Quel che tiene acceso il tramonto

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In uscita il 30/11/2016 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine dicembre e inizio gennaio 2017 ( ,99 euro)

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ROSANGELA PERCOCO

QUEL CHE

TIENE

ACCESO IL TRAMONTO

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QUEL CHE TIENE ACCESO IL TRAMONTO Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-053-5 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Novembre 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


A chi sa glorificare il tramonto, cosĂŹ tanto vicino al buio, eppure cosĂŹ vivo.



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Un film senza spettatori

La sua vita stava per cambiare, ecco perché guardò un po’ più a lungo del solito il suo giardino, così da fissarne quanti più particolari poteva, per portarseli via, là dove stava andando. Era un vecchio - già da parecchi anni era un vecchio - ma questo non significava che la sua vita di prima non meritasse di essere conservata con cura. Il giardino, che contava decine di varietà di fiori e di arbusti, aveva i suoi stessi anni, ed era naturale che partisse con lui. Ma non erano solo gli anni vissuti insieme alle sue piante l’unica cosa che lo teneva con lo sguardo incollato al prato, c’era anche il gioco di luci, quello che il tramonto disegnava dal cancello alle scale, e che a maggio in particolare - quando erano le sette della sera come adesso - faceva pensare che ogni cosa fosse giusta, e che tutto dovesse andare così, esattamente così, come stava andando. Ecco perché, mentre l’automobile percorreva l’ultima curva che portava alla casa del famoso regista che negli anni settanta aveva monopolizzato cinema e rotocalchi, lui, il vecchio regista, era piegato sulle viole, intento a strappare la mala erba che da sempre tentava di avvilire i suoi fiori sotto la finestra della cucina. Ed ecco perché, quando sentì aprirsi la portiera dell’automobile, chiuse gli occhi per vedere meglio quello che non avrebbe rivisto mai più: la sua vita di prima. Così, cancellando con il pensiero quelli che lo stavano aspettando là fuori e tutti quelli che stavano aspettando qualunque altra cosa


6 in qualsiasi altra parte del mondo, cercò di farla durare più che poteva. La sua vita di prima. Il rumore di tacchi sul vialetto lo distrasse dall’obiettivo. Era sua figlia quella signora che si avvicinava con un sorriso identico a quello di sua figlia? Quando riaprì gli occhi, lei aveva già le mani appoggiate sulla sua schiena. «Quante volte te lo devo dire, papà? Non puoi più farli certi lavori.» Solo questa volta. Solo questa volta doveva dirglielo, che razza di domanda era quante volte doveva dirglielo? Perché, per caso avrebbe potuto farli ancora certi lavori, lui? Non lo stavano forse portando via per sempre da lì? «Hai ragione, scusami, lo sai che mi scordo le cose.» Se le scordava, è vero, e tante, e sempre più spesso. Tranne la Casa degli artisti, quella se la ricordava benissimo. Era stato il dottore del Centro che aveva consigliato di portarlo lì, tra tutti i ricoveri diceva che quello era il più dignitoso: sarebbe vissuto insieme ad altri vecchi artisti come lui. Sì, insomma, sarebbe vissuto in mezzo ad altri vecchi. Come lui. Cercò di fermare l’onda di quel brutto pensiero, che però era più forte di lui, perché nasceva da un metabolismo fuori controllo con cui si era trovato a fare i conti da quando Emma non c’era più: il metabolismo della solitudine. Da quel giorno, quello della morte della sua regina, i brutti pensieri gli crescevano dentro come gramigna, e si moltiplicavano, e si aggrovigliavano, attaccando quelli buoni alla radice, così da farli sembrare tutti uguali, senza distinzioni. Ci sarebbe voluto più tempo e anche più luce per riuscire a separare i buoni dai cattivi. Ma lui il tempo l’aveva perso e non lo trovava più, almeno non più tutto intero. E anche la luce non gli faceva più l’effetto di una volta, che lo illuminava fuori e dentro. Adesso, lui non era più un albero che prendeva energia dal sole per


7 crescere. Adesso, a ottantaquattro anni, il sole gli faceva venire i tumori della pelle, quelli che era inutile asportare, per via che lui era troppo vecchio. Già da parecchi anni lui ormai era troppo vecchio. La signora con il sorriso di sua figlia entrò in casa senza nemmeno chiedergli il permesso. Sua figlia lo chiedeva sempre il permesso prima di entrare. La guardò con sospetto, ma lei proseguì senza esitare verso le scale che portavano al piano di sopra, da dove si sentirono presto arrivare dei rumori. Di sedie spostate, di interruttori accesi, di parole incomprensibili. In verità, qualcuna lo era anche, comprensibile, ma si trattava per lo più di parolacce e imprecazioni. Invadente e pure maleducata. Se non fosse stato per il sorriso, non avrebbe avuto niente a che spartire con la sua splendida figliola. Quanti anni aveva adesso? Dieci? Tredici, forse erano tredici. O erano venti? Eh già, se guidava l’automobile, doveva averne almeno… era inutile insistere, prima o poi gli sarebbe venuto in mente. Anzi, gli sarebbe tornato in mente, perché se c’era stato per tanto tempo, presto o tardi ci sarebbe ripassato dalla sua testa, o no? Il problema, caso mai, sarebbe stato distinguere il prima dal poi. Si scordava le cose, ma per fortuna non i sorrisi. E quello lì era proprio identico a quello di sua figlia. Invadente, maleducata e pure copiona di sorrisi, la signora. Ne aveva conosciute di attricette come lei, che credevano bastasse qualche smorfia per recitare. Bisogna avere cuore ed essere veri, altroché, sennò il pubblico non ti crede, anche se in scena ti agiti come un’ossessa e urli e… Quando la signora fece ritorno da quel blitz improvviso, aveva un diavolo per capello e una valigia in mano. «Perché papà?» glielo chiese senza preavviso e con un’espressione sconsolata.


8 «Papà?» «Sì, ho detto perché papà?» «Perché… perché…» Cercò di recuperare dalla memoria almeno un fotogramma, visto che del film intero non si ricordava più nemmeno il titolo. Doveva cercare prima perché o prima papà? Non ebbe il tempo di deciderlo che già gli era piombata addosso un’altra domanda. Succedeva sempre così: lui si concentrava su un fotogramma e nel frattempo il resto del film evaporava. «Perché hai disfatto di nuovo la valigia, papà?» Era la quinta volta in due giorni che lui metteva sottosopra il contenuto della valigia che lei gli aveva accuratamente preparato in vista della permanenza nella Casa. Solo che fino a oggi si era limitato a tirare fuori e a rimettere dentro, in disordine è vero, e spiegazzando tutte le camicie, ma senza mai tralasciare nulla. Questa volta invece la biancheria intima era sparita e al suo posto c’erano cesoie, bustine di sementi e guanti da giardiniere. Il fatto che lui non se lo ricordasse non significava che quel che aveva fatto per la quinta volta non avesse un senso. Gli avevano detto che c’era un giardino tutt’intorno alla Casa e lui aveva pensato che ci avrebbe perso volentieri un po’ di tempo, tutto qui. In fondo non potevano pretendere che passasse le sue giornate sempre in compagnia di vecchie stelle in cerca di scia. E poi, lui lo sapeva bene, c’era una bella differenza fra uomini e donne - specialmente donne - che perdono brillantezza e alberi che perdono foglie. Le donne specialmente certe attricette che proprio non ne vogliono sapere di smettere di sbrilluccicare - diventano noiose. Il fogliame invece, anche quello candidato a far da tappeto, non è mai noioso. È vario nelle forme, sfumato nei colori, e non ti suona mai uguale sotto i piedi.


9 «Coraggio, papà, è ora di andare.» La signora con il sorriso di sua figlia aveva sfogato tutta la rabbia e adesso lo prendeva addirittura sottobraccio carezzandogli le mani. Lui però non ricordava dove era ora di andare, ma soprattutto perché ci volesse del coraggio per andarci. L’uomo che lo aspettava seduto al volante lo salutò abbassando leggermente la testa. Lo aveva già visto quell’uomo, al momento non avrebbe saputo dire dove e quando, ma sentiva che era sempre stato gentile con lui. Così lo salutò anche lui, ma con un sorriso appena accennato: meglio non esagerare, non si sa mai che la memoria si fosse rimessa a fargli brutti scherzi. La signora con il sorriso di sua figlia prese posto accanto all’uomo gentile e lui, dietro loro due, si poggiò allo schienale per riposare un po’. Ma prima di chiudere gli occhi, si voltò a guardare la casa alle sue spalle. La luce che faceva sembrare tutto giusto non c’era più. Ammirò con orgoglio le sue viole che invece erano ancora tutte lì, di nuovo vittoriose nell’ennesima battaglia contro le erbacce. Non capì da dove gli veniva quel pensiero, se dalla testa o dal cuore, ma lo sentì arrivare forte. Sentì che il suo prossimo film sarebbe stato diverso da tutti quelli che aveva girato finora. Sentì che la sua vita di prima sarebbe sfuggita al controllo di tutti i medici e sarebbe andata con lui, dove lui stava andando. Sentì che non avrebbe abitato più la casa con le viole e la luce che fa sembrare tutto giusto, ma nello stesso preciso momento sentì anche che - qualsiasi decisione gli altri avessero preso per lui - lui quella casa l’avrebbe abitata per sempre. Solo chi non ricorda, può accavallare il tempo e realizzare tutti i sogni.


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Una musica senza pentagramma

Per Rachele la vita è andata soprattutto come se l’è raccontata, e quando si è accorta che in fondo non le era piaciuta granché, ha provato a cambiare il finale. L’inizio invece no, quello se l’era dovuto tenere così com’era. L’inizio era stato un pianoforte, il finale sarebbe stato la Casa. Nella sua vita fin qui, Rachele aveva deciso poco o niente, sempre che per decisioni si intendano solo quelle materiali, come scegliere il colore delle tende, traslocare, programmare il menu della giornata. Se invece si comprendono anche quelle spirituali - come amare, sognare, smarrirsi - beh, allora ne aveva prese parecchie anche lei. Finire nella Casa degli artisti era stata una di queste, anche se il Ministro della Cultura le aveva fatto intendere che si trattava di una specie di riconoscimento alla sua onorata carriera, un ringraziamento per ciò che lei aveva rappresentato in tutto il mondo per l’intero Paese. Finire. Le piaceva dirlo così: finire. Perché mai avrebbe dovuto accettare di andare a finire, quando poteva scegliere di finire? Nella musica finire era importante quanto iniziare, anzi, forse lo era persino di più. E la musica non l’aveva mai abbandonata, non l’abbandonava nemmeno adesso che anche le sue mani, così come le persone che aveva amato, la stavano lasciando. Sua madre era stata primo violino nell’orchestra del Teatro Nazionale, suo padre il direttore dell’orchestra. Quando la gravidanza a rischio aveva portato via per la prima volta il violino dalle mani di sua madre, anche la pace dal cuore di suo


11 padre aveva cominciato a svanire - a poco a poco - in un malinconico diminuendo. Il profondo suono di niente che per anni aveva avvolto la casa, Rachele lo aveva sentito per la prima volta all’età di sette anni, quando aveva appoggiato le mani sul suo pianoforte. Fino a quel momento, il silenzio era stato la sua colonna sonora preferita, un sottofondo buono che l’aveva protetta tante volte dall’eco dei singhiozzi di sua madre, che passava ormai tutte le sue giornate al piano di sopra, dietro una porta chiusa, protetta dalle bugie di suo padre. Piccola e circondata da quell’amore muto, non avrebbe mai immaginato che il pianoforte, un regalo che il padre le aveva fatto arrivare da una città dal nome lunghissimo e misterioso, avrebbe riportato la serenità nella casa e il sorriso sulla bocca di sua madre. A lei invece, e nemmeno questo poteva immaginare, avrebbe portato l’amore. Salvo poi riprenderselo troppo presto in uno sgradevole controtempo. I ricordi le arrivarono come i brani che aveva suonato durante la sua carriera, che erano troppi per risentirli tutti dall’inizio alla fine. Così, fece passare dalla memoria soltanto gli attacchi. Le sue mani la prima volta sui tasti, che parevano un ragno nell’attimo che precede lo scatto prima della fuga, quando non sai indovinare se andrà in una direzione oppure nell’altra, e poi lo vedi scattare e giureresti che metà delle sue zampe stanno andando da una parte e l’altra metà dalla parte opposta, e che tutte ci stanno andando nello stesso momento. E poi le sue mani esperte sui tasti, così esperte che l’avevano portata in tutto il mondo, e lei le aveva seguite senza mai protestare, ma sempre con la sensazione di averci portato solo le mani in tutto il mondo e di avere lasciato a casa il resto di sé.


12 E poi ancora le sue mani incerte, in fuga da quella musica che il mondo aveva scelto per lei - una musica lineare, precisa e confortevole - e che adesso rincorrevano una scrittura imprevedibile, ragni che andavano in tutte le direzioni, ma senza averne una. E più acuto di tutti, il ricordo di altre mani, quelle di lui, che le avevano insegnato a suonare tutte le musiche, tranne quella di oggi, una musica senza pentagramma. Il cuore le suggeriva di seguire quel ricordo, ma il tempo non era dalla sua parte. Sarebbero passati a prenderla entro pochi minuti, e non voleva farsi trovare né spettinata né pensierosa. Tolse dal pianoforte il telo che lo avvolgeva e cominciò a suonare. L’avrebbero trovata così, in obbediente attesa, come quel giorno che, da bambina, un pianoforte era arrivato a prenderla per trasportarla per sempre in un mondo di sogni.


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Un libro fuori collana

Poche cose sentiva sue come la sabbia, perciò non se ne scrollò di dosso nemmeno un granello. Cominciò a rotolare come faceva da piccola dopo il bagno in mare, suo padre la chiamava bambina panata perché, quando con la pancia toccava la sabbia, rallentava il rotolamento esercitando una lieve pressione, e continuava così finché l’impanatura non era perfetta. Era un’isolana dalla nascita, ma lo era diventata anche di più dopo aver lasciato il lussuoso appartamento di città per tornare a guardare il mare tutti i giorni, dalla mattina alla sera, e poi di nuovo dalla sera alla mattina. Quando gli amici - quei pochi che ancora osavano oltrepassare con telefonate di cortesia la barriera di silenzio che lei aveva innalzato - accennavano alla solitudine che evidentemente doveva scontare in cambio di quello scampolo di pace, rispondeva che sull’isola lei non era mai sola, era semplicemente lontana da certe cose. L’ordine in cui le elencava cambiava a seconda della giornata e dell’umore, ma le certe cose da cui era andata via erano rimaste sempre le stesse: la pioggia della città, l’agenda delle scadenze, l’editore e le sue odiosissime collane. In città pioveva in modo diverso che sull’isola, dove succedeva spesso ma non era mai una pioggia triste, perché le gocce cadevano a un dito dal mare ed entravano nel paesaggio senza prepotenza. Senza contare che lì, sull’isola, l’acqua non inzuppava mai l’aria, non faceva mai sprofondare alberi e case


14 in quella specie di pellicola grigia che trasformava tutto in un vecchio straccio per il pavimento. Con l’agenda non era sempre andata male. Anzi, all’inizio, quando era stato pubblicato il suo primo libro, non le era dispiaciuto vederla riempirsi di tutti quegli appuntamenti, inviti e incontri con il pubblico. Ma poi erano arrivati il secondo, e il terzo, e tutti gli altri libri. Quanti ne aveva scritti? Non se lo ricordava più. E nemmeno poteva verificarlo adesso, l’agenda era rimasta sul tavolo da lavoro, bulimica e fuori controllo. Negli ultimi mesi, sempre più gonfia di impegni, l’agenda aveva finito per prendere il sopravvento su di lei, al punto che non sapeva più cosa desiderava fare, chi aveva voglia di vedere, dove le piaceva andare. Era il planning a dirle cosa doveva desiderare, chi doveva avere voglia di vedere, dove doveva farle piacere andare. Che razza di nome “planning”, ha un suono ingannevole che ti fa sperare in una copertina calda da mettere sopra i piedi e poi, invece, quando lo sfogli, scopri che è una trappola che ti imprigiona piedi e mani e tutto quanto. L’editore era un capitolo a parte, il capitolo che svela l’arcano, smaschera l’assassino, ricompone il puzzle della storia. Non aveva mai smesso di cercarla da quando lei aveva bucato anche l’ultima data di consegna. Le aveva telefonato anche la sera prima: per le questioni in sospeso si dichiarava disponibile ad accogliere tutte le sue richieste, ma intanto le chiedeva il tempo di un’intervista, un’ora soltanto, per rispondere alle domande di un giornalista che le avrebbe dedicato niente di meno che la prima pagina. Già. Perché lei era un’isolana, lontana da “certe” cose, ma non dalla rete che l’aveva intrappolata per sempre in una pagina web: bastava digitare le parole “omicidi” e “cucina” ed ecco apparire un lunghissimo elenco di libri di successo. Collana


15 “thriller gastronomici”, la casa editrice l’aveva battezzata così, perle gettate alla massa, bestseller da primo, secondo e terzo posto in classifica. L’editore ci aveva fatto una fortuna con quelle perle gettate alla massa, che nemmeno il commercio dei diamanti gli avrebbe garantito. E anche lei, doveva ammetterlo, aveva guadagnato cifre con un numero di zeri da far perdere il conto. Eppure gli aveva risposto no al telefono, negando la sua disponibilità a rilasciare l’intervista. Non l’aveva fatta nemmeno troppo lunga con le spiegazioni, anzi l’aveva troncata in fretta, non è facile contrapporre allo zero periodico il senso di asfissia provocato da una collana… di libri. Eppure quel libro all’anno, con consegna inderogabile dopo l’estate e pubblicazione improrogabile fra le strenne natalizie, le aveva prosciugato a poco a poco entusiasmo e voglia di scrivere. E poi pioveva. L’ultimo giorno che aveva visto la sua casa in città, pioveva. Aveva guardato la pigna di fogli bianchi appoggiati al tavolo da lavoro e poi il cielo basso che premeva ai vetri della finestra. Aveva sentito che era questione di tempo, che prima o poi sarebbe rimasta schiacciata sotto il peso di uno dei due. E qualcosa le diceva che non sarebbe stato il cielo a farla fuori. Ne aveva fatti fuori tanti lei nei suoi thriller gastronomici, e anche se sapeva che prima o poi il colpevole della sua fine sarebbe stato scoperto, non le garbava l’idea di essere bruciata, annegata o cose così. Bisogna riconoscere che prima di scegliere definitivamente la via della fuga, ci aveva provato. Aveva proposto all’editore un libro fuori collana, una storia per bambini, una fiaba moderna. E quando lui le aveva chiesto se era ambientata in cucina - o se la cucina era almeno sullo sfondo della vicenda - e se magari


16 un po’ di sangue scorreva fra i fornelli - anche sangue di drago andava bene - ecco quando lui le aveva detto queste idiozie, lei aveva chiuso casa e collana ed era tornata sull’isola. Si teneva stretti i suoi granelli di sabbia quando sentì squillare di nuovo il telefono. Il dialogo si risolse in poche battute. Un po’ perché l’amore per la scrittura l’aveva distolta dalle conversazioni eccessivamente lunghe, e un po’ perché c’era suo padre all’altro capo. Le comunicava che non c’erano problemi, che poteva tranquillamente trattenersi per tutta l’estate, che la casetta sulla spiaggia era stata venduta è vero, ma che il nuovo proprietario non l’avrebbe occupata prima di ottobre. Nessuna sorpresa: la casetta era in vendita da quasi due anni, prima o poi doveva succedere che qualcuno ci mettesse sopra gli occhi. Era il pensiero che ci mettessero sopra le mani che la turbava. Nessuna sorpresa e nessuna speranza: la casa di città era stata occupata già la prima settimana dopo la sua partenza. Per fortuna, la cifra con lo zero periodico che possedeva in banca le avrebbe permesso di finanziare all’infinito la sua permanenza in un luogo che pareva adatto a chi, come lei, voleva liberarsi della pioggia, dell’editore e della collana, ma non delle storie da raccontare. Il destino, che di tanto in tanto si metteva all’ascolto persino delle sue domande fuori planning, le servì generosamente l’informazione che cercava. Il segnalibro di fortuna infilato nelle pagine del romanzo che stava leggendo era un depliant piuttosto invitante. Parlava di una Casa, la Casa degli artisti, ma soprattutto di quanto fosse vicina al mare.


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Una scenografia senza effetti speciali

Camminava lungo il viale con passo languido, al ritmo della città che non lo ospitava più da tanto tempo e che oggi pareva appoggiarsi mollemente all’aria senza accomodarsi mai, come una gigantesca scenografia mossa dal vento. Doveva avere avuto una statura notevole se anche adesso, così curvo, arrivava alle spalle dei passanti più alti. Aveva la pelle rugosa e la carnagione bruciata dal sole, l’espressione era quella di un animale preistorico dei fumetti, e sembrava dire “Mi sono estinto, è vero, ma non datevi pena per me, in fondo l’ho fatto senza troppa tristezza…”. Indossava un impermeabile nero di pelle scrostata che faceva effetto vecchia rock star, soprattutto abbinato ai capelli argento opaco, raccolti in un codino che però faceva vecchio e basta e di rock star conservava solamente l’iniziale del fermaglio. Roberto, Rino, Raimondo o uno che aveva rubato il fermacapelli a Raffaella, Rita… Rugiada? Importava poco, adesso che lo sporco rendeva polverosa ogni sua cosa: dagli occhi alle unghie, dal sorriso alle scarpe. Trascinava una specie di carrellino della spesa, uno zaino con le ruote, che sopra la tasca aveva disegnato lo scudetto di una nota squadra di calcio. Tutto sembrava autentico - colori della maglia, slogan e nome della squadra - peccato che l’anno di fondazione della società fosse stato anticipato di almeno un decennio: errore che avrebbe fatto rabbrividire i tifosi e che ne tradiva la natura contraffatta.


18 La sosta all’incrocio davanti al palazzo del Municipio era d’obbligo, il mazzolino di fiori legati al semaforo era lì, come tutti i giorni, a ricordare il bambino con la bicicletta. Lui non lo conosceva, ma sul foglio dentro la cartellina di plastica c’era scritto Andrea, 14 luglio 1994 - 29 settembre 2003, e tutto sembrava autentico: nome, data dell’inizio e data della fine. Magari sulle squadre di calcio potevano anche imbrogliarlo, ma c’erano certe cose che non sfuggivano alla sua attenzione. Con quella, con l’attenzione, si era guadagnato più di una candidatura all’Oscar, e anche se in pochi conoscevano il suo nome, in tanti avevano visto le città fantastiche, le navi dei pirati e le creature extraterrestri che lui aveva creato. Sua moglie, la seconda delle tre per la precisione, lo aveva lasciato dicendo che la trascurava per giocare al teatro e al cinema. A dire la verità, anche le altre due lamentavano la stessa cosa, ma avrebbero giurato di avere delle donne come rivali e non un quaderno pieno di appunti e astronavi. È vero che per chiamare appunti quegli sgorbi rossi, quei mozziconi di frasi e astronavi, ci voleva parecchia fantasia. Ma lui ne aveva più di parecchia. Il suo lavoro consisteva nel far sembrare vere le storie inventate dagli sceneggiatori, e per convincere il pubblico usava ogni mezzo: uccelli di seta, palazzi di polistirolo, foreste di plastica. Passi più tempo a guardare in giro che a vivere, questo glielo diceva già la prima moglie, e lui non ci provava nemmeno a contraddirla perché, per quanto lo riguardava, vivere era proprio quello, era guardare in giro. Guardare di continuo e senza sosta. Metà delle cose che vedeva c’erano già, visibili a tutti - questo lo aveva imparato con l’esperienza - ma per l’altra metà, quella che aveva una forma soltanto sul suo quaderno, bastava avere un po’ di pazienza, e prima o poi si sarebbe manifestata agli altri.


19 In tanti anni di carriera non aveva inventato tutti quegli effetti speciali perché vedeva meglio o più di quanto vedessero le altre persone, semplicemente perché vedeva prima. E le sue visioni diventavano scenografie, e le scenografie facevano più vere le storie. Questi fiori legati al semaforo però, dovevano essere opera di uno scenografo mediocre, uno di quelli di ultima generazione, che chiamavano minimalismo un mazzolino di fiori solo perché era finto. Doveva averlo piazzato lì sperando che la squallida indifferenza della città mischiata al dolore scioccante provocasse negli spettatori il massimo dello strazio. E vogliamo parlare della foto del bambino che sorride felice sulla sua bicicletta? E della scelta di ambientare la scena madre a un incrocio? E di posizionare un Municipio proprio di fronte al luogo dell’incidente? Avranno anche a disposizione le tecnologie più avanzate, ma questi nuovi scenografi sono la fiera delle banalità. Ancora una volta, la speranza delusa che quel set totalmente privo di fantasia venisse smantellato gli disegna una smorfia sulla faccia. Quante volte aveva visto quella scena fatta così male? Realizzata in quel modo faceva sembrare il bambino ancora più morto, ed era insopportabile vedere una vita ridotta a cinque tulipani di plastica. Si guarda in giro in cerca della metà che ancora non c’è ma che potrebbe manifestarsi da un momento all’altro. Fruga nello zaino in cerca del suo quaderno di appunti e astronavi e fischietta per farsi compagnia in attesa dell’idea che renderà quella storia più bella. Una voce alle sue spalle lo distoglie dai pensieri. «È ora di rientrare, fine della passeggiata per oggi, sta per scatenarsi un temporale. Se non ci sbrighiamo a tornare a casa, i chicchi di grandine ci colpiranno come proiettili.»


20 «Ma io non ho neanche cominciato a disegnarla la prossima scena…» Protesta vana. Quelli del Comune erano gentili, parlavano grande, ma erano privi di fantasia, proprio come gli scenografi minimalisti. Proiettili con un’unica traiettoria così nettamente verticale non erano credibili, insomma non l’avrebbe bevuta nessuno un’inquadratura come quella, ci volevano variazioni di direzione e anche il rumore doveva cambiare ritmo di tanto in tanto… Da quando era stato estratto a sorte per ricevere il sussidio e l’assistenza, aveva potuto verificare in più di un’occasione la grande disponibilità del personale e il calore dell’accoglienza. Era davvero un peccato perciò che, dopo tanto tempo passato insieme a quei signori del Comune, loro non riuscissero a inventare niente di meglio che proiettili di grandine. Ma più di tutto lo sconcertava che non avessero ancora imparato a distinguere un rientro a casa da un ritorno alla Casa.


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Soltanto viaggi verso il lieto fine

«Siamo arrivati? Quando arriviamo? Siamo arrivati?» Aveva cominciato a chiederlo dall’inizio del viaggio, alternando le domande senza ripetere mai due volte la stessa, ma anche senza smettere mai di farne una. Tra una domanda e l’altra scorreva con lo sguardo i paesi che costeggiavano la strada. «Quasi. Siamo quasi arrivati, papà.» Anche la signora con il sorriso di sua figlia non aveva mai smesso di rispondere “quasi” dall’inizio del viaggio. Era la stessa cosa che diceva ai suoi figli quando erano piccoli per evitare che la tempestassero di “siamo arrivati, quando arriviamo, siamo arrivati”, anche se quello che riusciva a ottenere ogni volta era la ripetizione di un’unica infinita domanda. Non sperava di ottenere di più da quel vecchio con il naso incollato al finestrino, ma se avesse chiuso gli occhi e invece di guardarlo si fosse limitata ad ascoltarlo, avrebbe avuto la certezza di accompagnare un bambino e non suo padre. E lui, da parte sua, non faceva niente per farle cambiare idea: si limitava a guardare fuori dal finestrino come fanno i bambini, che guardano semplicemente fuori dal finestrino. Guardano per guardare, i bambini. La macchina da presa gli aveva insegnato la visione a trecentottanta gradi, ovvero trecentosessanta più quel po’ di gradi che servivano ad allargare la visione con l’immaginazione.


22 Il giardino gli aveva insegnato la pazienza. Immaginazione e pazienza gli avevano insegnato a vivere bene anche in solitudine, almeno fino a quando la prima non era cresciuta troppo e aveva soffocato la seconda. Il fatto è che non puoi piantare un albero dove ti pare, prima devi conoscere il terreno dove nascerà, il suo rapporto con le stagioni, e tutto quanto gli crescerà vicino. Intanto che gli altri stavano quasi arrivando, lui disegnava con l’indice il contorno delle case, il profilo degli alberi e la linea dei campi. Disegnare porta lontano. O comunque porta al di là del finestrino. «Siamo arrivati? Quando arriviamo? Siamo arrivati?» «Non pensarci, papà, chiudi gli occhi e riposa, ti sveglio io quando arriviamo.» Negli ultimi tempi aveva scoperto il vantaggio di tornare bambini e cioè che - come loro - poteva davvero non pensarci. E ci riusciva benissimo, anche se non sapeva a cosa non doveva pensare. Così, mentre il futuro premeva forte contro il finestrino dell’automobile, chiuse gli occhi e lasciò che il passato entrasse a ricordargli di quando da piccolo guardava la televisione con i suoi genitori. Ognuno aveva le sue preferenze, papà il basket, mamma la serie con i medici in prima linea, lui tutto. Gli piaceva qualsiasi cosa si muovesse dietro quello schermo e restava ore incollato a guardare le persone che si baciavano, quelle che sorridevano e anche quelle che piangevano. Ma c’era una serie, molto famosa all’epoca, che piaceva a tutti e tre e che tutti e tre avevano visto - dalla prima puntata e senza mai perderne una - fino alla centosedicesima. Era la storia di una ragazza di nobili origini, costretta a sposare un uomo contro la propria volontà, e che (non si ricordava in quale puntata) si era innamorata di un giovane musicista…


23 I ricordi si accavallavano, un po’ come le puntate, e non riusciva a rimettere insieme i fatti con ordine. Ma ce n’era uno, c’era un fatto che la memoria gli stava trasmettendo con assoluta precisione: la sera in cui tutti e tre avevano pianto sul divano perché la ragazza si era uccisa, non sopportando di dover abbandonare il suo amore e trasferirsi lontano da lui. Non era sicuro che mamma e papà avessero visto anche la centodiciassettesima puntata, ma ricordava perfettamente di avere preso una decisione quella sera: da quel momento e per quanto lo riguardava, esistevano soltanto storie a lieto fine. Nelle puntate di mezzo ci potevano anche essere lacrime e dolore, persino il finale poteva far piangere - di gioia ovviamente - ma qualsiasi vicenda che per qualche ragione aveva preso una brutta piega, doveva essere raddrizzata. Sempre. In nessuna delle sue regie aveva mai trasgredito questa regola, tant’è che i critici avevano apprezzato molto il suo “personalissimo sguardo sul mondo” e anche la sua “toccante poetica della quotidianità”, ma non gli avevano mai perdonato di non essere capace di far finire male un film. «Siamo arrivati?» «Quasi, siamo quasi arrivati papà.» Quasi era il tempo più lungo del mondo quando lui era bambino, e anche adesso - solo a pronunciarla - la parola sembrava allungare il viaggio all’infinito. Per fortuna le sue piante gli avevano insegnato che se sai aspettare la stagione giusta, senza accelerarla con sogni o concimi, prima o poi i fiori sbocciano e anche i frutti maturano. Riprese a guardare fuori dal finestrino come fanno i bambini, che guardano semplicemente fuori dal finestrino. Guardano per guardare, i bambini. Ciò nonostante, lo rattristò vedere che ai


24 balconi delle case non c’erano più tanti fiori come una volta. E dentro quella malinconia, i suoi ricordi ripresero a crescere. Perché mai avrebbe dovuto rinunciare anche a un solo lieto fine? La fine è già triste così com’è senza che qualcuno le aggiunga dettagli sgradevoli. Lo sapeva bene, lui che a ogni the end che appariva sullo schermo pensava fosse sempre troppo presto, e si sentiva perso, senza più paesaggi dove entrare o storie dentro cui infilarsi. Era questo che faceva, anche adesso, infilarsi in tutti i paesaggi che sfilavano davanti al finestrino. Perché - lo sapeva bene - gli occhi, come la macchina da presa, erano solamente uno strumento da viaggio, uno stargate per oltrepassare lo schermo, il finestrino, la realtà. La realtà era lui ogni volta in una storia diversa. Naturalmente a lieto fine. Quando guardava vivere un albero, quando lo guardava per davvero, sapeva che l’albero non finiva mai, che continuava sotto la terra e nel cielo. Quando guardava vivere un albero per davvero, lui non si sentiva mai solo. Così continua a guardare, semplicemente per guardare, come fanno i bambini. Questo è il bello dell’essere sempre quasi arrivati: guardare per guardare. Il mare. Era mare quel foglio di velluto che si intravedeva oltre i binari della ferrovia. Il tracciato ferroviario era sopravvissuto alla morte della stazione, probabilmente perché le sterpaglie lo avevano intrappolato al terreno. «Siamo arrivati, papà.» Sentì che aveva bisogno di un quasi per poter guardare più lentamente gli oleandri che circondavano la Casa. Ma non lo chiese, in fondo adesso gli bastava che ci fossero gli oleandri.


25 «Sì, siamo arrivati.» Tutto intorno alla Casa c’era il giardino che gli avevano promesso. E c’era qualcos’altro. La signorina che lo accolse alla porta, quella non gliel’aveva promessa nessuno, eppure era lì. Bella come nella prima puntata. A un tratto, si ricordò che non aveva visto la centodiciass… che numero era? Già, doveva essere stato in quella puntata che la ragazza veniva salvata dal suo musicista. Ma questo lo ricordò piano, per paura che anche quel ricordo lo abbandonasse a metà strada. «Benvenuto, signor Luzi. Io sono Elisabetta.» «Piacere…» Non riuscì a ricordare il proprio nome tanta era l’emozione di rivederla ancora viva. Pazienza, glielo avrebbe detto più tardi, dopo la visita al giardino.


26

Un viaggio in Arabesque

Le automobili emettevano tutte un suono sgradevole per le sue orecchie, e quella del Ministero della Cultura non faceva eccezione. Il clacson aveva una sonorità prepotente ma vaga, “in sintonia con la politica che trasportava” si sarebbe potuto dire. Il rumore si inserì senza vergogna fra un re diesis e un fa che se pure in un leggero crescendo - non avevano niente a che spartire con quel suono completamente inutile al mondo. Aveva deciso di salutare il suo pianoforte con un Arabesque di Debussy, il primo. “Le dita devono a malapena sfiorare la tastiera”, le aveva detto presentandole il brano la prima volta, “devono come volarci sopra, un volo rasoterra, per dare il giusto senso di tranquillità e spensieratezza. Non ci sono difficoltà particolari, ma se vuoi che la tua musica sia dolce come suggerisce la scrittura, la sinistra deve accompagnare la destra arpeggiando finemente, mentre la destra deve esprimersi e cantare, cantare…” Lei si era innamorata subito di Debussy e poi - praticamente un istante dopo - di lui. Giacomo non aveva quasi niente dell’insegnante di musica, non gli occhiali fuori moda, non i capelli antichi, non la voce noiosa. Se a quindici anni - dopo quasi otto passati in compagnia di un pianoforte e di una signora tutta chignon e bacchetta - ti presentano il maestro che, dicono, ti farà fare finalmente il salto di qualità, mai ti aspetteresti il ragazzo più bello del mondo che fa fare triple capriole al tuo stomaco. E


27 infatti Rachele non aspettava Giacomo, ma quando Giacomo arrivò, lei non esitò a manifestare a suo padre il repentino cambiamento di programma. Era naturale, ci aveva riflettuto, insomma ci aveva ripensato, e probabilmente ce l’avrebbe fatta a dedicare più ore alla musica senza per questo compromettere i risultati scolastici. O per lo meno ci avrebbe provato. Per tutto il primo anno, durante le lezioni, si era limitata a guardare levitare le mani del suo maestro sulla tastiera sognando che prima o poi sbagliassero strada, raggiungessero le sue, incrociandole magari. Qualche volta era successo, ma lui le aveva subito ritirate, riprendendo a suonare senza nemmeno chiedere scusa, non sospettando quello che le sue mani avevano fatto, ma soprattutto non immaginando quello che avrebbero potuto fare. Successe solo alla fine del secondo anno, quando… «Quando vuole, signora. Appena può, l’auto è qui fuori, ad attenderla. Ma faccia pure con comodo.» Il clacson aveva smesso di deturpare la sua musica e una voce al telefono la invitava a sbrigarsi… con comodo. Non che la voce fosse gradevole, ma almeno non spingeva sui volumi. Rachele pensò che avrebbe avuto bisogno di più tempo per il ricordo che il pianoforte le aveva appena riportato a casa. Si toccò le guance e le sentì asciutte, come capitava sempre quando piangeva forte. Pensò che la musica non solo le aveva insegnato a finire, ma anche a ritardare. E una volta era toccato alla felicità, un’altra al dolore. Rimise il telo sul pianoforte, si pettinò e uscì. Né troppo presto, né troppo tardi. Era così che aveva deciso di vivere da ora in avanti. Salì sull’auto, salutò l’autista che l’accolse con un sorriso che diceva “l’ho vista tante volte alla televisione” e voltò la faccia


28 verso il finestrino per riprendere a suonare nel punto preciso in cui si era interrotta. Nel suo viaggio in Arabesque, si sarebbe dedicata a sfogliare la sua storia, e l’avrebbe fatto con delicatezza, come in un volo rasoterra, così da poterla riavvolgere in caso di troppo dolore. Quando l’automobile lasciò la via di casa per immettersi sulla strada principale, Rachele non si guardò indietro, era una regola che aveva imparato bene e che aveva segnato il passaggio dalla musica amatoriale al professionismo: mai guardare ciò che si fa mentre lo si fa, ma continuare, continuare, continuare. Il tempo per correggere gli errori non è lo stesso in cui si compiono. Pretendere di guardare quel che le mani hanno appena fatto o stanno facendo rischia di compromette il prossimo movimento, la prossima scala di note. “Non fermarti. Quando hai paura, sei incerta, pensi di avere sbagliato o non ricordi… non fermarti. La bravura sta nel ritrovare la strada, non nel non perderla.” Le aveva detto così, quel giorno. E poi si erano baciati, tanto, si erano baciati con l’eco. Ed erano rimasti abbracciati tutto il tempo, e forse un po’ dopo. Mentre l’automobile si infilava nel ritmo frenetico dell’autostrada, il suo cuore lasciò che accelerasse anche il ritmo dei ricordi. E così Rachele vide una storia d’amore proibita e poi la musica che le cresceva dentro come una malattia. Vide le sue prime apparizioni in pubblico, un pubblico che aumentava esibizione dopo esibizione, ma che ai suoi occhi si riduceva sempre a un unico spettatore. Vide i loro incontri - rari ma intensi come le pause nella grande musica - e poi vide i teatri pieni nelle città più importanti del mondo, vuoti senza di lui. Vide i viaggi in paesi lontani e le attese infinite e i ritorni appassionati, e poi vide la sua vita trasformarsi in un unico interminabile viaggio.


29 Vide il giorno in cui lui le chiese di sposarlo e lei gli rispose con una pausa troppo lunga per essere musica. E poi lo vide andarsene per sempre, senza che fosse riuscita a dirgli che lo amava, ma amava anche lo spartito che avevano scritto insieme e che adesso lei doveva suonare fino in fondo, per forza. Pena la clausura e i singhiozzi dietro una porta chiusa, al piano di sopra. Davvero la musica non l’aveva mai abbandonata, ma nemmeno l’aveva mai lasciata libera di andare. Come se avesse scritto per lei un destino identico a quello di sua madre. Giacomo si era tolto la vita il giorno stesso in cui lei era partita per un tour a migliaia di chilometri di distanza: non ce l’avrebbe fatta a rientrare per il funerale, nemmeno se lo avesse saputo subito. Era innegabile: lui era sempre stato un vero maestro nel dare il tempo. L’automobile aveva appena lasciato l’autostrada e stava imboccando un’uscita a gomito che nascondeva il paesaggio. Quando un agglomerato di mattoni multicolore apparve improvvisamente come dal nulla, lei trattenne il respiro. L’edificio non era vicino quanto la sorpresa l’aveva illusa che fosse, ma anche così aveva un che di irreale, di sovrannaturale, come un presepe allestito su un pianeta remoto. Il presunto regalo del Ministero le sembrò sempre meno un regalo ricevuto da altri e sempre più una decisione presa da sé. E insieme a quella, ne prese un’altra. Decise di fare una cosa che non aveva più fatto da quando Giacomo se n’era andato per sempre. Decise di aspettare davvero, di aspettare che succedesse qualcosa.


30

Le storie nell’armadio

Pensò che doveva togliersi almeno la sabbia dalla faccia prima di entrare in casa, e magari mettersi addosso qualcosa di meno trasparente della pelle nuda, se voleva andare in paese. Ma non lo fece, non si tirò via la sabbia. Le piaceva troppo guardarsi nelle vetrine, quando i granelli appiccicati al sudore sbrilluccicavano al sole come paillettes. E decise di non farsi nemmeno troppi scrupoli nei confronti dei nuovi proprietari: le stavano rubando il suo corridoio sul mare, non potevano pretendere anche che lei glielo consegnasse pulito e lucidato. In bagno ci passò pochi minuti, il tempo di dare una direzione ai capelli - aveva perso la speranza di dar loro una vera e propria forma - e di lavarsi le mani appiccicose di albicocca. Fu la camera a farla prigioniera. Ci era entrata più di una volta negli ultimi giorni, ma mai così, mai per lasciarla per sempre. Eppure lo sapeva che era proprio quando provava a lasciarle che le cose le si aggrappavano strette, era nel momento in cui tentava di salutarle definitivamente che le persone la trattenevano più forte. “Non c’è ragione di smantellare la tua camera”, le aveva detto sua madre. “In questa casa lo spazio è l’unica cosa che non manca”: le allusioni a quel che mancava erano fin troppo chiare. E così, quando ci tornava per passarci qualche giorno di vacanza, finiva per dormire nella camera dei suoi o in quella


31 degli ospiti, persino in terrazza o sulla spiaggia. Di sicuro, non aveva mai più dormito nella sua vecchia stanza. Il letto occupava ancora la sua antica posizione. Sembrava appena fatto, nessuna piega né bollicine di tessuto - da bambina li chiamava così, bollicine di tessuto, i punti in cui le lenzuola si gonfiavano - ne deturpavano le forme, sua madre ne sarebbe stata fiera. A guardarlo bene però te ne accorgevi. Intuivi che l’ultima volta che qualcuno ci aveva infilato le mani per sistemarlo doveva essere stato almeno trent’anni prima. C’era ancora la coperta con le casette e i camini fumanti, quella che a lei era sempre sembrata una tovaglia, ma non aveva mai avuto il coraggio di dirlo a sua madre. E accanto al letto, ecco il comodino pannellato arancio con sopra la lampada-radio, un oggetto di design che avrebbe fatto furore nel vintage dell’orrido. Per trovare la conferma ai suoi pensieri, e cioè che il tempo di lì non era più passato, cercò sulle pareti i manifesti con le sue rock star preferite, roba da far tremare i polsi solo a guardarle. Ma al loro posto c’erano soltanto i segni che lo scotch aveva lasciato sulla tappezzeria, anche lei in cima alle classifiche dell’orrido, con quelle nuvolette tutte uguali che facevano da cielo alle casette tutte uguali disegnate sulla coperta-tovaglia. Quella camera così esteticamente scorretta non voleva proprio lasciarla andare. Qualcosa lì dentro sembrava addirittura avere un’eco. Era l’armadio, cos’altro poteva parlare in quella casa vuota, se non il suo armadio delle storie? Non era la coperta con le casette l’unico argomento su cui non aveva mai osato contraddire sua madre, c’era tutto il resto: le regole di quell’ambiente così piccolo dentro, quel vivere contabilizzando ogni cosa, quell’aria sempre densa di preoccupazioni per un futuro che non fosse fatto di cose. E più


32 di tutto quelle conversazioni, lunghe, troppo lunghe, tutte incentrate su chi sapeva o non sapeva costruirsi un futuro fondato saldamente sulla religione della compravendita. Ma a lei piacevano le storie. Così aveva imparato a non contraddire mai le parole che circolavano dentro il resto della casa, in modo da potere - una volta che le lunghe conversazioni avevano trovato un punto rifugiarsi nel suo armadio delle storie. Lì dentro, la bambina che aveva obbedito per tutto il giorno, veniva ripagata per i suoi sforzi. Lì dentro, lei sfogliava tutto ciò che i suoi occhi riuscivano a leggere. E diventava tutte le principesse e le regine e le matrigne che trovava. E viveva in tutti i castelli e città e mondi che incontrava. E sposava tutti i principi… no, non sposava tutti i principi, sposava solo lui, il ragazzo della spiaggia. Era secco e silenzioso, ed era rosso: di sole e di capelli. Veniva ogni mattina in compagnia di un vecchio pescatore a vendere il pesce sul molo. Il vecchio non sorrideva mai, allora lui sorrideva per tutti e due e a lei piaceva quel sorriso per due, così metteva la faccia, il sorriso e tutto il ragazzo dentro le sue storie. E finiva che lei era Biancaneve e lui il ragazzo della spiaggia, lei Cenerentola e lui il ragazzo della spiaggia, lei era Aurora e lui il ragazzo della spiaggia… Ma sì, un giro nell’armadio non le avrebbe fatto perdere più di tanto tempo, l’agenzia chiudeva alle otto, ce l’avrebbe fatta senza nemmeno affannarsi. Aprì le ante e diventò bambina. Dentro c’era profumo di burro e zucchero, richiuse per non farlo svanire. Dentro c’era un mondo più grande di quello in cui era nata. Era sempre stato così. Perché a lei piacevano le storie.


33 Vide la storia che stava cominciando e pensò che non era poi così triste. Si trattava di raggiungere un nuovo castello e lì di trovare il suo armadio, il suo profumo di burro e zucchero e il ragazzo con due sorrisi. Decise che doveva vestirsi prima. E lo fece conservando tutta la sabbia che poteva. Raggiunse il paese e si infilò in una cabina del telefono pensando che una zona neutra le avrebbe facilitato il passaggio nella storia nuova. «Buongiorno. Sono Ester Dalemi…» «Buongiorno Ester», rispose la voce all’altro capo. Ma come? Non l’aveva riconosciuta? Ester. Ester Dalemi, la scrittrice famosa. Forse non aveva usato il tono giusto. «Sono Ester…» «Ma certo, è la signora tanto gentile che ha chiamato la settimana scorsa per prenotare il soggiorno qui da noi.» «Lì da voi sarebbe la Casa degli artisti, giusto?» Artisti, appunto. Chissà se si era spiegata. «Eh già. E lei è… mi faccia controllare… lei è, lei è… Ester Dalemi, ma certo!» Le premesse non erano buone, ma in fondo che cos’era una telefonista ignorante al confronto di una casa vicino al mare? Si arrese definitivamente e chiuse la questione con una frase idiota ma pacificatrice. «Non si preoccupi. In fondo siamo tutti un po’ artisti. Dentro.» Dentro le rodeva un po’. Ma come si permetteva? E dov’erano finite le signorine di una volta, che prima di rispondere si informavano su tutto quello che riguardava i clienti. Se l’avesse fatto, avrebbe saputo che stava parlando con un’artista vera, una che amava le storie. Prese tempo, fece un lungo respiro e continuò.


34 «Arriverò dopodomani, nel pomeriggio. Non ho particolari esigenze per la cena, salvo un’intolleranza alle noci di cui gradirei lei prendesse nota per favore. Io sono Ester, Ester Dalemi. Niente noci: lo scriva pure accanto al nome, grazie. Così come vorrei che lei annotasse anche un altro mio desiderio. Mi piacerebbe alloggiare al piano più alto, sa com’è, la vista è importante per noi artisti dentro.» «Come ha ragione, signora Ester. Ma stia serena, qui alla Casa la vista è bella a qualsiasi piano e da qualsiasi lato la guardi. Nel giardino ci sono tutti i colori che la natura ha previsto, e fiori e alberi e…» «Mare. Scriva il mio nome vicino al mare. Ester Dalemi, niente noci, virgola, mare. E se si ricorda, apra una parentesi dopo mare e ci scriva dentro “sabbia”. Tanta. Ecco, scriva “tanta sabbia”. Grazie signorina. Sono sicura che ha preso nota di tutto. Sa com’è, l’arte ha bisogno di uscire da dentro di tanto in tanto. Sento che andremo d’accordo noi due.» Salutò la signorina e chiuse la telefonata. L’incipit era stato scritto, non le restava che farsi venire qualche idea per lo sviluppo della nuova storia. Niente a che vedere con i thriller gastronomici, almeno di questo era certa, l’editore se ne sarebbe fatto una ragione. Avrebbe indugiato volentieri su questo futuro di trasgressioni letterarie se un gruppo di persone non le si fosse stretto intorno, all’uscita dalla cabina. Erano suoi fan in attesa d’autografo. Si sarebbero fatti una ragione anche loro, le librerie erano piene di thriller gastronomici, a nessuno sarebbero mancati i suoi. Ester. Scrisse solo Ester e si voltò a guardare in direzione della sua d’infanzia. Poi aggiunse “niente noci, mare e tanta sabbia”. Poteva bastare per inventare un personaggio nuovo. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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