RAFFAELLA ORSI
QUASI UNA VERTIGINE
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QUASI UNA VERTIGINE Copyright Š 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-575-5 In copertina: Immagine Shutterstock.com
Prima edizione Luglio 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova
A mia madre e a mio padre, con infinito amore. A Giovanni Palladino, sempre nel mio cuore.
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Prefazione
Finalmente. Un romanzo che apre delle finestre sulla vita dei comici. Parole che descrivono la loro fragilità, l’incoerenza, l’ingenuità e la confusione della loro vita privata . Famosi e sconosciuti, pieni di talento, paure e presunzioni, le loro storie d’amore, esaltanti, gioiose, squallide , disinteressate e profondamente affascinanti. Finalmente. Un romanzo vero che racconta di una categoria di persone che spesso sono il contrario di ciò che appare, ma non per falsità congenita, no… per mestiere ! Un mestiere duro nonostante la sua leggerezza, difficile nonostante la sua apparente semplicità. “Capirai che fatica… Spari due cazzate e prendi un sacco di soldi…!” Non è così. È tutto molto più tormentato, dal momento in cui si pensa di avere un talento a disposizione, fino al successo, pesante, sempre colpevole dei cambiamenti peggiori di chi lo raggiunge, soprattutto se in fretta. È tormentato anche per i comici che il talento credono di averlo e invece non ce l’hanno, e nessuno tra i loro affetti riesce a convincerli a smettere. È tormentato ancor di più per chi invece si rende conto e smette, e avrà a che fare per sempre con una sconfitta mai presupposta. Un romanzo che non sbaglia nulla su ciò che succede veramente nella vita dei comici, scritto (e si capisce) da una persona che ha dedicato una vita intera a cercare uno spazio, a creare una chance,
6 stando vicino ogni giorno a questa categoria tanto invidiata e conosciuta sui teleschermi, quanto mai capita come invece bisognerebbe che fosse. Finalmente anche i comici si possono guardare da dietro. Enzo Iacchetti.
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Quasi una vertigine
Dormiva con la testa sulla mia spalla nuda, un braccio attraversava i miei fianchi e la mano ricadeva sul letto, l’altra mano pesava immobile, con il palmo rivolto al soffitto, sul mio collo. Era passato mezzogiorno e non mi decidevo a svegliarlo, era l’ultima volta che quel corpo così familiare abitava le mie lenzuola. Il suo respiro era pesante e profondo. Io, la mia casa e tutti i miei oggetti eravamo immobili, increduli, muti spettatori di quell’immagine così perfetta e così dolorosa. Spezzai l’agonia di quel momento svegliandolo. Ci alzammo. Lui nascondeva l’imbarazzo di chi raccoglie le sue ultime cose, parlando a raffica di tutti gli impegni che aveva e io facevo lunghi respiri per combattere contro il cuore che picchiava all’impazzata, contro lo smarrimento che velocemente mi stava avvolgendo. Quando richiusi la porta alle sue spalle, mi parve che la mia vita fino a quel giorno, e tutto il mondo che la racchiudeva rimanessero chiusi fuori insieme a lui.
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Primo capitolo
La prima volta che lo vidi, lo guardai appena, ero nella confusione di un locale affollatissimo. La mia amica Francesca mi aveva ingaggiato per un servizio fotografico a Michele, un comico che conoscevo da anni ma che da molto non vedevo e volevo dargli una sbirciatina mentre era sul palco, prima di averlo in studio. Come sempre, una folla oceanica si era riversata nel grande locale per applaudire gli ormai famosi personaggi di Michele, un vero animale da palcoscenico, un fenomeno della comicità. Francesca e Roberto avevano riservato un tavolo che raggiungemmo sgomitando in mezzo a quella bolgia di gente accalcata in piedi, mi sentii quasi in colpa di potermi sedere. Francesca era l’agente di Michele ed era orgogliosa di quel successo che si ripeteva da anni, tutte le sere, in qualunque locale, teatro o discoteca. «Francesca, dì la verità, non cominci a sentirti importante?» «Ma smettila! Adesso dovrebbe esserci un comico giovane, apre lo spettacolo di Michele, così vedo come se la cava. Mi ha chiesto di dargli qualche consiglio... e di trovargli qualche serata!» Il giovane cabarettista salì sul palco dopo una presentazione frettolosa, il pubblico aspettava Michele e non si curò molto di lui e neanch’io riuscii a seguirlo. Arrivò il cameriere a portarci i nostri gin-tonic, poi Roberto e io cominciammo a sbirciare Francesca, tutta assorta nel suo ruolo di talent-scout, prendendola in giro per tutta la durata dell’esibizione. Poi mi chiese: «Come ti è sembrato?» «Non lo so, mi sono distratta, però non sa vestirsi!» «In che senso?»
10 «Si intuisce che è agli esordi prima ancora che apra la bocca. Gli esordienti hanno spesso questo modo di vestirsi con camicie colorate, gilet, montature di occhiali vistose… Non siamo mica al circo!» «Che criticona! Se il comico fa ridere nessuno si ferma a considerare com’è vestito!» «Allora non fa ridere!» «Non l’hai neanche ascoltato.» «L’hai detto tu che se qualcuno si ferma a considerare il look è perché non sta ridendo. E in ogni caso lo spettacolo è anche immagine, anche se questa è comicità di parola. Potrebbe essere interessante vestirsi in modo neutro per spingere lo spettatore ad ascoltare i testi, a guardare solo l’espressione del volto, del corpo, la mimica…» M’interruppe: «Magari dovrebbe fare come te, vestita nero integrale, mi sembri sempre in lutto. Devo dire che s’intona con i tuoi sermoni!» Ridemmo tutti e tre, intanto arrivò il giovane comico al nostro tavolo e con un po’ di imbarazzo chiese com’era andata. «Bene» disse Francesca. «C’è qualcosa da sistemare, però! Bisogna che ti riveda in un’altra occasione. C’è del buon materiale ma c’è anche da sfoltire. Un paio di battute già sentite, qualche volgarità gratuita... Se vuoi ci rivediamo e ti dico! Ti presento Giulietta.» «Ciao.» «Piacere... E Romeo dove l’hai lasciato?» Lo guardai negli occhi con aria di compatimento e polemicamente gli risposi: «È da quando sono piccola che mi fanno questa battuta, da un comico mi aspettavo qualcosa di più originale!» «Hai ragione, è che volevo fare il simpatico e non mi veniva niente! Sono Guido.» «Piacere, Guido… E la macchina dove l’hai lasciata?» Rimase qualche secondo immobile senza aver capito, poi comprese la brutta battuta equivalente alla sua. «Me la meritavo, hai ragione.» Ci guardò ridacchiare e poi: «Bene, dopo questa figura di merda io me ne andrei... Buona serata a tutti. Francesca, noi ci sentiamo per telefono.» «Va bene, ciao Guido.»
11 La mattina seguente mi svegliai male, avevo fatto troppo tardi e avevo forse esagerato con i gin-tonic, ero stordita e avrei voluto solo dormire, invece mi aspettava una giornata in studio. Arrivò sera, era domenica e il mio fidanzato mi aspettava a cena da lui. Da casa mia, sul Lago Maggiore, dovevo raggiungere Milano entro un’ora. L’autostrada dei Laghi la domenica era sempre intasata dai milanesi che facevano ritorno in città, poi c’era da superare il traffico cittadino. Era fine settembre, le giornate erano ancora limpide e tiepide e il sole veniva rincorso con la preoccupazione che potesse essere l’ultimo giorno d’estate. Mi misi in viaggio verso la metropoli, euforica di raggiungerlo. Pregustavo la cenetta che spesso consumavamo ridendo e prendendoci in giro su tutto, a volte ci bevevamo una bottiglia di rosso, le risate aumentavano e proporzionalmente diminuivano le buone intenzioni di uscire dopo cena. Finivamo barcollanti sul grande letto e tra un dispetto e una coccola cominciavamo a goderci la nostra tenera e amorevole intimità. Arrivai un po’ in ritardo, Lorenzo venne ad aprirmi il cancello con quel mezzo sorriso e gli occhi sfuggenti tipici delle sue giornate no. Tirai un lungo sospiro imponendomi di non perdere il mio buonumore, nonostante la delusione di trovarlo poco entusiasta del mio arrivo. «Vieni, vieni, sto cucinando per te, ti ho fatto la minestra d’orzo. Io non mangio, non sto bene.» «Mi spiace, cosa ti senti?» «Boh, non so, sto male, la testa, la schiena...» «Non hai preso niente?» «No.» Lo disse seccato per sottolineare che non avrei nemmeno dovuto chiederglielo, conoscevo la sua avversione per i medicinali. «E allora non mangi?» «No, ti guardo... Ti apro il vino?» «Sì, grazie.» «Guarda che se me lo fai aprire, poi te lo devi bere perché io non bevo e a lasciarlo aperto diventa cattivo.» «Non pretenderai che secchi una bottiglia di vino da sola?»
12 «E allora non bere neanche tu.» La sua conclusione mi innervosì quanto quell’atteggiamento che aveva quando non stava bene. Mi obbligava a una distanza che non capivo, il suo malessere coincideva sempre con un malumore che escludeva qualsiasi possibilità di amorevolezza. «Perché non provi a farti una camomilla?» Sbuffò senza nemmeno rispondere alla mia banalità. «Ti è andato storto qualcosa?» «Certo non va alla grande! Lavoro poco... Sì, qualche spettacolino, ma niente di grosso.» «Sii ottimista, qualcosa succederà!» Dai suoi occhi azzurri mi arrivò uno sguardo obliquo pieno di sufficienza per la mia seconda banalità. Non contenta tornai all’attacco. «Quando hai scelto questo lavoro sapevi che avresti percorso una strada con poche certezze, è il prezzo dell’arte, è ciò che ti fa grande!» «Tu non capisci che l’attore esiste solo quando lavora, solo quando è sul palcoscenico, quando te ne stai a casa e non lavori non sei niente!» «Adesso esageri, tu sei vivo anche in quanto uomo, figlio, fidanzato, amico. Non puoi escludere tutto il resto!». Mi feriva profondamente l’idea che si sentisse vivo solo in quanto attore, io nella sua vita non contavo proprio niente? «Facile per te! Parli così perché non hai i miei problemi, intanto non hai la mia età, tu sei giovane, e poi con il tuo studio, le tue foto, te la caverai sempre!» «Il mio studio e le mie foto non mi sono piovute dal cielo, non capisco perché quello che mi sono costruita io deve essere stato facile ed è difficile solo ciò che fai tu!» Il disprezzo con cui aveva pronunciato “il tuo studio, le tue foto” mi fece perdere la voglia di consolarlo del suo malessere. Si era seduto dietro alla scrivania, ricurvo sul giornale aperto, fumando a lunghe boccate; quella scrivania era la sua trincea, si piazzava in difesa con le spalle al muro,gli occhi sul giornale e tutto di lui sembrava dire «Non oltrepassare la mia barricata, non dire altro, non ti voglio sentire.»
13 Lo guardavo dal tavolo dove mi ero ritrovata sola, con la mia minestra d’orzo oramai fredda e la bottiglia del vino ancora chiusa; ora vedevo soltanto un uomo egoista, chiuso al dialogo, chiuso al mio amore, chiuso al mondo. Mi sembrava la squallida scena di un film, la sua strana casa un po’ rattoppata che mi era sempre sembrata molto bohémienne stava trasformandosi ai miei occhi in un bilocale sporco e umido, la minestra biologica tanto “tendenza” stava diventando la cena di un poveraccio, il buco sfilacciato nella tovaglia a quadretti bianchi e rossi e il foglio di Scottex al posto del tovagliolo non sapevano più di “non-perdiamoci-in- fronzoli” ma diventavano “nonmi-curo-di-te”. Fu lui a rompere il silenzio che si faceva pesante. «Dai, andiamo al cinema.» In macchina, durante il tragitto, era silenzioso e cupo. Guardavo il suo profilo intento alla guida, il suo naso dritto, i suoi capelli scuri appena brizzolati sulle tempie e sempre un po’ spettinati arrivavano ad appoggiarsi alle spalle,le sue belle mani che stringevano il volante sembravano quelle di un ragazzo. Quanto amavo quell’uomo, fissavo le sue mani cercando di risentire il calore delle sue carezze. Nel buio del cinema cercai la sua mano ma non c’era trasporto in quella stretta e di nuovo l’idea che la mia presenza non potesse portargli gioia mi offese. Usciti dal cinema tornò la voglia di chiacchierare, discutemmo a lungo del film, degli attori, dell’uso della camera, delle inquadrature, delle luci, degli effetti speciali. Non riuscivamo mai a guardare un film godendoci semplicemente la storia: deformati dalle nostre professioni, non potevamo fare a meno di guardare oltre la trama. Consideravamo come avevano potuto ottenere quella luce, quell’effetto, quel colore, oppure dove potevano aver piazzato la camera. Un po’ mi dispiaceva questa inevitabile lettura dei film. Avrei voluto, come facevo
14 tanti anni prima, lasciarmi trasportare dalla storia e dalle emozioni dei protagonisti, viaggiando fuori dalla mia realtà . Tornammo a casa sua, con qualche gentilezza cercai di ristabilire la tenerezza fra noi: fu inutile. Finimmo a letto, con la televisione accesa a rivedere i goal delle partite pomeridiane. Nel tentativo di addormentarmi mi giravo e rigiravo con la tentazione di alzarmi,vestirmi e tornarmene a casa mia. Al risveglio il suo umore non era cambiato, la mia frustrazione aumentava e dopo un caffè veloce al bar e poche parole di saluto mi misi in viaggio verso casa. In autostrada alzai il volume dell’autoradio, Eric Clapton suonava il suo blues triste e profondo e con dolore percepii il vuoto che sentivo dentro, visualizzai il buco che non riuscivo a colmare e che avevo sperato potesse riempire Lorenzo.
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Secondo capitolo
Ero nel mio studio, assorta nella scelta di alcuni provini quando squillò il telefono. «Pronto.» «Ciao Giulietta, sono io.» «Ciao Franci, come stai?» «Bene, stasera dovresti accompagnarmi allo spettacolo di Michele, così ci mettiamo d’accordo per il servizio fotografico.» «No, Franci, ti prego, stasera no, il lunedì sera non esco! E poi sono depressa e l’ultima cosa che vorrei fare è buttarmi nella mischia!» «Perché sei depressa?» «Ho passato una domenica di merda.» «Perché? Non sei andata da Lorenzo?» «Sì, sono andata da lui, uno strazio. Era in crisi e sai che quando è in crisi io non esisto più.» «Bel cretino! Ma lo sa quanti corteggiatori hai?» «Cosa vuoi che gliene importi! Lui pensa solo a se stesso, al suo lavoro, al suo palcoscenico, al suo successo!» «Ecco un buon motivo per uscire questa sera! Pensa anche tu a te stessa e mandalo a cagare che non ti merita!» «No, ti giuro, ho solo voglia di buttarmi sul mio letto.» «Ok, ti passo a prendere stasera alle nove.» «No, Francesca, davvero!» «Ciao, a dopo.» Mi attaccò il telefono e alle nove in punto erano nel cortile di casa mia: lei, Roberto e un tipo mai visto con un mazzo di fiori per me. Per un secondo la odiai per essersi portata quel tipaccio con l’aria da playboy da strapazzo. «Ti presento Sergio, un mio amico di vecchia data.» «Di vecchia data? – replicai subito - ma se non l’ho mai sentito nominare, né l’ho mai visto?» «È tanto che non ci frequentiamo ma lo conosco da tanti anni.»
16 «Francesca e io ci frequentavamo tanti anni fa, poi io mi sono sposato e ci siamo persi di vista.» «Capisco. E tua moglie dov’è?» «Non lo so, ci siamo separati.» «Io invece sono fidanzata.» La mia risposta veloce e secca ottenne l’effetto desiderato: per tutto il viaggio verso Milano Sergio non fiatò. Mi sentivo a disagio, avevo messo a disagio lo sconosciuto e Francesca mi avrebbe messo le mani al collo, se avesse potuto. Cominciai a pensare alla ‘bella seratina’ che mi si prospettava, avrei voluto essere a casa mia, nel mio letto. No, avrei voluto essere a casa di Lorenzo, nel suo letto, avrei voluto tornare ai primi mesi del nostro amore. Francesca interruppe i miei pensieri. «Giulietta siamo arrivati, se voi volete scendere io e Roberto andiamo a parcheggiare.» Appena scesi dalla macchina incontrammo Michele, gli presentai Sergio quale vecchio amico di Francesca ed entrammo nel locale. Ci fermammo tutti e tre in un piccolo atrio subito dopo l’ingresso dove arrivò il titolare del locale, prontamente avvisato dal ragazzo della Security. Il boss era un uomo sulla cinquantina con i capelli brizzolati e un abito scuro molto elegante. Michele cominciò le presentazioni di circostanza e mi indicò come la sua fotografa; ci fecero accomodare sui divanetti di jeans e una ragazza indaffarata che correva da tutte le parti trovò il tempo di offrirci da bere. Il locale era nato come disco-bar multifunzionale: un banco bar imponente, una zona divanetti, una zona video con megaschermo e infine una zona spettacolo con un grande palco e una vasta platea. Il proprietario era eccessivamente affettato, Michele gli garantiva il “tutto esaurito” persino il lunedì sera e quindi era sua preoccupazione attorniarlo di attenzioni e salamelecchi. Mi si rivolse cerimonioso: «Visto che tu sei la fotografa di Michele, mi interessa un tuo giudizio artistico. Dopo fatti un giro e dimmi cosa ne pensi del mio locale.» Lanciai a Michele un’occhiataccia per avermi presentato come la sua fotografa, non lo ero affatto, in tanti anni che lo conoscevo lo avevo solo fotografato in vacanza come tutti gli altri amici. Da lì a qualche giorno gli avrei fatto un servizio fotografico ma questo non faceva di
17 me la sua fotografa. Forse l’aveva fatto pensando di darmi importanza ma invece mi sentii sminuita della mia indipendenza e mi sentii usata da lui: forse l’idea di avere una sua fotografa faceva sentire importante soprattutto lui. Era tanto che non lo frequentavo ma ricordavo benissimo il suo vizio di sminuire gli altri, probabilmente lo credeva l’unico mezzo a sua disposizione per sentirsi più in alto. Ma perché ne aveva bisogno? Non aveva forse talento e fama? Michele faceva finta di parlare con noi ma in realtà sbirciava il pubblico che cominciava a transitare davanti al piccolo atrio dove ci trovavamo; controllava se lo avevano notato o se lo avevano riconosciuto, ogni suo gesto non era più naturale, cominciava il suo show fatto di facce strane e movimenti clowneschi, qualunque posto poteva diventare il suo palcoscenico, bastavano poche persone che lo guardassero e noi diventavamo le comparse del suo spettacolo. Rimanevo sempre colpita da questo piccoletto che non smetteva mai di recitare e, quando lo faceva per mancanza di platea, sembrava scomparire. Come un lampo mi tornarono alla mente le parole di Lorenzo “L’ attore esiste solo quando lavora, quando calca il palcoscenico”. Il dubbio che quella fosse una regola e che davvero nella vita di un comico o di un attore non potesse contare nient’altro mi assalì. Mi alzai e andai a girovagare per il locale che si stava affollando, in mano avevo la flûte di spumante, deglutii d’un fiato il fresco e frizzante liquido come se potesse colmare quel buco dentro di me. Arrivò Francesca, mi recuperò non lontano dal gruppetto da cui mi ero staccata e mi tirò per un braccio in disparte, costringendomi a sedere con lei su un divano. «Senti tesoro, non te lo devi portare a casa il mio amico Sergio ma cerca di essere un pochino più gentile con lui, non conosce nessuno, è un pesce fuor d’acqua.» «Franci, è la serata sbagliata, già non avevo voglia di uscire, figurati se ho voglia di fare l’assistente sociale!» «Nessuno te lo chiede, cerca di goderti la serata per quello che è, non vorrai rovinarti l’esistenza pensando a Lorenzo!? Tu sei qui e devi vivertela, non ci sarà un altro momento uguale a questo!» «Questa notizia mi dà sollievo, non potrei sopportarne un altro!»
18 «Ma se Lorenzo ti fa stare male, perché non lo lasci?» «Non mi fa stare sempre male. E poi sono innamorata!» «Cosa vuol dire essere innamorati? Se non sei felice non vale molto questa parola!» «Se tutti ragionassero come te non ci sarebbe in giro una sola coppia, tutte le storie hanno dei momenti di crisi, non per questo si devono per forza chiudere.» «I momenti di crisi vanno affrontati. Ma se non c’è l’intenzione da entrambe le parti...» «A lui importa solo del suo lavoro... Ma io sono ancora innamorata, come potrei chiuderla?» «Forse ti piace soffrire, l’amore è gioia, non sofferenza.» «Questa l’hai letta nei Baci Perugina.» «Tu pensi che l’amore vero faccia piangere? Ti sbagli, noi cerchiamo le lacrime perché la crisi ci fa sentire vivi e perché così possiamo dare un nome alla nostra sofferenza, possiamo incolpare qualcun altro del nostro disagio, possiamo delegare qualcun altro alla nostra felicità. È dura prendersi la responsabilità del nostro benessere!» «Sento che c’è del vero in quello che dici, ma la fai troppo facile!» «Non la faccio facile... è facile! Ma noi siamo maestre nel renderla difficile, se una storia ti fa male, non è la storia giusta per te. Punto e basta!» «Allora fammi l’esempio di una storia d’amore senza problemi.» «Senza problemi non ne esistono, io parlavo di storie senza sofferenza.» «Ok, fammi un esempio di una storia d’amore senza sofferenza.» «Ce l’hai sotto gli occhi: io e Roberto.» «Ma non so se è vero amore il vostro.» «Perché no?» «Ma dai, Franci! Non ti ho mai visto veramente persa!» «Persa? Perché dovrei essere persa? Perdersi è un pessimo modo di vivere, nella vita bisogna trovarsi, non perdersi! Perché mai una persona innamorata dovrebbe perdersi?» «Sì, ma la passione...» «Francesca dove ti eri cacciata? Ti sta cercando Massimo, muoviti.» Irruppe nel nostro discorso Roberto, Francesca se ne andò e lui rimase lì davanti a me fissandomi seriamente: «Cosa c’è che non va? Ti vedo spenta e nervosa.»
19 Alzandomi lo guardai negli occhi e gli chiesi «Tu ami davvero Francesca?» Scoppiò in una sonora risata buttando la testa all’indietro, poi mise le sue mani sulle mie spalle, le strinse un po’ e ridacchiando ancora mi disse «Certo che la amo. E molto anche! Perché ora mi fai questa domanda?» «Così... credo di essermi persa qualche puntata.» «Problemi con Lorenzo?» «Sì! È che si stanno diradando i giorni sì e stanno vistosamente aumentando i giorni no.» «Ma qual è il problema?» «Il lavoro! Quando non gli va tanto bene il lavoro, va in crisi e invece di accettare la mia comprensione, la mia presenza, butta tutto alle ortiche e io non esisto più.» «Ci sarà sotto qualche altro problema...» «Ma che ne so! Non parla! Non vuole dividere niente con me. È solo un egoista egocentrico.» «È solo in crisi, gli passerà.» «Ma a cosa serve avere qualcuno che ti ama se poi non gli permetti di starti vicino nel momento della difficoltà?» «Forse vuole cavarsela da solo, dimostrare a se stesso che ce la fa da solo.» «Certo che ce la deve fare da solo, io di aiuto pratico non gliene posso dare, ma speravo che la mia presenza gli fosse di conforto... E invece mi esclude dalla sua vita. In tutto il giorno non mi ha mai chiamata.» «Adesso non ci pensare, forse devi lasciarlo un po’ da solo. Tanto non ti fa bene frequentarlo quando è in queste condizioni!» «Vuoi dirmi che dovrei lasciarlo solo proprio nel momento del bisogno?» «Sì.» «Bella stronza sarei!» «Perché mai? È una sua scelta, non una tua vigliaccheria, se ti vuole deve solo chiamarti, ma visto che cerca di escluderti… accontenta il suo desiderio.» «Non so se ce la farò!» «Perché no? Hai la sindrome della crocerossina?» «Ma cosa vuol dire? Io lo amo!»
20 «Se lo ami, rispetta il suo desiderio di rimanere solo.» «Questa sera mi fate innervosire tu e Francesca! Ma avete sempre una risposta per tutto?» «Magari fosse così! A volte la forza sta nel non pretendere risposte ma solo nell’accettare quel che accade.» «Basta, mi avete sfinito! E poi non vi perdono di avermi portato quel vostro amico.» «Perché? Non è simpatico?» «Non lo voglio nemmeno scoprire, mi guarda con certi occhi! L’idea che pensi di provarci mi agita.» «Non credo che oserà, sei stata talmente acida!» «Mi spiace ma io stasera non volevo nemmeno uscire!» «Ormai ci sei, vieni a bere qualcosa!» Per mano a Roberto scartammo la ressa che ci divideva dal lungo e luccicante banco d’acciaio, i barman erano ragazzi giovani, ballavano mentre agitavano cocktail, ridevano fra di loro, si scambiavano le bottiglie lanciandole con volteggi da giocolieri; per qualche minuto li osservai cercando di inquadrarli come se fossi dietro all’obiettivo della mia macchina. Le risa di denti imbiancati dalle wood, le piroette in aria dei Boston d’acciaio erano una diapositiva con la didascalia spensieratezza. Spensieratezza, assenza di pensieri: questo volevo, solo per poche ore. Non pensare più a lui, a me senza lui, a me sola, al mio vuoto. Roberto riuscì a ordinare due gin-tonic e quando ebbi in mano il bicchiere freddo e bagnato mi resi conto che avevo già bevuto lo spumante e già sentivo gli occhi pesanti. Roberto rideva guardandomi girare la cannuccia tra i cubetti di ghiaccio, lo interrogai con lo sguardo. «Rido perché sei già un po’ bevuta e ti è venuta la faccia da bambina.» «Davvero?» E intanto cercai nella borsa il mio cellulare e lo guardai chiedendomi per l’ennesima volta perché Lorenzo non mi chiamava. «Proprio non vuoi smettere di pensarci.» Roberto sorrideva ma c’era un tono un po’ severo in quella frase. «No che non ci riesco.» «Non dire Non ci riesco, non vuoi!» «Ti sbagli, non sai quanto vorrei. Vorrei godermi la serata, come fai tu, vorrei ridere
21 come fanno questi ragazzi, vorrei buttarmi in quest’orgia di gente e godermela, sentirmi viva, vivace, allegra, bella…» «Sei bellissima Giulietta, non c’è bisogna che te lo dica io.» «Lorenzo mi fa sentire brutta, però! Guarda quella coppia in fondo al banco, guarda come lui le sta entrando negli occhi… Non so da quanto tempo Lorenzo non mi guarda più così.» «Potrebbe essere un periodo così, oppure potrebbe essere che questa storia ha finito di darti quello che doveva dare, forse è tempo di qualcos’altro.» «Non dire così che mi vengono i brividi.» «Probabilmente passerà tutto, non confondere la sua crisi personale con una crisi di coppia, non sempre è così.» «Lo sento lontano, Roberto, sento che ci perderemo.» Roberto mi diede un bacio sulla fronte, mi mise un braccio intorno al collo e ci avviammo verso Francesca, Sergio e Michele. «Vi stavamo dando per dispersi» brontolò Francesca. «Mettiamoci d’accordo per le foto, dopo lo spettacolo Michele vuole scappare via, è meglio parlarne adesso.» «Questa settimana sono abbastanza libera, tranne domenica, ovviamente!» «Perché ovviamente? Hai sempre lavorato la domenica! Io posso solo domenica.» Replicò Michele. Spalancai gli occhi in una smorfia stupita e Michele rise. «Scherzavo, volevo metterti in difficoltà, prendo l’agenda.» Frugò nei tasconi del giaccone di tela, nelle tasche degli enormi calzoni rapper, nello zaino che trascinava senza cura ovunque. «Non la trovo, forse l’ho lasciata in macchina, vado a vedere.» «Lascia, guardo sulla mia agenda.» Francesca prese l’agenda dalla borsa e cominciò a sfogliare la prima settimana di ottobre. «Venerdì! Alla sera sei qui a Milano e quindi non hai trasferte lontane. Alle tre del pomeriggio va bene?» «No, è tardi, se volete fare tutto in un giorno! È un lavoro piuttosto lungo… Troviamoci in tarda mattinata, verso le undici.» Francesca assentì con il solo movimento della testa e intanto con gli occhi cercava conferma da Michele.
22 «Va bene, mi accompagni tu però, non ci so arrivare nel suo studio in campagna.» Mi guardò con quella faccia da sfottimento così frequente sul suo viso: «Il prossimo studio aprilo a Livigno, così ci vengo in elicottero!» «…chissà se sarai capace di rifarmi questa espressione, andrebbe benissimo per i manifesti.» Rimase deluso dalla mia mancanza di reazione alla sua critica, guardò l’orologio, girò lo sguardo intorno, poi mi fissò. «Certo che te la posso rifare, sono un attore!». «Ok, attore, ti aspetto venerdì alle undici, portati i costumi di scena e la faccia riposata.» «Vado in camerino, fra un po’ inizio. Potresti farmi qualche foto durante lo spettacolo!» «Non ho la macchina.» «Ah... Ciao, vado.» Come sempre era scocciato per la mia noncuranza: quasi tutte le donne che incontrava, che gli presentavano o che in qualche modo entravano nella sua orbita, pendevano dalle sue labbra rimanendo affascinate dal personaggio che interpretava fuori dalle scene, nella vita di tutti i giorni, su quello che per lui era il palcoscenico della quotidianità. Con le donne faceva la parte del tenero intrigante, pieno di falsa modestia per il suo successo, apparentemente imbarazzato dai complimenti; svestiva questi panni solo quando tornava a casa o quando era in mezzo ad amici di vecchia data che non rappresentavano più terreno di conquista. Poco prima dello spettacolo, il titolare del locale condusse me e Francesca a un tavolino laterale con una scarsa visuale del palco scusandosi per la posizione infelice. «Scusatemi ragazze, non ho potuto fare di meglio, Michele riempie! Nessuno riesce a fare il tutto esaurito al lunedì sera. Lui è un fenomeno.» Sulle prime battute di Michele, cominciai a sentirmi in gabbia: il gintonic era in circolo, sentivo la testa pesante e i suoni ovattati. Volevo tornarmene a casa, ero in ansia per il viaggio di ritorno con il playboy e mi preoccupava la sveglia del giorno dopo che sarebbe suonata alle otto. Era passata mezzanotte, ormai, e avevo davanti almeno un’ora di spettacolo e tutti i convenevoli del dopo spettacolo. Abbracciai
23 Francesca, la tirai verso di me e le dissi in un orecchio: «Dobbiamo per forza vedere lo spettacolo? Sarà lo stesso dell’altra sera e io ho sonno!» «Sei pazza? Devo prendere i soldi finito lo spettacolo e poi, magari, se ti fai quattro risate ti si alza quel muso scuro che ti sei messa stasera insieme ai jeans neri, la maglietta nera e la giacca nera!» «Ma il tuo amico, quel Sergio, ritorna con noi?» «Perché, vorresti lasciarlo qui a Milano?» «Potrebbe prendere il treno… Scherzo! Potresti venire dietro sul sedile con me e lasciare lui davanti con Roberto. Così io metto la testa sulle tue gambe, tu mi fai le coccole, mi addormento e mi sveglio solo quando siamo arrivati e l’incubo di questa sera sarà finito!» «L’incubo sei tu! Non ti riconosco più, Giugi, sei una palla al piede, non sei più capace di divertirti. A meno che non ci sia il macigno del tuo fidanzato!» «Perché macigno?» «Perché è pesante… Nove volte su dieci ha il broncio o il mal di testa o il mal di schiena o il mal di non so che!» «Zitta, non si parla durante lo spettacolo!» Mi diede un bacio sulla guancia. «Scusa, sono una stronza, è che non ti posso vedere così giù.» L’abbracciai forte e risentii lo stesso odore, lo stesso tepore di sempre, quello di cinque anni prima quando, alla fine di una vacanza, la strinsi per salutarla ed ebbi la certezza di aver incontrato un’amica per sempre. Le sussurrai a un orecchio «Franci, è solo lunedì e sono già uno straccio.» «Giugi, hai solo trent’anni e sei già vecchia!» Ci raggiunsero al tavolo Roberto e Sergio. Un certo numero di comici erano venuti a vedere Michele e osservavo come alcuni di loro erano evidentemente lividi dall’invidia eppure manifestavano un’esagerata compiacenza nel constatare il successo di Michele. Elargivano complimenti con larghi gesti quasi fossero benedizioni. Michele era sul palco e il pubblico era in delirio, ridevano di tutto, anche di battute francamente povere. Il suo modo di porgere la battuta era vincente, il suo raccontare era semplice, infantile, privo d’interpretazione razionale. Finito lo spettacolo e i bis, richiesti a furor di popolo, cominciò la processione dei comici al nostro tavolo:
24 chiedevano a Francesca di riferire complimenti a Michele ed erano tutti straordinariamente gentili con lei. In macchina le chiesi quanti dei colleghi di Michele fossero sinceri. «Alcuni lo sono, amano il loro lavoro e guardano a Michele come a un fenomeno da cui imparare, altri vengono a leccarmi i piedi sperando che li faccia lavorare nel circuito di Michele.» «E tu puoi farlo?» «A volte sì, ci sono discoteche o locali o pro-loco che mi contattano per avere uno spettacolo di Michele e magari alla prossima occasione mi chiedono altri artisti.» «E quindi tu mandi gli altri comici…» «A volte…» «Ora capisco la processione di salamelecchi, complimenti, sorrisi, galanterie! Bell’ambientino…» «Come tutti gli altri, o no?» «Sì certo! Parlando di comici mi fa più impressione perché me li immagino un po’ naif, dei giocherelloni dispensatori di allegria. Anche se i pochi che conosco bene, non lo sono affatto.» «Appunto. E poi come tutte le attività, ci sono delle leggi di mercato, no?» «Dai, Franci, non volevo parlare male dei tuoi amati comici!» «Macché! In effetti adoro i comici ma la maggior parte sono matti o stronzi o infantili o cazzaroni o depressi...» «Finalmente la verità!» Ridemmo un po’ e poi mi addormentai sulle sue ginocchia.
25
Terzo capitolo
Abitavo da quattro anni in un paesino affacciato sul lago Maggiore, avevo cercato a lungo una casa con vista sul lago e mi ero immediatamente innamorata di questa piccola costruzione fuori dal minuscolo centro abitato. La vista era impagabile, la casa un po’ da sistemare, il cortile totalmente trascurato, quasi un deposito di ferraglie. La casa era piccola, un grande stanzone al piano terra e una spaziosa e luminosa camera con bagno al piano di sopra. A fianco alla casa c’era un piccolo rustico con cascina che diventò il mio studio, al piano terra feci ricavare un piccolo bagno, una camera oscura, un angolo ufficio con scrittoio, libreria e archivio e la scala per raggiungere il piano di sopra. La parte aperta della cascina sovrastante non venne chiusa da muri ma da vetrate che regalavano una veduta da cartolina. Grazie a tanta luce nelle giornate di sole potevo fotografare sfruttando il colore naturale del sole. Era una bella mattinata con il sole ancora caldo ma una brezza fresca che sfiorava la pelle e la raffreddava. L’inizio d’ottobre, quel periodo leggero che avrebbe fatto da ponte tra il caldo pesante e afoso e i primi acquazzoni dell’autunno. Pensai che avrei scelto quel clima per tutto l’anno, se il genio della lampada me lo avesse chiesto. Aspettavo Francesca e Michele seduta sulla mia poltrona di vimini, sorseggiando caffè d’orzo e godendomi il panorama che si gustava nelle giornate limpide, non molto frequenti sul lago. Sentii scricchiolare la ghiaia del cortile sotto i pneumatici della macchina di Michele, mi voltai e vidi Francesca che già mi sorrideva da dietro il parabrezza. Michele invece aveva una faccia un po’ perplessa, quasi intimidita. Scese dall’auto stiracchiandosi e aggiustandosi i larghi jeans tenuti in vita da un cinturone di cuoio, guardandosi in giro come se fosse la prima volta che vedeva il mio cortile e la mia casa.
26 «Scusa, Michele, ma c’eri già stato a casa mia. Perché ti guardi in giro come se fosse la prima volta?» «Era inverno quando sono venuto l’altra volta, forse c’era anche la nebbia, non avevo capito in che posizione era questa casa!» «Ti piace? Effettivamente in questa stagione il mio nido dà il meglio di sé. Il cielo è più limpido, il lago più blu, le aiuole ancora in fiore, le foglie cominciano a prendere i colori caldi dell’autunno…» «Bella come te, la tua casa!» M’interruppe Francesca schioccandomi un bacio sulla guancia. «Va bene: bella la casa, bella la vista, bella Giulietta. Ma adesso facciamo le foto altrimenti arriverò tardi allo spettacolo di stasera.» «Forza, allora! Hai portato i costumi dei tuoi personaggi?» «Ho tutto, però vorrei un caffè.» «Se ti piace il caffè d’orzo ci vuole solo un attimo, altrimenti bisogna andare al bar del paese.» «Vuoi dire che non hai una banalissima scatola di caffè in cucina?» «Niente banalissimo caffè, mi dispiace. Se vuoi andiamo in paese, ci mettiamo dieci minuti a piedi!» «Lascia, l’acqua ce l’hai?» Michele parlava con sufficienza, voleva mettermi un pochino a disagio ma senza esagerare, forse proprio la quantità di disagio che provava lui. «Acqua ce n’è quanta ne vuoi in studio, andiamo.» Francesca era stranamente taciturna, camminava dietro di noi verso lo studio con la testa bassa. Mi girai un paio di volte a fissarla con aria interrogativa senza parlare, lei scuoteva la testa per dirmi che andava tutto bene. Quando entrammo nello studio lui girava intorno curioso, sbirciava la mia scrivania, gli appunti sui post-it, le tante foto appese alle pareti, mi indicò una porta chiedendomi: «Il bagno?» «No, se hai bisogno del bagno, è quello – indicando alla sua sinistra quella è la camera oscura, dove sviluppo e stampo.» «Ah, è dove si fa tutto al buio!» «Già.» Salimmo le scale e a ogni gradino la luce del sole si faceva più intensa, quando fummo davanti alla vetrata fu come essere investiti dal sole, dai colori, dal fuori che entrava.
27 Michele aprì la sua valigia gialla e ne uscirono calzoni colorati, vestiti da donna, grembiuli, parrucche, borsette, occhiali da sole delle forme più strane. Gli chiesi con quale personaggio voleva iniziare per scegliere il colore del fondale. Guardò Francesca con aria interrogativa. «Parti con i personaggi maschili, poi fai le donne» suggerì Francesca. Lui s’infilò il costume dell’imbianchino, una tuta da lavoro chiara tutta sporca di tempera, pensai che nessun fondale era più adatto della parete in mattone pieno del mio studio, che era stata lasciata com’era, con i mattoni rossi a vista. Sistemate le luci, sfruttai Francesca come aiuto per reggere i pannelli riflettenti, studiai Michele che cominciava a innervosirsi sotto i fari e gli chiesi: «Hai un pennello o qualcosa del genere?» «No, il pennello non ce l’ho ma adesso ti faccio la faccia da imbianchino…» Mi guardò in macchina e fece un’espressione sciocca, tipica di quel personaggio e io cominciai a scattare. Verso le due del pomeriggio Michele chiese un break, scendemmo in giardino, presi dell’acqua, delle birre, un cesto di frutta fresca, pane e un tagliere di formaggi. Michele guardò il tavolino di pietra imbandito: cibo semplice e improvvisato, non c’erano piatti né posate, solo il coltello dei formaggi. Sbirciò Francesca perplesso ma lei non raccolse il suo sguardo, intenta com’era a staccarsi un grappolino d’uva bianca. Mi scappò una risatina, il suo disagio era comico, la sua faccia da bambino imbarazzato mi suscitava un misto di tenerezza e piacere di rivalsa. In fondo provavo un briciolo di soddisfazione nel vederlo in difficoltà per così poco, lui che si pavoneggiava spesso, con finta modestia, forte solo della sua fama. «C’è qualcosa che non va?» «No, non so da che parte iniziare.» «Ti prendo un piatto? Non pensavo fossi così formale! Francesca e io siamo abituate, a noi piace mangiare come a un pic-nic, pensa che d’inverno facciamo la stessa cosa sul tappeto del salotto, oppure ci mettiamo con i vassoi sedute sul divano. Come gli americani!»
28 «No, no, va benissimo anche per me! Basta saperlo!» Cominciò a toccare tutti i formaggi con le mani, a tirarci contro acini d’uva, a mangiarne e a sputarci addosso i nocciolini. Francesca rideva e parava i colpi con l’avambraccio ma non smetteva di mangiare, quando Michele pensò di averci fatto ridere abbastanza e di essersi riscattato smise il suo show e cominciò lo spuntino. Concluse con un’altra battuta sulla mancanza di caffè e così camminammo fino al bar più vicino. Stava calando il sole e avevamo appena terminato gli scatti: io ero stanca e lui distrutto. «Giulietta, mi hai consumato… Ti rendi conto che stasera ho lo spettacolo?» «Se vuoi, puoi fermarti qui un paio d’ore a riposarti; ti fai una doccia, ti sdrai fuori al fresco oppure dentro sul divano. È molto rilassante qui.» «Se mi fermo non mi muovo più, guarda che è un viaggio tornare a Milano!» «Dai, non fare l’esagerato, al massimo un’ora e siamo a Milano. Se ci fermiamo, tu ti riposi e io e Giulietta ci raccontiamo i nostri segreti.» «I vostri segreti ve li raccontate un’altra volta, andiamo.» Cercò il suo telefonino e cominciò una chiacchierata sussurrata disegnando nell’aria ampi gesti, rivolto alla parete per cercare un po’ di privacy. Guardavo Francesca mentre ripiegava i costumi di Michele e li rimetteva nella valigia, lui rimaneva attaccato al suo cellulare, la sbirciava ma non l’aiutava, né le accennava di lasciare stare, sembrava la normale prassi. Mi innervosiva, mi chiedevo perché la sua agente doveva fargli da cameriera. Non riuscii a soffocare il mio fastidio. «Franci, per caso Michele ti paga il supplemento per il servizio guardaroba?» Il volume della mia voce fu tanto alto da distoglierlo dalla sua conversazione. Mi guardò con aria interrogativa e scocciata, poi disse a Francesca di lasciare stare. Lei continuò senza dare un minimo segno di fastidio, mi guardò ridendo. «Quando scegli di occuparti di un bambino, sai che dovrai fare la baby-sitter». Lo guardò con indulgenza. Michele chiuse la sua interminabile telefonata, scese in bagno, risalì con un impaziente «Allora? Andiamo?» Evitava d’incrociarmi con gli occhi: era infastidito, avevo osato criticare la star.
29 Se ne andarono col buio, li seguii con lo sguardo fino a quando la macchina sparì dalla via alla quale si congiungeva il mio cortile. Risalii in cascina, spensi la luce e mi sedetti per terra davanti alla vetrata, lasciandomi incantare dalla veduta di lucine che percorrevano le rive del lago. Pensai a come avrei voluto avere lì Lorenzo, davanti a quello spettacolo avrei potuto perdonargli le sue assenze. Scesi, mi sedetti alla scrivania e lo chiamai. «Ciao, come stai?» «Benino, un po’ meglio.» «Vieni a trovarmi? Vedessi che panorama si vede da qui!» «No, non ce la faccio… Non sono ancora in forma.» «Quando ci vedremo, allora?» «Non lo so, sentiamoci.» «Cacchio, sembra che parli con un estraneo…» «E cosa dovrei dirti? Non lo so: quando ci vedremo, ci vedremo… Magari domenica!» «Non ti sforzare con l’entusiasmo, eh!» «Certo che se mi chiami quando non sto bene, non ti devi aspettare chissà che…» «Ma perché? Il fatto che non stai bene cosa c’entra con la voglia di vedermi?» «Lo sai, quando sono in crisi non ho voglia di niente.» «Quello che si dice un grande amore, insomma…» E intanto il fiato cominciava a mancarmi e le mie parole tradivano l’affanno. «Non incominciare con le tragedie. Ho i miei problemi e tu me ne crei altri.» Io non rispondevo, nello smarrimento totale. «Ci sei?» «Sì.» «Adesso non ti mettere a piangere perché sennò ti saluto.» «No, non piango, ti saluto io, mi hai nauseato.» Appesi la cornetta con tutta la violenza possibile, era uno schiaffo per lui. Rimasi a fissare il telefono, avrei voluto richiamarlo subito e urlargli tutta la mia rabbia, la mia delusione, versargli addosso tutta la liquida sofferenza in cui navigavo.
30 Uscii dallo studio, attraversai il cortile e mi misi a sedere sulla poltrona di vimini sotto il bersò. Tutto quello spettacolo davanti ai miei occhi sembrava inutile, privo di senso; la mia casa che avevo scelto in mezzo a tante, la sua bellezza bucolica, l’aria limpida, il tremore delle luci lontane affacciate sul lago, il fruscio delle foglie che coprivano il bersò: poteva essere un momento incantato e invece mi sentivo persa, improvvisamente realizzai che ero da sola con le spalle a un buio vuoto e silenzioso. Mi colse la paura, mi alzai velocemente e andai a chiudermi in casa, diedi diverse mandate alla serratura e chiusi fuori dalle imposte il buio. Mi rannicchiai sul divano, avevo freddo, mi tirai la coperta addosso, mi rialzai, presi un ciocco di legno e qualche rametto dal cesto di fianco al camino e avviai il fuoco. Rimasi seduta sul tappeto a fissare le fiamme, a sentire il calore che mi scaldava le lacrime.
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Quarto capitolo
Mi chiamò dopo tre giorni di silenzio e fu subito chiaro che era una telefonata di circostanza per scaricare il senso di colpa o per evitare di complicare troppo la faccenda. Da quando stavamo insieme, era la prima volta che passavamo il fine settimana senza vederci e sentirci, eppure mi parlava senza accennare alla cosa, raccontava con indifferenza del traffico del centro, della pioggia, del gatto che gli aveva sbrindellato il giornale. Io rimanevo ad ascoltarlo senza parlare, aspettavo un suo accenno alle nostre incomprensioni per dirgli tutta la delusione che provavo, invece dopo qualche banalità mi salutò e chiuse la telefonata. Rimasi col mio senso di vuoto, in assenza di tutto, anche di dolore. Non avevo più voglia di piangere né di pensare a come recuperare la nostra intesa, né di immaginare l’epilogo; accesi la tv e lasciai che il niente che scorreva via cavo sostituisse il niente che era in me. Passammo un mese fatto di telefonate squallide, due o tre incontri con pizza e cinema senza nemmeno varcare la soglia di una delle nostre case, evitando con cura qualunque imbarazzante intimità. Niente allegria, niente discussioni, niente programmi, baci d’obbligo al momento dei saluti. A metà novembre, con una breve telefonata dal tono deciso, mi disse che la sera sarebbe venuto a trovarmi . Ero agitata, contenta e preoccupata, guardavo i miei vestiti e non sapevo cosa mettermi, temevo una serata tragica in cui mi diceva che era finita e speravo in una serata memorabile in cui mi confessava di non poter fare a meno di me. Ero in cucina, stavo apparecchiando la tavola, ero stata indecisa sulla tovaglia così come sui miei abiti; avevo rinunciato alla prima idea di stendere la tovaglia indiana con ricami di perline e fili di lurex, troppo impegnativa, non volevo comunicargli tutte le aspettative che riponevo in quella cena, così avevo scelto una tovaglia carina ma senza pretese, una tela etnica color zafferano con stampe sui toni della terra. Anche il
32 menù aveva subìto gli stessi tipi di censure, niente portate impegnative ma dei piatti sani, vegetariani e molto colorati. Spesso, quando ero sola, decidevo di mangiare davanti al camino, rannicchiata sul tappeto con il vassoio sulle gambe, oppure sul divano o in giardino, quando la stagione lo permetteva. In quelle occasioni era vietata la formalità ma quando mi apprestavo a imbandire la tavola, allora il mio senso estetico prendeva il sopravvento. Cercavo combinazioni che regalassero piacevoli cromatismi fra la tovaglia, i vasellami e le portate; sul fuoco c’era un passato di verdure fresche, in tavola un vassoio con radicchio e zucchine grigliate, una terrina di pomodorini rossi, e in forno una parmigiana di melanzane. Immancabile sulla tavola il tagliere di legno con i formaggi, la scodellina di miele, i vasetti di marmellata poi il pane integrale, il pane di grano duro, l’acqua e il vino rosso. Intanto stavo con l’orecchio teso per sentire se arrivava la macchina. C’era nebbia, non era fitta ma per come percepivo il suo coinvolgimento nei miei confronti mi aspettavo che rinunciasse al viaggio da Milano: aveva una scusa valida, per una volta! Arrivò, dalla finestra lo vidi scendere dalla macchina, sciogliersi le spalle, ricomporsi la giacca e camminare verso la porta. Gli aprii, gli sorrisi, non lo abbracciai, stavolta era lui che doveva dimostrarmi qualcosa. Venne subito a curiosare sul tavolo, commenti carini sulle verdure, sui formaggi, sul vino. Stappò quest’ultimo, ne versò nei due bicchieri, mi passò il mio e dopo un vago accenno di brindisi assaggiò il Morellino di Scansano. Sembrava finalmente di buon umore, con l’intenzione di godersi la serata restando affabile e sorridente; la sua innata ironia tornava a pungere e io cominciavo a rilassarmi. Con tutto quel brio non veniva certo a annunciarmi che era finita. La cena scivolò tra risatine, guance rosse per il vino e racconti su amici comuni, poi sprofondammo sul divano di fronte al camino acceso; il viso era ancora più bollente, gli occhi bruciavano di caldo, di vino e di stanchezza, di tutta quella tensione che ora mi abbandonava lasciando il posto a un morbido ma stanco lasciarsi andare. Non tentò nemmeno di scusarsi o di spiegarsi, solo qualche tenerezza, un “andiamo di sopra” e tutto pareva tornare come prima. Non era così
33 o forse fu così per quella notte ma quando la mattina dopo mi trovai alla finestra a guardare il lago grigio coperto da una nebbiolina strisciante, la tazza di orzo bollente fra le mani, sentii che non mi bastava, che volevo un gesto eclatante, una dichiarazione d’amore, qualcosa che spazzasse ogni dubbio e ogni frustrazione, che riscattasse mesi di delusioni e incertezze. Scese in cucina, avevo già sgomberato tutti i resti della cena, bevve l’orzo con le fette di pane e marmellata, si lamentò dei postumi dell’abbondante vino e uscì per andare in paese a comprare il giornale. Quando tornò gli chiesi il suo programma per la giornata. Non rispose subito, si sedette al tavolo, aprì il giornale e rispose con quell’aria distratta come se non volesse attirare l’attenzione sulla risposta. «Leggo il giornale, mi sveglio un po’ e poi torno a Milano.» «Non ti fermi a pranzo?» «No, oggi pomeriggio mi trovo con Rolando.» «Davvero? Come mai?» «Vuole mettere in scena una nuova commedia e sta scegliendo gli attori, dice che ha una parte per me, che me ne deve parlare, mi dà il copione da leggere.» «Bello, sei contento? È un bravo regista no?» «Lo sai, è un mezzo pazzo ma è bravo, speriamo che mi dia una bella parte.» «C’ è già un ingaggio, una tournée?» «Due settimane a Milano, due a Roma e una piccola tournée nel centro Italia.» «Non male, di chi è il testo?» «Non so ancora niente, mi dice tutto oggi.» «Bene, in bocca al lupo. Allora, dopo mi chiami e mi racconti tutto.» «C’è ancora acqua calda? Mi berrei un altro orzo.» «No, te la scaldo.» «Grazie.» Cominciò il solito rito del quotidiano, leggeva le pagine di politica interna, scrollava la testa, commentava con pirla, ladro, buffone, poi mi leggeva degli stralci di articoli seguiti da sillabati Renditi conto!, non finiva mai di stupirsi, non si stancava mai di reclamare e lo invidiavo
34 un po’ perché io, nauseata dalle politiche di potere e di distruzione, non avevo nemmeno più voglia di aprire il giornale. Finì l’orzo e il quotidiano, si alzò, si stiracchiò sbadigliando. «Cià, vado.» «Perché ho la sensazione che dovevamo dirci qualcosa che non ci siamo detti?» Non era polemico il mio tono, anzi, quasi una domanda che facevo a me stessa. Si girò con uno dei suoi sguardi obliqui, quelli con cui mi diceva senza fiatare che gli stavo rompendo le scatole. «Non metterti subito sulla difensiva, credo che dopo un mese e più, passato come l’abbiamo passato, forse qualcosa da dire o da chiarire c’è.» «Passato come?» «Passato come?» Il mio tono ora si accendeva, detestavo il suo accantonare tutto. Incalzai. «Passato in telefonate squallide senza nessuna intimità, passato in due, tre serate di desolazione, quasi fosse un obbligo vederci! Come fai a fare sempre finta di niente?» «Non faccio finta di niente, forse per me non sono cose così importanti, forse sei tu che sei menosa, ieri sera è andata bene, no? Stanotte siamo stati bene, no? E allora basta!» «E allora basta cosa? Vuoi negare che ultimamente ci sono stati dei problemi?» «Problemi… Un po’ di rallentamento ci sta! Non è che si può sempre andare a cento all’ora.» «Rallentamento! Sentitelo, rallentamento… Tu non avevi voglia di sentirmi e di vedermi, non parlerei di rallentamento. Ieri sera siamo stati bene ma vorrei sapere cosa mi devo aspettare da te.» «Niente, cosa ti vuoi aspettare? Stiamo assieme, no?» «Mi aspetto di sentirmi amata.» «Lo sai, ti voglio bene, quando ho i miei problemi tu mi devi capire.» «Tocca sempre a me capirti… Quando tocca a te? Quando capirai che non mi sento più amata, compresa, aiutata? Tu mi fai sentire sola, esclusa dalla tua vita.» «Quelle sono tue percezioni. Poi come fai a sentirti sola che sei sempre in mezzo alla gente, lavori, esci…»
35 «Adesso sei banale. Sei tu il mio fidanzato, non la gente. Guarda, lasciamo stare, torna a Milano che è meglio!» «Ah! Che palle! Vedi che sei tu a creare problemi? Andava bene, siamo stati bene e tu devi trovare il modo di rovinare tutto, ma perché non lasci andare le cose come vanno? Perché devi discutere, chiarire, analizzare?» «Perché ci sto male, perché vorrei i baci che mi davi una volta, perché vorrei le telefonate che mi facevi una volta, perché prima mi dicevi che mi amavi e adesso mi dici che mi vuoi bene solo dietro esplicita richiesta.» «Mi spiace.» Mi girò le spalle, andò a prendere la sua giacca buttata sul divano, frugò nelle tasche in cerca delle chiavi dell’auto, si avvicinò, mi diede un bacio veloce sulle labbra, aprì la porta e se la richiuse dietro alle spalle. Non andai alla finestra per vederlo andare via, restai imbambolata con la schiena appoggiata al lavandino della cucina, sentii lo scricchiolare della ghiaia sotto i suoi passi, la portiera dell’auto chiudersi, il motore ruggire nervosamente, lo sgommare della retromarcia, i freni, lo sgommare della prima, i pneumatici che giravano tutto il mio cortile e infine il rumore dell’asfalto della via, il motore sempre più lontano, poi il silenzio. Andai ad aprire la porta, guardai il cortile segnato dalle gomme della sua auto, sentii la puzza di carburante bruciato che si era lasciato dietro. La foschia di novembre era umida e pesante, attraversai il cortile fino al limite che si affacciava al lago, respirai forte l’odore di terra e foglie umide. Da qualche casa vicina, arrivava l’odore buono di camino acceso, un brivido mi scosse, corsi in casa, m’infilai la giacca, uscii e andai ad aprire il capanno degli attrezzi, presi il rastrello e cancellai quella doppia pista circolare che Lorenzo aveva impresso nel cortile. Con precisione quasi maniacale non smisi fino a quando lo strato di ghiaia fu pareggiato, senza buchi, né cunette, né altri segni, quasi a cancellare il suo passaggio, quasi a cancellare quella cena, quella notte, la stupida illusione che mi aveva attraversato mentre mi amava tra le lenzuola. Niente era cambiato, lui sfuggiva o forse voleva soltanto stare con un piede dentro e uno fuori e io invece non mi accontentavo più delle sue intermittenze, del suo esserci solo a metà.
36 Quando rientrai in casa ero tutta intirizzita con il naso umido e le mani rigide e rosse. Scaldai l’acqua, preparai la tazza con l’orzo solubile, sparecchiai le rimanenze della colazione di Lorenzo e quando fu pronta l’acqua la versai sopra l’orzo lentamente, stemperando la polvere solubile per evitare il formarsi di grumi. Andai ad accovacciarmi sul divano guardando i resti del fuoco della sera precedente. Paragonavo il fuoco vivo e scoppiettante della sera con le ceneri grigie e fredde del mattino, me e Lorenzo allacciati in baci che sapevano di vino e io da sola su quei cuscini sgualciti con il sapore di orzo e le mani gelate. Non mi usciva nemmeno una lacrima, forse neanche soffrivo, mi sentivo solo svuotata delle mie speranze, quasi desideravo un epilogo, un gesto di chiusura che ponesse fine alle mie aspettative. Un irrefrenabile impulso a liberarmi di lui, dei pensieri e delle sensazioni legate a lui e alla nostra storia mi fece correre al piano di sopra, togliere le lenzuola, metterne di pulite, riordinare la stanza annullando qualunque segno della sua presenza.
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Quinto capitolo
Decisi di uscire, presi la macchina e guidai verso casa di Francesca, distante una ventina di chilometri. Lungo la strada la chiamai per accertarmi di trovarla, mi rispose con la voce assonnata. «Scusami, ti ho svegliata?» «No, Giugi, ho aperto gli occhi da cinque minuti, ieri sera ho fatto tardi.» «Sto venendo da te, ti devo raccontare una cosa. Dovevi uscire?» «No, ti aspetto, c’è Roberto ma dorme.» «Arrivo, dieci minuti e sono lì.» Parcheggiai davanti al cancello di Francesca ma prima di suonare il suo citofono raggiunsi la panetteria vicina e comprai tre cornetti alla marmellata. Francesca mi aspettava affacciata alla finestra, mi aprì il cancello prima che suonassi e mentre percorrevo il breve sentiero che collegava il cancello alla casa, si aprì la porta d’ingresso e spuntò lei, i capelli corti disordinatamente in piedi, gli occhi verdi struccati ancora più chiari, le labbra ben disegnate di un rosa chiaro. Le sventolai il sacchetto del panettiere con i cornetti e le annunciai «Colazione, brioche fresche!» Raggiunto l’ingresso l’abbracciai spingendola dentro casa. «Guarda che fa freddo, non devi uscire così, ti becchi un accidente.» «Sì, mamma.» «Scema, fa freddo davvero, il termometro della banca segna tre gradi.» «Accidenti! Che cavolo hai combinato, perché sei in giro a quest’ora del giovedì?» «Guarda che sono quasi le undici, sei tu che ti alzi tardi.» «Bella, ti ricordo che io lavoro alla sera! Mi spetta di diritto dormire al mattino.» «Ma sì, lo so, scherzavo! Dov’eri ieri sera? Qualche spettacolo di Michele?»
38 «No, ieri sera ero in teatro, non ti ricordi che ti avevo chiesto di venire a fare le foto?» «È vero, ma che cos’era?» «Una serata di beneficenza, sette comici hanno fatto dieci minuti a testa per raccogliere fondi per un’associazione che si occupa d’infanzia in difficoltà.» «E l’ hai organizzata tu?» «Sì, non è che ho dovuto sbattermi tanto, solo chiamare i cabarettisti, fare spedire a ognuno i propri manifesti al teatro e ieri sera fare la scaletta. All’organizzazione aveva già provveduto il teatro: service luci e audio, pubblicità, SIAE, comunicati stampa, tutto insomma. Dopo lo spettacolo siamo andati a mangiare una pizza e abbiamo fatto tardissimo.» «Avete lavorato tutti gratis, quindi…» «Sì, senza compenso ma con un piccolo rimborso spese per la benzina e la pizza.» «Bravi, però.» «Ma sì, non è che sia un così grande sforzo, più che altro per i comici è un’occasione per incontrare colleghi che non vedono spesso, godere il clima del teatro che per alcuni è ancora un miraggio, farsi una pizza e una birra insieme.» «Tutti d’amore e d’accordo…» «Mica tanto! Questo è lo spirito di alcuni e la facciata di tutti. In realtà anche ieri sera ho intravisto piccole gelosie, infantilismi, occhiate velenose…» «Tipo? Dai racconta che mi fai ridere un po’» «Tipo che nessuno voleva stare per primo in scaletta.» «Cioè?» «Quando devi scalettare una rassegna di comici devi iniziare con i più deboli e tenere per ultimi i più forti, lo spettacolo deve andare in crescendo.» «Ma non è peggio fare rompere il ghiaccio a un comico un po’ deboluccio?» «Infatti quelli proprio debolucci non li chiamo per venire in teatro. Sempre parlando di comici bravi, ce ne sono alcuni che hanno una comicità più teatrale o più difficile o semplicemente non sono conosciuti ed è giusto, per la riuscita dello spettacolo ma anche per
39 loro, che si esibiscano all’inizio. Pensa che fatica farebbero a far ridere dopo un comico forte o famoso.» «E allora, se conviene anche a loro, perché fanno i capricci?» «Eh, sembra facile! Alcuni sono consapevoli delle loro potenzialità e dei loro limiti, altri no. Per esempio, Giorgio Tonetti, che viene dal teatro, ha uno spettacolo bello, intelligente e acuto ma difficile, quasi di nicchia, ma siccome è un ragazzo preparato e intelligente, ieri sera ha messo fine alle discordie e ha voluto andare per primo sostenendo che avendo un pezzo difficile aveva bisogno del pubblico ancora fresco.» «Va be’, insomma, il solito asilo Mariuccia.» «L’ hai detto! Faccio il caffè.» «C’è l’orzo?» «No, se non vuoi il caffè ti faccio il latte.» «Vada per il latte.» Intanto aprivo tutti gli sportelli della cucina per curiosare cosa c’era dentro. «Cosa cerchi?» «Volevo vedere se avevi quelle robe buone tipo Nesquik o simili da mettere nel latte, non mi piace bianco.» «Non credo, comunque guarda, ogni tanto Roberto compra qualche intruglio.» «Niente… Solo cose salutari, buone e dietetiche. Meno male che ho comprato le brioche.» «Dai, non rompere… Ti decidi a dirmi cosa ci fai qui a quest’ora?» «Ho litigato con Lorenzo.» «Ma va? Strano!» Sarcastica. «Non sei spiritosa.» «Lo so. Cos’è successo ancora? Non sei venuta a farmi le foto in teatro per litigare con lui?» «Dai, piantala!» «Ok, racconta tutto, eravate a casa tua a cena e poi…» «La cena è andata bene, abbiamo scherzato, riso, tutto bene. Poi si è fermato a dormire, tutto bene. Stamattina, invece, mi sono girate le palle. Se ne andava senza neanche accennare ai problemi che abbiamo avuto, faceva finta di niente, lo stronzo!» «Cosa doveva fare, per una volta che siete stati bene volevi che rovinasse tutto?» «Senti, se ti ci metti anche tu, me ne vado!»
40 «Dai Giugi, sdrammatizzo.» «No, no, drammatizziamo pure! Sono stufa del suo esserci a metà, ho capito che a queste condizioni non lo voglio più.» «Fusse che fusse…» «Faccio bene a pretendere di più?» «Fai bene a rispettare i tuoi desideri, poi sul fatto di pretendere qualcosa da lui…» la sua frase rimase così, sospesa nell’aria. «Che cosa?» «È un discorso un po’ lungo.» «Ho tempo… Anche se sento già puzza di predica.» «Appunto, lascia stare. L’importante è che rimani fedele a te stessa.» «Io voglio un uomo che divida la vita con me, nelle cavolate come nelle cose importanti, quando c’è da ridere ma anche quando c’è da sbattersi, quando le difficoltà ti vengono addosso e tu devi fare muro.» «Nella buona e nella cattiva sorte, in salute e in malattia, finché morte non ci separi, amen.» «Ma proprio stamattina non ti riesce di stare seria?» «No, scusa, stamattina mi viene così.» «Beata te che hai voglia di scherzare!» Mi ero seduta su uno degli sgabelli che circondavano il tavolo a penisola che divideva la zona cucina dal salotto, continuando a cambiare posizione in cerca di comodità. «Ma vuoi stare un po’ ferma? Finisce che cadi da quello sgabello.» «Franci, se mi va bene il lavoro, giuro che a Natale ti regalo le sedie, così butti via queste trappole… Come si fa a stare comodi senza schienale? È una tortura stare a tavola! Ecco perché sei così magra, mangi poco perché non ne puoi più di alzarti…» «Madonna, quanto brontoli stamattina!» Con una vecchia presina lavorata all’uncinetto e un po’ bruciacchiata da un lato, tolse la brocca del latte dal microonde, l’appoggiò sul tavolo davanti alla mia tazza, si versò il caffè e sedendosi di fronte a me mi fissò. «Allora? Perché non ti vedo in crisi? Mi stai dicendo che non vuoi più stare con il tuo Lorenzo e non versi nemmeno una lacrima, non ti riconosco più!» «Hai ragione, non sto così male. Quella di lasciarlo è solo un’idea, magari le lacrime le tengo per quando si concretizza.» )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD