Quando la tempesta arriva, Rosanna Baldelli

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ROSANNA BALDELLI

QUANDO LA TEMPESTA ARRIVA

ZeroUnoUndici Edizioni


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QUANDO LA TEMPESTA ARRIVA Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-521-9 Copertina: immagine proposta dall’Autore Prima edizione Gennaio 2022


Ai miei nonni Luigi e Anna Giacinto (Cinchio) e Isola.



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PREFAZIONE

Noi siamo quello che altri furono prima di noi. Non credo alla reincarnazione. Credo invece che siamo il frutto di quello che i nostri nonni e genitori ci hanno insegnato e raccontato. Credo che siamo quello che abbiamo studiato, e quello che ci è piaciuto di più nello studiare e nel vivere. Siamo, insomma, l’evoluzione della nostra famiglia e della nostra Patria nella lingua, nel carattere, nelle abitudini e nelle scelte che facciamo ogni giorno. La scrittura è il sublime strumento per mettere a nudo ciò che siamo diventati vivendo. Ma le radici affondano lontano, nella vita di altri che hanno fatto la storia, quella di cui noi siamo forieri con le nostre vite e le nostre scelte, anche politiche. Mi sono detta che forse un romanzo storico che, secondo i canoni della verisimiglianza, narrasse le vicende di un periodo di trasformazione della nostra Italia, avrebbe potuto rammentarci meglio la nostra appartenenza, in un mondo che, ormai soggetto alla globalizzazione, spesso ce la fa dimenticare. Rosanna Baldelli.



PARTE PRIMA



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TOSCANA, MARZO 1914

Anna era appena tornata dalla fonte della via di mezzo. Aveva preso due brocche d’acqua per cuocere i fagioli da servire a pranzo, quando sarebbe tornato il marito dal lavoro. Non sapeva dove fosse andato quella mattina. Si era alzato presto, come al solito, era sceso per le scale di mattoni cercando di non fare rumore, o avrebbe svegliato le bambine che ancora dormivano beate. Scaldò il latte in un bricco di smalto sul camino che, con un pezzo di pane fatto in casa, sarebbe servito da prima colazione. Pensò a quel marito bello e giovane, dal portamento aitante e con i capelli folti e ricci. Si era innamorata soprattutto del suo sorriso scanzonato e lei, che invece era e si sentiva bruttina, ancora non capiva come fosse riuscita ad accaparrarselo. La sua vita, fino a quell’incontro, non era stata un granché, almeno fino a quando non era andata a servizio a Roma da una famiglia di signoroni che abitavano in via Del Babuino. Spesso sentiva nostalgia di quella città che aveva conosciuto poco, ma di cui aveva subìto il fascino fin dal primo momento, proprio come per il suo Gigi. Quelle piazze grandiose! Piazza del Popolo era proprio vicino a dove lavorava e viveva, Piazza di Spagna e poi, Piazza San Pietro, quale magnificenza! Mai avrebbe pensato di vedere una città come Roma quando ancora, ragazzina, le sembrava già uno spettacolo arrivare, dopo un poco di salita, nella piazza del suo paesello. Ma l’atmosfera che c’era a casa sua, non l’avrebbe mai trovata nella capitale, dove tutto era grande, meraviglioso, ma distante da lei e dal suo piccolo mondo. La sua casetta nel borgo se l’era comprata con i risparmi di quegli anni trascorsi a servizio in città. Alla morte dei genitori, aveva riscattato con i denari tenuti di conto, la parte che spettava ai fratelli e alla sorella, che tanto avevano già le loro case, comprate quando si erano sposati e allontanati dalla famiglia di origine. Per lei era stato importante avere quattro mura sue, di proprietà, quando ancora era abbastanza giovane, tanto da non dover dipendere da nessuno. Anche per questo si era potuta


10 scegliere quel bel marito. La casetta si trovava all’inizio di un borgo del paese e suo padre l’aveva acquistata dai frati Cappuccini della Maddalena, che la usavano quando venivano per la questua annuale. C’era, infatti, anche una stalla con una mangiatoia per l’asinello che li accompagnava, e una cantina scavata nel tufo, cui si accedeva scendendo ben tredici gradini, e che era l’ideale per mantenervi le damigiane di vino buono e gli insaccati che si compravano dai norcini e che servivano come riserva per i rigidi inverni. Da un portoncino di legno sulla strada, lastricata con grosse pietre intagliate, si accedeva a una scala in mattoni di cotto, che portavano al primo piano dove si trovava la cucina con il camino, un tavolo con le sedie, una madia per il pane, un acquaio in pietra con una piattiera e un mobile dispensa. In fondo c’era anche un gabinetto con tanto di servizi igienici, un vero lusso per quei tempi! Due finestre, una sul tetto della casa sottostante, e una che dava sul borgo, davano luce alla stanza. Cinque gradini, davanti alla seconda finestra, portavano a un pianerottolo da cui s’innalzava un’altra scala in mattoni che conduceva di sopra alle camere, dove dormivano adesso le sue due figlie. «Anna, Anna, affacciati, corri. Vieni giù!» Il tegame con l’acqua per i legumi, che stava mettendo sul fuoco, per poco non le si rovesciò sui piedi, e con mezza imprecazione andò ad affacciarsi alla finestra, anche se sapeva che a chiamarla era la sorella più grande, che abitava alcune case più in su, verso la piazza. L’angoscia le attraversò il petto gonfio di latte appena vide il viso di Mena, che piangeva come una disperata e che non riusciva a far capire quello che diceva. Che la cosa fosse tremenda lo capì soprattutto, quando vide suo cognato poco più dietro, anche lui di corsa. Si precipitò giù per le scale, e in un attimo seppe che Gigi era morto. La terra era franata, su alle Piane, e lo aveva trascinato con sé, riempiendogli i suoi bei capelli e infradiciandoli con il fango. «No, ma che dici, non è morto! Lo stanno portando a Montepulciano con la barella, quelli della Croce Verde.» «Ma come? Con i cavalli?» «No, lo sai che non ci sono, a piedi. Però sono in tanti per darsi il cambio, vedrai che ce la farà, è forte Gigi, è giovane!» Ma Anna non sentiva più nessuno; si era messa a correre anche se le scarpe erano mezze rotte e la gonna, con due grembiuli lunghi e spessi sopra, pesava come una coperta e la intralciava. Voleva vederlo subito, prima che chiudesse gli occhi per sempre, ma più correva e più non ce la


11 faceva, oppressa dalle lacrime, dai pensieri, dalla sensazione che tutto fosse un incubo di quelli che di notte ti fanno saltare sul letto. “Macché è tutto vero” si diceva. “Oddio, Madonna, mandate indietro il tempo, fatemi tornare a ieri sera! Com’è possibile!”. Ancora non riusciva a raggiungere la piccola carovana di soccorritori, che con una barella di cuoio e legno, sorretta da quattro uomini robusti, si dirigeva più velocemente possibile, verso l’unico ospedale della zona che distava almeno dieci chilometri. Quando arrivò in cima alla prima salita, dopo una serie infinita di curve, nonostante la scorciatoia in mezzo agli ulivi, già era distrutta e si accasciò sulle pietre che sostenevano una croce di ferro a delimitare il viale di cipressi che portava al cimitero. Gigi, Gigi, quante volte lo aveva chiamato, passando davanti all’osteria, mentre era lì a discutere e accalorarsi con i suoi compagni di sventura sulle ingiustizie che dovevano subire per portare un pezzo di pane a casa. Commentavano gli articoli di un giornale che spesso riusciva a trovare quando si recava in qualche paese vicino per lavoro. Il Martello raccontava tutte le porcherie del Governo e del potere, e loro – aizzati e con il cuore che ribolliva di rabbia, e la mente tutta tesa verso un avvenire radioso e di riscatto – immaginavano cortei e rivolte che avrebbero cambiato in meglio la vita. Lui leggeva ad alta voce agli altri, che non erano andati a scuola, nemmeno fino alla terza, e parlava e spiegava alla meglio cos’erano l’anarchia e il socialismo. Un anno e mezzo prima, a Reggio Emilia, il congresso dei socialisti aveva preso una piega che piaceva di più a Gigi e ai suoi compagni. Eh sì, finalmente sembrava che si fosse capito ai livelli alti che non era più possibile andare avanti con il riformismo, non certamente dopo l’esplosione del conflitto in Libia e dopo che Bissolati, Bonomi e Cabrini erano andati a trovare il Re dopo l’attentato di marzo. Poi, dopo che Giolitti aveva fatto la famosa battuta che riguardava Marx in soffitta, tanto che i rivoluzionari avevano pubblicato il giornale intitolandolo La soffitta, al congresso gli animi erano parecchio accesi, e fra tanti discorsi dei vari capi alla fine la spuntarono i rivoluzionari, fra le fila dei quali si era già distinto un certo Mussolini Benito che, a Milano nel 1910, aveva impressionato per la sua capacità oratoria e che parlando del Re e dell’attentato al quale era riuscito a sfuggire, ribadì che “il regicidio era un infortunio del mestiere di Re” e che il Re era “il cittadino più inutile per definizione”. Anche la sera prima Anna era andata a chiamare Gigi all’osteria dove


12 stava discutendo animatamente sulle dimissioni di Giolitti, che era stato proprio il giorno prima sostituito da Salandra. «Come se fosse cambiato qualcosa!» diceva Gigi. «Ce l’ha messo lui lì Giolitti, che non poteva fare a meno di dimettersi dopo che i radicali erano usciti dal Governo!» «Gigi, vieni a casa! È tardi! Domattina devi andare al lavoro!» “Io l’ho mandato a morire”, pensava Anna disperata. “Era meglio se lo lasciavo lì a bere un’altra bottiglia di vino, a ubriacarsi tanto da non riuscire a svegliarsi la mattina!”. Si era rialzata e, con vigore rinnovato dalla disperazione, si era messa di nuovo a correre. Arrivata in cima a Sant’Albino, dopo aver passato la villa dei Contucci, dall’alto, ancor prima di raggiungere le pozze sulfuree che già facevano sentire il loro acre odore di uova marce, li vide. «Aspettate! Aspettatemi! Se è vivo, lo voglio vedere!» “Ma che dico? Se è vivo devono correre, correre il più possibile per arrivare prima all’ospedale”. E intanto, nella discesa, mentre il corteo era già un pezzo avanti su per i Boscalti, aveva ripreso a correre e le lacrime le offuscavano la vista, il cuore tonfava nel petto come un tamburo impazzito e la mente correva alle sue cittine che sarebbero rimaste senza il babbo, alla mercé della vita schifosa. Ormai era arrivata all’ospedale, dentro le mura del paese. Era sfinita, aveva dovuto affrontare anche l’ultima terribile salita dopo la porta che immetteva nella cittadina e, oltrepassata la ruota che accoglieva i bambini che le povere mamme erano costrette ad abbandonare, si era accorta che uno dei portantini stava venendo verso di lei. «Anna, come hai fatto ad arrivare qui?» «Dove l’hanno portato? Dov’è?» non aveva più neppure la forza per far uscire un filo di voce. Nanni la abbracciò sostenendola, piangendo. Non c’era più niente da fare ormai. Gigi era morto. Il suo fisico giovane non aveva sopportato lo sfacelo avvenuto internamente al suo corpo. “È sempre bellissimo”, pensava Anna mentre lo accarezzava e con un panno umido cercava di ripulirlo. Non aveva neanche un graffio esternamente, ma il dottore le aveva spiegato che rotolare per tutto il pendio insieme alla terra e ai sassi, aveva massacrato gli organi interni, e quando era arrivato all’ospedale non c’era più niente da fare. Ma la colpa qualcuno ce la doveva avere. Quei maledetti che sapevano che lì la terra franava e che era pericoloso e non avevano riguardo per un


13 padre di famiglia; erano marci come la loro terra. “Povero il mio Gigi”, quante volte aveva pensato che forse per lei quell’uomo era troppo bello e troppo giovane. Lui aveva sei anni meno di lei e Anna spesso immaginava che avrebbe trovato qualche altra più giovane e bella, e l’avrebbe lasciata. Eh, sì. L’aveva lasciata infatti, ma contro la sua volontà. Si era sparsa la voce della disgrazia per tutto il paese e quando ritornarono verso casa, ormai era quasi l’imbrunire in quella serata fredda di marzo, cominciarono a incontrare parenti e amici che venivano verso di loro. Nessuno poteva fare più niente, se non consolare la vedova e cercare di aiutarla in qualche modo. Anna aveva lasciato le figlie, una di sei anni e l’altra di nove mesi, ma sapeva che ad accudirle c’era sua sorella che senz’altro le avrebbe portate a casa sua. Ora doveva andare anche dalla mamma di Gigi, che abitava vicino a lei e che era sola perché il secondo marito era morto e la figlia avuta da lui era ormai a Genova da qualche tempo. Anche lei aveva trovato lavoro come governante in una casa di signori e, visto che era ancora senza marito, aveva pensato bene di togliersi da quel paesino povero e cercare di guadagnare qualcosa per sé e per la madre, dato che il fratello ormai aveva messo su famiglia e aveva due bocche da sfamare. La Celina, già, si doveva avvertire anche lei poveretta, amava così tanto quel fratello più grande che sua mamma aveva avuto dal primo marito e che portava un altro cognome… ma questo non c’entrava niente. La casa era ormai piena di gente. Stavano in piedi oppure seduti sui gradini della prima fila di scale. Nella cucina dove il fuoco era acceso nel focolare, qualcuna delle donne preparava una minestra con i fagioli che Anna aveva lasciato lì. Volevano per forza che mangiasse qualcosa, ma lei non aveva più forze, neanche per aprire la bocca, figurarsi per mangiare. Desiderava scomparire sottoterra, ma sapeva di non poterlo fare per quelle creature che ora avevano solo lei. I suoi fratelli, Vittorio per primo, la accolsero consolandola e dicendole che non l’avrebbero abbandonata. Non doveva preoccuparsi per le figliole, fra tutti l’avrebbero aiutata. Già, non c’era tempo neanche per il lutto del suo cuore, doveva pensare alle cose concrete, a trovarsi un lavoro, a fare subito qualcosa. Anna era credente, la sua famiglia, a cominciare dal padre, l’aveva educata ad avere fede nel Signore, a pregare la Madonna tutti i giorni con il rosario, a raccomandarsi ai santi. Ma perché allora il Signore aveva permesso che le succedesse questo? Perché le disgrazie erano tutte per gente come lei?


14 E perché non doveva odiare quei maledetti che, senza ritegno, da veri spudorati che pensavano solo ai quattrini, avevano ammazzato suo marito? Perché, perché? Aveva ragione Gigi a prendersela anche con i preti. Glielo diceva sempre che erano tutte fandonie, che non c’era nessun Dio, che la religione era un’invenzione per tenere sottomesse le masse. Lei lo contraddiceva, cercava di convincerlo che dentro di sé provava un vero sentimento di amore per chi aveva creato il mondo, e che lui non doveva bestemmiare dicendo quelle cose. Certo, Gigi non le aveva mai impedito di andare in chiesa alle funzioni, di far battezzare le figlie, di pregare, ma che la smettesse con quelle scemenze! Doveva far presto e chiamare il prete. Una volta a casa doveva essere subito benedetto, poi ci sarebbe stata la messa d’esequie. Non ci poteva credere ancora, no. Aveva bisogno di vedere le sue figlie, quelle bambine belle come il padre, soprattutto la più piccina era identica a lui. Cinchio È sempre bello il verde del grano appena spuntato, pensava, mentre ogni tanto alzava lo sguardo da quel lavoraccio che si era messo a fare e che non voleva finire. Aveva deciso di costruire un carro per i buoi tutto da sé. Quello che gli avevano dato i padroni ormai era marcio in tutto e per tutto, e a volerlo riparare ci sarebbe voluto di più che a farlo nuovo di sana pianta. Lui non l’aveva mai fatto, ma sapeva che ci sarebbe riuscito. E infatti, ormai era quasi alla fine, stava montando la seconda ruota. Certo che ce n’era voluto di tempo, quasi un anno! Ma lo faceva a tempo perso, per così dire, dopo aver lavorato nei campi, con la vigna, con gli ulivi e gli animali. La vita del mezzadro era quella, tanto lavoro sempre e poche soddisfazioni. Ma quella di aver finito un grosso carro di legno tutto da sé, però, era una bella soddisfazione. Altro che andare all’osteria “a chiacchiere e bevute”, come facevano gli operai delle fornaci, a giornata finita! Cinchio, con le sue lunghe mani secche e inaridite dal sole, che aveva messo in mostra ancor di più le lentiggini che le cospargevano, accarezzava il legno ben levigato di quel carro come se fosse il visino del suo secondo figlio di sette mesi. I capelli rossi e la barba ancora più rossa che gli erano valsi il soprannome di “barba d’oro”, si mossero con una folata di vento di tramontana, che lo fece rabbrividire. Faceva ancora


15 freddo, anche se il sole risplendeva nel cielo in quel giorno di marzo, e faceva brillare le colline che si rivestivano d’erba verde chiara e del bianco dei fiori di mandorlo. Il campanile della chiesa cominciò i suoi rintocchi. Erano tristi e lugubri, e insieme alla tramontana gli facevano venire la pelle d’oca. Suonava a lutto per quel poveraccio che era morto due giorni fa, su alla cava delle Piane. Certo che era una disgrazia, gli avevano detto che lasciava due figliolette dell’età dei suoi due maschi, avuti dalla moglie Isola. Da lì si sentiva bene la campana della chiesa, erano vicini al paese, un poco fuori delle mura, ma non isolati come quando erano a Reggello a Montefollonico. Poi erano anche vicini ai suoi genitori, che dopo una vita di lavoro avevano comprato una casetta qualche chilometro più giù, alle Fontanelle, e coltivavano un orto che dava buoni frutti da vendere al mercato. La moglie però non era tanto contenta di quella sistemazione. Lei aveva tutti i parenti a Montepulciano, e sarebbe voluta ritornare lì. Chissà, forse avrebbe anche potuto accontentarla se le cose fossero andate per il verso giusto. Per il momento restavano in quella casa rossa come i suoi capelli. Infatti Cinchio aveva in mente di ingrandire la tenuta. Il podere di Chianciano andava bene solo per il momento, finché era l’unico a lavorarci. Per fortuna erano nati due figli maschi che sarebbero stati braccia aggiunte al lavoro nei campi. Le famiglie dei mezzadri più erano numerose e più potevano campar bene. La mano d’opera, infatti, se restava in famiglia arricchiva di certo tutti i componenti, a meno che non ci fossero calamità come carestie o guerre. E purtroppo per queste ultime i tempi non promettevano bene. Già c’era stata la guerra di Libia che era finita da poco più di un anno e che per fortuna si era risolta bene per l’Italia, ma in Europa bollivano tante cose in pentola, e certamente non erano tutte comprensibili al popolo e ai lavoratori che, come lui, dovevano pensare giorno per giorno al da farsi per la famiglia, soprattutto ora che la moglie era di nuovo incinta. Soddisfatto del suo lavoro e, visto che cominciava a imbrunire, decise di rincasare quando Isola gli comparve davanti, portando in braccio il piccolo e tenendo per mano un bambinetto di circa cinque anni. «Come mai sei uscita di casa con questo freddo e con i figlioli?» «Volevo vedere dov’eri e se ti mancava molto per ritornare a casa. Vorrei andare al funerale di quel povero operaio morto. Conosco la moglie, è una brava donna e ha una cittina di qualche mese più del nostro piccino.» «Sì, va bene, ho capito. Fai bene ad andare. Ci sarà tanta gente


16 immagino, è una grande disgrazia e ci saranno anche da Montepulciano quegli anarchici che conoscono i tuoi parenti, pare che questo Gigi fosse abbastanza attivo e informato.» «Non lo so. Non ci capisco niente di queste cose, ma so che se capita una disgrazia a chi è come noi, se non ci consoliamo fra noi, nessun altro ci pensa.» Isola, con il suo cappotto nero e un fazzoletto in testa s’incamminò sulla strada bianca che, in salita, portava verso l’inizio del paese dove si trovava la Collegiata. La strada, dopo un breve tratto, s’inerpicava in una rampa piuttosto ripida che, arrivata a un’ampia curva, diventava davvero faticosa, passava sotto un arco possente di mattoni che formava una volta al di sopra di una gradinata agevole e larga. Era la porta di San Giovanni, orientata verso nord, che si apriva sulla Val di Chiana. La chiesa si trovava proprio in cima. C’era parecchia gente appoggiata al muro di fronte al sagrato che guardava di sotto, alla strada che aveva appena percorso lei; e ce n’era tantissima nel sagrato e ancora di più dentro la chiesa. La funzione era cominciata da un po’ e Isola si vergognava del suo ritardo. Entrò piano, facendosi largo tra decine di uomini che parlavano a voce bassa e fumavano i sigari davanti al portale, sormontato da due colonne a serpentina. In chiesa non riuscì a vedere il prete né il feretro, tanta era la calca. Ma arrivò in tempo per sentire: “In Paradiso ti accolgano gli angeli, al tuo arrivo ti accolgano i martiri, e ti conducano nella Santa Gerusalemme”. Allora Isola pensò che anche lui poteva essere considerato un martire, ma l’anima di Gigi avrebbe voluto gridare di no, che non ci voleva andare fra gli angeli e i martiri, che voleva ritornare a vivere la sua vita difficile e a continuare a lottare. Isola andò a portare le sue condoglianze alla vedova, ma Anna neanche la riconobbe, tanto era affranta e sfinita dal dolore. Poi cominciò il funerale, ma lei riprese la strada che prima aveva fatto in salita, e ritornò verso casa. Anna Ormai Anna era sola e non riusciva ancora a capacitarsi di quello che le era accaduto. Tranne i suoi parenti che la consolavano e portavano qualcosa da mangiare, nessuno si era fatto vivo con lei; nemmeno quegli assassini che avevano fatto morire suo marito. Cesaroni, uomo colto e borghese per bene che abitava nel palazzo


17 proprio sopra la sua casetta nel borgo, era stato l’unico ad andarla a trovare e prometterle il suo aiuto, caso mai avesse avuto necessità. «Certo sor Cesaroni che ho bisogno, bisogno di lavorare, io ho sempre lavorato, so fare diverse cose. Avevo tralasciato quest’ultimo anno perché è nata la mia seconda bambina, ma sono stata a Roma, ho imparato tanto e so leggere e scrivere.» «Lo so, lo so, Annina, sei una brava donna e mamma. Conosco gente di fuori che ha una villa a Sant’Albino, e proprio qualche tempo fa mi hanno chiesto se potevo trovare una mamma di famiglia adatta a mandare avanti una casa grande, e magari che fosse anche una buona cuoca. Potrei dir loro di te, se per te va bene.» «Grazie signor Lorenzo, ma io ho due bambine e vorrei poterle vedere ogni giorno, non me la sento di trasferirmi in un’altra casa, anche se è vicina. L’ho fatto quando sono andata a servizio a Roma, ma allora ero ragazza, senza marito e senza figlie. Magari, se mi volessero solo come cuoca, so che me la caverei discretamente e a una certa ora della sera potrei tornare dalle mie bambine. Certo, capisco che qualche volta potrebbero aver bisogno anche per delle cene con invitati, ma non sarebbe sempre, e io potrei lasciare le mie figlie a Mena.» «D’accordo Anna, ti prometto che parlerò presto con loro, vedrai che cercherò di convincerli e di farti assumere per la giornata, lasciandoti libera la sera e un giorno a settimana.» «Grazie, grazie, che Dio la benedica!» «Coraggio Anna, vedrai che ce la farai. Io comunque voglio aiutarti perché sei una brava paesana, e per me i paesani sono la mia famiglia.» «Scusi signor Lorenzo, non le ho offerto neanche un caffè… qualcosa.» «Ma figurati Anna, non voglio niente, poi mi aspettano in Comune. Devo andare, ci sentiamo presto. Magari quando ho notizie ti mando Cesira e vieni a casa mia per parlarne. A presto.» «Grazie sor Cesaroni, grazie… faccia piano giù per le scale che sono ripide!» «Sì, sì… a presto!» La visita d Cesaroni aveva rincuorato Anna un poco, e non avrebbe mai dimenticato quel gesto di solidarietà. Anche se nella scala sociale la sua persona era poco più che niente, Annina aveva il suo bel carattere e sapeva conoscere le persone: i vili, i menefreghisti, gli incapaci, i fannulloni e anche i falsi cristiani. Cesaroni era uomo tutto d’un pezzo, e anche se apparteneva a quella borghesia tanto vituperata dal suo Gigi, lei lo apprezzava per la sua umanità e gentilezza. Figurarsi se gli atri ricchi chiancianesi si sarebbero presi il


18 pensiero per una povera vedova del borgo! Quanti pensieri si affollavano nella sua mente! Il volto di Gigi, la sua bella bocca, la sua voce che la chiamava! Il suo corpo giovane che si stava disfacendo sotto terra… che dolore, che pena. Com’era possibile che fosse morto quel ragazzo che voleva cambiare il mondo, che cantava “Il sol dell’avvenir!”. In quel momento, in cuor suo, gli fece una promessa: “Sì, caro Gigi, quando sarà il momento mi batterò anch’io per i tuoi ideali. Io che non ne ho voluto sapere finora della politica, farò quello che posso per portare avanti le tue idee di socialismo e così educherò le tue figliole… pensando sempre a te”. Poi salì in camera dove c’era la piccina che si stava svegliando. La sollevò dal letto dove l’aveva messa fra tre cuscini per ripararla da possibili cadute, e dopo averla cambiata la allattò. Chissà se quel latte contaminato dal dolore provato e dalla stanchezza avrebbe fatto male alla piccina. “Speriamo di no”, si disse. Poi la prese in braccio e scese le due rampe di scale. Si recò da sua sorella a prendere la Dandina, che certamente la stava aspettando. Ormai aveva cinque anni ed era bellina, bionda e con gli occhi gialloverde come i gatti. Ti guardava e sembrava che volesse entrare nella tua mente, ma era solo un attimo, perché si distraeva e rideva subito come se volesse prenderti in giro. Aveva già il suo fascino quella mocciosetta e, giocando con le cugine, si vedeva che era furba e capace di infinocchiarle… anche quelle più grandi di lei. Il suo babbo la adorava, e le aveva fatto fare anche una foto per portarla con sé quando era andato per qualche mese al lavoro in Maremma. In quella foto, ormai sbiadita quando la vidi io, si notavano due codine bionde ai lati della testa e occhi indefinibili, chiari, quasi bianchi, ma con due pupille pungenti che sembrava volessero forare la carta di cui erano fatti. Due occhietti da Sibilla. La casa di Mena era nel borgo che intersecava via Solferino, un poco più in giù del palazzo dei signori Giubilei, ricchi proprietari terrieri che insieme ad altre due o tre famiglie possedevano quasi tutti i poderi del contado e che avevano concesso in mezzadria. Si doveva salire una ripida scala di mattoni per arrivare alla cucina, dove il fuoco era acceso nel focolare rialzato e dove bollivano alcune pentole con legumi e verdure, quasi pronte per la parca cena della famiglia. C’erano altre due bambinette di sette otto anni, che erano le figlie di Mena: la Gosta e la Rosina, ma non erano belline come la bimba di


19 Anna, che appena vide la sua mamma cominciò a urlare che a casa non ci voleva andare, che voleva restare lì a giocare con le cugine, che aveva paura a casa perché anche se sapeva che il suo povero babbo era morto e non veniva più a cena e a dormire dopo il lavoro, lei lo vedeva sempre. Compariva quando meno se lo aspettava, in cima alle scale oppure vicino al camino e la chiamava «Fernandina» e, quando lei gli chiedeva: «Babbo sei tornato?» lui, puff spariva. Lei sapeva che non era normale una cosa del genere e aveva paura, ma… non tanta. Mena e Anna si guardavano mentre diceva certe cose, e si facevano il segno della croce. Poi, siccome era pronto per cena, ed era arrivato anche il marito della sorella che era una vera persona per bene e molto affettuoso con le bambine, al suo invito, restarono a mangiar lì e, prima che facesse buio, tornarono alla loro casa. Ella Era andata in giardino per cogliere le rose, che erano sbocciate quasi tutte insieme sui cespugli. Appena pochi giorni prima, quando ancora doveva recarsi a Roma per un invito che aveva ricevuto da suo fratello Corrado, c’erano solo foglie e soltanto qualche piccolo bocciolo stretto e verde faceva capolino. A Roma era stata quattro giorni – cinque con il viaggio di ritorno – e si era divertita alla festa per il compleanno di Matilde, sua cognata, che compiva trentaquattro anni. Certo, ogni tanto era piacevole andare alle feste, nei bei palazzi romani, percorrere le ampie strade e godere della straordinaria atmosfera della città eterna. Aveva anche conosciuto persone interessanti, come quel professore universitario che insegnava cardiologia al Policlinico. Giovane e di piacevole aspetto, l’aveva subito colpita con il suo sguardo azzurro, severo e incuriosito. Ma oltre a una breve simpatia, Ella non aveva sentito di più per quell’uomo, né per altri in altre occasioni. Le sembrava che il suo cuore si fosse anestetizzato e non potesse provare più niente per nessuno, dopo che Mario se n’era andato per sempre, in quel modo così stupido e anche poco onorevole. Avrebbero dovuto sposarsi nel mese di maggio, quel mese, il mese delle rose che lei adorava. Invece era finito con l’auto in un dirupo, mentre tornava a casa, nella sua villa ad Arezzo, dopo aver bevuto qualche bicchiere di troppo a una festa di amici. Il profumo di quelle rose gialle con venature arancio era così inebriante e piacevole, che per un attimo si sentì felice, in perfetta armonia con il


20 mondo, in quella radiosa mattina. In mezzo a quel verde, in cui i cespugli delle rose emanavano il loro splendore, si ricordò del suo antico conterraneo Poliziano che aveva cantato un giardino come quello “quelle rose allora – mai non vi potrei dir quant’eran belle: quale scoppiava della boccia ancora; qual’eran un po’ passe e qual novelle” e il profumo della primavera, della giovinezza e della bellezza la consolavano dal suo dolore. Ella aveva ventiquattro anni e la sua bellezza era radiosa: capelli biondi inanellati da morbidi ricci, occhi verdi cangianti sull’azzurro, quando qualche pensiero triste faceva comparire due piccole rughe agli angoli della bocca piccola e carnosa. Era la figlia minore del Conte Costa, ed era colta e intelligente. Studiava arte e architettura, e non disdegnava la poesia in cui si esercitava come nella musica, con il pianoforte. Sapeva però che la sua vita era destinata al matrimonio con qualcuno che il padre avrebbe scelto per lei, magari per i suoi interessi economici o politici. Ella non era felice, pur non mancandole nulla. Mario, giovane rampollo di una dinastia aretina, andava bene anche a suo padre, ma ormai tutto era svanito nel nulla della sua morte. Sarebbe dovuta partire, avrebbe voluto fare un viaggio in Europa, nelle grandi capitali come Parigi, Londra o Vienna, ma i tempi che correvano non consigliavano di muoversi da casa. In effetti, già da luglio dell’anno prima, l’Austria aveva avanzato l’ipotesi di attaccare la Serbia, che nella guerra balcanica era in vantaggio rispetto alla Bulgaria. In Italia, alleata dell’Austria e della Germania nella triplice alleanza, non vedevano di buon occhio questa ipotesi, e il ministro San Giuliano aveva già fatto presente che, in caso di attacco alla Serbia, non essendo questa una guerra difensiva, l’Italia si sarebbe defilata dallo scendere in campo. Anche se poi, qualche mese dopo, sempre San Giuliano, nei confronti di un ultimatum dell’Austria alla Serbia perché questa si ritirasse dall’Albania Settentrionale, fece capire che se la Serbia attentava all’Albania, considerata creatura sia austriaca che italica, l’Italia si sarebbe schierata accanto all’Austria. Ella quindi, non aveva il consenso del padre ad allontanarsi dall’Italia e, consolandosi solo con le sue passioni per l’arte e la bellezza, aveva deciso di trasferirsi da Roma in Toscana, nella bella villa immersa nel verde. Salì la scalinata in travertino che portava all’ingresso principale della villa, portando una cesta di vimini dove aveva raccolto le rose recise del giardino, recando dietro di sé una scia di profumo intenso e delicato. Già


21 stava pensando a dove collocarle, ed entrando nel salone ebbe un attimo di esitazione perché non riusciva più a vedere nulla, arrivando dalla sfolgorante luce del sole alla penombra dell’interno. Poi, dopo qualche attimo, cominciò a vagare con lo sguardo alla ricerca di un vaso capiente, e di un posto ideale per le sue rose. L’ambiente era un ampio salone con due grandi finestre sormontate da tendaggi in damasco giallo e verde, da cui scendevano tende leggere e impalpabili color crema. Una parete, accostata alla quale troneggiava una grande e scura consolle in legno, su cui facevano bella mostra di sé due grandi piatti in ceramica di fattura rinascimentale, era anch’essa, al disopra dell’alto battiscopa, arredata con lo stesso damasco fiorito. Un tavolo da otto, in legno scuro con sedie in stile Thonet, aveva al centro un grande vaso in cristallo di Boemia senza alcun ornamento, liscio e puro, adatto a contenere i fiori. Ella chiamò la servetta addetta alle pulizie, e le ordinò di riempirlo di acqua fino a metà, poi sistemò le rose scegliendo i colori e le sfumature più consone all’ambiente. Soddisfatta della sua elegante composizione, si distese sulla chaise-longue che era al centro del salone, prese il libro di poesie che aveva lasciato prima della passeggiata e, mentre lo apriva, cercando di riprendere la lettura interrotta, pensò che avrebbe apprezzato un po’ di compagnia e che quella solitudine cominciava a pesarle. La mattina seguente Ella si svegliò con l’intenzione di fare una bella cavalcata nei possedimenti terrieri del padre, che si estendevano per molti ettari intorno alla villa e all’abitato, andando a incunearsi nei comuni limitrofi di Chianciano e anche di Chiusi. Uscì dalla sua stanza e andò subito in cucina per fare una colazione veloce; non se la sentiva di procedere al rituale mattutino della petit déjeuner con tutta la famiglia. Si accontentò di un buon caffè e di un frutto fresco e poi, subito alla scuderia per montare il suo bel baio Fred che lei amava tantissimo, ampiamente ricambiata. Dopo un iniziale tratto al passo, per permettere al cavallo di scaldare i muscoli e godere della sua voce – raccontava tutti i suoi pensieri e sensazioni a Fred – lo lanciò al galoppo e velocemente oltrepassarono i confini di Argiano, Cervognano fino ad arrivare, dopo aver superato la zona delle Tre Berte, al lago di Montepulciano. Era questo, insieme al non lontano lago di Chiusi, quello che restava della palude che nei secoli era venuta a formarsi nella valle di origine alluvionale, dopo che i


22 romani avevano costruito un muraglione, il Muro Grosso presso Fabro, per arrestare la foce del Paglia sul Tevere che secondo loro, nel periodo imperiale, provocava le frequenti alluvioni a Roma. Si dice infatti che fu lo stesso Nerone a far innalzare il Muro Grosso nel 65 d.C. Nel Medioevo, ormai la Valdichiana, a causa delle continue inondazioni del fiume Clanis, che non aveva più potuto scaricare le sue acque nel Paglia, aveva ormai formato una vastissima zona lacustre e stagnante che ben presto divenne una palude malsana, circondata però dalle colline su cui sorgevano gli antichi abitati fondati dagli Etruschi. Tutti i documenti del Medioevo, a partire dalla Commedia di Dante e del Rinascimento, ci parlano di questa palude di acque putride che causavano malaria e idropisia. Solo nel 1788 l’ingegnere Vittorio Fossombroni, con il sistema delle colmate, riuscì a bonificare la Valdichiana sotto l’egida del Granduca Leopoldo. Realizzando il Canale Maestro della Chiana, che ha ripreso quasi completamente l’antico corso del Clanis e grazie alle colmate che hanno consentito al territorio di alzarsi e di riversare le acque dei torrenti, che le avevano impantanate, nel Canale Maestro, convogliandole poi nell’Arno, Fossombroni riuscì a bonificare la palude e trasformare di nuovo il paesaggio. Rimasero però questi due specchi di acqua che dalle colline brillano al sole e fanno sì che gli abitanti di quei luoghi li chiamino poeticamente i “Chiari”. Ella era ormai arrivata al limite dell’acqua dove il canneto impediva di andare oltre, e l’erba pesce galleggiava per diversi metri oltre le canne, nell’acqua lacustre, cedendo a tratti al docile giunco. L’acqua, riverberando i raggi del sole, brillava scintillando e i germani variopinti che si alzavano in volo, la increspavano con onde leggere. Fred si stava abbeverando dopo la lunga corsa, ed Ella attese che esaurisse la sua sete per condurlo indietro, all’ombra dei pioppi, per farlo riposare. Smontò quindi dal cavallo e dopo averlo legato al tronco di un albero, cominciò a passeggiare lì vicino, godendo dell’armoniosa melodia dei cardellini e della vista dell’acqua che, come sempre, la rendeva appagata e in sintonia con la natura. Poi, con il sole ormai alto, Ella riprese la via del ritorno con molta più calma, osservando durante il tragitto i campi rigogliosi di grano che di lì a pochi giorni sarebbero stati mietuti, le vigne ormai verdeggianti per i larghi pampini, le case dei coloni che laboriosi accudivano le belle bianche vacche chianine, e pensava che era anche grazie al loro lavoro che lei poteva permettersi un amico come Fred, e non solo. Una donna le venne incontro, salutandola. «Buongiorno contessina Ella!


23 Come va? Ha bisogno di qualcosa?» «No, grazie Teresa, buongiorno a te. Quando vieni alla villa a trovarci? Mi raccomando porta i biscotti che buoni come i tuoi non li fa nessuno, neanche la nuova cuoca che pure è brava.» «Eh, signorina, appena avrò un po’ di tempo, promesso, ma fra poco ci sarà la mietitura e mi sa che dovrà accontentarsi di quelli della cuoca.» «Va bene Teresa, sai che sono un poco viziata, perdonami, vuol dire che te lo farò io un regalo. A presto!» Ella pensava che quei contadini, fra i quali era cresciuta, erano come la sua famiglia. Li conosceva tutti, dai più anziani ai bambini, ed era sicura che tutti le volessero bene. Tornò a casa e dopo aver consegnato Fred allo stalliere – raccomandandogli di foraggiarlo bene, perché aveva fatto una bella corsa – si recò subito a fare un bagno e a cambiarsi per il pranzo che sarebbe stato di lì a breve. *** Anna aveva accettato il lavoro alla villa, e già da una settimana aveva iniziato. Partiva presto al mattino, prima delle sei, perché doveva andare a piedi fino a S. Albino dove avrebbe iniziato con il preparare la colazione per i padroni. Prima di uscire di casa doveva anche preparare qualcosa per le bambine che poi avrebbe portato a sua sorella. Doveva svegliarle, lavarle e vestirle. Ma non riusciva a farle mangiare perché ancora assonnate non volevano. Quindi le portava da Mena con tanto di colazione già pronta: qualche biscotto fatto in casa e una bottiglia di latte. Poi, di buona lena, s’incamminava passando per la Piazza, la porta del paese e prima in discesa e poi, dopo aver affrontato una bella salita, si ritrovava ai Castagneti, da lì, velocemente, raggiungeva la villa. Tutte le mattine e la sera passava in fondo alla strada che portava al cimitero, e non c’era una volta che non le venisse da piangere al pensiero del suo Gigi. Non era facile il suo lavoro, doveva accontentare i signori come cuoca, e certamente organizzare la dispensa, stare attenta agli altri servitori che gravitavano nella cucina della villa come i camerieri e i facchini, soprattutto che non si approfittassero del ben di Dio che c’era lì, che ci sarebbe andata lei di mezzo se fosse mancato qualcosa. Le chiavi della dispensa le teneva sempre nella tasca del grembiule e, a fine giornata, le consegnava alla signora. Aveva già instaurato un buon rapporto con i suoi compagni di lavoro e anche con i padroni, ma la sua indole e


24 soprattutto la sua razionalità le dicevano di essere sempre guardinga e non fidarsi mai troppo di nessuno. Però le piaceva quel lavoro e s’impegnava soprattutto in cucina a fare figura con le ricette che preparava scrupolosamente, dapprima attenendosi ai consigli riportati da Artusi nel suo ricettario, che era veramente un piacere leggere perché, secondo lei, non era un semplice libro di cucina, ma insegnava tante cose anche sulle materie prime da utilizzare e poi, la narrazione sembrava appartenere più alla letteratura che all’economia domestica. Le sarebbe piaciuto tanto studiare, e comunque il fatto di saper leggere e scrivere la inorgogliva, perché non erano certo tanti quelli nelle sue condizioni che potevano vantarsi di saperlo fare. Adesso che era rimasta sola e non aveva più tempo per certe cose, le mancava molto non poter leggere i romanzi che le piacevano tanto. Aveva letto diversi libri come “I Miserabili” e anche “Il conte di Montecristo”, ma quello più bello di tutti per lei era stato “Anna Karenina”, e pensare che lo aveva comprato perché la protagonista si chiamava come lei, anche se le similitudini fra di loro si limitavano al solo nome. Una era bellissima, lei… bruttina; una era ricca, lei una poveraccia; una si lasciava vincere dalla passione per l’amante e abbandonava il figlio, lei invece le sue bambine non le avrebbe mai lasciate, erano tutta la sua vita. Pensava a tante cose mentre trafficava con i tegami e girava lo spiedo nel camino della grande cucina della villa, e così le ore passavano veloci e la sera, verso l’imbrunire se ne tornava a casa a piedi ripercorrendo il tragitto fatto al mattino. Quella sera, però, non capiva come mai ci fosse tanto trambusto alla villa. Era venuta anche Matelda, la cameriera della padrona, a domandarle se avesse visto la signorina Ella, se per caso era passata dalla cucina a chiedere qualcosa. Ma lei non l’aveva proprio né vista, né sentita. Era tardi e la cena per i padroni quasi pronta, ma Carla e Marcella, le cameriere di sala, ancora non si vedevano per impiattare e servire. Continuò a rassettare un poco, e a finire di lavare i tegami che ormai non le servivano più, poi si decise a salire di sopra per vedere cosa stesse accadendo. Incontrò nella sala deserta Carlina, che non sapeva cosa fare e girava intorno al tavolo apparecchiato, con gli occhi stralunati e una cantilena appena sussurrata che diceva: “Oddio, oddio, che sarà successo, povera signorina, dove sarà, magari è caduta… chissà, c’è la gora!”.


25 Anna avvertiva l’aria di disgrazia, come quando era successo a Gigi, ma lui era un poveretto! “Le disgrazie in genere succedono a quelli come noi”, si diceva. “Ai signori è difficile, vedrai che fra poco tutto tornerà come prima”. Poi uscì nel giardino e trovò la signora seduta sulla panchina di ghisa, sola, che piangeva. Non sembrava più nemmeno lei, sempre così altera e sicura di sé. In quel momento, se non fosse stato per il vestito, l’avrebbe presa per una di loro. Annina le si avvicinò. «Signora che fa qui da sola? Prenderà freddo! Venga, la accompagno dentro, le porto qualcosa di caldo… un brodino, un tè…» «No, no grazie… non voglio niente… sono andati tutti a cercarla qui intorno, ormai è buio. Cosa sarà successo? Povera figlia mia!» «Ma niente, niente, cosa vuole sia successo! Magari si è addentrata nel bosco a cercar fiori… sa quanto li ama… e ora non ritrova la strada, si sarà smarrita. Vedrà che gli uomini la troveranno subito e fra pochino sarà qui fra le sue braccia… Non abbia paura, bisogna sempre sperare per il meglio e magari preghiamo la Madonna che la aiuti, che ci aiuti.» «È vero… meglio dire un rosario.» «Sì, ma venga dentro, c’è anche Carla, lo diciamo in tre.» La condusse alla sua poltrona e tirò fuori dalla tasca del grembiule il rosario che teneva sempre lì. Anna cominciò a pregare con la signora e l’ultima delle servette. Avevano cominciato a cercare dal bosco proprio sopra la villa, d’altronde dove poteva essere andata se non lì vicino, era anche con le scarpette di casa, certamente non adatte per boschi. Strano che si fosse allontanata senza avvertire nessuno! Il Conte aveva imbracciato il suo fucile da caccia nuovo, quello più moderno che aveva acquistato a Roma proprio qualche mese prima, aveva con sé i cani e i suoi coloni si erano dislocati un po’ dovunque; tutti i viottoli del bosco, non solo i sentieri, erano battuti. Nella fredda notte – ormai era passata da un bel po’ la mezzanotte – si udiva un rimestare di foglie calpestate, di sterpi stroncati, di abbaiare di cani e voci che si alternavano, come in un’antifona più forti, meno forti, chiamando il nome della giovane. «Signor Conte… signor Conte! Venga, corra!» Merchetti, un giovanottone di circa vent’anni, non si era lasciato sfuggire, passando accanto a un roveto, un pezzetto di stoffa di seta rosa che si vedeva appena, attaccato a una spina. Il Conte osservava il tessuto con un misto di speranza e paura. «È stata qui, è passata di qui sicuro! Questo è un brandello del vestito che aveva


26 indosso… Come hai fatto a vederlo con questo buio?» «Eh, sor Conte, io sono abituato… vado a caccia e siccome il giorno lavoro ci vo’ di notte, e i miei occhi sono diventati come quelli dei gatti.» «Bravo, bravo… mi sento meglio. Così so che è stata qui, che è passata di qui… fra poco vedrete che la troviamo. Chissà, si sarà stancata e si è addormentata da qualche parte.» «Sì… Sì…» Tutti cercavano di sostenere la tesi del padrone per tirarlo su di morale e per condiscendenza codina; qualcuno però i suoi dubbi ce li aveva, ma li teneva ben chiusi nella sua testa. C’era chi pensava che era un poco lontanino dalla villa quel posto, per una che era uscita solo a coglier fiori. Qualche altro pensava che aveva sentito parlare di zingari che si aggiravano per il paese, giorni fa… quella era gentaccia, capace di tutto. Poi, chissà perché, a qualcuno era anche venuto in mente che il signor Conte aveva tanti soldi e chissà, magari avevano fatto gola a qualche delinquente che, rapendo la figlia, ne avrebbe tratto un gran guadagno con il riscatto. Ma tutti comunque si auguravano con il cuore di ritrovarla presto, e soprattutto in salute perché era una signorina tanto gentile, buona d’animo, che voleva bene a tutti loro che conosceva fin da bambina e non era altezzosa e presuntuosa come le figlie del notabile Bastogi. Ma la ricerca si stava protraendo e ancora di Ella, a parte il brandello di vestito, nessuna traccia. Il fattore Domenico, uomo assai stimato dal padrone, gli si avvicinò e gli disse: «Sor Conte, io direi che è troppo tardi, gli uomini sono stanchi, dopo una giornata di lavoro in campagna… sa com’è, non ce la fanno più, ormai girano a vuoto, non vedono più niente…» «Che vorresti dire? Di andar via? Di lasciar perdere? Oh, c’è la mia bambina qui in questo boscaccio… che vuoi, che vada a dormire come se niente fosse, ma sei diventato matto per caso?» «No, per carità, non si arrabbi, sor Conte, volevo solo dire una cosa, siccome siamo vicini ai Frati Cappuccini, chissà se non ha trovato rifugio lì. Manca poco all’alba, un’oretta o due, mandiamo i coloni a riposarsi un poco e noi due andiamo dai frati, tanto quelli stanno svegli anche a notte fonda a pregare, e ce lo diranno subito quello che vogliamo sapere. Speriamo… magari è lì, e se non c’è si riprende subito a cercarla e almeno i ragazzi saranno più svegli.» Il Conte rimuginava mille pensieri e, con l’idea dei frati, che non gli era venuta in mente, pensando e sperando di trovarla al convento, assentì e mandò a casa i coloni.


27 Ancora mancavano due o tre chilometri per arrivare al convento della Maddalena. La strada s’inerpicava per una collina piuttosto alta, fitta di boscaglia, castagni, querce e lecci, che dominava l’abitato del villaggio, e s’imponeva anche sulla zona delle sorgenti termali di Chianciano. Quel convento era molto antico, pare che da lì fosse iniziata in Toscana la diffusione della riforma francescana che era nata nel 1520 a opera del francescano Matteo Da Bascio il quale chissà, forse rifacendosi anche allo spirito di rinnovamento che soffiava contro l’istituzione ecclesiastica fin dalle algide pianure tedesche con Lutero, sentì nel suo animo di dover ripercorrere la strada del Pastor Comunitatis, andando contro la fiacchezza dei costumi e la licenziosità; per non parlare del desiderio di potere, che a distanza di quasi tre secoli, ormai aveva minato alle basi la Sacra Regola del Santo. Matteo, subito osteggiato dai superiori, dovette far perdere le sue tracce e trovò rifugio presso i Camaldolesi, che lo aiutarono. In segno di riconoscenza, i frati mendicanti adottarono il cappuccio indossato da quell’ordine, e il fatto di portare la barba, tutti segni dell’eremitaggio. Il Convento fu confiscato dai Francesi e soppresso poi dal Governo Italiano nel 1867, ma qualche anno dopo fu riscattato e fu benedetta di nuovo la chiesa dedicata a Maria Maddalena. Il Conte aveva buoni rapporti con i frati, e spesso la domenica si recava con la sua famiglia alla Messa, e offriva oboli sostanziosi; si aspettava quindi un aiuto concreto. Certo se Ella avesse chiesto aiuto a loro, l’avrebbero di sicuro accolta anche se era una Eva tentatrice per tanti giovani novizi! Il Conte e Menico s’inerpicavano su per i viottoli dei Cappuccini, e cercavano di rovistare in mezzo agli sterpi e alle foglie del bosco, in cerca di altre tracce della fanciulla. Il freddo si faceva sentire anche se era primavera, ancora l’escursione termica fra giorno e notte era notevole, e loro erano scappati a cercar la ragazza senza pensare all’abbigliamento, senza prendersi qualcosa per ripararsi di notte. Ma ormai erano quasi arrivati, e s’intravedeva la strada bianca che portava all’ingresso. C’era un cipresso antico alto, al lato del bosco, dove cominciava la strada, e dall’altra parte, un muro con la cimasa in pietra, che delimitava la proprietà del Convento. Circa cinquanta metri di strada, e già si sentivano le voci dei frati che cantavano i salmi del Mattutino. Erano in chiesa; meglio, pensò il Conte, erano svegli e li avrebbero sentiti subito, anche se cantavano si sarebbero accorti dei colpi


28 battuti con grande impeto alla porta di legno antico. E così fu. Un frate abbastanza giovane, con la barba nera e folta, venne subito ad aprirgli con una espressione fra lo sbigottito e il curioso, ma lo riconobbe subito. «Signor Conte, cosa succede? Che ci fate qui a quest’ora? Entrate.» Il Conte, che fino ad allora aveva dissimulato la sua angoscia con la riottosità e il nervosismo che lo contraddistinguevano nei momenti più critici, a quel punto, dovendo spiegare, seppur sommariamente, l’accaduto, cominciò a far luccicare i suoi occhi, gonfi di lacrime, e a parlare con una voce rauca, rotta dal dispiacere più profondo. «È scomparsa mia figlia, già dal pomeriggio di oggi, non si trova da nessuna parte. Ditemi che è qui, per favore, che ha cercato rifugio qui da voi» gli mostrò il lembo del vestito trovato nel bosco. «Abbiamo trovato un brandello della sua veste all’inizio del bosco, giù a valle, e ho pensato che si fosse persa e avesse cercato aiuto da voi, qui al convento.» Il frate era scosso. «Mi dispiace, non l’abbiamo vista. Ma com’è possibile! Ci sarà un motivo per cui si è allontanata da casa senza informarvi. Magari è da qualche amica. Magari saranno passati i suoi amici con la carrozza per fare un giro e non ha pensato ad avvisarvi.» «No, no, se non è qui, come avevo sperato tanto, comincio veramente a pensare male.» «Mai perdere la speranza… pregheremo che non sia accaduto niente e io, se volete, verrò con voi a cercarla.» Intanto gli altri frati avevano interrotto la litania e, tutti intorno al Conte, cercavano di fargli animo e incoraggiarlo a non perdere la speranza, Dio ci avrebbe pensato, loro avrebbero pregato, tutto si sarebbe risolto. «Macché, macché» diceva il Conte, che nel frattempo aveva ripreso il suo solito burbero contegno «macché Dio e preghiere, qui bisogna subito affrontare la faccenda… devo andare dai gendarmi, devo farmi aiutare da qualcuno… che dovete fare voi frati, semmai fatemi sapere se la gente parla, se c’erano segreti riguardo a mia figlia, se lei, in confessione, vi ha mai detto qualcosa… non si sa mai… qualche conoscenza. Addio. Andiamo Domenico. C’è tanto da fare.»


29

EMILIA ROMAGNA, GIUGNO 1914

Attilio Attilio aveva già rinunciato a tante cose, anche se aveva appena ventiquattro anni, e non aveva certo intenzione di rinunciare a quella più preziosa per lui. La sua vita era stata felice durante l’infanzia, in una famiglia borghese e benestante, in un ambiente conciliante, con amici cari e tanta bellezza intorno a sé. Era nato e cresciuto a Nuoro, e la fortuna di vivere in una natura meravigliosa, ricca di fascino, aveva accresciuto la sua indole piena di aspirazioni al bene per il mondo intero. Lo studio e la sensibilità lo avevano presto indirizzato verso un ideale di fratellanza e uguaglianza fra i popoli, e un accorato desiderio di aiuto nei confronti dei più deboli e degli emarginati. Inoltre, l’amore per l’arte in generale e la poesia in particolare, avevano esaltato la nobiltà del suo animo. Si era presto unito ad amici che lo avevano reclutato fra le file dell’anarchismo rivoluzionario e lui, come era solito, aveva dato tutto se stesso a quell’ideale. Di contro, era cominciato un periodo difficile, la tranquillità della sua esistenza precedente adesso doveva fare i conti con la sua nuova scelta di vita. Andare contro l’autorità costituita, mettersi nel gioco politico dalla parte dei più deboli, scegliere e partecipare ad azioni dimostrative osteggiate dalla maggioranza e dichiarate criminali – il tutto affrontato con coraggio indomito, fede, e nessuna possibilità di rinuncia – lo stavano portando però a una vera e propria crisi che non era certo identitaria, ma esistenziale. Non ce la faceva più a pensare solo al sindacato di cui era stato il maggior artefice e alla politica. Il suo animo gentile era profondamente ancorato al Romanticismo, alla poesia, alla letteratura in generale, e non solo quella patriottica, che gli suscitavano nel profondo un senso di rammarico quando pensava di aver sprecato i suoi anni migliori senza l’amore. Il ricordo di quella fanciulla conosciuta a Roma qualche mese prima, più e più volte ritornava alla sua mente, anche nei momenti cruciali delle riunioni e delle decisioni da prendere. Lo assaliva all’improvviso, quando meno se lo aspettava e lo stordiva, trasportandolo in un mondo diverso, non più carico di rabbia e di attivismo, ma denso di pace e certamente per questo, impossibile a realizzarsi.


30 D’altronde cosa andava a pensare, lei non lo conosceva neppure, appena una veloce presentazione da parte di un amico a una festa di compleanno; un saluto fugace, un inchino e una serata intera a cercare quegli occhi azzurri che non avevano più incrociato il suo sguardo. Appena un giorno prima aveva incontrato Daniele, l’amico che a Roma lo aveva portato alla festa e gli aveva chiesto se avesse più visto quella bella ragazza che gli aveva presentato. «Che fai Attilio, ci ripensi ora? A distanza di mesi? Se ti interessava tanto dovevi darti da fare quella sera, era l’occasione buona! Ora dove vai a ripescarla! Dai un ci pensare più, abbiamo cose ben più importanti da fare, altro che innamorarsi.» Daniele, da buon toscano, lo aveva subito mollato con poche parole, e a lui non era rimasto altro che lasciar perdere. «Hai ragione, dobbiamo ancora organizzare per Ancona. Ci ritroveremo lì fra meno di una settimana e i nostri amici sono al lavoro da giorni perché tutto possa procedere per il meglio. Dobbiamo dimostrare al popolo che non siamo come ci dipingono; i giornali schierati con il potere sono sempre contro di noi, per non parlare delle forze dell’ordine. Secondo loro siamo banditi, criminali. C’è ancora troppa ignoranza nel nostro Paese e noi ci batteremo sempre perché l’analfabetismo venga sconfitto e il popolo faccia finalmente valere la sua voce.» Ritornato a casa, Attilio si mise subito a scrivere un telegramma a Malatesta. Avevano deciso d’incontrarsi a Bologna di lì a due giorni e voleva comunicargli l’indirizzo dove si sarebbero potuti incontrare. Era una casa in via Polese, vicino alla stazione Centrale e a viale dei Mille. Ci abitava il compagno Andrea con Silvia, la sua donna, e avevano anche una bambina di pochi mesi. Andrea e Attilio erano amici fin da giovanissimi e, pur appartenendo a due famiglie di diverso status sociale, si volevano bene come fratelli. Per la verità, Attilio aveva avuto una certa simpatia per Silvia, ed era stato proprio lui a presentarla ad Andrea, quando ancora frequentava il liceo e Andrea invece già lavorava in una delle varie aziende di ceramica della zona del forlivese. Appena la vide, Andrea, s’innamorò subito di quella graziosa brunetta, piccola di statura, ma tutto pepe. E Attilio, che considerava Silvia più che altro un’amica, si fece subito da parte per lasciar campo libero all’amico fraterno. La famiglia di Attilio si era trasferita a Forlì quando lui aveva appena nove anni. Gli interessi paterni lo avevano costretto a lasciare l’isola che tanto amava, ma era stato proprio l’ambiente vivace intellettualmente e ricco economicamente della nuova città che lo avevano stimolato a interessarsi agli altri e a dedicarsi con tutto se stesso alla politica.


31 Entrando poi in contatto con i lavoratori, gli operai e anche i contadini della zona, aveva elaborato le sue idee cercando di attualizzarle praticamente, e aveva organizzato un sindacato che, attraverso la rappresentanza, voleva trattare con i padroni su tanti aspetti del mondo del lavoro: non solo il salario, ma anche l’orario, la giusta remunerazione dello straordinario, la cassa malattia e la sicurezza nel posto di lavoro. Erano idee che sembravano a tutti un’utopia, anche a chi combatteva in prima linea insieme a lui. Troppo potenti erano ancora i potenti e troppo deboli, i deboli. “Caro Enrico, ci troveremo fra due giorni in via Polese, al 33. Porta quello che sai. A presto. Attilio”. Doveva ancora organizzare il bagaglio e comprare il biglietto del treno. Oramai era deciso, una grande manifestazione si sarebbe tenuta ad Ancona il 7 di giugno per festeggiare lo Statuto Abertino. Un’ottima occasione per dimostrare all’Italia che qualcosa si stava muovendo. Si erano messi d’accordo repubblicani, socialisti e anarchici, per confrontarsi e darsi una linea guida per l’insurrezione; erano convinti che ormai i tempi fossero maturi e propizi per tentare la rivoluzione. Tutto sarebbe partito dalla contestazione ai militari, dalla richiesta di scarcerazione di Augusto Masetti che, a distanza di tre anni dall’arresto, ancora era incarcerato. Tre anni prima infatti, Masetti che era un anarchico convinto, a Bologna nella caserma Cialdini, in attesa di partire soldato per la guerra di Libia, da fervente antimilitarista che si nutriva delle idee propagandate dal foglio anarchico-liberale “Rompete le file!”, aveva sparato un colpo di fucile contro un colonnello, ferendolo a una spalla. Ci sarebbe stata la corte marziale per lui, con tanto di fucilazione alla schiena, ma trovatogli un volantino durante la perquisizione, di stampo antimilitarista che invitava i soldati a colpire bersagli diversi da quelli indicati dagli ufficiali e, interrogatolo, si professò anarchico e rivoluzionario e, per non farne un martire che già ce ne erano troppi, fu fatto passare per matto e degenerato e venne rinchiuso in un manicomio criminale. Il suo gesto era stato invece reputato audace ed eroico dai gruppi anarchici che consideravano la guerra in Libia inutile, voluta dalla monarchia e dalla borghesia. Ormai le masse si stavano svegliando e i concetti di egualitarismo, diritti civili e sociali, stavano prendendo ossigeno dai gruppi che si erano formati; la scintilla rivoluzionaria aveva dato origine a un fuoco che bruciava non più sotto la cenere, ma voleva divampare con tutta la sua veemenza.


32 Attilio era partito con qualche giorno di anticipo rispetto all’appuntamento di Ancona, perché doveva vedersi con Malatesta a Bologna; inoltre sapeva che proprio a Bologna in quei giorni si sarebbe tenuto un comizio del Partito Socialista contro la guerra e voleva esserci. Il treno sbuffava e sferragliava. Era solo nei sedili di legno e pensava ad Andrea e Silvia, che lo aspettavano con ansia per raccontargli tutti gli ultimi avvenimenti. Certo erano proprio dei bravi ragazzi e si volevano molto bene. Non era invidioso del loro amore, ma il pensiero di essere ancora solo, senza una famiglia sua, lo faceva soffrire. Arrivato alla stazione scese dal treno, e una folla composita, in un primo momento, lo disorientò. Dopo un viaggio in solitaria durato circa un’ora, la città lo accolse con il suo vociare e con il variegato mondo che la contraddistingue. A Bologna ci sarebbero state, di lì a poco, le elezioni per il sindaco e lì si stava organizzando anche la Confederazione dei Lavoratori. Il candidato per i socialisti era Zanardi. I repubblicani, che ancora erano sicuri di poter far valere i valori risorgimentali di Mazzini e i Socialisti, che avevano fatto fuori dalle loro fila la Massoneria e loro, gli Anarchici, in quella città trovavano un humus fecondo, anche se in verità la città era aperta a tutte le idee comprese quelle bizzarre, per così dire, di Filippo Tommaso Marinetti, che proprio pochi mesi prima aveva tanto fatto parlar di sé con uno spettacolo futurista. I bolognesi erano curiosi di assistere a un tale avvenimento, e in città si era creato un notevole clima di aspettativa. “Con Marinetti era arrivato tutto il suo stato maggiore”, come scrisse Alessandro Cervellati: “Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Balilla Pratella, Luigi Russolo ecc, che furono poi seguiti da artisti ‘nostrani’, tra i quali Giorgio Morandi, Severo Pozzati e altri. La prima tappa della giornata fu l’Università. Nell’aula di antropologia il prof. Galletti stava tenendo una prolusione; Marinetti prese la parola e fece l’elogio dell’ignoranza, affermando che la cultura è in sé dannosa. Molti tra i presenti applaudirono, altri si espressero con dissenso e… pernacchie! La sera, al Teatro del Corso (sede della manifestazione) si aggiravano facinorosi e benpensanti: entrambe le ‘fazioni’ erano munite di verdure e frutti fradici e ammuffiti. Marinetti entrò in scena per declamare, tra gli altri, il ‘Bombardamento di Adrianopoli’, ma – ahimè – iniziò quello delle derrate. Gli spettatori si prendevano a pugni urlando a loro volta come pazzi; sul palco volò perfino una ‘ciambella’ da gabinetto! Il duce del futurismo, insieme a Boccioni, Carrà, Pratella e Russolo tentò più volte di rientrare sul palco per enunciare il suo programma politico


33 anticlericale e antisocialista, ma gli insulti li ricoprirono. La serata non era ancora finita; dal Teatro i futuristi si diressero al Caffè San Pietro di via Indipendenza. Marinetti e Boccioni furono i più coinvolti nella gigantesca cazzottatura che seguì poco dopo il loro ingresso. Un cronista scrisse: ‘Agile come un leopardo, il Marinetti, parato il colpo, ne vibrò uno e poi un altro… che purtroppo non furono parati’. Anche qui volarono seggiole e tavoli, si fracassarono bicchieri e piatti, si ruppero lampade e lampadari, finché, da veri signori, i futuristi decisero di pagare il conto dei danni e di uscire. Il direttore del Caffè, invece, non volle denari; rispose di ‘non pretendere nulla da chi si era giustamente e legittimamente difeso’. Il giorno dopo tornarono all’Università per scontrarsi questa volta con gli studenti. Boccioni e Carrà affermarono che Corrado Ricci era una vergogna per l’Italia; che Thovez, Ojetti e altri erano mummie, microcefali idioti degni di un’Italia ‘paese di castrati’ Tutto questo era accaduto a gennaio e questa volta gli scontri si erano svolti nel cortile e non nelle aule: quale migliore occasione per raccogliere la neve da terra e per farne palle-proiettili con cui bersagliare gli avversari? I futuristi, infervorati, minacciarono poi di dirigersi verso l’Accademia di Belle Arti per distruggere i modelli in gesso delle statue greche. Fortunatamente, non lo fecero…”. Insomma, questo era il clima che si respirava in quegli anni in una città che sarebbe sempre stata all’avanguardia delle istanze sociali e civili. Finalmente, un abbraccio caloroso accolse Attilio. Era arrivato infatti in Piazza Umberto I e lì, vicino alla bella fontana circolare, aveva trovato Andrea ad attenderlo. Lo condusse subito in un caffè per la colazione. Sapeva che era partito all’alba da Forlì, e certamente non aveva ancora mangiato nulla. Presero un caffellatte con una brioche alla crema, e dopo si accesero un sigaro, uscendo nell’aria della città, che cominciava a farsi afosa.


34

TOSCANA, GIUGNO 1914

Anna non era tornata a casa quella sera; con la situazione che si era venuta a creare non era proprio il caso. Era tranquilla per le figlie, che sapeva dalla sorella e si addolorava, come gli altri del resto, per la sparizione della signorina Ella. L’aveva vista diversa negli ultimi giorni: pensierosa, triste e, in cuor suo, aveva pensato che non le sembrava giusto che una ragazza fortunata come quella, non fosse felice e non ringraziasse Dio ogni momento o la sua buona sorte. Adesso che ci pensava, ricordava anche di aver notato un forestiero, quella mattina, che si aggirava per il villaggio. Era vicino alla chiesetta quando Anna si era recata dal macellaio a prendere un pezzo di carne che le mancava per fare il brodo per la cena. Era un giovane alto e con i capelli neri e lunghi baffi arricciati, come andavano di moda. Vestito in modo elegante, anche se si vedeva che quegli abiti non erano nuovi, anzi un poco lisi e lustri nei gomiti e nelle ginocchia. Sembrava uno di quegli studenti squattrinati che girano per le città… ne aveva visti diverse volte a Roma. Il suo aspetto però l’aveva colpita, soprattutto per lo sguardo che ad Anna era sembrato fra lo stralunato e il fosco. Non era uno sguardo limpido, piuttosto, avrebbe detto, uno sguardo da folle o da esaltato. Mentre ripensava a questo, e nel frattempo si recava verso la camera della padrona, dove l’aveva accompagnata appena prima dell’alba ed era riuscita a farla distendere sotto le coperte, Anna sentì la voce del padrone che arrivava con Menico e che sbraitava, ma non riusciva a capire di preciso cosa dicesse. Mentre apriva la porta, la signora che si era svegliata al vociare forte del marito, quasi le si buttò addosso dalla disperazione più nera, nel ricordare l’accaduto della sera prima. «Per piacere Anna, dammi subito la vestaglia, è tornato il padrone. Aiutami a mettere qualcosa, le pantofole, presto. Non l’hanno trovata. Oddio, no… altrimenti sarebbe già qui, ad abbracciarmi, la mia Ella. Presto, presto.» «Signora sì, certo, la aiuto. Stia tranquilla e scenda con calma le scale. Attenta, non cada, per carità…» «Sì, sì… Antonio arrivo, aspetta, dimmi… Oddio, credo che morirò, il mio cuore non regge.» Era arrivata quasi caracollando sulla poltrona, e si teneva il petto con le


35 mani, ansimando, scarmigliata e in ciabatte. “Chi l’avrebbe mai detto”, pensava Anna, mentre anche lei pendeva dalle labbra del padrone per conoscere le ultime nuove. «Niente, cara, niente… non si trova. Ma tu fatti coraggio. Ho parlato con le guardie, il comandante a Montepulciano mi ha detto che avrei dovuto avvisarlo subito, ma sono già al lavoro e arriveranno anche altri carabinieri dai paesi vicini, stai tranquilla, la troveremo. Bisogna che mi distenda un poco e mangi qualcosa e così Menico, poi torneremo subito dagli altri. Stanotte siamo stati fin dai frati, ma niente, non l’abbiamo trovata, ma c’è speranza, non sono passate neppure ventiquattro ore e anzi che ci stanno già aiutando i carabinieri… non si considera ancora scomparsa… dicono che potrebbe essersi allontanata volontariamente senza avvisarci, per un motivo qualsiasi.» «Ma come? Cosa dici? Senza avvisarci e perché? Che c’entra! No, no, le è successo qualcosa.» «Dio ce ne guardi, Elvira» poi si rivolse ad Anna. «Anna per piacere, apparecchia qualcosa da mangiare in cucina e poi io e Menico andremo un’oretta a distendere le gambe.» Anna, mentre preparava qualcosa di caldo, continuava dentro di sé a pensare a quel tizio del giorno prima, non sapeva come, ma qualcosa le consigliava di parlarne con il Conte; e così, mentre Menico e il padrone cominciavano a sorbire un poco di minestra calda, lei si avvicinò e disse: «Signor Conte, mi perdoni se mi permetto di dirle qualcosa che probabilmente non c’entra nulla con quello che sta accadendo, ma mi sento in dovere di farlo.» «Che c’è Anna, dimmi. Sai forse qualcosa della signorina che noi non sappiamo?» «No, no, signor Conte. La signorina Ella… non è di lei che volevo parlare, ma di una cosa che mi è capitata ieri mattina, mentre andavo in macelleria. Ho visto un forestiero che non avevo mai visto e poi, siccome mi ha incuriosito, ho chiesto anche al macellaio chi fosse, ma anche lui non lo conosceva.» «Pensi che abbia a che fare con la scomparsa di Ella? Com’era questo individuo? Un damerino? Un possibile corteggiatore della mia figliola?» «No, no, signore, non credo proprio. Mi è sembrato piuttosto male in arnese, giovane sì, e neanche brutto per la verità, ma certamente non il tipo di corteggiatore per una signorina come sua figlia. Quello che mi spaventa però, ecco perché mi è sembrato giusto raccontarglielo, è l’aspetto che aveva. Un tipo un poco losco, che si guardava intorno come se lo seguisse qualcuno, con un’aria stralunata e lo sguardo


36 febbricitante.» «Anna, grazie, hai fatto bene a dirmelo, non si sa mai. Lo dirò alle guardie, ma ora devo riposare un poco.» «Era mio dovere, signore. Vado a preparare la stanza da letto.» «No, no, lascia stare, stai vicino alla signora, occupati di lei. Sei una donna in gamba, la lascio nelle tue mani.» «Grazie signore. Ma appena potrò, dovrò tornare a casa ad avvisare i miei, non sanno niente di quel che è successo e non sono rientrata stanotte.» «Certo, cerca di far dormire mia moglie e poi torna dalle tue figlie, ma mi raccomando torna il prima possibile, e stanotte vedi di poter restare qui.» «Va bene, signore, spero di poterla accontentare. Ora la cosa più importante è ritrovare la signorina Ella.» Anna riuscì a far prendere alcune gocce di Belladonna in un poco di tè a Elvira e quindi, dopo averla aiutata a mettersi a letto e dopo aver atteso che si addormentasse, se ne andò verso casa. Giunta alle Crugnole, una località ricca di boschi, non molto lontana dalla villa, si accorse del via vai di carabinieri e anche contadini della zona che passavano al setaccio tutti i sentieri, che chiamavano a gran voce e cercavano in ogni luogo. Le prese un gran sconforto al pensiero di quella giovane così indifesa e di quello che poteva esserle accaduto. Rivedeva gli occhi strani di quel forestiero e sperava che non avesse a che fare con l’accaduto. Arrivata alla Porta Rivellini, incontrò il dottor Cesaroni che, con il suo bastone, scendeva verso Viale Dante. «Anna, vieni dalla villa dei Costa, immagino. Ma dimmi, è vero quello che si dice in giro, che è sparita Ella?» «Sì, purtroppo è vero. Non sembra possibile, ma è così. Il sor Conte sembra impazzito, non sa dove cercarla. Ha allertato tutti, ma ancora non si sa niente. L’unica cosa positiva è che non sembra una disgrazia, nel senso che non si è trovata morta. Ma speriamo di sapere qualcosa al più presto.» «Farò in modo di andare al più presto a prestare il mio aiuto.» «Grazie sor Cesaroni, ora vado dai miei… non sanno niente.» «Vedrai che sanno già tutto. Non si parla d’altro in paese. A presto Anna.» «Arrivederci.» Arrivata al borgo, Anna salì di corsa le scale ripide di casa di Mena, e subito le andò incontro Fernanda: «Mamma non sei venuta ieri sera, ti


37 aspettavo. Mi hai portato un dolcino?» «No, carina, non ce l’ho. Te lo porto domani, va bene? Dov’è la nonna Mena?» «Nonna Mena è alla bottega a fa’ la spesa, e mi ha detto di guardare la sorellina insieme a Gosta.» «Ho capito, va bene dai, vieni con me e andiamo a cercarla. Sei sicura che Gosta è con la sorellina?» «Sì, sì, chiamala se un ci credi!» «Ci credo, ci credo. Andiamo.» Nella botteghina in via Solferino si poteva trovare un po’ di tutto. C’era uno scaffale con cassetti pieni di pasta secca, farina, legumi di tutti i generi, sale, zucchero e in ogni cassetto un mestolo di legno che serviva per prendere la merce e posarla sulla bilancia per il peso. Potevi trovare anche verdura fresca e patate, cipolle, aglio, ma la gente in genere, la verdura preferiva comprarla al mattino al mercato delle erbe, dove era più fresca e costava anche meno. Il mercato si trovava sotto il Monastero al Borgo Nuovo; si scendeva una scala di terra battuta con qualche pietrone per reggerla e tanta erba che cresceva nelle fessure delle pietre. Quando si arrivava, era una delizia di profumi e colori, soprattutto nelle mattine estive fresche e luminose. Diversi contadini e gli ortolani del contado portavano lì le loro primizie; d’estate pomodori, insalate di tutti i tipi dalla valeriana alla barba dei cappuccini, melanzane e peperoni, e poi ciliegie, susine, fichi; d’inverno c’erano cavolfiori, polezze, zucca gialla, mele e in autunno castagne e funghi che andavano a cercare nei boschi. C’era tanta gente e il vociare in quella piazzetta, con la bella cadenza della lingua toscana, era come un canto. Questo pensava la piccola Dandina, mentre entrava nel negozio di Brizzo, uno spilungone con gli occhiali che le faceva un poco paura perché aveva una voce stonata e sibilante. «Buongiorno Anna, che si dice?» «Buongiorno Albertino, niente di bello, purtroppo.» «Eh sì. Ho sentito, se ne parlava ora co la tu sorella Mena. Ma dicci le ultime nuove.» «Che ti devo dire. Non si sa niente purtroppo. Ma spero che entro stasera se ne venga a capo.» «Certo se non si trova da nessuna parte, mi sa che qualcuno l’ha presa e portata chissà dove.» «Sono tutte ipotesi, tutte chiacchiere. Io so solo che la signorina non aveva nemici. Se è come pensate voi, può darsi che c’entrino o la politica o gli affari, o meglio ancora la delinquenza di gente senza scrupoli.»


38 «Ma, che ne sappiamo noi, povera gente, di quello che combinano i signori… può darsi anche una vendetta.» «Ah no. Lasciamo correre, non facciamo chiacchiere inutili… Andiamo Mena, andiamo che voglio vedere la bambina come sta.» «Ah, a proposito, Albertino, mica per caso, a voi che avete il negozio dove viene tanta gente, vi è capitato in questi giorni di vedere un giovanotto forestiero con un fare a dir poco strano e ombroso?» «No, per niente, non ho visto nessuno che non conoscessi da quando sono nato.» «Grazie, bene, arrivederci.» «Ma perché me lo chiedi? C’entra con la scomparsa della contessina?» «No, no, per carità, anzi, non fatevi strane idee e soprattutto non lo dite in giro che sai com’è, le parole passano di bocca in bocca e si trasformano, diventando qualcosa di completamente diverso da come sono nate.» «Eh, già, hai proprio ragione Anna, è così, ne so qualcosa io.» Si diceva infatti che Brizzo avesse simpatie politiche poco benviste, anche se lui aveva sempre negato qualsiasi coinvolgimento con il gruppo di anarchici di Montepulciano. Ne parlava, o meglio ne sparlava, la gente perché c’era un suo cugino di mezzo.


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BOLOGNA, GIUGNO 1914

Attilio e Andrea erano arrivati a San Petronio, chiacchierando del più e del meno. Più di politica, meno della loro vita, ma d’altronde per loro la politica era la vita. Bologna in quel periodo era un cantiere a cielo aperto. Già dal 1903 era iniziato il piano di demolizione e ricostruzione del centro della città, per realizzare una grande strada che mettesse in comunicazione la piazza Grande con le torri, e che unisse in un unico asse via Rizzoli a via Ugo Bassi. Solo che, di torri che impedivano la realizzazione di quella che sarebbe poi diventata la via Rizzoli attuale, ce ne erano di troppe ed era stato deciso di abbatterle per far spazio a quello che richiedeva la modernizzazione della città. Non circolavano più carrozze e barrocci trainati da cavalli, ma belle vetture che i cavalli li avevano nel motore e avevano bisogno di spazi più larghi che non fossero i vicoli e viuzze del centro medievale. Ancora nel giugno di quel 1914 c’erano da demolire gli ultimi edifici di piazza della Mercanzia, che insistevano sul Palazzo Re Enzo, che era già stato ristrutturato. I due amici non facevano troppo caso a rumore e polvere, indizio di grande fermento innovativo e voglia di cambiamento, lo stesso sentimento che invadeva i loro cuori. Un sentimento carico di filantropia e amore per i più deboli, di desiderio di uguaglianza e fratellanza, che non era proprio nell’animo delle ricche famiglie borghesi e delle Banche che stavano finanziando tutti quei lavori ferventi intorno a loro. «Allora, ti ha fatto sapere Errico quando ci incontreremo?» aveva chiesto Attilio. «No, non ancora, ma tu gli hai dato l’indirizzo di casa mia, quindi si presenterà penso domani o al massimo fra due giorni. Facciamo in tempo a concordare le cose da dire nel Comizio che si terrà ad Ancona. Prevedo che ci sarà grande partecipazione. Siamo stanchi di guerre che servono solo alla Monarchia e ai ricchi borghesi, diventati tali grazie allo sfruttamento della povera gente.» «Hai saputo che qui a Bologna, Zanardi ce la può fare alle elezioni? Una gran cosa per i Socialisti e anche per noi. Ad Ancona ci saranno anche i


40 Repubblicani e loro, i Socialisti. Penso che parlerà anche Mussolini, il direttore dell’Avanti!» «Ah, sì certo, quello si mette sempre in mezzo, ma non mi sembra tanto antimilitarista. Zanardi invece fa discorsi giusti, gli ho sentito dire più volte che ci vuole “pane e alfabeto” per tutti. Secondo me dobbiamo aiutarlo perché il suo programma non è tanto diverso da quel che vogliamo noi. Bisogna parlare con Errico anche di questo.» «Certo le polemiche dei conservatori e dei monarchici che si sentono qui a Bologna contro di lui, mi fanno sempre più credere che non possiamo negargli il nostro sostegno.» Intanto erano giunti a casa di Andrea. Vi si arrivava dalla Piazza Umberto I e si trovava sotto dei portici molto modesti rispetto a quelli che avevano percorso fino a quel momento per arrivare da via Rizzoli a via dei Mille. Si entrava in un ingresso piuttosto buio, che dava su un cortile interno dove il sole non arrivava mai. «Finalmente, non vedevo l’ora di riabbracciarti.» Lo accolse così Silvia. «Vieni, ti faccio conoscere la piccola Gemma.» Attilio le sorrise. «Sono felice di rivederti e constatare che sei sempre più bella, la maternità ti ha fatto bene.» «Al solito tuo, sempre galante; anche se non ti sei fatto il minimo scrupolo a mollarmi per quel bel tipo del tuo amico.» «Oh, ancora! Lo sai che l’ho fatto per il vostro bene… siete due cuori e una capanna.» «Lo puoi ben dire, sarebbe meglio che vivessimo in una capanna, piuttosto che in questo seminterrato troppo umido per la bambina.» «Eccola!» Un faccino paffuto e due occhi neri e brillanti lo scrutarono un poco prima che la piccola bocca si distendesse in un sorriso convinto e ripetuto, che conquistò all’istante il cuore di Attilio. «È bellissima… una vera gioia, sei stata bravissima a creare questo capolavoro.» «Grazie. Ma adesso andiamo a mangiare, sarai stanco e affamato.» Il pranzo consisteva in una zuppa di verdure e legumi, accompagnata da un vino non pregiato, ma genuino. Un poco di formaggio, pane e salame. «Questa sera ti fermerai a dormire da noi, spero» gli disse Silvia. «Non voglio essere di troppo disturbo. Ho prenotato una piccola pensione qui vicino. Poi devo finire di sistemare degli appunti che mi servono per un articolo che ho intenzione di pubblicare il giorno della manifestazione ad Ancona.» «Fai pure come vuoi, ma sai che per noi non è un disturbo averti qui,


41 anzi.» «Lo so, carissima e ti ringrazio.» «Ma dai… raccontami… come va l’amore? Hai finalmente trovato la tua principessa?» «Una principessa no, ma una contessina… mi piacerebbe rivederla.» «Oddio, che dici Attilio? Un anarchico e una contessa! Come fai solo a pensare una cosa simile!» «Hai perfettamente ragione, ma credo di essermi innamorato, anche se l’ho vista una volta sola e non ci ho mai parlato.» «Sei un inguaribile romantico. Io l’ho sempre detto.» Alla fine del pranzo, Attilio salutò i suoi amici e si diresse verso la Pensione Zaira, che distava sì e no un chilometro dalla loro casa. Era rimasto letteralmente sconvolto dall’armonia che regnava in quella famiglia, dall’amore che sovrastava ogni mancanza: i soldi, la certezza di un futuro migliore e che annullava ogni paura: quella di essere scoperti dalle autorità, di finire a marcire in prigione per chissà quanti anni o di essere costretti all’esilio in chissà quale terra straniera. “Possibile?” si chiedeva Attilio, mentre attraversava la strada, passando da un portico all’altro. “Possibile mai che la nostra nazione non trovi mai pace?”. Lui che era vissuto in una famiglia di patrioti, che avevano combattuto per l’unificazione e che si era nutrito degli ideali repubblicani di Giuseppe Mazzini, mal sopportava che la monarchia sabauda pensasse, prima che all’Italia, al proprio tornaconto e a quello dei facoltosi borghesi del Nord che le assicuravano più garanzie del popolo. La guerra, sempre la guerra, per i loschi affari del potere. Ecco perché avevano deciso di organizzare la manifestazione ad Ancona nell’anniversario dello Statuto Albertino. Lì si sarebbero ritrovati a protestare contro il militarismo, chiedendo la scarcerazione di due anarchici. Non vedeva l’ora di arrivare alla pensione per poter completare gli appunti che intendeva discutere con Malatesta il giorno dopo, ma allo stesso tempo si stava godendo quella passeggiata in città in quella bella giornata di giugno, verso l’imbrunire. Era stato piacevole il pranzo a casa di Andrea, forse aveva mangiato anche troppo e cominciava ad avere sete.


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ABRUZZO, GIUGNO 1914

La ragazza si trovava ancora distesa su un graticcio di paglia, ed era stordita. Un mal di testa atroce non le faceva aprire gli occhi. Tentò inutilmente di socchiuderli, ma era come se una mano pesantissima fosse appoggiata su di essi. Sentiva un freddo tremendo e non riusciva ancora a capire cosa le fosse accaduto. Un acre odore permeava tutto l’ambiente. Ella, riprendendo un poco i sensi, pensò che l’avessero stordita con qualche sostanza, anche perché non riusciva ancora a muovere le gambe e inutilmente cercava di tirarsi su. Il panico la travolse, improvviso; un fortissimo senso di nausea le causò conati, e lo sforzo la rese più lucida. Si ricordò allora che era stata avvicinata da uno sconosciuto con l’aria di un giovane studente, e che le aveva chiesto delle informazioni, ma poi più nulla… Il pensiero della madre occupò subito la sua mente, ancora prima di chiedersi quale sarebbe stato il suo destino, si preoccupò per i suoi cari. Non sapeva ancora quanto tempo fosse passato dal suo rapimento, che di certo di questo si trattava, e l’angoscia di far star male la madre e il padre, assalì il suo cuore. Il buio nell’animo era pari a quello dell’ambiente in cui si trovava, neppure uno spiraglio di luce. Allora il pensiero della morte, per la prima volta, nella sua giovane vita, si insinuò prepotentemente. Non sapeva cosa fosse, ma l’istinto le diceva di dover stare attenta a tutte le prossime mosse da fare. Se era stata rapita per qualche motivo d’interesse personale, non avrebbe ricavato nulla con la sua morte; quindi lei doveva cercare di agire con astuzia, senza farsi sopraffare dalla paura. Un turbinio d’immagini e di pensieri si affollavano in quella mente che, fino ad allora soggiogata da qualche farmaco o droga che fosse, si era limitata a vivere un sogno o meglio, un incubo. Il suo pensiero allora si rivolse a Dio, a quel Dio che conosceva fin da bambina, per l’educazione cristiana che aveva ricevuto; a quel Dio che aveva visto sempre troneggiare nei dipinti dei grandi artisti, sia nelle chiese che nei musei; a quel Dio Padre a cui si era rivolto sempre il mansueto Figlio, e fra sé recitò un Padrenostro, seguito da altre preghiere alla Madonna. Capì


43 subito che pregare la faceva sentir meglio, più calma, meno oppressa, più fiduciosa e più capace di concentrazione. Così, per l’effetto di quella calma dell’anima e anche per l’odore che continuava a saturare la stanza, si assopì di nuovo.


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MARCHE, 7 GIUGNO 1914

Attilio era partito con Andrea un giorno prima della manifestazione. L’incontro con Errico era stato fruttuoso d’idee, ma soprattutto aveva rinsaldato quell’affinità elettiva che li legava strettamente, con un giogo indissolubile, ai loro valori. L’accordo era di ritrovarsi ad Ancona il giorno seguente, con tutti i gruppi che avrebbero partecipato. Quella mattina del 7 giugno, Attilio aveva comprato il giornale Volontà e lo leggeva mentre sorbiva un caffè in un bar, vicino alla piccola pensione dove avevano dormito. «Senti, Andrea, leggi quello che scrive il giornale: “Il 7 giugno è la festa del militarismo imperante. Faccia il popolo che diventi giorno di protesta e di rivendicazione”.» «Mi sembra giusto» rispose Andrea. «Gli italiani devono capire che la guerra in Libia viene combattuta non per gli interessi del popolo, ma per i traffici dei Savoia e dell’alta borghesia. La chiamata alle armi coinvolge tutti, sottraendo braccia al lavoro e portando alla morte migliaia di capi famiglia. La crisi economica poi, va di pari passo con la guerra. Basta, dobbiamo ribellarci. Altro che Festa dello Statuto. Oggi dovranno rendersi conto che non siamo più succubi. Attilio, io ci credo, forse la rivoluzione è più vicina di quanto pensiamo.» Usciti dal bar, Attilio e Andrea si recarono verso la piazza della manifestazione, quando cominciarono a sentire alcuni partecipanti che gridavano: «Tutti alla Villa Rossa, tutti alla sede di “Gioventù ribelle” questi sono gli ordini, seguiteci.» «Ma che succede? Perché?» «Salandra ha proibito i comizi in Piazza, la polizia ci sta respingendo… per non far succedere disordini, i capi hanno deciso di spostare i comizi alla sede dei Repubblicani. Seguite le bandiere rosse, dai, seguite noi… alla Villa Rossa, forza, andiamo, non diamogliela vinta!» Attilio e Andrea li seguirono, mentre nel frattempo Errico si trovava in Piazza Roma, vicino alle Poste dove fu fermato dai carabinieri. Appena seppero che si trattava di Malatesta, lo arrestarono e lo portarono via. Intanto gli anarchici cominciarono a muoversi e a ribellarsi, ma Errico cercò di calmarli, dicendo loro che la questione in caserma si sarebbe


45 presto risolta. C’erano degli esagitati davanti alla sede dei Repubblicani, e quelli che più di tutti scalpitavano erano gli anarchici. Così Attilio e Andrea seppero dell’arresto di Errico, e tutto sembrò crollare loro addosso. Ma poco dopo arrivarono Pietro Nenni e l’avvocato Marinelli, che prima si erano recati alla Camera del Lavoro dove avevano recuperato Malatesta che, come aveva previsto, era stato subito rilasciato. Erano già quasi le dodici, e con la tensione della mattinata non avevano ancora concluso niente, quindi decisero che i comizi si sarebbero tenuti nel pomeriggio. C’erano centinaia di partecipanti ai comizi di Malatesta e Pietro Nenni. Malatesta prese di mira anche il giornale Avanti! e il suo direttore Mussolini. Questo è ciò che riportano le cronache di quel fatto. “Alla presenza di circa cinquecento - seicento persone, repubblicani, anarchici e socialisti, parlarono, sotto la presidenza del segretario della Lega muratori e della Camera del Lavoro Alfredo Pedrini, i dirigenti del Sindacato Ferrovieri Italiano Livio Ciardi e Sigilfredo Pelizza, Ettore Ercoli per i socialisti, Oddo Marinelli per i giovani repubblicani, Pietro Nenni, che fece un vivace e applaudito discorso antimilitarista, ed Errico Malatesta che, tra l’altro, attaccò duramente i socialisti per lo scarso rilievo dato dal loro quotidiano, L’Avanti! alla battaglia politica e contro le compagnie di disciplina”. “Finito il comizio molti si allontanarono, altri si apprestavano a giocare alle bocce o alle carte, come ci accingevamo a fare anch’ io e altri amici. A un tratto, intesi urli e schiamazzi nella sottostante via Torrioni; mi affacciai alla terrazza e vidi che i carabinieri respingevano verso Villa Rossa un centinaio di persone che volevano passare, che poi acconsentirono poiché ne sopraggiungevano altre. Furono scagliati da Villa Rossa pochi sassi, credo in maggior copia, da persone che stavano sulla mura che è dietro Villa Rossa. A questo punto si intesero i colpi d’arma da fuoco sparati sulla strada dai carabinieri. Infatti portarono nella Villa un ferito o morto che fosse, tale Giambrignoni: io mandai subito a chiamare all’ospedale Militare il Dr. Tacchini che lo visitò. Siccome sulle prime non rivelò tracce della ferita, credette che fosse morto di un colpo. Noto che l’avv. Marinelli che era rimasto a Villa Rossa, appena vide che si scagliavano sassi, si precipitò nella via sottostante; cosa che feci anch’io dopo portato via il ferito Giambrignoni. Il tenente dei RRCC può dire che io feci opera di


46 pacificazione, cercando di calmare gli animi eccitati e riuscendo ad allontanare i più riscaldati. Poi andai al cinematografo Goldoni ove già si era recata la folla e consigliai ai dirigenti di chiudere il cinematografo per evitare conflitti, lo feci poi anche al Caffè Garelli; quindi mi ritirai con mia madre”. (Da una testimonianza resa da Pietro Nenni). Nella ressa e nel panico, Attilio e Andrea si erano persi. La forza pubblica continuò a sparare, almeno settanta colpi, altri due morti si contarono insieme a Giambrignoni. Si trattava di due mazziniani. Malatesta era rimasto vicino ad Attilio, e ad altri anarchici che cercavano di ripararlo sia dalle fucilate sia dalla rappresaglia delle forze dell’ordine. Il panico e la paura in quei momenti prevalevano, ma gli animi ribollivano anche di un sentimento di eccitazione gioiosa al pensiero che finalmente si era arrivati dove si voleva. “Rivoluzione, rivoluzione”, dovunque dilagava la parola d’ordine. Correvano sotto la pioggia con gli abiti zuppi e i cuori in fiamme. «Rivoluzione, rivoluzione, abbasso il Re. Riprendiamoci la nostra terra!» Ad Attilio il cuore batteva forte e il sangue faceva cavalloni nelle sue vene. “Ci siamo” diceva dentro di sé. “Finalmente, ci siamo”. Ma rivolto a Errico, lo implorava: «Dobbiamo cercare Andrea, non sarà tanto lontano, anche lui ci starà cercando.» Ed Errico rispondeva: «Non preoccuparti, appena vedranno che ci sono dei morti, smetteranno con le schioppettate e allora si calmerà la situazione e ci ritroveremo tutti.» Intanto la ressa si faceva sempre più fitta e si sentiva gridare ovunque. Poi, come si seppe che c’erano due ragazzi morti a terra, si cercò di dirigersi ancora con più veemenza contro i militari, che nel frattempo stavano retrocedendo per obbedire agli ordini. Ci fu un momento in cui lo sconforto per la morte dei due giovani prese il sopravvento, rallentando le mosse di tutti. Attilio e Andrea si ritrovarono e si abbracciarono, avevano entrambi gli occhi accesi e il fiato corto, ma erano pallidi come i cadaveri per terra. La folla cominciò a diradarsi all’improvviso. Attilio, Errico e Andrea si recarono di nuovo alla Camera del Lavoro e lì trovarono anche l’avvocato Marinelli. Si prese la decisione di indire uno sciopero generale. Alcuni partecipanti, eccitati e poco inclini al ragionamento, proposero di andare a razziare un’armeria che non si trovava troppo


47 distante da lì, ma Malatesta, decise che non era il momento, la mattina seguente avrebbero deciso il da farsi. Per adesso era indetto lo sciopero generale, che se ne desse comunicazione, la più ampia possibile. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

Prefazione ....................................................................................... 5 PARTE PRIMA ............................................................................... 7 Toscana, marzo 1914 ...................................................................... 9 Emilia Romagna, giugno 1914 ..................................................... 29 Toscana, giugno 1914 ................................................................... 34 Bologna, giugno 1914 ................................................................... 39 Abruzzo, giugno 1914................................................................... 42 Marche, 7 Giugno 1914 ................................................................ 44 Abruzzo, otto giugno1914 ............................................................ 48 Toscana, 8 giugno1914 ................................................................. 55 Ancona 8 giugno 1914 .................................................................. 57 Abruzzo ......................................................................................... 58 Ancona 9 giugno 1914 .................................................................. 62 Abruzzo 9 giugno 1914................................................................. 64 Toscana, 9 giugno 1914 ................................................................ 77 Ancona .......................................................................................... 81 Abruzzo, 10 giugno 1914.............................................................. 87 Toscana, 10 giugno 1914 .............................................................. 96 Abruzzo, 11 giugno 1914 .............................................................. 99 Toscana 10 giugno 1914 ............................................................. 107 Ancona,11 giugno 1914 .............................................................. 110 Abruzzo, 11 giugno 1914 ............................................................ 114 Roma 12 giugno 1914 ................................................................. 120 Abruzzo-Roma 13 giugno 1914 .................................................. 126 Roma-Abruzzo 13 giugno1914 ................................................... 131 Roma 14 giugno 1914 ................................................................. 136 Toscana, 15 giugno 1914 ............................................................ 142 16 giugno 1914 ........................................................................... 146


Roma, 16 giugno 1914 ................................................................ 150 Roma 18 giugno 1914 ................................................................. 152 Toscana, 21 giugno 1914 ............................................................ 155 Bologna, 23 giugno1914 ............................................................. 160 Toscana, 23 giugno 1914 ............................................................ 163 Emilia Romagna 25 giugno 1914 ............................................... 167 PARTE SECONDA .................................................................... 169 Toscana 29 giugno 1914 ............................................................. 171 Toscana 6 luglio 1914 ................................................................. 175 Toscana agosto 1914 ................................................................... 176 Bologna agosto 1914 .................................................................. 179 Toscana, agosto 1914 .................................................................. 182 Bologna, agosto 1914 ................................................................. 189 Toscana settembre 1914 .............................................................. 192 Parma 13 – 14 settembre 1914 .................................................... 196 Toscana ottobre 1914 .................................................................. 199 Milano, fine ottobre 1914 ........................................................... 201 Dicembre 1914 ............................................................................ 203 Abruzzo 13 gennaio 1915 ........................................................... 207 Milano fine gennaio 1915 ........................................................... 210 Roma, 17 maggio 1915 ............................................................... 213 Toscana, 20 maggio 1915 ........................................................... 215 24 maggio 1915 .......................................................................... 219 San Michele del Carso, 24 luglio 1915 ....................................... 221 BIBLIOGRAFIA ........................................................................ 225


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