In uscita il (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine PDJJLR H LQL]LR JLXJQR 2020 ( ,99 euro)
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GIUSEPPE DI STASIO
QUEL MURO CHE CI UNISCE
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ QUEL MURO CHE CI UNISCE Copyright © 2020 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-392-5 Copertina: immagine proposta dall’Autore Prima edizione Maggio 2020
PROLOGO
Quando mi incontrano per la strada, mi chiedono ancora come sto e io, dopo tutto questo tempo, rispondo che va bene. Mica posso dire che sto male e che della tua assenza ne ho le tasche piene; dovrebbero capirlo da soli guardando i miei occhi, no? Ma le persone sono troppo impegnate per fermarsi a notare certe piccolezze. I miei occhi sono spenti, sai? Hanno perso la vivacità e l’allegria che dovrebbero avere quelli di un ventenne. La verità è che mi sento come un palloncino pieno d’elio che volteggia a mezz’aria. Pesante, per i troppi pensieri che non mi consentono di andar su. Leggero, per la sensazione di vuoto che mi hai lasciato. E.
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PARTE PRIMA
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CAPITOLO 1
Adele Ricordo ancora la sensazione di euforia di quella sera. La scuola era finita da poco, e finalmente potevo godermi le vacanze, le tanto desiderate dormite fino a tardi, il senso di libertà che solo l’estate sa regalare e, soprattutto, le uscite serali con gli amici. Quella sera, infatti, mi stavo preparando per uscire con Beatrice, la mia migliore amica. Ci conosciamo da quando avevamo tre anni e ormai siamo come sorelle. In tredici anni di amicizia, le volte che abbiamo litigato si contano sulle dita di una mano. Eravamo inseparabili e, se una faceva qualcosa, l’altra era la prima a saperlo. Era una regola che avevamo, guai a non rispettarla! Quella era una delle prime sere fuori dopo l’ultimo giorno di scuola e non sapevo proprio cosa indossare. Bea sarebbe arrivata a momenti, ma tanto era abituata ai miei soliti ritardi, sapeva che impiegavo ore a prepararmi e che non rispettavo mai l’orario degli appuntamenti. Dopo aver svuotato del tutto l’armadio, e provato una decina di vestiti diversi, di cui uno mi faceva le cosce grosse, uno era troppo colorato e uno “sprecato” per la serata, optai per dei
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jeans corti a vita alta e una maglietta gialla che mi arrivava sopra l’ombelico. Mentre stendevo il fondotinta sul viso, sentii il campanello suonare e mia madre urlare dal piano di sotto: «Adele, è arrivata Bea. Sbrigati!» Esclamai un forte “Sì!” e ripresi a truccarmi, di certo quelle due si sarebbero messe a parlare di qualcosa successa in paese o di qualche scoop fra persone famose, e quindi avevo ancora un po’ di tempo a disposizione. Misi l’eye-liner prima su un occhio e poi sull’altro, sperando che riuscissero uguali, e infine un lucidalabbra chiaro, quasi invisibile. Quando finii, posai i trucchi nella trousse e mi fermai a osservarmi allo specchio, sistemai una piccola sbavatura sull’occhio destro e ripresi a guardarmi. Quella sera, sarà stata l’atmosfera felice dei primi giorni d’estate, mi sentivo bella, anzi bellissima, come ogni ragazza dovrebbe sentirsi sempre. Senza tutti quegli stereotipi di bellezza esagerati che non ti fanno sentire all’altezza, se non segui una determinata dieta, se non sei abbastanza alta, se non hai i capelli fluenti o il seno abbondante. A riportarmi alla realtà ci pensò Bea che, stufa di aspettare, salì a controllare se avessi finito. Si affacciò dalla porta, senza bussare, ed esordì dicendo: «Baldracca, ti vuoi muovere?» Mi voltai di scatto verso la mia migliore amica e le sorrisi. Per noi le offese erano una dimostrazione d’affetto. Feci un cenno d’assenso con la testa, spensi la luce e insieme scendemmo le scale.
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Quando arrivai al piano di sotto, mio padre era seduto sul divano del salotto a guardare la televisione, eppure alzò il capo e mi squadrò per controllare se fossi vestita troppo scollata. «Va bene?» gli chiesi sorridendo. «Mmh, quell’ombelico è un po’ troppo… fuori» mi rispose e sorrise, ma sapevo che non stava scherzando. Poi incrociò lo sguardo di mamma, che provò ad ammonirlo e aggiunse: «Per stasera non fa niente, divertitevi.» Corsi a dargli un bacio sulla guancia e insieme a Bea corremmo verso la porta. Quando fummo davanti alla soglia, mia madre si affacciò dalla cucina con la teglia di un dolce tra le mani e ci ricordò che avevamo quattordici anni e un coprifuoco da rispettare: se non fossi tornata a casa entro mezzanotte, non mi avrebbe fatto uscire per una settimana. Eh sì, era già accaduto in passato. Chiusa la porta di casa, io e Bea ci guardammo complici e sorridemmo, elettrizzate dalla serata che ci aspettava. Prima di andare, però, Bea prese il suo cellulare e ci scattammo un selfie, in cui l’unica cosa visibile era la mia maglia gialla, forse troppo appariscente. Beatrice indossava i suoi soliti leggings neri e una maglia bianca di due taglie più grande, a maniche corte, che le faceva anche da vestito. Pubblicai velocemente la foto su Instagram e ci incamminammo verso la piazza del nostro paese; era sabato e, come tutti i fine settimana, c’era un bar che organizzava delle serate dove si riunivano i ragazzi, ed era proprio lì che stavamo andando.
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In lontananza, iniziammo a sentire la musica, così decidemmo di velocizzare il passo, prese dalla foga e dall’adrenalina. Non impiegammo molto ad arrivare, il bar era vicino a casa mia, ecco perché i miei genitori ci avevano lasciato andare da sole. Una volta arrivate, ci facemmo spazio tra la gente che ballava e quelli che già alle nove erano ubriachi marci. Ci avvicinammo al bancone, mano nella mano, per non allontanarci e non perderci tra il gran numero di persone, e io ordinai un Estathé al limone, mentre Bea una lattina di Coca Cola. Pagammo e andammo a sederci fuori, al primo tavolino libero. «Secondo me, quest’anno in matematica mi mette 8» esordì Bea con aria soddisfatta, mentre sorseggiava la bibita con la cannuccia. «Magari mettesse 8 anche a me, tanto già lo so che prenderò solo un 6» risposi. Non andavo bene in matematica, preferivo materie come l’italiano e la storia. «Va beh, parliamo di cose serie ora» m’interruppe «con Daniele come va?» «Bene, una di queste sere spero esca anche lui, così ci incontriamo.» Daniele era un nostro compagno di classe, che mi piaceva da due anni ormai, anche se non avevo mai avuto il coraggio di dichiararmi. Un giorno, durante la ricreazione, era venuto da me per darmi un bigliettino su cui c’era scritto: “Ti vuoi mettere con me?”. Ovviamente io avevo accettato.
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«Così vi date anche un bacio» disse divertita, facendomi l’occhiolino. «Speriamo, magari fosse lui il primo.» Al contrario di Bea, io non avevo ancora dato il mio primo bacio. Lei lo aveva dato a Luca alla festa di Halloween dell’anno prima, e non erano neanche fidanzati. Per me era diverso, volevo donarlo alla persona che amavo, non a un ragazzo qualsiasi. «Almeno tu ce l’hai un fidanzato, io per adesso mi accontento di baciare il cuscino» disse facendo l’imitazione del bacio «poi voglio sapere tutto!» continuò. Mi accorsi di aver finito l’Estathé, proposi a Bea di andare a ballare e lei mi fece cenno di sì con la testa. Mi alzai, la presi per mano e iniziammo a muoverci. Ci posizionammo dove non c’era molta gente, distaccate dalla massa, in modo da poterci muovere a casaccio quanto volevamo, senza essere guardate e giudicate da nessuno, anche perché né io né Bea sapevamo ballare. Ci divertimmo come pazze, avevamo accumulato parecchio stress durante tutto l’anno scolastico e quella sera lo stavamo finalmente scaricando. Danzammo e cantammo per un’ora e mezza, ogni canzone, senza fermarci mai, ridendo ogni volta che una delle due faceva qualche mossa buffa. Questo accadde fino alle undici e trenta, quando decidemmo di tornare a casa per non far arrabbiare i nostri genitori. Preferivo di gran lunga rincasare un po’ in anticipo piuttosto che non uscire per una settimana intera.
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CAPITOLO 2
Quando arrivammo al bivio rallentai il passo, diedi tre baci sulle guance di Bea e poi insieme, in coro, ci salutammo con un amorevole “ciao, stronza”. Accompagnai il commiato alzando la mano, e mi voltai. La casa di Bea era abbastanza vicina, ma dalla parte opposta alla mia. Per rincasare dovevo camminare ancora per un chilometro, ma in quell’ultimo pezzo di strada c’erano pochi lampioni e tutto intorno a me era come ricoperto d’inchiostro nero. Scuro. Buio. Così decisi di farmi luce con la torcia del cellulare. Di solito quella strada era molto affollata, piena del via vai delle automobili, che con i loro fari m’illuminavano, facendomi sentire al sicuro. Quella sera, però, Minturno era deserta; era estate e in un paese vicino c’era una sagra del pesce fritto, se non ricordo male, quindi la maggior parte delle persone era andata lì. Io e Beatrice non avevamo ottenuto il permesso di andarci, perché i nostri genitori si preoccupavano e non ci lasciavano allontanare troppo. Eppure, quella sera, sarebbe stato più sicuro per me se fossi andata alla sagra.
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Tenevo la torcia del cellulare puntata sull’asfalto, m’illuminava le Stan Smith bianche, e io mi guardavo i piedi per non inciampare e per vedere dove stavo andando. A un tratto, sentii un rumore che mi fece sobbalzare, proveniente dallo stesso lato della strada in cui stavo camminando io. Mi fermai di scatto. “Sarà qualche animale”, pensai, cercando di tranquillizzarmi. Quanto avrei voluto che in quel momento passasse una macchina e che con i suoi potenti fari mi facesse luce! Ma nulla. Non potevo restare col dubbio ancora a lungo: dovevo scoprire cos’era quel rumore. Alzai il telefono e puntai la torcia nella direzione da cui era arrivato il suono, ma non feci in tempo. Una mano uscì dall’ombra della notte, mi afferrò per il braccio e mi trascinò con sé. Per lo spavento, lasciai cadere il cellulare e la torcia illuminò per un istante la figura che mi aveva afferrato, così lo vidi. Dal colore dei capelli, leggermente brizzolati, sembrava un uomo sulla quarantina. Con la mano libera mi prese l’altro polso e strinse forte. «Vieni qui» disse con una voce rauca e quasi bisbigliata. Capii dal suo tono che stava sorridendo. Non riuscivo a pensare a nulla, non riuscivo a capire cosa stesse succedendo, era tutto così veloce e oscuro. Provai a urlare, ma dalla mia bocca non uscì alcun suono, come se la paura mi avesse strappato le corde vocali. «Ora papino ti fa le coccole» aggiunse, tirandomi con forza verso di lui.
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Dovevo trovare il modo di scappare da quella figura che mi aveva afferrato nel buio, e che non aveva per niente buone intenzioni. Purtroppo, però, non ero abbastanza forte per lui, non avevo le braccia abbastanza volitive per liberarmi e le gambe abbastanza lunghe per poter scappare via. Avvicinò il suo viso al mio e la barba dura, che grattava contro la mia guancia graffiandola, mi diede la conferma che si trattava di un adulto e non di un ragazzo. All’improvviso iniziò a fare strani sospiri che sapevano di alcol. Più cercavo di dimenarmi, più lui stringeva e mi spingeva verso di sé, verso la protuberanza che gli era cresciuta tra le gambe. «Lasciami!» riuscii a mormorare, mentre cercavo in tutti i modi di evitare il suo alito. Finalmente avevo detto qualcosa, ma non era servito a nulla. L’uomo strinse entrambe le mie mani con una delle sue, mentre con quella libera riuscì a fare ciò che voleva. “Cosa succederà adesso?”. Ormai le pupille si erano abituate al buio e così riuscii a distinguere i suoi contorni. L’uomo alzò la mano libera, la portò sulla mia bocca e iniziò a premere forte per non farmi fare rumore. Strinse così tanto che riuscii a sentire il sapore amaro della sua pelle, un misto di terra e di vino. Mi ordinò di stare zitta. Poi allontanò la mano dalla mia bocca e, con un movimento veloce, mi baciò. Il mio primo bacio. L’emozione e la paura di voler dare il mio primo bacio alla persona che amavo, furono rubate da uno sporco stupratore.
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Provai a girare la faccia e a muoverla per interrompere il contatto, ma non ci fu nulla da fare, lui era più forte. All’improvviso, sentii spingere sui denti serrati una cosa molle e viscida: la sua lingua cercava di entrare nella mia bocca come un serpente velenoso. I baci erano diversi da come li avevo immaginati. Sentivo il cuore che batteva contro le costole e mi veniva da vomitare. Iniziai a dimenarmi più forte. Intanto lui fece scivolare una mano prima sul mio viso, come per accarezzarmi, poi pian piano scese sulla spalla e sul mio seno sinistro, strizzandolo per due volte; dopo scese ancora sul fianco e infine la passò tra le mie cosce. Le tenevo più strette che potevo mentre i jeans che avevo indossato quella sera facevano da unica protezione. Mi slacciò il pantalone, prima il bottone e poi la cerniera, allargò l’apertura e ci infilò la mano. Staccò la sua bocca dalla mia, che ormai era ricoperta di saliva, e abbassò lo sguardo. Non riusciva ad andare oltre con la mano, per quanto tenevo strette le gambe, così si spazientì, mi lasciò le mani e mi diede un pugno così forte da farmi crollare a terra. Caddi con la faccia contro una panchina e per la botta svenni, dandogli involontariamente la possibilità di fare del mio corpo ciò che desiderava.
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CAPITOLO 3
Mi risvegliai in una stanza bianca, e la prima cosa che vidi fu il soffitto sfocato. Ero sdraiata e l’aria attorno a me era fresca, un sollievo rispetto alle temperature di quei giorni. Mi girai e vidi mia madre seduta accanto a me; gli occhi mi facevano male per la troppa luce e non vedevo bene, ma fui subito sicura che fosse lei. La riconobbi dai lineamenti snelli, dalla forma dei capelli ricci e dalla postura. Provai a chiamarla, a muovere la bocca per farmi sentire e attirare la sua attenzione, ma non ci riuscii. Sentivo la bocca impastata, come dopo un brutto risveglio. Riprovai e con un filo di voce riuscii a sussurrare: «Mamma…» Lei mi sentì, scattò in piedi e mi prese la mano. «Amore» mi disse, quasi ridendo dalla gioia, dandomi un bacio sulla fronte. «Cosa succede?» chiesi, ancora a bassa voce. «Siamo in ospedale. Hai dormito per tre giorni interi.» Mi guardava come se stesse vagando da settimane nel deserto e io fossi un’oasi insperata. «Cosa ci faccio in ospedale? Io ricordo che…» rividi nella mia testa dei flash e ricordai la serata: la maglia gialla, Beatrice, il selfie, il bar, la musica, la strada buia, l’uomo…
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«Mamma, c’era un uomo!» alzai di scatto la testa dal cuscino e le afferrai le braccia. «Tranquilla, tesoro» m’interruppe «ora pensa a riposare, so già tutto. Quando starai meglio ne parleremo.» Mi accarezzò i capelli e poi il viso. Quando lo fece, però, sentii a malapena la sua mano. Mi toccai il volto e scoprii che avevo delle bende. «Mamma, perché ho queste cose sulla faccia?» domandai, quasi piangendo «che cosa sono?» Ero disperata e iniziai a immaginare cose orribili. Chiesi a mia madre uno specchio per guardarmi e iniziai a piangere sommessamente. Lei, un po’ reticente, mi diede il suo cellulare con la fotocamera frontale attiva. Lo presi. «Passerà tutto, vedrai» mi disse, cercando di tranquillizzarmi, ma peggiorò la situazione. Cosa doveva passare? Che cosa avevo? Perché nessuno si degnava di spiegarmi cos’era successo? Alzai lentamente il cellulare per specchiarmi, avevo una paura enorme di ciò che avrei visto. Quando pian piano tutto il mio volto fu riflesso nello schermo del telefono, vidi che la mia faccia era davvero ricoperta da bende. Le uniche parti libere erano gli occhi, la bocca, il mento e i capelli. Scoppiai a piangere più forte, lasciando cadere il telefono sul lettino. Mia madre si alzò dalla sedia, mi abbracciò e mi diede un bacio sulla fronte. In quel momento entrò anche mio padre che, vedendomi in lacrime tra le braccia della mamma, corse a consolarmi.
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Circondata dall’abbraccio dei miei genitori, riuscii a calmarmi e smisi di singhiozzare. «Per favore, voglio sapere cos’è successo!» chiesi nuovamente, sperando che almeno papà mi rispondesse. Ero stufa di essere tranquillizzata, volevo sapere perché mi trovavo in ospedale, perché avevo delle bende sul viso e se quell’uomo c’entrasse qualcosa in tutto questo. «L’ultima cosa che ricordo è che un uomo mi ha dato un pugno e mi ha fatto sbattere la testa su una panchina, poi più niente…» I miei genitori si voltarono l’uno verso l’altra, e con sguardo rassegnato si diedero il permesso a vicenda di raccontare tutto. «L’altra sera, una ragazza ti ha trovata sdraiata per terra, in un vicoletto. Avevi il viso ricoperto di sangue, ecco perché hai le bende sulla faccia.» Iniziò a raccontare mia madre, prima di scoppiare in lacrime. Poi continuò mio padre: «Tesoro…» sospirò come se stesse per dirmi la cosa più brutta dell’universo «quell’uomo, dopo averti fatta svenire…» s’interruppe ancora una volta. «Cosa?» chiesi. «Ti ha violentata» confessò velocemente, come se avesse paura che, da un momento all’altro, il coraggio che a fatica era riuscito a trovare si dissolvesse nell’aria. Sputò quelle tre parole come se non riuscisse più a trattenerle. In un secondo, nella stanza 197 dell’ospedale di Minturno, piombò il silenzio. Si poteva sentire la voce del medico nella stanza affianco, mentre passava a controllare i pazienti.
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Quando sentii quelle parole, pensai che il bastardo si era rubato non solo il mio primo bacio, ma anche la mia verginità. Quella che avevo sempre sognato di donare al ragazzo giusto. Me lo immaginavo moro, alto e dolce. Mi avrebbe coccolata per tutto il tempo e non avrei sentito dolore, perché lui avrebbe fatto di tutto per evitare che io soffrissi. Invece era stato un quarantenne ubriaco, con il fiato che sapeva di alcol. Quel silenzio pesante fu interrotto dall’arrivo del medico, che entrò e cercò di fare meno rumore possibile. Probabilmente pensava che stessi ancora dormendo. Quando mi vide sveglia, sorrise e chiamò l’infermiera che lo stava accompagnando, poi mi si avvicinò, ignaro di ciò che mi era stato appena detto. «Allora, come stiamo, signorina?» mi chiese, ruotando la testa per incrociare lo sguardo sia con me che con i miei genitori. «Bene…» risposi con un filo di voce. Non riuscivo a parlare, ero ancora sotto shock. Non potevo crederci, ripensavo all’intera serata, mi sentivo bloccata lì, senza essere capace di uscirne. Non avevo fatto nulla che in qualche modo avesse potuto scatenare una reazione tanto disgustosa. Non avevo neppure bevuto, ero astemia. Il dottore mi vide scossa e allora decise di lasciarmi qualche istante da sola e di chiamare in disparte i miei genitori per parlare con loro di ciò che sarebbe successo da quel momento in poi, e cosa avrebbero dovuto fare con me. I miei genitori si alzarono e seguirono il dottore, che si allontanò verso il corridoio.
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Mia madre aprì la porta, fece cenno al medico di aspettare, mi guardò e trovò la forza di sorridermi, anche se non so come ci riuscì. Riconosco che una violenza faccia male soprattutto a chi la subisce, ma anche alle persone vicine, in particolar modo se quelle persone sono i tuoi genitori. Immagino quanto possano sentirsi impotenti di fronte a una cosa così, magari delusi da loro stessi per non averti protetta. «Guarda chi è venuta a trovarti» mi disse. In quel momento non volevo incontrare nessuno, mi bastavano i miei genitori, non desideravo altri parenti vicino al mio letto, persone che vedevo una volta l’anno, se ero fortunata. Quando vidi entrare Bea, scoppiai a piangere e mi sentii quasi sollevata, nonostante la situazione. Lei entrò dalla porta e, vedendomi piangere, corse da me e mi abbracciò fortissimo. Il suo odore mi dava serenità. Quando allentò la presa e si alzò, ci guardammo negli occhi e notai che i suoi erano rossi, pieni di lacrime. In quel frangente realizzai che non volevo altri che lei lì con me, soltanto lei avrebbe potuto capirmi. «Ti donano le bende da mummia» esordì, asciugandosi il volto e accennando un sorriso. Tra le lacrime, davanti a quella battuta, sorridemmo entrambe: il mio primo sorriso dal momento in cui avevo riaperto gli occhi, solo lei sarebbe stata in grado di fare questo miracolo. Le dissi che i miei genitori stavano parlando col dottore e che dovevamo cercare di ascoltare il più possibile, così entrambe ci mettemmo in ascolto.
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Le istruzioni erano chiare: avrei dovuto tenere le bende ancora per qualche giorno e poi mettere una crema sulla cicatrice. Quando il dottor Ferrara pronunciò quella parola, io e Beatrice ci guardammo incredule e lei ripeté sottovoce “cicatrice”. Le feci segno di restare in silenzio e di continuare ad ascoltare. «Purtroppo Adele ha subìto un grave danno, non solo fisico ma anche psicologico, quindi mi sono permesso di contattare una psicologa di fiducia, che seguirà vostra figlia fino a quando ne avrà bisogno» concluse il dottore. Io e Beatrice ci guardammo di nuovo, avevamo entrambe uno sguardo preoccupato e gli occhi di chi era consapevole che il futuro sarebbe stato un percorso tortuoso da affrontare. Mentre mamma e papà salutavano e ringraziavano il medico, trovai il coraggio di sfogarmi con Bea. «Non ci credo che è successo proprio a me!» esclamai. «Ci sono io, ricordati sempre che non sei sola.» Lo sapevo, lei c’era sempre stata. Bea era l’unica costante della mia vita. «Mi ha tolto tutto, Bea. Ha rubato la mia faccia, la mia verginità e anche la mia fiducia nel mondo. Come farò, d’ora in poi, a camminare per strada senza essere terrorizzata all’idea di essere aggredita nuovamente? Come farò a fidarmi ancora di un uomo senza vedere in lui un potenziale stupratore?»
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CAPITOLO 4
Rimasi in ospedale per altri quattro giorni, durante i quali vennero a trovarmi alcuni parenti. Sì, proprio quelli che non incontri da una vita e che si fanno vedere solo quando succede qualcosa di brutto. Ognuno di loro mi portò qualcosa, ad esempio mia zia si presentò con un palloncino gigantesco e rosa, che fluttuava nell’aria e che sembrava una mongolfiera. Ricordo ancora il suo volto circondato da ricci capelli arancioni, e il suo rossetto rosso acceso mentre mi consegnava il suo regalo, compiaciuta. Avrei preferito stare da sola con Beatrice, che mi dava già tutto il sostegno di cui avevo bisogno senza dovermi regalare nulla, soltanto la sua presenza mi dava una forza gigantesca. Mi era capitato molte volte, in quei quattro giorni, di sentirmi persa e di crollare sotto il peso di ciò che mi era successo, sotto il peso di ciò che mi era stato tolto, e lei era lì: sempre pronta a stringermi la mano, a darmi un abbraccio e a dirmi una parola di conforto. Qualsiasi cosa facesse, riusciva a tirarmi su di morale, mi conosceva più di tutti, più dei miei parenti e persino più dei miei genitori.
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Il giorno delle dimissioni, mi dissero che avrei potuto togliere le bende. Quel mattino mi svegliai con l’ansia che mi premeva sul petto e sulla pancia: ero felice perché finalmente avrei lasciato l’ospedale. Le infermiere e i dottori erano simpatici, ma quelle pareti bianche erano così monotone e noiose! E in più, lì dentro, il massimo del divertimento era camminare avanti e indietro per il corridoio guardando gli altri pazienti. D’altra parte, invece, ero terrorizzata. Avrei tolto le bende e scoperto cosa nascondevano, avrei dato risposta alle mille domande che mi ero posta per tutto il tempo. Avrei visto finalmente cosa quell’uomo mi aveva fatto e com’era conciata la mia faccia. I pensieri viaggiavano veloci e così, per tenerli buoni e placarli, afferrai uno dei libri che mia madre si era portata dietro “Io te e il mare”, e iniziai a leggere. Tutto sarebbe andato bene, l’importante era calmarsi. Tre ore dopo ero già arrivata a metà del libro, quando il dottor Ferrara bussò alla mia stanza. Abbassai il libro e risposi, poi il dottore entrò e mi accorsi che il tempo era praticamente volato. Non ero pronta. Non lo ero per niente. Bea era a scuola, quel giorno aveva un compito importante e quindi non era potuta venire. «Oggi torniamo a casa!» esclamò, sorridendomi e venendo verso di me «i tuoi genitori stanno arrivando per firmare i fogli di dimissione.» Feci un cenno per fargli capire che avevo sentito.
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«Non sei contenta di tornare a casa?» mi chiese, questa volta senza sorridere. Risposi abbassando la testa. Sì che ero felice, ma non riuscivo a ridere o a scherzare come facevo una volta. Qualcosa in me era cambiato da quella notte, quel mostro mi aveva rubato anche il sorriso. Ma che ne sapeva il dottore? Lui non poteva capirmi minimante, non poteva immaginare cosa avevo dentro in quei giorni. Nessuno poteva. «Ora andiamo a togliere le bende, così potrai specchiarti. Su, vieni.» Lo seguii. Mi avevano già tolto le bende, nei giorni passati, per pulirmi la ferita e disinfettarla, ma non mi era mai stato permesso di specchiarmi, di certo avevano aspettato il permesso dello psicologo. Le pareti del corridoio erano piene di disegni fatti dai bambini del reparto di pediatria, il solo vederli mi tranquillizzava e così mi concentrai su di essi: Paolo aveva disegnato un cane che sputava fuoco, mentre Dalila un unicorno azzurro con le ali ad arcobaleno. Cercavo con tutte le mie forze di non immaginare come sarebbe stata la mia faccia una volta scoperta, una volta guarita. Il dottore non mi rivolse la parola per tutto il tragitto, o forse sì, ma io ero troppo distratta per ascoltarlo. Percorremmo il corridoio, voltammo un angolo e ci ritrovammo in una stanzetta. «Siediti, cara» m’incoraggiò con la mano verso il lettino al centro della camera.
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Usai il piccolo sgabello che era posto ai piedi del lettino per aiutarmi a salire, e notai subito uno specchio circolare sul comodino di fianco. Il momento della verità si stava avvicinando, anzi, era già arrivato. «Ora togliamo queste brutte bende, che ne dici?» Parlava come se avessi dieci anni. Ero stata stuprata, non volevo compassione ma solo che si sbrigasse e che tutto finisse. Feci un altro cenno con la testa. Ero troppo agitata per rispondere. Sul momento non mi accorsi neanche di aver indossato due calzini differenti. Il dottor Ferrara iniziò a preparare delle cose in una vaschetta di metallo: prima le forbici, poi il disinfettante e infine l’ovatta. In più, prese un grande cerotto rettangolare. Quando finì di sistemare ogni dettaglio, si avvicinò a me con un leggero sorriso. «Andrà tutto bene, stai tranquilla.» Evidentemente aveva percepito la mia agitazione. Forse notò che stavo dondolando le gambe per il nervosismo. Le fermai. «Con questi occhioni scuri continuerai a essere bellissima.» Sorrisi istintivamente. Era ciò che volevo sentirmi dire, ovvero che nonostante la ferita, la cicatrice e tutto il resto, avrei continuato a essere come prima. Fece ruotare la sua sedia e si avvicinò al lettino. Prese le forbici, tagliò l’estremità che teneva insieme le bende, e pian piano iniziò a srotolarle. Uno, due, tre giri, fino a toglierle del tutto. Sentivo il suo respiro sul volto non più coperto, e per un attimo mi parve di vedere in lui l’uomo che mi aveva stuprata.
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Mi feci indietro e il dottore mi tranquillizzò. Prese il disinfettante e con l’ovatta pulì la ferita, stando attento a non tirare i punti e a non fami male. Il prodotto era fresco e mi dava una sensazione quasi di sollievo sulla pelle, che fino a quel momento era stata coperta. «Perfetto, abbiamo fatto» mi disse. In quel frangente entrò nella stanza una donna sulla quarantina, era di bell’aspetto, alta, con i capelli corti e biondi. Aveva un vestito che le arrivava alle ginocchia, molto colorato, con delle figure geometriche disegnate sopra, e ai piedi degli stivali neri alti fino a sotto il vestito. La sua espressione m’ispirò subito fiducia. «Ciao» mi salutò. «Ciao» risposi. «Piacere, io sono Sara» mi diede la mano. Finalmente qualcuno che non mi parlava come se fossi una malata terminale. Aveva un tono deciso. «Lei è la psicologa che ti aiuterà da oggi in poi» m’informò il dottore. Ero sollevata nel sapere che qualcuno mi avrebbe dato una mano a superare il tutto e poi perché, inaspettatamente, quella persona mi piaceva. Quando avevo scoperto che dovevo essere seguita da uno psicologo, nella mia testa avevo immaginato un vecchio signore anziano e noioso. «Allora, siamo pronti a vedere questo bel faccino?» mi chiese Sara. Spalancai gli occhi: il momento era arrivato.
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Cosa avrei visto in quel piccolo specchio circolare? Un mostro orribile che tutti avrebbero ignorato? Il dottor Ferrara uscì, vedendomi a mio agio, e mi lasciò sola con Sara. «Se non te la senti, aspettiamo ancora un po’.» «No» dissi «sono pronta» la voce aveva iniziato a tremare. Sara mi prese la mano e la strinse per darmi forza; non so come fece, ma ci riuscì. Con l’altra afferrò lo specchio, me lo diede coperto da un telo e mi disse che, quando volevo, potevo alzarlo e guardarmi. La fissai negli occhi un’ultima volta, cercando di rubarle un po’ della sua sicurezza. Poi iniziai a contare in silenzio. Uno, due, tre… Sollevai lo specchio e contemporaneamente aprii gli occhi. Quando vidi la cicatrice non pensai a nulla ma scoppiai a piangere, probabilmente per scaricare tutta la tensione accumulata fino a quel momento. Avevo un grosso taglio che partiva dal sopracciglio destro, poi passava sul naso che si era rotto con la botta, e infine arrivava sulla guancia che si era aperta, sbattendo contro lo spigolo della panchina. Il tutto era chiuso da una quindicina di punti. Ero orribile, peggio di quanto immaginassi, col naso storto e una guancia che ormai nessuno avrebbe più voluto baciare. I miei incubi peggiori si erano avverati: quell’uomo mi aveva tolto ogni cosa, anche il futuro. Non avrei mai trovato un lavoro con quella faccia, nessuno mi avrebbe sposata e non avrei mai avuto dei figli. In testa, ormai, si accavallavano soltanto questi pensieri.
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All’improvviso, immaginai tutte quelle donne che erano state sfigurate dai mariti con l’acido. Sentii salire una forte rabbia dallo stomaco. Come si poteva pensare di fare una cosa del genere a una persona, a una donna, a una ragazza? D’istinto abbracciai Sara. Volevo sentirmi accettata, avevo bisogno che qualcuno mi dimostrasse che non ero da buttare, che potevo essere amata anche con quel volto. Lei ricambiò la mia stretta e mi accarezzò i capelli. «Ci sono io» sussurrò, mentre singhiozzavo. Alzai quello che ormai era il mio viso e vidi che avevo bagnato di lacrime il vestito di Sara. «Piangi, se devi» m’incoraggiò «per essere forte hai tanto tempo, non è questo il momento.» «Sono un mostro» le dissi. «No, Adele, il mostro è chi ti ha fatto questo.» Era arrabbiata, e quasi mi rimproverò. Se avesse avuto davanti quell’uomo, non so cosa gli avrebbe fatto. Sospirò, poi con un dito mi accarezzò lungo tutta la ferita. «Ti aiuterò io. Ogniqualvolta vorrai, io sarò lì per te. Ora, però, devo far rientrare il dottore, così può finire di medicarti» prese un fazzoletto dalla tasca e mi asciugò le lacrime. «Ecco, ora va molto meglio» disse, sorridendo, e uscì dalla stanza. Quando tornò con lei c’era anche il dottore, che mi mise un grande cerotto per tenere pulita la ferita e per scongiurare
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eventuali infezioni. Scesi dal lettino, aiutandomi ancora con lo sgabello di plastica, e poi fui accompagnata fuori da Sara. Lì ad aspettarmi c’erano mamma e papà, i quali corsero subito ad abbracciarmi. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
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INDICE
PROLOGO ......................................................................................... 3
PARTE PRIMA .................................................................................. 5 Capitolo 1 ...................................................................................... 7 Capitolo 2 .................................................................................... 12 Capitolo 3 .................................................................................... 16 Capitolo 4 .................................................................................... 22 Capitolo 5 .................................................................................... 30 Capitolo 6 .................................................................................... 35
PARTE SECONDA.......................................................................... 41 Capitolo 1 .................................................................................... 43 Capitolo 2 .................................................................................... 47 Capitolo 3 .................................................................................... 55 Capitolo 4 .................................................................................... 62
Capitolo 5 .................................................................................... 66 Capitolo 6 .................................................................................... 71 Capitolo 7 .................................................................................... 74 Capitolo 8 .................................................................................... 80 Capitolo 9 .................................................................................... 83
PARTE TERZA................................................................................ 87 Capitolo 1 .................................................................................... 89 Capitolo 2 .................................................................................... 97 Capitolo 3 .................................................................................. 100 Capitolo 4 .................................................................................. 106 Capitolo 5 .................................................................................. 115 Capitolo 6 .................................................................................. 120 Capitolo 7 .................................................................................. 122 Capitolo 8 .................................................................................. 127
EPILOGO ....................................................................................... 131 RINGRAZIAMENTI ..................................................................... 135
AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Terza edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2020) www.0111edizioni.com
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.