In uscita il 29/4/2016 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine maggio e inizio giugno 2016 ( ,99 euro)
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MICHELE GASAPINI
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45 Copyright Š 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-984-5 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Aprile 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Questa la risposta, vera e opportuna, che un pirata catturato diede ad Alessandro Magno. Avendogli questi domandato perché gli sembrasse giusto infestare i mari, quello con spregiudicata fierezza rispose: «per lo stesso motivo per cui tu infesti la terra; ma poiché io lo faccio con una barca insignificante, mi chiamano pirata, e poiché tu lo fai con una flotta eccezionale, ti chiamano condottiero». Agostino ("De civitate Dei", IV, 4)
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1.
Interrogatorio – Distretto di Polizia di New York Giovedì 30 marzo ore 9.00 Anno 2045 Presi parte alla prima azione operativa il 23 ottobre, due mesi dopo aver conosciuto Rebecca. No, non esiste un tempo di prova. La prima occasione utile, quella è la prova. Può essere dopo tre ore, tre mesi o tre anni, oppure mai. Fu un’operazione di finanziamento. Mi tirarono giù dal letto in piena notte e mi caricarono sul furgone color ruggine con ancora addosso il pigiama. Venti ore dopo ero seduto su quel rottame cigolante come un cane da guardia. Fermo nell’oscurità tra un fosso e un campo di girasoli, su una strada che non conoscevo, pronto a dare l’allarme se avessi visto dei fari avvicinarsi; avrei dato a miei compagni il tempo di scappare dalla villa, io non sarei stato una grossa perdita. Centottanta minuti col cuore a strozzarmi la gola ogni volta che una macchina passava sulla statale pensando di vedere dei fanali girare nella nostra direzione. Ricordo ogni istante, con la tromba di Chad Baker sullo sfondo a balbattare da una cassetta consumata. Non ne vedevo una da anni. Non vidi nemmeno quella, bloccata nell’autoradio da chissà quanto, solo il suono graffiato del nastro, nella notte che, lentamente, andava spegnendosi come un vecchio film in bianco e nero. Mi riportarono a casa in tempo per avvertire che non sarei andato in ufficio quel lunedì. «Credo di non aver digerito ieri sera… cucina giapponese… già non dirmelo… no, non c’è bisogno per domani credo di farcela… credo…». Stavamo rubando un quadro rubato e nessuno chiama la polizia per denunciarti. Il difficile è che nessuno va a dire in giro di tenere in sog-
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giorno un quadro rubato, si tratta di un mercato piuttosto ristretto. Compratori e derubati sono spesso le stesse persone. È un gioco piuttosto pericoloso: sono persone che tendono a tutelare i propri investimenti. Mi hanno detto che con questo sistema guadagniamo ottanta, cento anche centocinquanta milioni di dollari ogni anno. Fa parte del progetto. No, non teniamo un bilancio, o almeno se esiste, io non ne sono a conoscenza. A ogni modo, ottanta milioni di dollari non coprirebbero il dieci per cento delle nostre spese; ogni anno, solo con le donazioni dei nostri simpatizzanti, raccogliamo almeno il triplo seduti sulle nostre poltrone. A questo punto uno potrebbe chiedersi perché. Perché organizzare dalle cinquanta alle cento operazioni ogni anno, in ville protette da guardie di sicurezza, sistemi d’allarme tra i più avanzati, con un notevole spreco di tempo e di denaro, col rischio di essere arrestati per furto e un bilancio di almeno una decina di morti ogni anno? A questo punto dovreste chiedermi perché.
PRIMO INTERLUDIO Può il sistema crollare in una notte? Esplodere in frammenti, tanto piccoli da non poterli distinguere. Esplodere dico, polverizzarsi. Bum. E poi silenzio. Non dico da solo. Non dico senza un aiuto. Senza una spinta data al momento giusto. Nel posto giusto. Un calcio dritto nelle palle di quel fottuto gigante che regge il mondo e tutti a culo in aria. Unioni europee, arabe e africane, unite da dollari, euro, yuan, cibi ipercalorici, caffeina, nicotina, tette rifatte, culi, uomini palestrati con addosso più anabolizzanti di quelli contenuti nell’omogeneizzato che hai appena comprato al supermercato per tuo figlio, antidepressivi da banco colorati come caramelle e reality show
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che ci martellano per ventiquattro ore al giorno fino a non riuscire a distinguere da quale lato dello schermo si trovi la realtà . Ti hanno mai detto che ogni giorno vengono bevute quattrocentonovantatre milioni di lattine di coca e, visto che non abbiamo tempo da perdere, aggiungi pure Fanta, Sprite e tutte le varie light, zero, sotto zero, ice, lemon, milk per un totale di quattrocentonovantatre altre stronzate, e arriviamo alla bellezza di novanta miliardi di litri consumati ogni anno. Non andiamo al supermercato a comprare da bere, andiamo al supermercato a comprare la nostra dose. Nel momento in cui ti danno la massima libertà, con l’altra mano stringono il nodo intorno al collo. Un rivoluzionario messicano degli anni novanta del secolo scorso si fa fotografare mentre beve Coca-Cola. Liz Taylor beve coca cola, il presidente beve Coca-Cola, il barbone beve Coca-Cola. Tutti bevono questa cazzo di Coca-Cola. Perché non dovresti berla anche tu? La regola del tre, la conoscete? Un uomo può resistere tre settimane senza mangiare, tre giorni senza bere, tre minuti senza respirare. Dopodiché gli organi meno utili sono esclusi dal trasporto di ossigeno e iniziano a comparire i primi danni, i reni smettono di filtrare il sangue, il metabolismo del fegato rallenta, finché anche il cuore smette di battere e dopo quindici minuti i neuroni ti salutano uno dopo l’altro come piccoli pop-corn. Bop. Bop. Bop. Allora sei fottuto per davvero. Certo, sono dati relativi a un maschio adulto in condizioni normali, se sei un bambino o se stai congelando puoi resistere molto di più. Magari abbastanza per sopravvivere e passare la tua vita disteso su un letto come un vegetale. Inutile come una pianta di cactus. Resistere? Siamo a bordo di una navicella spaziale, lanciata a trecentomila chilometri al secondo, verso il centro del sole. Non mi dispiacerebbe scambiare quattro chiacchiere col capitano prima che il viaggio sia terminato. Non mi dispiacerebbe fargli schizzare fuori un po’ di sangue dal naso.
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Solo che il capitano non si fa trovare, non ti fanno entrare facilmente nella cabina di pilotaggio, non sono del tutto scemi. Alcuni dicono non esista un capitano che stiamo viaggiando col pilota automatico. Stanno mentendo. Esiste. È una regola di tutti i sistemi complessi. Le grandi dittature del secolo scorso sono crollate nell’istante stesso della morte di Mussolini e Hitler. Ma ciò che è stato creato in una notte, facilmente può scomparire in una notte. Ora non si tratta di colpire un solo uomo, ammesso che quell’uomo esista, ma di distruggere tutta la catena. Una catena d’acciaio forgiata nei secoli. Ogni catena ha il suo punto di rottura. Ogni catena ha il suo punto di rottura. Ogni catena ha il suo punto di rottura. Quello che mi chiedo, con una giusta leva, sarebbe possibile in una sola notte? In una sola notte. In una sola notte, perché è necessario non lasciare il tempo di reagire. Troppo volte abbiamo creduto che le cose fossero sul punto di cambiare per poi rimanere le stesse. Il progetto nasce e muore in una notte. Il progetto prevede la sua realizzazione o la nostra morte. Il progetto prevede una e una sola soluzione. Il progetto non prevede la nostra sopravvivenza come singoli. Non la mia. Non è necessario. Il progetto non prevede che io conosca l’intero progetto. Basta che porti a termine la mia parte del progetto. Il risultato finale dipenderà dall’accuratezza con cui svolgiamo il nostro piccolo particolare. Sarà la somma di tanti piccoli particolari a fare la differenza tra la vittoria o la sconfitta, quando il sipario sarà calato.
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Interrogatorio – Distretto di polizia di New York Martedì 21 marzo ore 17.00 Anno 2045 Sì, ho un cancro al fegato. È per questo che le analisi del sangue erano impazzite come una grandinata d’agosto, dalle transaminasi all’INR. Me lo ha spiegato il dottore togliendosi dal collo il fonendoscopio, lo ha appoggiato sulla scrivania grigia come la pioggia e mi ha detto che dovrei smettere di bere e di fumare. «Cos’è» gli dico, «rischio di prendermi un brutto male? Rischio di morire? O me lo dice per una fottuta questione religiosa» e sbatto i pugni. «È una questione legale» risponde e io penso che la cosa potrebbe diventare divertente. «Se non glielo dicessi lei potrebbe denunciarmi. Se non le consigliassi ulteriori esami a pagamento, lei potrebbe denunciarmi. Se non le consigliassi la chemioterapia lei potrebbe denunciarmi». «E quindi?». Mi osserva aggiustandosi gli occhiali. «Tutti dobbiamo morire». La mia vita è sempre stata uno strumento, in tutti questi anni, non è mai stata mia. Un vasetto di yogurt con data di scadenza stampata in cima in inchiostro nero e con sotto riportata in piccolo la dicitura EPATOCARCINOMA. Eccolo qua il vostro guerriero, eccolo qua che stringe con la
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mano il fianco destro dopo aver salito due rampe di scale. Sudato come una puttana. Ma potrebbe andare peggio, ancora non sono morto. Quella sera sono uscito e mi sono infilato dentro al primo locale aperto. Mi sono trovato schiacciato tra tutta quella gente. Non sono uno che esce spesso la sera sapete, a meno che non si tratti di lavoro. Non ho molte sere libere e nelle sere libere in genere mi preparo per il prossimo lavoro. Quindi sono lì, schiacciato tra quegli sguardi persi nel vuoto. Tra quelle persone che non sanno. Tra quelle ragazze con le gonne corte e uno spesso strato di fondotinta, mi chiedo: ma tutto questo teatro è necessario per farsi una scopata? E poi penso che anche le mie scopate hanno una data di scadenza. Quante saranno dieci, trenta, cinquanta ma certo non più di cinquanta. Sto morendo al ritmo di una scopata alla volta. Tic-tac. Forse dovrei darmi da fare, insomma se mi rimangono massimo cinquanta occasioni per rimanere con l’uccello bagnato tanto vale sfruttarle tutte. Non dovrei nemmeno perdere tempo in un posto come quello, tanto vale pagare una puttana. Sifilide, Epatite, Herpes, HIV, mi piacerebbe averle tutti di fronte a me. Avanti, ce n’è per tutti, nessun problema. Morire per Aids, magari, ci metterei la firma. E in quel ho compreso. Una rivelazione. Perché se escludi la possibilità di sopravvivere ti si apre una serie infinita di possibilità che prima non avresti preso in considerazione. Non hai più niente da perdere. Non hai più niente da perdere quando hai perso la vita. Sei un morto che cammina. AIDS conclamato, sopravvivenza media dieci anni. Epatite C, venticinque anni. Sifilide, vent’anni. Durata media di un processo per terrorismo in America, tre anni. Speranza di vita media per un tumore al fegato allo stadio terminale, sei mesi. Vinco in ogni caso.
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E cosĂŹ divento un supereroe. Un supereroe con la data di scadenza. Ma pur sempre un fottuto supereroe.
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SECONDO INTERLUDIO Vi siete mai chiesti quale sia il prezzo di tutto questo? Quante persone, ogni anno, muoiano di fame? Quante di malaria? Quante persone, ogni anno, muoiono di dissenteria? Immersi nella propria merda. Io li ho visti con i miei occhi e l’odore di quella merda l’ho dentro il mio naso. Il pianto di quelle madri mi tiene sveglia ogni notte, accapponandomi la pelle come delle unghie su una lavagna. Provate a fare il conto e solo in africa arriverete a dieci milioni di morti, ogni anno. E non ho considerato le guerre e non ho considerato influenza, morbillo, varicella, febbre, rosolia, epatite, tumori all’utero e alle ovaie, morti di parto, AIDS. Sul conto di chi vanno questi morti? Li diamo a Hitler, Li diamo a Stalin, a Mussolini, a Mao, a Pol Pot. No, questi morti vanno sul nostro conto. Questi morti sono nostri. Pensaci un attimo davanti allo specchio prima di andare a letto. Mentre ti stai sfregando i denti col tuo dentifricio e passi il filo interdentale tra le gengive, mentre ti sciacqui via il sangue dalla bocca. E se quello dei nazisti viene chiamato olocausto, a questo che nome vogliamo dare? Non ha nome. Non ha nome perché darglielo significherebbe renderlo vero. Siamo otto miliardi di serial killer senza nome. Per esempio John Wayne Gacy veniva picchiato dal padre, deriso come "femminella" e insultato; da adulto, Gacy avrebbe stuprato e torturato e ucciso trentatré ragazzi accusandoli di essere "finocchi" e "femminelle". Davvero tu pensi di essere migliore? Quanti ne hai uccisi oggi. Per comprare il tuo cellulare nuovo, i tuoi vestiti firmati, per ingurgitare un numero imprecisato di calorie che poi hai dovuto bruciare pagando l’abbonamento di una palestra. Quante persone sono morte per colpa tua. Quante ne avresti potute salvare. Per parole, opere e omissioni. Per parole, opere e omissioni.
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Omissioni. Pensaci un po’ mentre il prete a messa recita il mea culpa. Mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa. E alla fine bisogna pagare il conto. Alla fine dovremo tutti pagare il conto. E alcuni dovranno pagare un conto molto più salato di altri. Pensate alle case farmaceutiche, prendete l’Aids. Gaetan Dugas, uno steward francocanadese, è considerato il paziente zero dell’hiv. Quello che ha portato e diffuso la malattia dall’Africa al Nord America. LabFarm23, S&E, Globedrugs e tutta lista delle multinazionali del farmaco, dovrebbero costruire statue alla memoria del signor Gaetan Dugas. Il cigno nero: anno 1984, un giovane medico di Los Angeles nota una strana lesione bluastra sulla cute di un suo giovane paziente. Quella lesione aveva il nome di sarcoma di Kaposi, un tumore della pelle che Kaposi, un medico vissuto ai tempi dell’impero austroungarico, aveva rilevato su alcuni pazienti molto anziani. Non esattamente quello che ti aspetti di vedere addosso a un ragazzo di vent’anni; specie se una settimana dopo, ti arriva un secondo paziente, stessa età e stesso problema. I cigni ora sono due. Atlanta in Georgia è famosa per due cose, una è la fabbrica della coca-cola, l’altra è il centro di controllo delle malattie, è lì che il nostro giovane medico comunica che sta succedendo qualcosa di strano, qualcosa che merita un approfondimento. Come si dice nelle favole: e così tutto ebbe inizio. Si dice che l’HIV sia passato dalla scimmia all’uomo tramite una ferita da morso o per contatto sessuale. Solo che una multinazionale del farmaco non può utilizzare come simbolo un uomo che s’incula una scimmia. Però dovrebbe. Dovrebbe perché ogni infetto da Hiv costa cento dollari al giorno solo di farmaci per ritardare la comparsa dell’aids. Ogni infetto da HIV costa altri quattrocento dollari in cosiddette spese amministrative: medici, infermieri, strutture, esami, cure per patologie correlate, campagne di prevenzione, ricerca eccetera, eccetera, eccetera… Vogliamo fare il conto di quanti miliardi di dollari sono fatturati grazie all’Hiv, quante crociere sono state pagate grazie all’HIV? E poi ci raccontano che stanno cercando un vaccino. Quante volte abbiamo ascolta-
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to scienziati spiegarci quanto fossero vicini a scoprirlo, e che per trovarlo serviva solo un piccolo sforzo, solo un altro po’ dei nostri soldi. E allora raccolte fondi, numeri verdi, carte di credito, raccolta di firme su banchetti in piazza, fiocchi rossi e profilattici. Poveri che danno soldi ai poveri. Come nelle favole: e tutti vissero felici e contenti. Ma credete davvero che qualcuna voglia trovarlo un vaccino. Avete idea del giro di denaro che muove questo giocattolo. Hai una malattia cronica che puoi portare avanti per dieci, venti anche trent’anni, che richiede farmaci costosissimi per essere controllata e una casa farmaceutica dovrebbe lavorare per cercare un vaccino? Una sola dose una volta nella vita contro un cocktail di farmaci da prendere ogni giorno. Anche un bambino saprebbe cosa scegliere. L’hiv non è la peste del mondo moderno. L’HIV è il sogno bagnato di ogni casa farmaceutica in giro per il mondo. L’HIV è la malattia perfetta. Se non ci fosse bisognerebbe inventarla.
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Interrogatorio – Distretto di polizia di New York Giovedì 23 Marzo ore 21.00 Anno 2045 Non mi ero mai interessato alla politica prima di conoscere Rebecca. Fu uno di quei momenti che quando accadono capisci subito quanto sono importanti, ti scorrono davanti al rallentatore come se fosse la pellicola di un film e non la vita reale. A voi non so, ma a me succede; è vero anche che la mia vita non è la vostra. Rebecca diceva che la maggior parte delle persone della vita mangia solo la buccia, non vive ma aspetta, la maggior parte per paura, alcuni per pigrizia, altri ancora aspettano perché non sanno fare altro. E quasi tutti mentre aspettano si lamentano. Anch’io aspettavo, mi diceva sempre, aspettavo arrivasse lei per iniziare a vivere; è successo, non era previsto. Nella perfezione c’è sempre una punta d’imprevisto, la prima volta glielo sentii dire mentre preparava il chili, ma non credo si riferisse alla cucina messicana. Lavoravo alla Seifar da dopo il diploma, un perfetto membro della società, votato alla sua morte sonnolenta. Non ci uccidono con le armi, ci uccidono con la noia. Minuto, dopo minuto, a forza di titoli sui giornali e bibite gasate. Ricordo tutto di quella mattina, mi basta chiudere gli occhi per vederla scorrere davanti. Ricordo il sole scottare, mentre attraverso il parco pubblico per andare in ufficio. Ricordo che mi ero fermato un istante a osservare un tale se-
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duto su una panchina che dava da mangiare ai piccioni: c’era stato un attentato in Brasile il giorno prima, qualcuno aveva messo una bomba davanti a una scuola di San Paolo, morti settanta bambini e quattro insegnanti. E io quel tipo non l’avevo mai visto. Poteva essere un terrorista: in quei giorni non si parlava d’altro. Conosci davvero il tuo vicino o stai dividendo il pianerottolo con un terrorista? Eravamo ai tempi della seconda ondata. Avvertite le autorità al minimo sospetto. A un terrorista non importa nulla della vostra vita né di quella dei vostri figli. È un cane rabbioso. E via il manifesto. È un’anima nera. È il nemico della società civile. Che tradotto significava delle vostre macchine, delle vostre villette a schiera, delle vostre scuole private, delle vostre prostitute, dei vostri tre pasti giornalieri e della vostra pornografia. E noi teniamo tutti molto alla nostra pornografia. Ricordo d’aver sentito avvicinarsi delle sirene della polizia, ma non ci feci troppo caso perché da mesi dicevano che la Seifar fosse nel mirino dei terroristi e dopo l’attentato avevano aumentato i controlli, anche per noi dipendenti. All’ingresso avevano messo dei metal detector e stavano interrogando tutti quelli che lavorano nell’edificio: dall’ultimo dei lavavetri al nuovo vicepresidente arrivato il mese prima dalla svizzera. Mentre due macchine e una camionetta compaiono ululando in fondo alla strada, una ragazza che non ho mai visto mi si fa incontro. Guardandomi dritto negli occhi mi sussurra: «Ti prego, ti prego aiutami!». Poi mi spinge contro un albero e... mi da uno schiaffo, tanto forte che gli occhiali mi cadono a terra. Intanto mi accorgo che una delle macchine della polizia è ferma a una decina di metri da noi. «Sei un porco!» urla piangendo. «Tu e quella troia» mi dice tirandomi tanto forte per il colletto da far saltar via un bottone dalla camicia. «Mi fai schifo!» e corre via attraverso il parco. Com’è che dicono alla televisione? Avvertite le autorità al minimo sospetto. Segnalare la più piccola stranezza può salvare migliaia di vite. Puoi essere TU l’eroe.
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Ricche ricompense per ogni segnalazione verificata. Il poliziotto al volante mi guarda e ghigna, mentre cerco di sistemare la camicia. Segnalare la più piccola stranezza. Mi avvicino alla macchina e il poliziotto continua a ridere come un maiale. «Sei stato picchiato dalla tua ragazza? Ti ha fatto male? Vuoi sporgere denuncia?!». «Fosse stata la mia donna, le avrei mollato una di quelle giuste, nessuna femmina può permettersi di trattarmi così» fa il suo collega da dietro gli occhiali scuri prima di aggiungere: «Sicuro di non essere finocchio, ragazzino?». Scatenando un altro scoppio di risate. Segnalare la più piccola stranezza. La più piccola stranezza. Mi avvicino controvoglia al finestrino. «Agente, lì nel parco, prima ho visto un tizio che stava dando da mangiare ai piccioni. Faccio questa strada tutte le mattine per andare a lavoro, ma è la prima volta che lo vedo. Con tutte le cose che si sentono, ho pensato potesse essere… insomma… di chi ci si può fidare al giorno d’oggi». Quella era una piccola stranezza.
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Nella mia testa - In cella - L’udito Domenica 19 marzo ore 10.12 Anno 2045 Tre giorni. Aspetto. Con il suono del mio respiro a farmi compagnia nel buio, con le orecchie tese ad aspettare il cigolio dei cardini della porta o il calpestare delle guardie lungo il corridoio. Aspetto che qualcuno venga a farmi visita. Il segreto è farsi attendere, dare l’impressione che non gliene importi nulla. Invece gliene importa. Non mi parlano nemmeno quando aprono la feritoia per darmi da mangiare. Colazione pranzo e cena. Colazione pranzo e cena. Passo così le mie giornate ma, lo devo ammettere, sono stato in posti peggiori. A volte quando sei solo nell’oscurità, in un silenzio più profondo della notte, il battito del tuo cuore si allarga, esce dalla cassa toracica e si amplifica nell’ambiente intorno, e ti fa vibrare tutto come se le tue ossa fossero le corde di un basso elettrico in risonanza. E in quell’istante tutto il mondo è il tuo cuore. Tutta la stanza sembrava muoversi intorno a quel ritmo. La mente gioca strani scherzi. Non che abbia altro di meglio da fare mentre aspetto. Il nostro cuore. Nella vita di tutti i giorni non ci si fa caso… beh quando si ferma certo, uno ci fa caso, ma normalmente lui batte e noi, ascoltiamo musica, parliamo, viviamo in un mondo a un volume più alto. Nessuno ascolta il battito. Viviamo in un mondo che ragiona a una lunghezza d’onda diversa da quella del corpo. E lo assorda e la gente nemmeno sa cosa significa ascoltarlo. Tum-tum tum-tum tum-tum. Ecco di nuovo si sta allargando.
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Tum-tum tum-tum tum-tum Ora è la stanza che s’ingrandisce e si ristringe. Tum-tum tum-tum tum-tum O sono io che mi sto allargando. Che mi sto restringendo. Che sto scomparendo Passi lungo il corridoio. E la stanza come soffiata da un vetraio ritorna normale. E il battito del mio cuore svanisce nel nulla. Solo i passi, fuori nel corridoio, vicini, sempre più vicini. E il cigolio di una porta che si apre. Ma non la mia. La mia rimane immobile davanti a me. Non è ancora il momento. Pazienza. Pazienza. Bisogna avere pazienza. Le mie mani sono diventate lunghissime, mi sembra di poter toccare tutte le pareti della stanza solo allungando le braccia. E mentre le muovo le manette di metallo che mi stringono i polsi risuonano nell’aria sottile come un gong. E l’illusione svanisce di nuovo. Sono quasi sicuro che mi abbiano drogato. Meglio non pensare alle porcherie che infilano nel mio cibo. Dico davvero, meglio non pensarci. Anche se questo è un carcere occidentale e tutto il resto, non bisogna mai fidarsi di un cuoco. Anche se ha un buon sapore. Credetemi, io ne so qualcosa. Credetemi, se andate in Florida non ordinate mai coniglio di palude, credetemi, quello non è un coniglio almeno tanto quanto non lo sono io. Si tratta di un'altra specie di roditore. Che mi avrebbero drogato lo sapevo. È la regola. Se mangi ti droghiamo, se non mangi, beh... non mangi. Io mangio. E poi se c’è dentro della droga, pazienza. Intanto è gratis. E poi se vogliono farti parlare, hanno il modo. Hanno il modo. Tutti hanno il loro punto di rottura, questo è certo. Te lo insegnano il primo giorno di addestramento. So già che parlerò quindi perché soffrire.
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Prima non la pensavo così. Prima di vederlo con i miei occhi, voglio dire. Adesso ho imparato. Mi risparmio la parte della tortura. E parlo E mi tengo tutte le unghie al loro posto. A volte ti torturano lo stesso: alcuni per piacere, altri perché non credono che tu stia dicendo la verità. Tutti hanno visto troppi film. Si aspettano le scene: Non parlerò mai…. Succhiatemi il cazzo… Figli di puttana… Sputo in faccia con conseguente cazzotto. Pianto disperato. Almeno risparmiate X Y e Z loro non c’entrano… Che tu scelga di parlare e dire razionalmente tutto quello che sai è difficile da credere. Se tu sei drogato aiuta. Un drogato fa cose che razionalmente non sarebbe disposto a fare. Come tradire. Per quanto possa sembrare assurdo, per loro, un drogato è più credibile. E in più mangi. Io mangio. E parlerò. Parlerò. Parlerò. Dirò tutto. Beh… quasi tutto. Volete i nomi… Benvenuti. Volete i luoghi… Eccoli qui. Volete i segreti… ogni cosa che so. Quasi ogni cosa che so. Parlerò perché è previsto che parli. Il progetto finale è stato messo in moto e né io né nessun altro siamo nel potere di fermarlo. Andrà avanti fino alle estreme conseguenze. Rido ad alta voce e vedo le mie parole come pronunciate dalla voce di un altro rimbalzare sulle pareti e fermarsi a mezz’aria. Fluttuanti e fluorescenti come morbidi pesci tropicali. Le morbide orecchie di un coniglio. Bianconiglio. «Ah, potete scommetterci, io parlerò e loro, loro ascolteranno…».
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TERZO INTERLUDIO Il sangue è la valuta corrente della storia. Duemilaventitre, duemilaventitre, duemilaventitre… quell’anno non potrà mai essere dimenticato. Troppi ne portano ancora i segni, le sanguinose cicatrici della repressione; mentre festeggiavamo la nostra vittoria, rischiammo di perdere tutto. Eppure sono sicura che un giorno diranno che la nostra vittoria di oggi sia nata da quella sconfitta. Il prezzo del sangue noi l’abbiamo pagato. Manila, Pretoria, New York, Manchester, Teheran, San Pietroburgo. Ognuna di queste città grida vendetta. Ogni goccia del loro sangue è un debito che dovrà essere saldato. Figli e figlie, fratelli e sorelle, mogli e mariti, padri e madri che aspettano il momento di riscuotere. Più di tutti ricordiamo i trecentoquarantasei di Buenos Aires, che preferirono morire schiacciati sotto i cingoli dei carri armati piuttosto che arrendersi, anche se tutto era perduto. E sopra tutti onoriamo Wang Xi Hou che da solo riuscì ad abbattere la testa del Levietano facendoci credere che avremmo vinto, e ancor di più lo onoriamo per averci fatto capire che potevamo farlo. Prima di Wang Xi Hou e della grande rivolta della rete, vincere non era nemmeno preventivato. Non ci ha portato alla vittoria, ma ce ne ha dato la prospettiva. La prospettiva che il loro potere non era forte come volevano farci credere. La prospettiva che il loro fronte non era unito come volevano far sembrare. La prospettiva che un intero sistema con la giusta leva può crollare. La neolingua. Spendevano migliaia di miliardi in spese militari mentre parlavano di non violenza. Lucidavano centinaia di testate nucleari mentre intimavano agli stati non allineati di consegnare le loro armi.
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Le loro forze di pace consistevano in un esercito di milioni di uomini sparso in cinque continenti e le loro missioni umanitarie erano fatte di forze speciali, elicotteri d’assalto e mine antiuomo. Le chiamavano misure di sicurezza, mentre per il nostro bene ci toglievano il diritto di essere liberi, di essere uomini. Misure per la sicurezza di chi? Certo non la nostra sicurezza. Ogni diritto si costruisce con la forza, non necessariamente una forza militare, certo anche quella ma non solo. La forza economica, la forza dei mass media, la forza della tecnologia, la forza del numero, la forza del terrore possono essere altrettanto importanti. La forza della conoscenza. Abbiamo atteso ventidue anni per essere pronti. Senza la piena consapevolezza della battaglia non avremmo mai avuto possibilità di vittoria. Senza aver guardato con i nostri occhi l’abisso del nostro annientamento non avremmo mai potuto risorgere. Ora che i nostri nemici sono sul punto di completare il loro disegno, noi non siamo mai stati tanto vicini alla vittoria. Quante rivoluzioni una dopo l’altra hanno scandito il ritmo della storia? Quante volte abbiamo visto le nostre speranze deluse, le nostre conquiste calpestate? Il prezzo di quel sangue lo potete seguire attraverso i secoli. Un tempo uno stato era conquistato adesso viene comprato. Ogni giorno creano un potere sempre più lontano, ogni giorno tolgono un pezzo della nostra libertà, ogni giorno tolgono un pezzo della nostra dignità. Tu credi di essere libero, questa è la grande menzogna. Tu vedi pendolari fermi alla fermata della metro, io vedo schiavi. Tu vedi camice, cravatte e tailleur, io vedo catene. Lavori dieci ore al giorno per essere libero. Libero di comprare i vestiti firmati che ti hanno detto di comprare, libero di ridere alle battute che ti fanno vedere alla televisione, libero di credere a quello che mettono in rete a ogni ora del giorno, libero di non vedere che gli stai vendendo la tua vita a prezzi da asta fallimentare. E più pensi di essere libero perché magari guadagni più del tuo vicino di casa, ti sei costruito una piscina e hai mandato i tuoi figli a studiare all’estero, più sei uno schiavo.
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Una parte dentro di te lo sa che ho ragione. Dentro ognuno di noi c’è una parte che sta urlando di fronte a questo schifo, che ancora non capisce ma lo stesso intuisce che nel mondo qualche ingranaggio sta girando nella direzione sbagliata. Hai appena speso cinquecento dollari per una borsetta di Prada, mentre nello stesso momento un bambino in Sudan è morto di fame. È di questo tipo d’ingranaggio che stiamo parlando. Il fatto che tu senta di dover volere quella borsetta, quella è la grande menzogna. Se inizi a comprendere la natura di questa menzogna, capirai anche che la risposta non è nel comprare o nel non comprare quella borsetta, quel bambino morirà qualunque cosa tu faccia. Non puoi pensare di vivere rettamente se il mondo intorno a te è corrotto e marcio. Non sei diverso dal mondo se ti limiti a osservarlo. Voglio dire che se quella parte di te che ti sta dicendo: «è sbagliato! è sbagliato! è sbagliato!» ti limiti ad ascoltarla, non è abbastanza. Non stiamo combattendo per salvare una persona, noi vogliamo che tutti siano salvati. Non sto scrivendo perché tu capisca. Una persona non è abbastanza. Tutti devono capire. Non ci può essere redenzione senza azione. Tutti devono agire. E presto dovrai agire. Noi siamo colpevoli. E se scrivo questo è perché spero che presto, anche tu, scelga di diventarlo.
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Interrogatorio – Distretto di polizia di New York Mercoledì 22 Marzo ore 15.47 Anno 2045 Abbiamo atteso ventitré anni prima d’attaccare. L’operazione in cui sono stato catturato era parte del progetto. Perché ve lo sto dicendo? Non più qualcosa che è nel mio o nel vostro potere fermare, dal momento in cui è iniziata procederà fino alla sua naturale conclusione: vale a dire la nostra vittoria e la sconfitta dei vostri padroni. Certo potrei sbagliarmi, potremmo essere tutti e tre dalla stessa parte senza saperlo, in quel caso sarebbe solo la nostra vittoria. L’agente che conduce l’interrogatorio alla mia sinistra ghigna con disprezzo. Oh, lo so, non hanno molto tempo per prendere una decisione. Al loro posto anch’io sarei nervoso. «Davvero un grande successo. Ventidue anni per ottenere questo risultato?». Ventitré anni sono un tempo sufficiente per infiltrare un buon numero dei nostri tra voi stronzi dell’antiterrorismo, dico. L’agente alla mia destra deve aver pensato che abbia detto qualcosa di troppo perché mi colpisce con un pugno dritto in faccia e sento un dente che inizia ad andare avanti e indietro come una caramella.
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In un attimo la bocca mi si riempie di sangue, sputo sulla scrivania che assume l’aspetto di un quadro d’arte moderna, ma il sangue non si ferma. Deve essere per la malattia al fegato, il dottore mi aveva avvertito che sarebbe potuto succedere. Non posso più rispondere alle loro domande, sono costretti a interrompere l’interrogatorio e mandarmi in infermeria. Prima mi legano a un lettino, poi il medico mi fa un’iniezione. «Mordi questo. Forte» dice mettendomi una garza tra i denti. «Tumore al fegato» continua sfogliando la mia cartella. «Tu, all’esecuzione non ci arrivi». Alzo le spalle, in questo momento, legato a una barella, non è il primo dei miei problemi. Il sangue mi cola giù per la gola, salato e metallico come leccare un portachiavi. Chiunque di loro potrebbe essere uno dei nostri. Perfino quello stronzo che mi ha pestato. Infiltrare un gran numero di persone all’interno delle linee di comando, delle agenzie, in ogni posto strategico ha richiesto un numero incredibile di anni. Nessuno ne conosce il numero esatto, nessuno sa chi sono. Solo so che non si sa, non può essere rivelato. Una ferita aperta in bocca avrebbe potuto rivelarsi di grande aiuto. Ma come sapere se quell’agente mi aveva picchiato perché l’avevo provocato o perché faceva parte dell’organizzazione? Era una domanda destinata a rimanere senza risposta. Una fitta al fegato mi costringe a sputare la garza. Eccolo qui il vostro eroe, chiuso in una prigione di massima sicurezza, venti metri sottoterra, a urlare per il dolore con la faccia coperta di sangue. Non esattamente la faccia che mettereste su una maglietta. Saranno altre le icone e altri gli eroi e il mio nome, rimarrà solo un nome come tanti. Solo vorrei poter vedere Rebecca per un’ultima volta. Vorrei poter rivivere di nuovo ogni momento, da quando l’ho incontrata. Rebecca è stata la cosa migliore della mia vita. Lei mi ha liberato.
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E ogni volta che chiudo gli occhi riesco quasi a vederla.
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Interrogatorio – Distretto di polizia di New York Venerdì 1 Aprile ore 7.10 Anno 2045 Reclutare nuovi aderenti è indispensabile per ogni cellula del movimento. Gli attentati, i furti, i sabotaggi, le manifestazioni sono fondamentali per questo scopo. Distolgono lo sguardo dall’obiettivo finale, rafforzano il nostro consenso e attraggono l’attenzione. Nel bene e nel male, questo è certo. Vi siete mai chiesti perché piazzare un’autobomba davanti alla sede di una multinazionale e poi avvertire per evacuarla? Vi siete mai domandati il senso di cancellare i dati delle carte di credito delle tre principali banche del nord America? Forse voi eravate troppo impegnati a setacciare filmati dalle videocamere di sicurezza e immagini satellitari, troppo impegnati a far assumere guardie armate a ogni istituto di credito, a creare firewall sempre più sofisticati e antivirus più potenti, troppo impegnati per cercare di trova-
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re una ragione alle nostre azioni che non fosse quella a cui vi hanno detto di credere. Vedete, una multinazionale è il simbolo del potere delle oligarchie finanziarie che siamo venuti a distruggere, un’autobomba di fronte a una delle loro sedi significa che sappiamo chi sono i nostri nemici. Un attacco informatico, serve a mostrare tutta la debolezza delle fondamenta su cui hanno costruito questa società di menzogne e che abbatterla è possibile. Le nostre azioni sono messaggi. Per voi sono atti terroristici per produrre disordine e paura. Senza un senso, senza uno scopo. Per noi sono il manifesto della nostra esistenza. È la storia dell’albero che cade nella foresta, se non ci fosse qualcuno ad ascoltarlo, farebbe rumore? È un dire noi ci siamo. Noi stiamo combattendo e siamo disposti a tutto pur di vincere. Ogni azione d’impatto mondiale fa crescere il numero di persone pronte a ingrossare le nostre fila. Mi hanno detto che per uno che è catturato o ucciso più di cento sono pronti a prendere il suo posto. Un rapporto di uno a cento, rende le perdite meno pesanti; certo, c’è un discorso qualità, non sto dicendo che un novellino sia la stessa cosa di un veterano, ma in battaglia anche la quantità ha il suo peso. Se avessimo pensato solo alla nostra sicurezza, ora saremmo estinti. I comunicati, i manifesti, i blog, i forum, i messaggi cifrati, i video fanno parte della nostra strategia di comunicazione. Se conosco i nomi della mia cellula? Non usiamo i nostri veri nomi, a quest’ora li avranno già cambiati e lo stesso vale per gli indirizzi. È inutile, ma se volete prendete carta e penna… per me non ci sono problemi, quello che so è a vostra disposizione. Non ci nascondiamo più nelle periferie delle città, i nostri sono medici, giornalisti, spazzini, camerieri, manager, poliziotti, casalinghe, studenti. Alla luce del sole. In questi ventidue anni abbiamo creato una rete enorme. Ora per essere parte del primo livello, della base basta volerlo e aspettare l’occasione. E di questi tempi un’occasione arriva sempre… Nel duemilaventitre?
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Nel duemilaventitre era diverso. Il reclutamento era diretto da persona a persona. Sulla grande rivolta non ho molto da dire. Dovete capire che nel duemilaventitre ero arruolato da meno di un anno, non ero nemmeno un effettivo, non partecipavo alle riunioni. Mi chiamavano quando avevano bisogno. Quello che so è quello che mi hanno detto: la nostra azione non fu coordinata. Fummo lenti, disorganizzati e imprecisi; demmo loro il tempo di rialzarsi e organizzare la repressione. Spietata e implacabile. Il resto lo sapete anche voi. Processi sommari, esecuzioni, tutti i giorni nuovi arresti. Ero preoccupato, ero preoccupato per Rebecca. Io non ero nessuno, nessuno conosceva il mio nome, al massimo la mia faccia, ma una faccia è uguale a tante altre. Invece Rebecca era una reclutatrice, era membro del comitato direttivo della regione, la conoscevano centinaia di persone. Se qualcuno di noi due stava rischiando la vita quella era lei. Ricordo che veniva nel mio appartamento di notte passando dalla scala antincendio, entrava da una finestra che lasciavo aperta, per non farsi vedere dai vicini, e se ne andava prima che fosse mattino. Non so quante volte nel cielo opaco come il metallo prima dell’alba, mentre ancora eravamo nel letto abbracciati, ho pensato che quello era il meglio della mia vita. E lo sarebbe stato sempre. Non so cosa facesse di giorno. Lo sapete, non puoi raccontare quello che non sai, ma in quei mesi venne da me quasi tutte le notti. Tutto era fermo: reclutamento, riunioni, furti e attentati, eravamo intenti a leccarci le ferite, a tremare ogni volta che il campanello suonava inaspettato, a scorrere con ansia sui giornali la lista degli arrestati per vedere se c’era qualcuno che avrebbe potuto coinvolgerci. Fummo fortunati, il nostro era un piccolo gruppo, e fummo toccati marginalmente dalla repressione. Ma quei tre mesi non li potrò dimenticare. Rebecca era mia tutte le sere e non dovevo dividerla con nessuno. Lo so, è nella natura delle cose. È nella natura del nostro rapporto che lei non fosse solo mia. Fin dall’inizio è stata onesta con me. Una reclutatrice usa il sesso per creare un legame: non ero l’unico, non sarei mai stato l’unico. Questa era la vita che lei aveva scelto. Eppure, per me, lei è stata l’unica.
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Potrei sembrare ingenuo a pensare che anch’io ero speciale per lei, ma ne sono convinto. Credo siano stati quei mesi a rendere il nostro rapporto speciale. Quando eravamo soli, quando la lotta non esisteva più, se non come un lontano fantasma sullo sfondo delle nostre vite. Poi una notte entra dalla finestra con una luce diversa negli occhi, e io capisco subito che la nostra breve vacanza sta per finire. «Si ricomincia, Ben» mi fa slacciandomi i bottoni della camicia. «Ho parlato con alcune persone, dicono che dobbiamo fare qualcosa di grosso per riallacciare i contattati con i nuclei rimasti, per attirare la loro attenzione, che siamo pronti a continuare a combattere» continua baciandomi sul collo e poi scendendo più in basso, facendo scivolare la zip dei pantaloni, guardandomi negli occhi. «Facciamo saltare in aria la Sifar e ci serve il tuo aiuto. Questa volta facciamo sul serio, sei pronto?».
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Interrogatorio – Distretto di polizia di New York Sabato 25 Marzo ore 11.58 Anno 2045 «Vieni qui». Era la ragazza che mi aveva schiaffeggiato. «Dai, vieni, non mordo mica». Non mi aspettavo di rivederla. Certo non mi aspettavo di rivederla così presto. Erano passati tre giorni, e la trovo ad aspettarmi fuori dall’ufficio durante la pausa pranzo. Avrebbe potuto essere una terrorista, ma quel giorno con un vestito a fiori, sotto il sole della primavera, sembrava solo una ragazza che doveva avere pressappoco la mia stessa età.
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«Ti volevo ringraziare per non avermi denunciato» mi dice sorridendo. «Al posto tuo non so quanti l’avrebbero fatto». «In realtà ci ho pensato» le dico, incerto sul modo giusto di comportarmi. «Ci hai pensato e non l’hai fatto» risponde porgendomi la mano, sorridendo. «Mi chiamo Rebecca. Ti va di mangiare qualche cosa con me. Sto morendo di fame, non mangio da ieri sera. Conosci qualche posto qui intorno?». La porto in un bar un po’ lontano, non vorrei che qualcuno dei miei colleghi ci vedesse insieme. La osservo mentre ordina uova e bacon come uno osserva un orso bianco. Sai che esiste ma non ti aspetti d’incontrarlo. «Rebecca è un nome ebreo ma io non sono ebrea» mi spiega. «Io non sono niente». «Significa, non ridere, colei che avvince gli uomini con la bellezza». «Anche il tuo nome è ebraico, Benjamin significa il prediletto» aggiunge bevendo Coca-Cola. «Non pensavo che anche voi beveste Coca-Cola». «Tutti bevono Coca-Cola» risponde ridendo sfiorandomi il braccio. Ha gli occhi verdi. Capelli neri e occhi verdi. «Chi sei?» le domando. «Una ragazza che ti deve un favore. Non andare a lavoro per qualche giorno, anzi per sicurezza resta a casa tutta la settimana» e si alza dalla sedia. «Come fai a sapere che non andrò a denunciarti?». «Ti ho appena salvato la vita, ora sei tu a dovermi un favore» e mi dà un bacio sulla guancia soffice come la rugiada. Mi lascia lì seduto al tavolo col conto da pagare e il barista che mi guarda sospettoso da dietro al banco. Perché non sono corso dalla polizia non lo so. Semplicemente mi sono alzato, ho lasciato dei soldi sul tavolo e le sono corso dietro. A volte tutta la vita mi sembra come una corsa senza fine dietro qualcosa, dietro a qualcuno che per quanto mi sforzi non riuscirò mai a raggiungere. Quel giorno la fermai un attimo prima che salisse su un autobus. Un attimo prima. Un attimo ancora e non l’avrei più rivista.
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«Voglio aiutarvi. Unirmi a voi» dissi ansimando. «Non sono uno stupido». «Giovedì prossimo alle otto a casa tua, Ben. Giusto per fartelo sapere, mi piace la cucina giapponese». Restai a casa per il resto della settimana. Non successe niente. Solo un anno dopo seppi cosa non aveva funzionato. Perché lunedì andai a lavoro come ogni altro lunedì della mia vita. E muri, cancelli, vetri e finestre tutto quanto era lì al suo posto. Andiamo ragazzi, chi non ha mai sognato di vedere saltare in aria il proprio luogo di lavoro. Quel giovedì mangiammo giapponese. La cucina giapponese. La cucina giapponese io la odio.
QUARTO INTERLUDIO Quanti ne hanno consapevolezza? Il significato? Risvegliare le menti. Trasformare in lupi le pecore. Iniettare adrenalina nel cuore flaccido e grasso della società. E vedere quel che succede. Se succede. Una volta esistevano gli eroi. Una volta esisteva la vita, la vita con la V maiuscola. Una volta esisteva la morte. Mi guardo intorno e mi sembra non esista più nulla. Non accettiamo di vivere, non accettiamo di morire. Smettiamo di esistere senza avere vissuto. Chiudiamo gli occhi, senza aver vissuto. Siamo la plastica del ventesimo secolo. Un prodotto di scarto, obsoleto e inquinante. Stiamo fermi
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ad assistere alla nostra decomposizione solo che non siamo nemmeno capaci di decomporci, siamo insetti in giostra intorno a una candela. Pensi davvero di sconfiggere il sistema con la forza delle opinioni? Pensi di farlo con slogan e manifestazioni? Pensi davvero che la libertà è partecipazione? Forse hai ascoltato troppa musica che loro hanno scritto per te. Letto troppi libri che hanno pubblicato per te. Hanno inserito chip nella tua mente per tenerti controllato quando dormi e credi ancora lo facciano per il tuo bene? Nonviolenza. La forza delle idee. Impegno civile. Yes, we can. Hansel e Gretel Credi ancora nelle favole? Toc…toc… Biancaneve, c’è nessuno in casa? Dopo Buenos Aires, credi ancora in quello che ti raccontano i network. Alle notizie che ruotano ogni volta che ti connetti alla rete. Guerra, inflazione, speculazione, terrorismo, stato sociale, criminalità organizzata, immigrazione, debito pubblico, il tuo vicino di casa ha ucciso sua madre, prostituzione minorile, microcriminalità, zingari, droga. Tuo figlio si droga. Il tuo vicino di casa è un assassino. La strega nella casetta di fottuto marzapane. Ti stanno dicendo che là fuori c’è il pericolo e tu sei solo. Così che tu non ti accorga dov’è nascosto il pericolo. Tanto è del tuo vicino di casa che ti devi preoccupare. Tanto ci sono gli zingari. Ci sono gli immigrati. Hai la testa ingombra di cazzate. Magari sei andato a scuola, magari ti sei laureato. Ti credi parte della minoranza morale, della minoranza culturale. Pensi di essere diverso? E ti senti libero, ti senti felice perché ti senti diverso. Diverso dall’operaio precario che aspetta Natale per andare al cinema. Diverso
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dallo zingaro che vive in una roulotte. Diverso dalla puttana che ti succhia l’uccello ogni mercoledì sera. Tu e i tuoi vestiti italiani. Tu e le tue vacanze in Grecia. E i tuoi vini francesi e le tue macchine tedesche. Pensi di essere diverso? Sei la foca ammaestrata del mondo. Sei un prodotto della FCDS. Fabbrica cosmica di stronzate. Tieni una palla sospesa sopra al tuo naso e ti compiaci degli applausi. E non ti accorgi che il pesce che ti danno è marcio. Cosa credevi fosse quell’odore? Come chi crede che cultura significhi intelligenza. Cos’è cultura? Cos’è intelligenza? È per il dottorato che hai appeso sul muro del soggiorno che credi di essere più intelligente? Ti sei mai fermato a chiederti cosa ti hanno fatto studiare? Adesso che hai letto Foer ti senti più intelligente? Hai visto il tuo film intelligente? Sei stato a quella conferenza con altre persone intelligenti? Ti senti parte della minoranza morale. Ti senti parte della minoranza culturale? Dividi et Impera. Dicevano gli antichi romani, mentre dettavano ai popoli sconfitti condizioni di pace differenti, perché la paura di perdere i loro pochi privilegi, facesse da freno a una sollevazione compatta dei propri nemici. Questo te l’hanno insegnato a scuola? Separa e comanda. Inizi a comprendere il prezzo della tua vita? A quanto la stai svendendo? Separa e comanda. Inizi a intenderne il significato. È tempo di saldi. Separa e comanda. Cristiani e Mussulmani. Saldi, Saldi, Saldi.
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Separa e Comanda. Bianchi e Neri. Separa e Comanda. Nord e Sud del mondo. Separa e Comanda. Ricchi e poveri. Separa e Comanda. Cos’è un ricco? Un‘illusione. Cos’è un povero? Un’illusione. Siamo la superficie deformante del mondo. Talmente ricurvi su noi stessi da impedirci di vedere l’unica reale distinzione. Noi e loro. Gli schiavi e i Padroni. Separa e Comanda. Separa e Comanda. Separa e Comanda. È questo il ritmo della loro canzone.
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Interrogatorio – Distretto di polizia di New York Domenica 2 aprile ore 6.23 Anno 2045 L’unica ragione per cui abbiamo fatto saltare in aria la Sifar fu attirare l’attenzione. Gli arresti dell’estate avevano fatto saltare ogni collegamento della nostra cellula con la struttura centrale. Come il serbatoio usato di uno shuttle, al minimo segnale di pericolo ogni contatto è reciso. Avevamo bisogno di qualcosa di eclatante. Qualcosa che avrebbe costretto il rutilante occhio della propaganda a fermarsi sulla nostra anonima, tranquilla città per più di qualche secondo. Avremmo reso la nostra piccola città meno anonima. E molto meno tranquilla. Un anno prima la stessa azione era stata annullata poco prima di essere messa in atto; fu appena prima del mio arruolamento; ora ci trovavamo in una situazione molto più difficile. Dopo la primavera del 2023, le misure di sicurezza non erano mai state tanto feroci: ogni giorno all’ingresso tutti i dipendenti dovevano passare attraverso un body scanner, quindici uomini delle forze di sicurezza erano sempre presenti pattugliando l’interno e l’esterno dell’edificio insieme a due unità cinofile per il ritrovamento di esplosivi. L’accesso alla rete pubblica era controllato, e quella interna schermata con privilegi ristrettissimi. Un lunedì tutto il mio ufficio fu interrogato. A fianco del direttore del personale c’era un funzionario dell’antiterrorismo. Nome, cognome, da quanto tempo è stato assunto? Fidanzato, sposato, omosessuale? Ha votato alle ultime elezioni e se sì ci vuole dire per chi ha votato? Glielo domandiamo giusto perché data l’attuale particolare situazione… per la vostra sicurezza, se vuole può rifiutarsi di rispondere. Ma certo, capisco perfettamente, per la nostra sicurezza…
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Cosa pensa degli incidenti di questa primavera? Sa che abbiamo effettuato degli arresti anche in questa città? Conosceva qualcuna di quelle persone? L’ho sentito dire, viviamo in tempi difficili. I nostri informatori dicono che potrebbero organizzare un attentato alla vostra azienda. Sospettiamo che uno di loro si possa essere infiltrato all’interno. Ha mai notato niente di sospetto? Qualcuno dei suo colleghi? Qualche sospetto, non saprei. Io non… non mi pare, ma terrò gli occhi aperti signore. No, non ero preoccupato dall’interrogatorio. La Sifar era l’unica azienda di una certa importanza dello stato, era sotto controllo da mesi e dopo gli ultimi sviluppi era ovvio avrebbero aumentato le misure di sicurezza. E per quanto riguarda l’infiltrato, credo mentissero. Soprattutto lo speravo. La nostra idea era agire in fretta. Esiste un giusto tempo, se agisci troppo in fretta rischi di essere impreparato, ma se attendi troppo marcisci nell’attesa. Eravamo quindici, così mi dissero Rebecca e Colas. Colas era l’organizzatore. Ogni cellula ha un organizzatore e una reclutatrice, questa è la regola. Il nostro vero organizzatore era stato arrestato, Colas era secondo per anzianità. Rebecca l’aveva promosso sul campo. Reclutatore e organizzatore di regola non s’incontrano mai, uno non conosce il volto dell’altro, per ragioni di sicurezza, per proteggere la cellula. Camminavamo su un filo molto sottile. Ciclotrimetilene trinitramina. Esplosivo al plastico. Era quello il piano fallito un anno prima. I ragazzi erano riusciti a mettere le mani su tre tonnellate di esplosivo. Il C4 è la Rolls Royce degli esplosivi al plastico, usato da tutti gli eserciti del mondo. Assolutamente stabile, e altamente, altamente distruttivo. Nulla a che spartire con nitro o dinamite che basta uno scossone per ritrovarsi al creatore. Senza un detonatore il plastico non è più pericoloso dello zucchero filato, garantito. Il problema, anche quando disponi di tre tonnellate di esplosivo è far arrivare questo esplosivo dove deve andare, e, se il posto dove deve an-
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dare è circondato dall’esercito, schermato dalle squadre informatiche e presidiato da unità cinofile, il problema assume proporzioni rilevanti. Avete presente un elefante? Avevamo una finestra di tre settimane per far entrare questo elefante alla Sifar. L’anno prima erano arrivati molto vicino a riuscirci. Avevano fatto entrare l’esplosivo nascosto sotto vuoto in pacchi destinati alla cancelleria. Possono passare anni dall’arrivo di questi pacchi al momento del loro utilizzo e per quello che potevo sapere nessuno aveva ancora scoperto niente. Non so quanto ne avessero fatto entrare, comunque, se lo metti nei punti giusti, ti bastano molto meno di tre tonnellate per far saltare un edificio. Tutto inutile però senza la persona che prenda le cariche, le posizioni e le colleghi a un detonatore, e soprattutto che sapesse in quali pacchi fosse nascosto l’esplosivo. Un anno prima la persona giusta c’era, uno degli addetti alle pulizie, ma era stato arrestato proprio quando l’attentato era imminente. Se all’interno dei magazzini era rimasto dell’esplosivo, recuperarlo era impossibile. Portarne altro all’interno dell’azienda, con le nuove misure di sicurezza, lo era altrettanto. In sintesi quasi tre tonnellate del miglior esplosivo sulla piazza, nessuna idea di come usarlo e sempre meno tempo per trovare una soluzione. Mi piacerebbe sapere che fine ha fatto Colas. Era un bravo ragazzo. Erano tutti bravi ragazzi. Mi piacerebbe sapere che sono ancora vivi. Mi piacerebbe sapere se Rebecca è viva. Fine anteprima. Continua...