive Quercioni, non ride più. Per colpa di questi quattro meridionali e per colpa sua che non sa tenerli a freno. Questi vengono qui, sguazzano nella nostra acqua, si fanno i loro straporci comodi e ci insozzano la città. È già tanto tollerarli quando sono onesti, figuriamoci se fanno i… gangster quasi fossero a Chicago. Ora mi dice lei come fanno i giornalisti ad arrivare sempre per primi sul luogo del delitto e saperne più di noi? Di lei, di me, di noi, di tutta la polizia di Siena!» disse il questore Righi facendo luccicare i gemelli della pregiata camicia sotto la giacca. «Cosa sa lei della sparatoria di avant’ieri l’altro sul Mangia?». «Eccellenza, sappiamo tutto anche noi. Solo che noi non lo spiattelliamo sui giornali altrimenti, come spesso succede, i topi non mangiano il formaggio e scappano via lasciando la trappola vuota». «E allora, mentre prepara questa trappola al formaggio, sarebbe così cortese, sempre che non le pesi troppo visto il caldo opprimente di questo luglio del cazzo, le dispiacerebbe, dicevo, informare anche la mia persona? Lo sa che stamattina alle sette mi ha buttato giù dal letto il Ministro degli interni? Anzi, il suo segretario perché lui a quell’ora dorme ancora con gli angioletti, e mi ha chiesto conto e ragione sui fatti di Siena e di questi mafiosi meridionali del cazzo… Mi scusi, scordavo che è meridionale anche lei». “La solita battuta di ‘sta minchia” pensò LaCiurca. «Non ci faccia caso eccellenza, ormai l’ha detto. Va bene, le espongo in due parole gli esiti delle indagini condotte sinora; naturalmente sono più completi di quelli che ha letto sul giornale: Il boss Tano Cantalanotte, e la sua organizzazione malavitosa, avevano ricevuto dalla Colombia un carico di cocaina grezza di oltre quattrocento chili. Noi ne avevamo seguito le tracce fino al porto di Livorno, ma da lì in poi le abbiamo perse». «Tanto per cambiare, vero Commissario?». «Scoprimmo in seguito che la roba era giunta qui a Siena, ma Don Tano se n’è appropriato e ne ha simulato il furto! Poi s’è messo a trattare con la mafia calabrese per venderla sottobanco» continuò LaCiurca fingendo di non sentire l’interruzione piccata del Questore e interrompendolo a sua volta. «E a che pro tutta questa manfrina? Lui è il capo indiscusso della mafia sicula in Toscana, avrebbe potuto decidere di tenerne una parte per sé. Nessuno, credo, avrebbe obiettato» riprese il Questore. «Tutti sono a conoscenza delle efferatezze di quell'uomo e dell'autorità indiscussa che esercita sulla sua famiglia e nel territorio».
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«Pare che avesse deciso di ritirarsi dagli affari e voleva farlo da uomo straricco, facendosi però credere povero in canna e decaduto dal potere, per via del finto furto. Tutto questo ce lo ha soffiato un confidente». «Un confidente? Persona affidabile, immagino». «Abbastanza affidabile, non ha mai sgarrato una sola informazione. È nel nostro libro paga e gli ricambiamo i favori con piccole… concessioni su cui chiudiamo un occhio…». «Uhm be’ non sarebbe regolare, ma, a mali estremi…». «Vede signor Questore, un mafioso, purtroppo, non può ritirarsi in pensione come un comune mortale… da vivo! E dunque Don Tano ha creato tutta questa messa in scena del furto. A quel punto, però, Minicu ‘u ruossu, al secolo Domenico Bonfante, consigliori di Don Tano, ha scoperto tutto, ha pedinato il suo boss e l’ha colto con le mani nella marmellata mentre in cima alla Torre, durante il Palio, mostrava una busta con un campione della roba a un emissario della ‘ndrangheta, o della camorra, non è ancora del tutto chiaro. C’è stata una sparatoria e Don Tano c’è rimasto secco, ma prima è riuscito a ferire gravemente Minicu che adesso è ricoverato alle Scotte, in Rianimazione. Il custode della Torre era stato colto alle spalle e stordito, e al risveglio ha trovato tutto quel macello; così ha chiamato la Polizia. Fine del racconto del confidente». «E noi adesso a cosa diamo la caccia, o a chi, commissario LaCiurca? Non poteva torchiare ancora un po’ quel confidente?». «Già fatto Dottore, l’abbiamo spremuto come un limone di Sorrento. Più di questo non ha voluto dire, teme ritorsioni. Noi adesso siamo impegnati a capire: Primo, che fine ha fatto la droga, quattrocento chili non si volatilizzano così facilmente. Secondo: perché la trattativa si sarebbe svolta in cima alla Torre del Mangia; quei due non avevano un posto più discreto e meno scenografico per svolgere i loro commerci? Terzo: la dinamica della sparatoria, perché non è del tutto chiara». «In che senso, non è chiara? Non c’erano tre uomini in cima al Mangia?» rispose perplesso il Questore. «Sì, ci sono tracce di tre uomini. Ma finora di sicuro abbiamo reperito, sulla scena del crimine, un bossolo, due proiettili e una pistola, quella rimasta in mano a Don Tano. Mancano all’appello due bossoli, un proiettile e l’altra pistola». «Non capisco…». «È semplice» sorrise il Commissario. «Abbiamo un proiettile estratto dal torace di Minicu, un altro estratto dalla testa del morto, Don Tano, e sono due, manca il terzo proiettile che avrebbe bucato la busta della
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coca, e i due bossoli dei proiettili diretti a Don Tano. Più… la pistola di Minicu». «Ho capito, domani il Corriere titolerà che “La polizia brancola nel buio” e così il Ministro mi infilzerà come un girarrosto. Però mi sembra tutto chiaro no? Cosa andate cercando, due bossoli e una pistola? Se Minicu ha sparato, ed era sulla Torre, è lui l’omicida, no? La pistola e i bossoli verranno fuori, basta cercarli con più cura. Via Commissario, un piccolo sforzo, non mi pare così difficile. Se lei è arrivato alla laurea così facilmente…». «Lei pensa? E il terzo uomo, quello della trattativa? Potrebbe aver partecipato alla sparatoria ed essere stato lui a raccogliere e portare via i bossoli mancanti all’appello per ritardare le indagini». «Ma lei ha appena detto, Commissario, che i colpi sono stati, o sarebbero stati, solo tre. Dunque il terzo uomo a chi avrebbe sparato? Avete tracce di altri colpi?». «No, signor Questore, non ne abbiamo. Perciò le ribadisco la nebulosità di tutta la faccenda. E visto che Don Tano probabilmente mostrava un campione minimo della cocaina, dove aveva nascosto il grosso del carico? Ma stia tranquillo, Signor Questore, che in capo a quarantottore le porterò tutto: carnefici, vittime, armi, bossoli e cocaina!». «La prendo in parola ma non sgarri nemmeno di un minuto». Il tono della discussione tornò quasi sereno e LaCiurca si congedò dal Questore. Appena fuori dall’antico palazzo, però, urlò tra i denti un fanculo… “La laurea così facilmente…tse!” Prese una Marlboro dal pacchetto della tasca posteriore dei jeckerson, la mise in bocca, ma si ricordò che aveva deciso di smettere di fumare. La tolse dalle labbra che già pregustavano l’aroma del tabacco, dei fiori di sandalo e della cioccolata, come amava dire, la gettò in terra tutt’intera, e si avviò verso casa.
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Minicu prese coscienza d’essere sveglio appena sentì il fastidio insopportabile e doloroso, di avere migliaia di vespe annidate nella gola. Pungevano così tanto da fargli sgorgare lacrime di dolore e appena tentava di respirare più forte ne sentiva il ronzio fin dentro il cervello. Appena li aprì, i suoi occhi neri si scontrarono con due grandi occhi blu. Ricordava di aver visto un blu così intenso in cima alla Torre del Mangia; mentre era intrappolato a testa in giù e faccia in su nella cella campanaria. Quanto tempo era passato da quando aveva udito il boato della folla incitare i cavalli e il rombo del cannone del Palio decretare la fine della carriera? Rammentava in modo nebuloso di impugnare una pistola di fronte a Don Tano, anch’egli armato. Poi un lampo verde smeraldo lo aveva accecato, mentre un bianco candido come neve lo aveva avvolto, e lui aveva visto il cielo azzurro e rosa del tramonto tingersi di nero, mentre un fuoco ardente gli bruciava i polmoni. Non capì se sognasse o fosse realtà, mentre sputava il suo stesso sangue. Ne avvertì il sapore dolciastro e rugginoso e desiderò solo la morte per porre fine al dolore, o per risvegliarsi all’inferno. Ora si rendeva conto di stare su un morbido letto: intrappolato tra fili colorati, come in una ragnatela da incubo, e sentiva un parlottare confuso… «Dottor Bandini, il paziente della postazione quattro è sveglio... si agita. Devo sedarlo di nuovo?». «No, Claudia. Quell’uomo è peggio di un vitello! È sotto Propofol da tre giorni, e dopo appena dieci minuti di sospensione è già sveglio. Vediamo come reagisce... Signor Domenico, se comprende quanto le dico, chiuda gli occhi e non si agiti. Siamo in ospedale, respiri calmo; l’aiutiamo noi. Stia bonino, conosciamo bene la sensazione che ha in gola ma se lei collabora, passerà tutto in fretta. Abbiamo dovuto farle un buco qui in gola per respirare meglio». Minicu sentiva la voce del dottore come se provenisse da un imbuto e si sentì toccare vicino al giugulo. Voleva parlare, ma non ci riusciva. Si
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sentiva come quando da ragazzo andava sott’acqua, nel limpido mare di Avola, e stava troppo tempo col fiato sospeso. «Signor Domenico, stia tranquillo!» continuò a voce alta il medico. «Mi stringa la mano, così, bravo. Ora conterò fino a cinque, le verrà da tossire, ma non abbia paura. Al cinque lei farà un bel respiro e io cambierò il tubo che ha in gola e lo sostituirò con uno… migliore, così non le verrà più la tosse». “Perché mi strilla così forte nelle orecchie, questo dottore della minchia?” pensò Minicu. «Pronti? Claudia accendi l’aspiratore». Minicu ascoltava senza capire. «E metti la visiera, cazzo! Te l’ho detto mille volte! ‘Sti malati non si sa mai quali malattie possano avere. Vengono dal profondo sud e…». «Neri, lo so! Sono meridionale pure io! Lo dimentichi solo quando...». «Sì vabbe’ Cla’, ne parliamo dopo. Adesso aiutami. Signor Bonfante ci siamo: uno... due, tre... cinque! Tosse! Così. Bravo. Via». Minicu iniziò a tossire e scatarrare come un vecchio di ottant’anni. Aveva gli occhi sbarrati, continuava a boccheggiare cercando di articolare le parole, ma sentiva solo la sua aria “vuota” uscire, fischiando e rantolando, dal buco in gola. Tentò goffamente di muovere le braccia ma erano bloccate da due tenaglie umane. Bandini come in un abile gioco di prestigio sfilò il vecchio tubo e lo sostituì con un altro. «Signor Minicu non è ancora in grado di parlare, non si sforzi. Le insegneremo noi come fare. Ora le daremo una lavagnetta per scrivere. Claudia, quant’è la saturazione?». «Novantadue per cento, dottore. È buona per un fumatore incallito appena operato». «Bene. Tutto ok. Claudia, fai entrare i parenti così diamo loro le notizie. Rompono i coglioni già di prima mattina con la continua e petulante richiesta di notizie. Poi hanno quel dialetto incomprensibile... Dai falli entrare».
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Uno stuolo di questuanti fu introdotto nella stanza di Bandini che comunicò loro alcune scarne ma rassicuranti notizie cliniche e li fece accomodare fuori in tutta fretta. Mentre stava per lasciare anche lui la stanza, un tizio corpulento gli si parò davanti e lo bloccò. «Dottor Neri Bandini? Il Commissario LaCiurca sono, Carmelo LaCiurca. Finora in Questura non ci siamo mai incontrati, per sua fortuna. Altri suoi colleghi invece, a voglia a salire e scendere quelle scale!» continuò ghignando. Bandini fece una smorfia di insofferenza alla risata di LaCiurca. «Dottore, vorrei interrogare il signor Bonfante» riprese il Commissario con un tono meno arrogante. «Soltanto qualche breve domanda». «Mi spiace» rispose asciutto, Bandini, «lo abbiamo appena risvegliato e gli ho cambiato la cannula; quanto a parlare, impossibile al momento». «Come mai? La ferita era così grave?». «Anche! Ma abbiamo dovuto praticargli una tracheotomia d’urgenza. Comunque tra un paio d’ore glielo permetterò. Devo lasciarla, Ispettore». «Commissario, prego!». «Sì, Commissario… siamo strapieni di lavoro. Fantini sfracellati, mafiosi feriti a pistolettate. Ma i cche succede a Siena? Si stava così bene prima che arrivassero su codesti…». «… Guerra di mafia, dottore! Il signor Minicu Bonfante ha sparato a Don Tano Cantalanotte, noto boss di Cosa Nostra e questi, a sua volta, ha sparato al signor Minicu. Tutt’intorno, nuvole di cocaina. Di più non posso rivelarle, le indagini sono in corso. Dottore, la lascio al suo lavoro. Mi raccomando, me lo faccia sopravvivere questo ceffo, almeno finché non canta e non ci racconta tutto quello che sa di questa storiaccia. Buona giornata, e buone “rianimazioni”». Bandini tentennò un po’ prima di rispondere, e lo fece, poi, con tono abbastanza cordiale. «Buon pomeriggio Commissario, buona giornata… Eh, Claudia, resta un attimo per favore, e chiudi la porta…Ma cosa cazzo ti salta in mente di
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far entrare quel poliziotto senza avvisarmi?» esplose, appena furono a tu per tu. «Scusami Neri» fece Claudia mettendo su un broncio da teatro e accostandosi maliziosa. «Quello sbirro è arrivato all’improvviso; due suoi uomini mi hanno fatto un taglia fuori e lui ha infilato la porta. Spero non ti abbia creato dei casini». «Ma no, nessun casino, è che non me l’aspettavo e allora…». «E allora te la sei fatta un po’ sotto vero?». E si accostò, ancora più maliziosa, guardandolo sorniona e agitando un po’ una mano. «Dai smettila di coglionarmi, sai bene chi sono quelli: il tipo in sala appena estubato e i suoi picciotti in corridoio. La prossima volta…». «Certo Dottor Bandini, non succederà più la prossima volta, promesso». Ritirò via la mano “insolente”, incrociò gli indici sulle labbra, li baciò, e corse in sala, ridendo.
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Intorno alle diciannove, furono fatti entrare i parenti in sala di degenza, uno per paziente. Dal suo letto posizionato in fondo alla sala, Minicu poteva vederli bene, attraverso una porta a vetri, nella zona del disimpegno, mentre si affaccendavano accanto agli scaffali delle divise monouso. Si bardarono con copriscarpe, camici, cuffia e mascherina, e sarebbero rimasti, per la mezzora loro concessa, al bordo dei letti. Così gli avevano detto gli infermieri. Minicu vide il figlio Paolo avvicinarsi al suo letto, chinarsi e schioccargli un bacio sulla guancia. «Ciau papà, comu stai?» bisbigliò il giovane. «Hanno fatto miracoli in questa Rianimazione» continuò a voce alta perché potessero sentirlo. «E fra quacche ggiorno potrai tornare a casa. Così ci disse il Profissore poco fa». Minicu cercò di articolare le parole ma emise solo aria vuota e fece un brutto colpo di tosse, che uscì da quella parte della gola in cui sentiva le vespe pungere. Ne provò timore. L’infermiere di sala corse e lo tranquillizzò, lo ripulì dal catarro e gli diede una lavagnetta bianca, di plastica e un pennarello. «Ecco qua signor Minicu, scriva su codesta lavagna quanto vuol dire al su’ figliolo». Poi si allontanò discreto. «Mi raccomando leggiti bene la preghiera che è dietro la santuzza che ti ho portato» riprese Paolo, in un sussurro, dandogli un’immaginetta sacra. «Ca domani te ne porto un’altra, e mi segnerai i nuovi ordini. L’ho copiata dalle preghiere del libretto nero. Mio patre è molto devoto a Santa Lucia di Amendola» si volse ad alta voce verso l’infermiere, «una Santa miracolosa assai. Raccontano gli antichi...». «Sì, va bene... va bene! La poggi costà accanto al cuscino» l’interruppe acido l’infermiere. «È pulita almeno? A prohurare un’infezione basta davvero poho». «Comu stai papà» ripeté il figlio, fingendo di non aver ascoltato le raccomandazioni ricevute.
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«La robba?» iniziò a scrivere Minicu non curandosi della prima domanda. La scrittura era incerta e Paolo seguiva, sillabando a voce alta le parole mentre si formavano sul fondo bianco. Minicu lo incenerì con lo sguardo e gli fece un cenno categorico di zittirsi. Paolo obbedì all’istante, riprendendo in un sussurro: «La robba è al sicuro. Sono arrivato io per primo a recuperarla; ora è già in lavorazione in attesa di essere spedita, l’ho portata in un posto ben protetto, là, dove sappiamo noi. Tano, dopo il furto, l’aveva nascosta all’Oca come sospettavi tu. A casa stanno tutti bene e ti aspettano». «Ma cchi minchia è successo? Non ricordo niente» riprese a scrivere. «Ma come, non ti ricordi? Tano, Tano Cantalanotte, il nostro amato boss! Un mese fa s’era futtutu tutta la nostra cocaina, facendo credere che era stata la camorra a rubarla». «E comu facisti a recuperarla?». «C'eravamo accorti del finto furto della roba, e seguivamo già delle tracce e così mentre lui trattava in cima alla Torre, durante il Palio, incaricai dei picciotti fidati di sottrarla a loro e portarla in un posto controllato da noi. Poi però ci fu tutto il casino della sparatoria». «Questo lo ricordo, ma poi?» scrisse ancora una volta. «Iu chi cazzu c’entro?». «Tu lo hai scoperto mentre stava salendo sulla Torre per trattare con la ‘ndrangheta, e lo hai ammazzato». «Ricordo vagamente, forse una pistola… ma io non ho ammazzato a nessuno. Pensa alla robba, invece di sti minchiate». Poi riprese a scrivere sulla santuzza. Claudia, dal letto accanto, si fermò a scrutare i due che dialogavano: parole smozzicate da una parte e scrittura incerta dall’altra. Minicu continuava a scribacchiare sul santino e sulla lavagnetta e quando ebbe finito la sbatté sotto il naso di Paolo. Questi lesse, indugiò un attimo, e cancellò subito con la mano. Minicu allora fece dei segni sotto alla preghiera e la mostrò al figlio che lesse con più attenzione. «Uhm, non sono minchiate, papà, però hai ragione, a questo punto dovremo cambiare tutti i piani, in modo da confondere i Cantalanotte. Suo figlio Sergio tenterà di recuperare la roba e userà ogni mezzo per farlo. Va bene, ci penso io ad avvisare Concetto. Tu non ti pigliare pena; mentre sei qua comando io...».
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«Una minchia!» scrisse velocissimo Minicu. «Io, comando, ricoddalo! E fai come ti ho detto». Se avesse potuto urlare l’avrebbe fatto. Invece dovette trattenersi diventando paonazzo in volto. Paolo abbassò gli occhi e non replicò. «I parenti fuori per favore, sono le venti» cinguettò Claudia Salvini. Tutti i visitatori furono fatti uscire, tra le proteste di taluni che volevano fermarsi ancora un minuto. «Signori, ci dispiace, ma le regole son codeste. È già molto farvi entrare così in tanti e sapete bene che il rischio che portiate germi da fuori è alto, ma conosciamo le vostre esigenze e la voglia di stare accanto ai vostri cari. Signor Domenico» fece poi rivolta a Minicu, «stia tranquillo che domattina il su’ figliolo tornerà e vi racconterete tante altre belle cose». Minicu prese a gesticolare furioso indicando tutto il groviglio di fili e tubi che gli giravano intorno e gli uscivano dal corpo. «Sì, signor Minicu» riprese Claudia, sempre più affabile, «presto le toglieremo tutta quella roba che la tiene in prigione e potrà muoversi più liberamente. Le insegneremo anche a parlare col buco in gola e tra un paio di mesi, di quel buco resterà solo un ricordo. Lei è stato molto fortunato sa? La sua ferita, per fortuna era meno grave del previsto. Eh… lei ha di certo un santo, o una santa che lo protegge. Adesso stia tranquillo e cerchi di riposare». Si chiusero le porte del reparto e per un tempo lunghissimo, Minicu udì solo i bip dei monitor e il soffio tiepido dei respiratori meccanici: giganti che alitavano e lui avvertì una sensazione di pericolo che incombeva.
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«Chi cazzo rompe le palle a quest’ora? Ma poi, dico, è modo questo di suonare ai citofoni dei reparti?». Carmine, infermiere di smonto-sera, si alzò svogliatissimo dalla poltroncina sulla quale si era spalmato col suo iPad in mano e si avviò ad aprire con tutta calma. Aveva completato i controlli dei suoi pazienti, e aspettava il cambio delle 21,30 per lasciare le consegne della notte al turno montante. Claudia stava finendo di verificare i dati dei ricoverati di sua competenza. Anche lei fremeva per il cambio-turno in arrivo. Il pomeriggio di lavoro era stato parecchio pesante e non vedeva l’ora di tornare a casa e rilassarsi un poco davanti alla tv dopo aver fatto una doccia ghiaccia, come piaceva a lei d’estate. Il campanello suonò di nuovo, con insistenza feroce, questa volta. «Arrivo, un attimo!» urlò Carmine ciondolando lentamente, seguito dallo sguardo divertito di Claudia, che aveva capito il dispetto di far aspettare lo scocciatore notturno fino a esasperarlo. «E tanto ci voleva? Sono il commissario LaCiurca, già questa mattina venni» iniziò a urlare appena mise il naso dentro. «Il primario mi ha autorizzato a interrogare il signor Bonfante». «Interrogare chi? Ah… Minicu! Scusi, qui lo conosciamo tutti con quel nome buffo. Ma il Primario a quest’ora sarà per i ca-fatti suoi e i malati li stiamo sedando per la notte. Non potrebbe tornare domattina?». «Sì, mi rendo conto, ma è importante. Stiamo indagando su un omicidio e ogni ritardo potrebbe essere deleterio. Non è possibile rimandare. Le ripeto che è urgente. Non vorrà essere d’ostacolo alla giustizia, spero!» gli ringhiò in faccia. «Io? No, quale ostacolo! Adesso citofono al dottor Alfani che è il responsabile di notte. È nella stanza qui accanto». Prese il citofono: «Dottor Alfani, c’è qui l’Ispettore…». «Commissario prego… Commissario!» sussurrò due toni in su, LaCiurca. «C’è il Signor Commissario che vuole interrogare il paziente».
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Anche in sala, si udì il medico borbottare attraverso la cornetta e Carmine vi dovette mettere una mano sopra cercando di ovattare gli improperi. «Il dottore ha detto che può entrare. Il malato però ha subìto una tracheotomia e non può parlare, lo sa?». «Sì lo so, lo so» sbuffò spazientito LaCiurca, mentre Claudia continuava ad assistere a quella pantomima. «Ecco Commissa’ indossi questa divisa ché io vado a svegliarlo. Ah… le indagini prima di tutto! La giustizia non va mai intralciata» concluse Carmine con tono solenne. La penombra era rischiarata dai monitor con le loro lucine e le tracce colorate che si inseguivano senza tregua, mentre i mantici dei ventilatori assistevano il respiro dei pazienti. Carmine affidò l’ospite a Claudia che si premurò di fare da guida al Commissario. «Sembra un Golgota degli anni duemila» sussurrò LaCiurca nel vedere quei poveri Cristi inchiodati ai loro letti. Giunto al capezzale di Bonfante, adocchiò un’immaginetta sacra poggiata sopra le lenzuola. La prese tra le dita, brillava delle luci riflesse dai monitor. La rigirò e vi lesse a voce alta una preghiera: «La successiva notte, alla terza vigilia, S. Domenico ordinò: Aiuta Coloro che Caino uccide. Con un rivolo di sangue e latte accanto alla folgore, liberò la colomba della pace dalla prigione del mare. Portava in bocca un ramo di mandorlo. Vola! Come disse San Paolo ai piccoli Turchi». Lesse con tono canzonatorio, guardando la Salvini. «Sono i santini lasciati dai parenti» rispose questa intuendo la domanda. «Sa, sperano sempre in un miracolo». «E… accadono questi miracoli?». Carmine, accanto, abbozzò una smorfia, sempre sotto l’occhio vigile di Claudia, chiuse la flebo del sedativo e scosse con garbo il letto: «Signor Domenico? Minicu?». Due occhi gonfi e arrossati emersero al richiamo da sotto le palpebre cispose, appena socchiuse. Guardarono straniti il mondo intorno e fissarono il buio vuoto. «Signor Domenico, il commissario LaCiurca, qui, dovrebbe farle un paio di domande». «Bonfante» attaccò senza garbo LaCiurca, «non è obbligato a rispondere, ma le conviene!».
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Minicu spalancò del tutto gli occhi e Claudia gli porse una lavagnetta e un pennarello, accese la lucetta di servizio, gli sollevò lo schienale del letto e si scostò un poco. LaCiurca continuò ponendo le domande, dopo essersi seduto su uno sgabello girevole che era lì accanto. «Bonfante, cosa ci faceva sulla Torre del Mangia il giorno del Palio?». Minicu stava per iniziare a scrivere ma LaCiurca lo prevenne arrestandogli la mano: «Non incominci a scrivere frottole perché noi tutto sappiamo. Perché ha ammazzato Tano Cantalanotte?». «Ju taliavo Palio» scrisse in un italiano stentato e con la scrittura tremula, ma veloce. «Non scriva stupidaggini» gli ribadì LaCiurca rigirando la santuzza tra le dita e leggendo distrattamente. «Sulla Torre è vietato salire il giorno del Palio. Il guardiano…». «Cci ho dato 100 euri» riprese Minicu scrivendo svelto e accompagnando lo scritto con un mezzo sorriso di sfottò. «Minicu ‘u ruossu, ma mi pigghji ppo’ culu?» gli urlò LaCiurca in dialetto. «Vidi ca sicilianu come te sono, di Palma di Montechiaro. Ora pecciò parlami della robba e delle pistolettate o di qua dentro, niesci con le manette e le catene ai piedi». «Io comercio mandorle» riprese a scrivere, ma tentando anche di dirlo a voce. «I pizzuti di Avola, quelle col calibro… giusto per i confetti e per ‘u Panforti». «Mandorle!» urlò LaCiurca esasperato, leggendo a voce alta. Minicu cancellò col taglio della mano e riprese: «Le conosce i pizzuti, Commissario? Ora basta, stanco sono» scrisse stavolta con lentezza esasperante. Posò poi sulle gambe la lavagnetta insieme col pennarello che rotolò subito in terra. «Aspetta Minicu ‘u ruossu, non ho ancora finito» lo incalzò LaCiurca. Claudia fece per intervenire, notando la stanchezza del malato, ma il Commissario la fermò con un cenno secco della mano. «Sappiamo bene, caro Domenico Bonfante» riprese feroce LaCiurca, «che adesso, fuori gioco Don Tano, sei tu il nuovo boss di Cosa nostra qui a Siena. Ma non credere di poter fare i tuoi porci comodi, perché noi ti staremo alle calcagna e col fiato sul collo. Perciò ti conviene rispondere alle mie domande: perché hai ammazzato Gaetano Cantalanotte e dov’è il resto della droga? Ne mancano all’appello quattrocento chili, meno qualche grammo. Ne sai niente tu?».
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Minicu riprese la lavagna e LaCiurca gli porse il pennarello raccattandolo da terra. «Commissario, io stanco. Io mandorle pizzuti». Il poliziotto avvampò e nonostante la penombra, Minicu lo vide diventare violaceo, allentare il nodo della cravatta che già mal sopportava di suo, fin quasi a scioglierlo, scostare con un calcio lo sgabello di metallo con malagrazia, sbattere la santuzza sul lenzuolo, ai piedi del letto, e andare via furioso con ancora indosso il camice monouso, tentando invano di strapparselo di dosso, come un matto invasato. «Ti farò incriminare per omicidio e traffico internazionale di droga, e per… » iniziò a urlare LaCiurca mentre lasciava la sala come un tornado. Non era ancora nel corridoio che berciò come un demonio ai due piantoni: «Mi raccomando, voi due, per il signor Bonfante una sorveglianza stretta e rigorosa o vi consegno per una settimana. Le mandorle di Avola! ‘Nto culu te le infilo, le mandorli pizzuti!». Anche in sala di degenza si udì il turpiloquio. Claudia e Carmine si guardarono sorridendo. Minicu, come se nulla fosse stato, riprese a sonnecchiare.
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Il laboratorio della Polizia Scientifica era un formicaio di tecnici che si spostavano veloci tra un banco da lavoro e l’altro sulle poltroncine a rotelle. Carlo Repetti, dirigente capo, era in piedi davanti a LaCiurca che, come fosse a casa sua, stava stravaccato su una comoda poltrona, seguendo, in trance, le lancette del grande orologio a muro muoversi a scatti intorno alle 23.00. Dopo avere smesso di farsi ipnotizzare, LaCiurca si sistemò il colletto della polo col coccodrillo verde e attaccò: «Sono stato a fare due chiacchiere con Minicu Bonfante e alcune cose non mi tornano. Lui poi, a parte il fatto che poteva solo scrivere, mi è parso più evasivo del dovuto. Addirittura ho avuto la netta e chiara impressione, che mi volesse pigliare per il culo. Ma voi a che punto siete?». «Commissario, qualche risultato lo abbiamo, ma anche incertezze» rispose Repetti. «Don Tano è stato ucciso con un solo colpo alla testa. Un’arma calibro 22, che ha sparato da almeno otto metri. Intorno al foro d’entrata non ci sono segni di bruciature. Un secondo proiettile, non ritrovato, ha bucato il sacchetto che la vittima stringeva ancora in mano, facendo volare dappertutto la cocaina che conteneva. Presumiamo sia dello stesso calibro del primo. Non possiamo però confermarlo perché non abbiamo trovato né l’arma, né i bossoli». «E dunque senza arma né bossoli, Minicu sarebbe innocente». LaCiurca mise in bocca una sigaretta senza però accenderla, era conscio del divieto e soprattutto della promessa fatta al dottore e a se stesso di non fumare. «… Quasi, Commissario! C’è una novità. La pistola che crediamo sia di Minicu è volata giù dalla Torre, e dopo un salto di oltre novanta metri si è schiantata al suolo, sul tufo che ricopre l’anello della corsa. Poi, almeno quarantamila persone ci son passate sopra, scalciandola o magari portando via dei pezzi. Ne abbiamo recuperato alcuni, ma non so se riusciremo a fare una perizia balistica accurata. Invece Tano aveva ancora in mano la 38 con cui ha ferito Minicu al torace. Il colpo è stato sparato quasi a bruciapelo, massimo da tre metri. Bruciature sulla camicia e sulla pelle del ferito ci danno questa conferma. E la cosa è
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contraddittoria: come mai uno ha sparato un colpo da otto metri e l'altro a bruciapelo? La balistica, comunque, ha effettuato le prove su quest’ultimo piombo, quello estratto dal torace, e corrispondono: proiettile e arma» concluse il capo della Scientifica. LaCiurca fece un bel sorriso soddisfatto e chiese: «E i residui dello sparo?». «Quelli ci sono tutti; sui vestiti dei due uomini e nella scena del crimine. Case e stub ci parlano di Bario, Antimonio… tutto. Però ci sono dei punti ancora oscuri» rispose calmo Repetti. «Sarebbero?». «Ci avete detto che secondo i vostri confidenti c’erano tre uomini sulla Torre» continuò Repetti, «e vorremmo sapere chi fosse il terzo sconosciuto e cosa faceva, perché ci sono tracce e impronte differenti da quelle dei due. Alcune sono del custode che avete già interrogato sommariamente, ma quelle del terzo incomodo non sappiamo ancora a chi appartengano. Non sembra sia uno schedato nei nostri archivi informatici. Le confronteremo con quelle dei figli del signor Bonfante e di Cantalanotte, potrebbero essere di uno dei due, oppure del camorrista che trattava con Don Tano». «Di quei due campioni me ne occuperò di persona con un buon interrogatorio all’antica. Sono malavitosi schedati» riprese LaCiurca. «Non abbiamo ancora reperito prove sufficienti per incastrarli ma tempo al tempo. A proposito, nei vestiti dei due boss avete trovato roba importante?». «È tutto al vaglio, ma direi di no. È gente furba quella e non lascia tracce evidenti o riconducibili ad altri. Un’immaginetta sacra e due mandorle sgusciate nella tasca di Minicu, mentre Don Tano era immacolato, non aveva nemmeno soldi appresso, e vestito nuovo di alta sartoria». «Due mandorle e una santuzza» ringhiò sommessamente LaCiurca. «Minicu Bonfante non ha fatto altro che ripetermelo in ospedale, che commercia mandorle pizzuti di Avola. E poi sembra un uomo “devoto”, santuzze e immaginette lo circondano anche in ospedale, come fosse la cappella di un santuario. Ma è chiaro come il sole che è una copertura per i loro traffici di coca colombiana. E adesso con la morte di Tano è lui il boss incontrastato della mafia. Ora qualcuno, forse il figlio, forse uno dei suoi scagnozzi, lo avrà aiutato a riprendersi la droga che Tano aveva fatto sparire. E il problema è proprio quello: ritrovare quei maledettissimi quattrocento chili di cocaina. Non sappiamo da dove partire per cercarli. Dove accidenti li avranno nascosti?».
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«Vero. Avete già effettuato delle perquisizioni in casa del figlio di Bonfante?». «Non a fondo, il giudice se la prende comoda per i permessi e il Questore si dà arie da saccente. Come se fosse così semplice risolvere in un giorno il caso. Mi sto sbattendo e non ci dormo la notte. Tutti mi parlano di queste cazzo di… mandorle pizzuti ma della droga nemmeno l’ombra. Conto però di farlo entro domattina, con le buone o con le cattive, con o senza autorizzazioni. Gli metto la casa sottosopra, gliela rigiro come un…». «Stia attento commissario, lei sa che io sono dalla sua parte, del resto noi siamo i portatori d’acqua di una giustizia che zoppica. Siamo quelli che si fanno il mazzo per pochi euro al mese, e loro invece… Ricorda i contrasti che lei ebbe quando voleva limitare i movimenti di quella gente in città? Siamo in una democrazia e i politici, insieme ai giornali, ci salterebbero addosso, se noi emanassimo dei provvedimenti restrittivi, senza delle prove schiaccianti di attività illecite e bla… bla… bla”. Le risposero così se non ricordo male» concluse Repetti con un sorriso amaro. «Ricordo bene, caro amico scientifico, ricordo bene. Finimmo sui giornali e parecchi ci bagnarono il pane dentro la zuppa delle calunnie: “Polizia fascista, Stato di Polizia, Dittatura in divisa…” Tutti i giornaloni, i giornaletti e i giornalai ci dettero addosso. Ma stavolta Minicu u ruossu e la sua accolita, hanno passato il segno. Stavolta li becchiamo uno per uno e poi vedremo se non avessi ragione anche allora. Stammi bene, Repetti. Ci aggiorniamo appena hai novità». La dolce sera senese si congedava per lasciare il posto a un’altra notte di baldoria: La nobil contrada della Torre aveva vinto il Palio di Provenzano e i contradaioli, a rischio di una terribile scazzottata, erano andati a sfottere l’Oca, fino in cima a Fontebranda. LaCiurca si diresse verso casa, rimuginando ancora sui fatti accaduti. Una buona nottata di sonno lo avrebbe ritemprato e si ripromise di interrogare all’alba i figli dei due mafiosi. E che si fottessero il Palio e i cenci. Lui abitava proprio nella contrada della Torre e immaginava che non avrebbe chiuso occhio. I canti di vittoria si sentivano già da lontano, un refolo di vento gli fece sventolare un poco la polo. Lui sollevò il colletto e continuò verso casa. Strane ombre gli si agitavano davanti agli occhi. Cercò di scacciarle ma sembravano stampate sui mattoni rossi degli antichi palazzi toscani.
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«Pax et bonum, e buona alba a tutti» cantilenò una voce allegra che stonava in quel posto di dolore. Minicu udì, ma non capiva. «Et cum spiritu tuo» rispose il dottor Bandini con tono di sfottenza e senza manco voltarsi. «Signor primario, che abbiamo di buono stamani nel menù? Sfracellati del Palio? Intossicati da porcherie sparate in vena? Scazzottate tra contradaioli? Nasi rotti?». «Né gli uni né gli altri, caro il mio frate raccoglitore. Ma… lei… lei non è Frate Giacinto! Che fine ha fatto il suo fratello in Cristo?» disse Bandini dopo essersi voltato completamente e avere squadrato dalla testa ai piedi l’uomo col saio che gli stava dietro. «Il mio fratello è in ferie. Io sono fra’ Cosimo. Non sa che oggi è il mattino del cinque di luglio, l’indomani del quattro?». «E allora? Giacinto mica è un frate americano che festeggia l’Indipendenza». «Sempre voglia di scherzare ha lei, Primario. Giacinto me l’ha detto che è un tipo… mi scusi! Un dottore allegro… cioè, volevo dire…». «Ormai l’ha detto. Ma pure i frati vanno in ferie?». «Assolutamente sì. Anche il corpo, oltre all’anima, ha bisogno di godere del riposo e a volte del mare». «Ah… allora a quest’ora sarà a Follonica. E là, a voglia a far godere il corpo con tutte le belle signore sole e sconsolate che affollano quei lidi, mentre i mariti affollano gli uffici! Ma cos’è questa novità del sostituto? Gli altri anni frate Giacinto è partito senza lasciare nessuno. Sapesse che sofferenza per le nostre anime!». «Lo immagino» fece con grande sarcasmo il frate. «È una novità di quest’anno. Il Cappellano che va in ferie viene sostituito da un frate». «Ah, benissimo, contenti voi… Comunque la new entry è questo malato qui che ho per le mani: il signor Domenico Bonfante, al secolo Minicu u ruossu boss della Onorata Società sicula, in vacanza a Siena e inciampato in un proiettile vagante».
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«Oh Maremma. Occorre che gli dia subito l’unzione degli infermi così capirà che codeste cose costì un si fanno. E se si devan fare, che le facciano in casa loro. Rompono i coglioni anche qui…». «Fratello! Un po’ di rispetto per il mio reparto» lo ammonì Bandini sorridendo. «Non siamo mica nella sua Cappelletta sa!». Minicu aveva seguito attento quel dialogo; vide il frate avvicinarsi di più al suo letto, prendere uno sgabello girevole d’acciaio e sedersi. «Dottore Bandini, le spiace se resto un po’ col nostro fratello derelitto? I figliol prodighi, le pecorelle smarrite, vanno salvate; anche con le parolacce. Dio non manda all’inferno i suoi figli per le parolacce ma per le cose che non dicono o che non confessano. Per quello, solo per quello. Confessione, confessione e confessione. E infine espiazione!». «Faccia pure frate, io avevo già finito con lui. Mi sposto sul paziente qui accanto. Lei faccia pure e lo… confessi per bene». «Buongiorno signor Domenico, come sta?» gli disse radioso il frate. Minicu lo guardò per un minuto buono, cercò anche di sollevare la testa, poi la riabbassò, stanco, alzò gli occhi e rispose soffiando: «Buonu, grazzie». Dimenticò che ancora non poteva parlare e avvertì solo l’aria che usciva dalla cannula, senza alcun suono vocale. Mosse le labbra come un pesce rosso in boccia e terminò lì il suo lungo discorso. Il frate allora, carezzandogli la mano che emergeva da sotto il lenzuolo, gli offrì un sorriso cordiale mentre l’infermiere di guardia arrivava con la solita lavagnetta. «Signor Domenico, se volesse confessarsi, scriva qui i suoi…» disse l'infermiere, e andò via. Il frate gli lanciò un’occhiataccia e poi sorrise a Minicu che ricambiò, acconciandosi meglio il lenzuolo che lo copriva. «Il nostro amico infermiere scherza. Non occorre che scriva alcunché sulla lavagna, i suoi peccati li guarderà Iddio e io la assolverò secondo il mio ministero pastorale. Cosa le è successo? Come mai è finito in ospedale?». «Non so» iniziò a scrivere Minicu, «Taliavo Palio». «E quel santino sul pensile cos’è? Ah, Santa Lucia di Mendola» disse prendendo tra le dita l’immaginetta sacra, «protettrice degli occhi, mi pare. Ma lei è siciliano allora? Ed era venuto a Siena per guardare il Palio? Di dov’è lei?». “Chistu è peggiu dello sbirro di stanotte” pensò Minicu. Poi riprese a scrivere: «Di Avola, conosce?».
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«No, mai stato» rispose il frate leggendo quanto Minicu scriveva. «Conosco il vino… il Nero d’Avola». «No mènnile! Mandorle Pizzuti, le sportiamo a Siena». La scrittura era sgrammaticata e tremula ma veloce come di chi comunque è abituato a scrivere. Il frate però non ascoltava intento a guardare con interesse il santino che reggeva tra le dita. Sul retro c’era una prece. «Che bella preghiera» fece il religioso, leggendo a voce alta con aria serafica. «”La successiva notte, alla terza vigilia, S. Domenico ordinò: Aiuta Coloro che Caino uccide. Con un rivolo di sangue e latte accanto alla folgore, liberò la colomba della pace dalla prigione del mare. Portava in bocca un ramo di mandorlo. Vola! Come disse San Paolo ai piccoli Turchi.” Che preghiera poetica!» aggiunse. «Certo, è un po’ difficile da capire e interpretare. Chi ha scritto questa preghiera così… santa? E cosa sono questi segni sotto le parole?» chiese indicando, le parole su cui faceva scorrere il dito mentre nel frattempo toccava con insistenza il cordone che gli stringeva il saio alla vita. Minicu iniziò a scrivere sulla lavagna, mostrando nel contempo un’espressione sbalordita. «Quali segni?». «Questi segni qua, sotto: coloro, Caino, rivolo, folgore, mandorla vola…» indicò fra’ Cosimo indicando con insistenza una parte dell’immaginetta che stringeva insieme a Minicu. «Mio figghju Paolo… » riprese a scrivere Minicu, approfittando per strappargli con forza, il santino dalle mani. «Certo, a leggere le parole segnate, uno potrebbe…». «Frate… stanco. Mi abbenedice, senò…» Minicu scrisse veloce e strinse di più la santuzza per nasconderla al frate. «Ma signor Domenico, perché ha tanta fretta? Io volevo solo liberare la sua anima da tutte le pesantezze che la opprimono. Perché vuole perdere quest’occasione che Santa Madre Chiesa le offre? La Chiesa è la mamma di tutti noi e quando la mamma comanda, tutti i suoi figli dovrebbero obbedire. Lei non ha nulla da farsi perdonare? Chessò… una dimenticanza, un peccato nascosto in un angolo segreto? Non accumulate roba in terra dove la tigna la corrode… così ammonisce il Vangelo, Paolo 6-19-34, o era Matteo? Peccato non ci fosse un Sergio, tra gli evangelisti, avrebbe fatto un figurone. Ah, ma vedo che possiede anche una bella Bibbia, qua sul vassoio». Fra Cosimo la prese e la aprì alla pagina col segnalibro. «Oh… è sulla Genesi: “A sua immagine li creò, a Sua immagine e somiglianza le fece…”. Lei, signor Domenico, è
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un uomo di grande fede, e allora per la sua santa fede, confessi… si confessi dei suoi peccati e si sentirà meglio». «Frate!» scrisse veloce Minicu con un’espressione stanca, ma ancora vigile, quanto bastava per accorgersi dell’interesse con cui Bandini stava a guardare i due. Il frate allora si alzò, fece un cenno a metà tra un saluto e una benedizione, e si allontanò ammonendo: «Minicu pensa anche all’anima, non pensare solo al corpo e stai attento alle punizioni divine, la roba accumulata e nascosta in terra si consuma e si disperde; salva la tua anima, confessati. Dio non dimentica le offese e gli sgarbi, ma un pentimento lava tutto. Caso mai fammi chiamare. Pace e bene a tutti». Toccò ancora il cordone come per annunziare la fine del colloquio. Minicu lo salutò con la mano, guardò il medico e poi di nuovo il frate, osservandone con espressione stranita i sandali infradito. «Frate, aspetti» lo fermò Bandini. «Cos’era quella preghiera che le ho sentito leggere poco fa?». «Oh… nulla di particolare. È una delle lettere di San Paolo ai… Filippesi. Una richiesta di perdono, di pace e di confessione». «Uhm» fece il medico. «Io non sono un frequentatore di chiese e giaculatorie, ma non avevo mai udito quelle parole. Appartengono forse al nuovo catechismo che va propagandando il Papa?». «Ssì… sì» ribadì Frate Cosimo guardando Minicu. «È il nuovo catechismo, ma sono frasi molto, molto antiche. La saluto dottore, torno al mio monastero. Ci rivedremo domani o domani l’altro, dipende». Un odore come di incenso e alcool rimase nel posto dov’era rimasto seduto fino a un momento prima. Minicu continuò a guardarlo finché non scomparve. Poi accennò a dire qualcosa, ma ci rinunciò subito: sapeva che a parlare avrebbe tossito. Fece ugualmente un cenno e Bandini si avvicinò a lui.
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Claudia con gesto automatico e ripetuto quotidianamente ormai da anni, alle sette in punto aprì l'uscio di casa. Puntuale come un cronometro s'era già sistemata e fatta bella. Amava recarsi al lavoro in perfetto ordine. Abitare lontano da Siena nel pedemontano dell’Amiata era una scocciatura: ghiaccio d’inverno e fango in primavera. Ora, in luglio, l’estate Toscana, si faceva perdonare e diventava gentile coi suoi riverberi marrone e i vitigni verdi, ed era una delizia per gli occhi soffermarsi a guardare le dolci colline del Chianti, quando c’era il tempo per godere il panorama. Immersa nei suoi pensieri nemmeno s'accorse dei due uomini in divisa, quasi due armadi a muro, in piedi davanti all’uscio; tanto che a momenti batteva il naso contro uno di loro. Di soprassalto e impaurita arretrò di un passo. «Tranquilla signora Claudia, siamo della Finanza, non siamo banditi» disse il più alto dei due, con un sorriso franco e un marcato accento meridionale. «Stavamo per suonare il campanello, quando d’un tratto lei ci ha preceduto. Vorremmo solo accompagnarla fino al lavoro, se non le dispiace». «Ma perché dovreste accompagnarmi... che senso ha?». «Un senso c'è a tutto» riprese quello spingendola leggermente verso la Panda 4x4 di Claudia. «Lei salga sulla sua auto e guidi, ché noi due saliamo insieme e la proteggiamo da...». «Ma io non ho bisogno di protezione e...». «Salga!» intimò l'altro con tono perentorio. «E parta subito». Claudia, perplessa e impaurita, non poté opporsi, salì e mise in moto mentre i due si accomodavano uno di fianco a lei e l'altro dietro. Partì sgommando. Un’Audi argento con un terzo uomo iniziò a starle dietro. Filari di cipressi le scorrevano accanto, magnifici e imponenti, ma l'ansia e il timore avevano il sopravvento perché si attardasse a osservare il paesaggio.
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Un carro carico di balle di paglia le si parò davanti all’uscita da un tornante molto stretto. Claudia piantò e l’Audi le arrivò quasi addosso inchiodando con uno stridio di pneumatici che la risvegliò dal senso di paura che la bloccava. Quei due non erano veri agenti della Finanza, lo aveva capito quando era ormai troppo tardi per potere accennare qualunque reazione. “E poi quale?” pensò, “questi mi stritolerebbero con una sola mano”. Appena la strada si liberò, ripartì veloce e nello stretto seminò l’Audi. Non sopportava quel tallonamento asfissiante e aveva anche bisogno di scaricare un po' di tensione. I due non opposero alcuna obiezione alla sua guida scattante. Finito il tratto dei tornanti in discesa, iniziarono dei lunghi rettilinei e allora riapparve il muso dell’auto inseguitrice che puntava la sua Panda come uno squalo la preda. La strada era poco trafficata a quell’ora e lei disperò di incrociare qualcuno che conoscesse. «Signora Claudia, ci deve scusare se l'abbiamo importunata così» attaccò il più alto dei due, quello che l’aveva spinta dentro l’auto. «Ma avremmo bisogno di una cortesia». Il tono di voce era gentile ma fermo. Lei attese. «In famiglia stanno tutti bene?» riprese quello. «Suo marito è già partito per la banca, vero?». «Scusatemi ma cosa desiderate?» Mentre parlava, Claudia prese il cellulare e cercò di digitare qualcosa. L’uomo le prese il polso con dolcezza e decisione. «No signora Claudia, cosa fa? Non usi il cellulare. Sa com’è? Poi dovremmo dare tante spiegazioni… I suoi bambini a scuola ce li porta sempre Teresa, vero?». Quegli uomini sapevano tutto di lei e della sua famiglia. Ora iniziò a tremare. Posò il cellulare nella tasca laterale della portiera e si concentrò sulla guida. «Ma si può sapere chi siete e cosa volete?». «Siamo due persone per bene. Due amici» fece l’altro. «E se lei farà quello che le diciamo di fare, tutto bene andrà». Claudia si guardava intorno nella speranza che passasse un conoscente. Avrebbe fatto un segnale… qualcosa si sarebbe inventata. «Nel suo reparto c’è ricoverato un tizio di nostra conoscenza, un amico di vecchia data, un tipo sempre in vena di scherzi. E ci ha fatto uno scherzo pure a noi, di quelli pesanti» riprese il più alto. «Noi sappiamo
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che si è svegliato dal coma ma non può parlare perché il buco nella ggola ci avete fatto». «Sì è così. Vedo che siete informati». «Bene, signora Claudia, allora entro stanotte vorremmo avere delle risposte alle domande che lei farà al nostro amico e che sono scritte in questo pizzino». “Ecco la parlata” pensò Claudia. “Sono siciliani”. «Non so come farà, ma sappiamo che dovrà farlo per forza. Se il nostro amico non può parlare lo faccia scrivere sulla lavagna e poi telefonerà a questo numero con questo cellulare. Questo qui, lo sente bene… nel palmo?». L’uomo le immobilizzò la mano con cui un momento prima Claudia aveva preso il suo telefono e senza alcun garbo la costrinse a stringere il nuovo cellulare, ammiccando a un doppio senso volgare. Le spinse poi un foglietto vicino agli occhi, obbligandola per un secondo a leggere un numero di telefono e delle frasi. Lei riuscì a mantenere saldo il volante, a rallentare e a non sbandare. Poi quello prese a carezzarle il collo, con lascivia, proprio sotto uno degli orecchini. «Sappiamo che avete delle medicine per fare parlare le persone, le usi, e lo faccia in modo appropriato». «Ma queste cose si vedono solo nei film o si leggono sui gialli, voi non sapete…» quello strinse la presa sul collo… «Ahia, mi ha fatto male!» rispose stizzita. «Ma è matto? Il foglietto davanti agli occhi! Potevamo ammazzarci tutti! E poi la pianti con codesta mano del cazzo, non sono una donna da strada. Sì ho capito, ho capito. Mi dovrò far dire “quando parte, come parte, quando arriva, dove arriva.” Ma che cazzo di gioco è, si può sapere?». «Oh, molto vispa e combattiva la nostra bella signora Claudia! Ma forse non ha capito che a lei non deve interessare niente delle ddomande. A noi interessano le risposte che ci riferirà al telefono. E questo, non è un gioco! Ora ascolti bene: Numero uno, non faccia la minchiata di andare alla polizia picchì prima che lei ci arriva, noi già lo sappiamo. Numero due, questo telefono è… patticolare: Non si può intercettare, non si può sapere di chi è il numero e appena lei ci avrà detto quello che a noi serve, la scheda di questo cellulare non sarà mai esistita. Ci siamo capiti? Oltre tutto mi pare che la vostra casa non è assicurata contro le calamità naturali e un fulmine, un allagamento, un cortocircuito, un incendio… possono capitare sempre. Sa com’è il destino». E il dito dell’uomo riprese a strusciarle il collo.
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Le venne voglia di piantare l’auto, fermarsi, scendere e scappare. Poi ci ripensò e fece buon viso a cattivo gioco. Lo lasciò fare ancora un po’ finché quello non la smise da solo. «Sentite, ma perché proprio io? Perché volete proprio da me queste notizie? Non potete scegliere un altro infermiere? E poi, come pensate che io possa farmi dire da quell’uomo tutte queste cose?». «Abbiamo scelto lei perché conosciamo suo marito Giorgio» rispose quello, annusandosi il dito impregnato del profumo di Claudia. «A palazzo Sansedoni ricopre un incarico di grande responsabilità per l’Antico Banco della Torre. Ecco perché. Ci siamo capiti meglio adesso? Quanto al farsi dire le cose da quell’uomo… le ho già detto di quelle medicine… speciali… il siero della verità!». «Ma che cazzo dice? Siero della verità! Voi vi fate troppi film nella testa… E cos’ha a che fare mio marito con questa storia?». «Sono cose che non la riguardano. Può darsi che in seguito capirà, Signora Claudia, faccia come vuole ma si faccia dare quelle risposte dal signor Bonfante, perché le ripeto che questo non è uno scherzo, è una faccenda terribilmente seria e a prenderla sottogamba lei rischia la pelle, sua, di suo marito e anche dei bambini. Perciò mi raccomando, acqua in bocca anche con… l’amichetto dottore, si ricordi degli infortuni casalinghi. Siamo quasi arrivati a Siena, accosti e si fermi». Lei obbedì. L'Audi che li seguiva, si arrestò pure. «Mi raccomando, signora Claudia! La prossima volta non so se useremo il dito, per le... carezze, la canna di una pistola è molto meno calda! E la sua mano, che poco prima ha stretto un freddo cellulare, potrebbe stringere altro, ma poi dovrebbe spiegare a Giorgio troppe cose. Per esempio, cosa ci farebbe la sua biancheria intima nella cassetta della posta. Ci siamo capiti vero? E non scordi il nostro cellulare». I due uomini scesero dalla Panda e montarono sull'altra macchina che fece una velocissima inversione a "U" e si dileguò. Claudia era ancora gelata dal sudore che le scendeva lungo la schiena, e rabbrividì, nonostante i trenta gradi che da una settimana tormentavano l’intera Toscana. Era smarrita. Prese il suo cellulare un paio di volte, lo posò, lo riprese ancora e compose un numero. Una calda voce maschile rispose all’altro capo. «Claudia, cosa succede? Sei in ritardo, hai problemi?» fece Bandini prima che lei potesse accennare una sillaba. «No… Neri, sto arrivando, la Panda stamattina faceva le bizze. Tra venti minuti arrivo».
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«Sicura di stare bene? Ok, fai in fretta, ché stamani ci sono due dimissioni e due nuovi ricoveri». «Sì… ok, ok, va tutto bene, volevo dirti… niente ne parliamo lì. Arrivo!» concluse lei di fretta. Chiuse. Si guardò nello specchietto poi prese dalla borsa il fard, si spennellò, rimise il rossetto che aveva mangiucchiato dalle labbra durante quella discussione e ripartì.
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«Commissario, le ripeto che il giorno del Palio ero impegnato con il nostro business. Ho visto mio padre la mattina presto, verso le otto, e poi l’ho rivisto la sera in ospedale, sparatu come un cunigghji sparatu!». Paolo Bonfante era sotto torchio già di prima mattina. Alle sette scarse quattro agenti erano andati a prelevarlo in casa, in Via De’ Fusari, e l’avevano condotto a sirene spiegate in commissariato. LaCiurca lo stava spremendo come un limone ma non riusciva a cavarne nulla. «Hai un alibi per dimostrare quello che dici?» riprese con calma. «Certo Commissario, dalle dodici alle diciannove e trenta sono stato al Bàrbero a bere caffè, orzatine alla menta e mangiare bomboloni alla crema. Può chiedere alla signora Lucia. È una specialista nella pasticceria». «Verificheremo… verificheremo. E durante la mossa dov’eri? Lo sai che la mossa di quest’anno è durata oltre quaranta minuti? La Tartuca faceva gl’impicci». «Commissario, sono stato dentro quel bar fino a poco prima dello sparo del cannone, a trattare con dei clienti. M’interessava davvero poco del Palio, dei cavalli e dei fantini». «E altri… spari? Niente, vero? E non sei nemmeno salito sulla torre, immagino». «Non so di che parla, ma se si riferisce allo sparo che ha ferito mio padre, non l’ho sentito certamente. E non sono nemmeno salito sulla torre. Che ci sarei dovuto salire a fare? Lo sanno tutti che non si può andare sulla Torre il giorno del palio. Ma perché invece di chiedermi sempre le stesse cose non verifica dov’ero? Chieda, chieda alla Lucia. M’ha pure dato la chiave del bagno e ho ancora addosso lo scontrino delle consumazioni». «Paolo, guarda che le domande le faccio io. Se ho detto che verificheremo, puoi starne certo. Io mi riferivo allo sparo che cha ucciso Don Tano. Cosa ne sai tu? Avevi tutti i motivi di questo mondo per ammazzarlo. Aveva rubato la vostra droga fingendo di essere lui il
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derubato e la stava rivendendo alla camorra. Tuo padre e tu l’avevate scoperto e l’avete ammazzato, oppure lo hai ammazzato tu solo salendo sulla Torre con tuo padre. Scegli! Preferisci l’ergastolo oppure canti, mi racconti tutto e cercherò di farti avere uno sconto di pena, ma non sperare di farla del tutto franca? E tuo padre sulla torre come ci sarebbe salito, visto che come dici, il giorno del palio non ci si può andare? E se non ci sei salito, non ti è nemmeno passato per la mente di sbirciare dal balcone del bar? Lo sai bene che dà sulla Piazza, proprio a sinistra della Mossa e di fronte alla Torre del Mangia, con un buon binocolo si vede tutto e molto bene». «Commissario ma che mi fa la mappa di Piazza del Campo? Lo so bene da me dove affaccia quel bar, ma so anche che i balconi son tutti prenotati a suon di bigliettoni, e non ci passa nemmeno una spilla tra i paganti che vogliono godersi il corteo storico e la corsa. E poi io non so nulla di spari e droga. Io commercio mandorle insieme a mio padre. E come abbia fatto lui a salire sulla torre, non lo so. E non so nemmeno cosa ci facesse lassù. Ho appreso tutto da voi e dai giornali». «Ma non mi hai ancora spiegato perché tuo padre era mezzo stecchito per una pistolettata al petto». «E a mmia lo chiede? Perché non ce lo domanda a lui?». «Già fatto, già fatto. Senti non mi fare pèrdiri la pacienzia. Abbiamo un morto ammazzato, non sappiamo se da tuo padre o da te, quattrocento chili di cocaina spariti nel nulla, proiettili senza bossoli e bossoli senza pistola… adesso se non mi dici quello che sai, parola mia ti faccio fare… » LaCiurca si era reso conto che stava perdendo la calma e si era pure lasciato sfuggire notizie delle indagini, e non poteva dare quel vantaggio all’inquisito. «Va bene Paolo Bonfante, va bene. Mi accontento per adesso, ma attento a come ti muovi. Ah… mi hai detto che sei pure stato in bagno, lì al bar!». «Certo, picchì? Nemmenu pisciare si può, ommai? Perché me lo chiede?». «Niente… cazzi miei Bonfante, cazzi miei! E tu rispondi bene, a tono, o ti faccio saltare i denti. E questo commercio… questo business di mandorle, in cosa consisterebbe? Come funziona?». «Gliel’ho spiegato, Commissario, noi riceviamo le mandorle qui a Siena dopo che in Sicilia ne hanno sgusciato una grande quantità. Qui le lavoriamo, e quelle del calibro giusto, intere, non maltrattate, e senza difetti, le mandiamo vicino Napoli, a San Giuseppe vesuviano, dove ci fanno i confetti…». «Continua Bonfante, continua…».
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«Quelle che hanno imperfezioni, o sono spezzate, le teniamo a Siena per metterle nel Panforte, tanto andrebbero spezzate ugualmente, oppure le lavoriamo in panetti per il latte di mandorla». «E perché tutto questo giro, dalla Sicilia, poi a Napoli e poi ancora a Siena?». «È una questione di business, Commissario. È complicato da spiegare, lei non si intende di affari e commercio, non ne capisce…». «E tu che cosa ne sai di quello che capisco io di commercio? Potrei saperne anche più di te, Bonfante. E se tutto questo… giro, questa giostra che fate fare alle mandorle, invece servisse a sviarci dai vostri rapporti con la camorra, riguardo a certe partite di cocaina, che ne diresti? Potrebbe essere un’intuizione giusta?». Con un gesto nervoso LaCiurca si tastò più volte il pacchetto delle Marlboro che teneva in tasca in maniera quasi scaramantica: so che siete lì, ma non vi fumo, maledette. Vi amo e vi odio. «Direi che sta prendendo un grosso granchio, e che rischia la carriera, commissario LaCiurca. E aggiungerei che lei sta inquisendo una brava persona e un onesto commerciante a cui…». «A cui guarda caso, hanno sparato al padre come “un cunigghjiu sparatu”. Hai detto così prima, vero, Bonfante? L’ho già sussurrato in faccia a tuo padre: vedi ca sicilianu comu a ttia ju sono! E lo alito pure a te, perciò attento a non pigliarmi per il culo, e a non minacciarmi adombrando alte protezioni, perché stai sbagliando persona, io non mi faccio intimorire dal politico colluso di turno e te ne farei pentire amaramente. E tuo padre non era un coniglio sparato, ma un fior di mafioso come te, che cercava non so che cosa insieme a quell’altro lestofante di Don Tano Cantalanotte». «Commissario, io voglio il mio avvocato, perché le sue minacce sono intollerabili e io sono una persona per bene e…». «Basta!» urlò LaCiurca, esasperato come non mai. I suoi colleghi si voltarono e lo guardarono stupiti. Lo conoscevano come persona paziente. «Basta, Bonfante! Hai superato tutti i limiti della mia pazienza e della decenza. Avrai il tuo avvocato appena ti incriminerò ufficialmente per omicidio e traffico di droga, e subito dopo, avvocato o non avvocato, ti metterò i ferri ai polsi e se il caso, anche le catene ai piedi. Questa era solo una chiacchierata informale. Ora, se non ti dispiace, un mio uomo ti accompagnerà alla Scientifica per il test dello
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sparo e poi vedremo se eri davvero al bar a mangiare pasticcini, bomboloni e a pisciare!». LaCiurca, come una furia, prese la giacca e uscì di corsa. «Commissario, dove va?» gli chiese stupito il suo aiutante. «Vado a, a, aah… cazzi miei, Carotti, cazzi miei!». ),1( $17(35,0$ &RQWQXD
AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Seconda edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2019) www.0111edizioni.com
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