Quella notte di aprile all'Elba

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LIVIO LAMBARELLI

QUELLA NOTTE DI APRILE ALL’ELBA

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Serie BIG‐C Grandi Caratteri, lettura facilitata

QUELLA NOTTE DI APRILE ALL’ELBA Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-520-5 Copertina: immagine fornita dall’Autore

Prima edizione Aprile 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova

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A Piero, che ha già raggiunto la sua meta Il passato è un incontro imprevedibile: un’assurda notte di verità può rivelare il senso della vita all’uomo che non conosce se stesso



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Un dipinto surreale Iniziava ad albeggiare e dal mare saliva una leggera fo‐ schia penetrata da guizzi di luce intensa che impedivano di individuare l’esatto confine tra cielo e mare, entrambi dello stesso grigiore pallido. Forse con la memoria dei luoghi o con una fervida immaginazione si sarebbe potuta afferrare la linea dell’orizzonte, ma Laerte non era mai stato lì, e pur sforzandosi di mettere a fuoco lo sguardo all’infinito, non riuscì ad assaporare la visione di quello spettacolo della natura. Si fermò e parcheggiò l’auto in uno spiazzo ghiaioso, come gli era stato consigliato. La scogliera sul lato sinistro dell’insenatura non era battu‐ ta dalle onde già da diverse notti; una calma insolita per la stagione primaverile. La brezza, che spirando da terra dà una ripulita notturna ai depositi che il mare lascia sul ba‐ gnasciuga nel corso della giornata, si era esaurita. Ancora poco e tutto sarebbe cominciato da capo, la brezza di ma‐ re avrebbe ripreso il ciclo quotidiano di inversione delle correnti. Questa ripetitività era interrotta solo da eventi più intensi: le mareggiate, che non erano rare nel periodo primaverile. Dopo quelle, le spiagge si ritrovavano coper‐ te da detriti di ogni genere e la mano dell’uomo doveva


6 intervenire a riportare in equilibrio la situazione. Fino alla prossima mareggiata. Ma c’erano tratti di battigia di cui l’uomo non si prendeva cura e l’accumulo di alghe e posidonia delle praterie sot‐ tomarine era tale da formare uno spesso strato vischioso che rendeva disagevole l’accesso al mare. E pensare che quelle erano indicate come spiaggette romantiche, per‐ ché difficili da raggiungere, luoghi ideali per gli innamora‐ ti. Ma chi aveva altri pensieri per la mente ci vedeva solo dei luoghi trascurati dall’uomo. E tali rimanevano fino alla piena stagione turistica. Nell’isola la natura era da sempre padrona e sceglieva per sé i luoghi più belli. Allontanandosi di poche centinaia di metri dal mare e pro‐ cedendo verso l’interno, una stradina portava in pieno ambiente di campagna. Non la solita campagna a orto o frutteto, vite e vecchi olivi, come si vedevano nei dintorni. L’opera dell’uomo in quell’habitat naturale, se mai c’era stata, sembrava cancellata. Col tempo la natura si ripren‐ de il suo spazio sovrapponendosi e mascherando ogni ar‐ tificio umano; pietre ordinatamente accumulate, confini a fico d’india allineati per delimitare piccole proprietà rurali e proteggerle dagli intrusi, non si distinguevano più. La natura, spesso più ugualitaria dell’uomo, concede o im‐ pedisce l’accesso a chiunque, senza guardarlo in faccia, senza chiedersi chi sia: il proprietario o uno straniero ap‐ pena sbarcato sull’isola. La natura mal si piega al concetto umano di proprietà. Di conseguenza, dei vecchi confini


7 poderali segnati sulla Mappa Catastale che Laerte aveva portato con sé, non era rimasto alcun tratto distinguibile, a parte la stradina. Dall’inizio della strada si intravedeva una vallata profonda in progressiva salita e, sullo sfondo, delle alture boschive di leccio e corbezzolo, senza la minima traccia di abitato. Proseguendo, sotto la chioma di un pino domestico cre‐ sciuto a dismisura e circondato da cespugli ed erbacce, Laerte notò un grosso cumulo, la cui sagoma era a mala‐ pena individuabile. La massa poteva richiamare una cata‐ sta di legna da ardere, così com’era coperta di teli sfilac‐ ciati, dai colori svaniti che sfumavano dal grigioverde dell’erba al marrone del terriccio che circondava il cumu‐ lo, un aspetto quasi mimetico. Alcuni teli stracciati erano in parte stati scostati dal vento così da lasciar intravedere che sotto vi era effettivamente del legname. A guardare meglio, anche se non ne valeva la pena, si po‐ teva individuare una forma allungata, di una decina di me‐ tri. La superficie era vagamente concava per il fatto che alcuni teli non sembravano poggiare su una base solida, facendo appunto conca e trattenendo nel mezzo dell’acqua, probabile condensa di rugiada, dal momento che da un po’ non pioveva. Vari spuntoni trasparivano dal‐ la sagoma dando l’idea che, se di legname si trattava, non era stato accuratamente segato e accatastato, ma butta‐ to lì alla rinfusa e coperto da chissà quanto tempo.


8 Laerte per sua natura non era curioso perciò tirò diritto per la stradina, considerando che il tempo prima perso a osservare il mare, senza trarne alcuna soddisfazione, lo aveva già a sufficienza distolto dalla sua meta. Doveva ar‐ rivare a un nucleo di casolari disabitati, posti oltre a mez‐ za costa sulle pendici del colle. Il suo compito era preciso: fare un sopralluogo sulle condizioni di quei ruderi, che un giorno avrebbero potuto diventare… ma queste erano solo congetture o al massimo bozze di progetti che non lo riguardavano personalmente. Lui rappresentava lo studio dell’architetto Masserano e il suo compito era solo di e‐ seguire il lavoro comandato. L’ambiente circostante gli mostrava una natura selvaggia e poco ospitale. Spesso doveva sollevare il piede per non inciampare nei rovi di mora che attraversavano il cammi‐ no, indice della scarsa frequenza dell’uomo da quelle par‐ ti. Il sentiero non era certo tra quelli indicati per le pas‐ seggiate nelle guide turistiche del C.A.I.. Nei tratti più u‐ midi i canneti spontanei crescevano alti lungo i fossati e formavano due muraglie ripiegate all’interno, come un tunnel che a volte impediva di vedere il cielo. Chi fosse stato mosso dal desiderio di vivere la natura, quella che ancora può farci meravigliare di esservi immersi al pari di ogni altro animale del creato, sarebbe rimasto entusiasta dell’avventura. Ma lui si era immaginato un ambiente di‐ verso.


9 Laerte proseguiva senza il bisogno di consultare la mappa che gli avevano fornito, tanto non c’era modo di sbaglia‐ re. Lungo la stradina, divenuta ora sentiero in progressiva salita, non aveva incontrato alcun bivio, né scorgeva al‐ cunché di interessante da fargli distogliere nuovamente lo sguardo. Era in cammino da quasi un’ora quando iniziò a notare tracce di muretti di contenimento in pietra a secco a pochi metri dal sentiero, seminascosti da arbusti di corbezzolo. Questi rudimentali terrazzamenti, segno di antica antro‐ pizzazione, indicavano che non doveva mancare molto all’arrivo. Ma invece di accelerare il passo, come chiunque è vicino alla meta, Laerte rallentò fino a fermarsi perplesso, quasi smarrito. Gli si era improvvisamente parata innanzi un’immagine inconsueta, uno scorcio illuminato da un sottile raggio di luce che penetrava tra i rami degli alberi circostanti e falsava i colori di quei vecchi muri, rendendoli surreali, come in un dipinto macchiaiolo ad acquerello. Il verde del muschio diveniva azzurro evanescente, poi vio‐ letto e sfumava nel rosa. Laerte non si era fermato per osservare meglio la scena, per la quale non provava alcun interesse, era stata la sua inattesa reazione di stupore a farlo arrestare inconsciamente. Quasi fosse un pittore concentrato a sfruttare l’istante, il guizzo di luce irripetibi‐ le, per scolpire esattamente quella luce e quei colori nella


10 propria mente e restituirli poi intatti sulla tela, filtrati so‐ lamente dai propri sentimenti. Un dipinto surreale; ma lui non era un pittore e questa sensazione, mai provata prima, lo sconcertava e lo rende‐ va nervoso. Forse prima di allora non aveva mai osservato la natura con quegli occhi. In circostanze analoghe, nei vari luoghi incantevoli d’Italia che pure aveva visitato, non gli era mai capitato di soffermarsi a osservare l’ambiente con la stessa intensità, con una sensibilità che gli era e‐ stranea, lasciandosi quasi rapire, immerso nella natura al di là della propria consapevolezza. E per un essere razio‐ nale la perdita di consapevolezza, anche se momentanea, può ben suonare come un segnale di allarme. Ma quella sensazione, che gli metteva ansia, portata a livello co‐ sciente stava già pian piano svanendo, lasciando il posto a un semplice disagio, un leggero fastidio come quando si cede involontariamente a una debolezza, ma ci si promet‐ te subito di non ricaderci. Poi, in fondo, di quell’attimo non era rimasto niente, no? Forse non lo aveva neppure vissuto. Oppure era il caso di interrogarsi più a fondo? Da ragazzo non aveva mai mani‐ festato grande fantasia, sensibilità o attitudini artistiche. Pochi stimoli, forse, e nessuno che lo avesse mai incorag‐ giato le poche volte che, preso da entusiasmo, dava sfogo allo stupore ingenuo di bambino. É pur vero che aveva studiato architettura, e con ottimi risultati anche, ma non era stata la passione a spingerlo. La sua conoscenza del


11 disegno tecnico e artistico non era da mettere in dubbio, ma quella sensibilità improvvisa per la natura non era da lui, così freddo e razionale, così compenetrato negli am‐ bienti mondani e affollati che solo una metropoli possie‐ de. Un vita veloce e piuttosto superficiale. Tutt’altro tipo di stimoli! E se fosse stata una reazione alla solitudine in cui si era trovato improvvisamente immerso, a giocargli un brutto tiro? Probabile, solo un momento di debolezza. Guardò l’orologio ed ebbe l’impressione di essersi attar‐ dato già troppo, sebbene non potesse valutare a priori quanto tempo avrebbe impiegato, giunto sul posto, a portare a termine la missione. Forse bastavano due o tre ore. Non aveva intenzione di fermarsi per tutto il pome‐ riggio; non aveva con sé nulla per il pranzo e non poteva pensare di trovare un trattoria in quel luogo disabitato, anzi abbandonato. Ecco sì, questa era la giusta definizio‐ ne. E man mano che procedeva capiva sempre meglio che quello era un posto abbandonato da Dio. E perché proprio a lui era toccato di andarci? Un lavoro come un altro, di routine per un giovane architetto. In ef‐ fetti l’affare lo stava trattando direttamente il titolare, l’architetto Masserano, ma all’ultimo momento un’indisposizione improvvisa lo aveva costretto a rinun‐ ciare al viaggio. E lui doveva sostituirlo, anche se si sareb‐ be potuto pensare a un rinvio. Masserano non aveva vo‐ luto sentire ragioni ed era stato piuttosto laconico nel


12 fornirgli spiegazioni; una mappa in dotazione e l’indicazione dei dati che doveva riportare. Non occorreva altro. Tutto era già prenotato: viaggio, soggiorno, e l’onorario era di tutto rispetto! Laerte non aveva chiesto neppure chi fosse il committente. Capiva che ci doveva essere dietro un buon cliente, uno di quei pezzi grossi che non amano essere nominati, un affare sicuramente molto riservato. Non era sua abitudine porre domande. Il mon‐ do della compravendita fondiaria e immobiliare gli era piuttosto estraneo e antipatico, preferiva la progettazio‐ ne, concreta e costruttiva. E poi, se il progetto fosse andato in porto, Masserano gliene avrebbe di certo parlato al momento opportuno. Non era la prima volta che si comportava così con lui, la differenza di età e di ruolo glielo permettevano. In fondo Masserano era il suo capo e il suo mentore, a lui doveva essere grato per la posizione che aveva raggiunto, e per molto altro ancora. Quando, dopo la lunga marcia, resa più pesante dalla ripi‐ da salita e dalla borsa che portava a tracolla, Laerte giun‐ se in vista di ciò che rimaneva dei casali, rimase deluso e fu invaso da un senso di tristezza. Tanta fatica per arrivare fin lì, non ne valeva la pena. Oltre che per dovere, aveva accettato di andarci renden‐ dosi conto che una giornata all’aria aperta, in mezzo ai boschi, chi vive in una grande città non ha il diritto di rifiu‐ tarla. Anzi, la coglie come occasione di vacanza. Ma la


13 passeggiata, meno ritemprante del previsto, era già finita ed era arrivato il momento di pensare al lavoro, conclude‐ re e andarsene al più presto. Prima ancora di guardarsi intorno aprì istintivamente la borsa e controllò gli strumenti di misura, la macchina fo‐ tografica con la dotazione di obiettivi e le carte. Non sen‐ tiva più molta attrazione per quella sua vecchia reflex che gli aveva regalato tante emozioni da ragazzo; ormai era carente di soggetti ed era diventato restio a trovarli nel mondo della natura. Poi alzò lo sguardo, incerto da dove cominciare. Di pareti ancora in elevato se ne vedevano poche, sembravano solo quattro ruderi cadenti, ma forse gli edifici erano di più, essendo difficile dalla sua posizione valutare a occhio, tra la vegetazione aggressiva, la pre‐ senza di opere murarie. Quello che gli importava era di definire con una certa pre‐ cisione i perimetri e i confini degli edifici rimasti, stimando per quanto possibile le cubature originarie, per abbozzare una nuova mappa. Le mappe del luogo in suo possesso erano infatti molto approssimative e parevano rimaste ferme al Catasto Granducale Leopoldino di metà Ottocen‐ to, non riscontrandosi neppure le annotazioni tipiche del Catasto Fascista (dal 1929 fino ai successivi censimenti dei suoli e delle unità poderali fino al 1939). Tra allora e oggi c’era comunque stata di mezzo la guerra che poteva aver cambiato il volto di quel paesaggio.


14 I riferimenti sul terreno, già labili all’origine, erano prati‐ camente introvabili. Quanto era potuto cambiare quel si‐ to così isolato? Il mondo esterno era in realtà cambiato e di molto, ma lì, in quel luogo, il tempo sembrava essersi fermato proprio all’ultima guerra. Sì, le tracce di crollo più macroscopiche non potevano essere causate solo dal tempo, ma portavano segni di una distruzione non casua‐ le, di incendio, devastazione e abbandono. Era proprio quella parola, “abbandono”, che gli risuonava nella mente, arrivando fino allo stomaco e provocando un certo malessere. Laerte si riteneva poco sensibile ma al‐ cune situazioni, come quella ad esempio, riuscivano a coinvolgerlo e a provocargli uno stato di inquietudine. Dopo un quarto di secolo, all’incirca la sua età, le macerie apparivano come ferite ancora aperte, vive e dolenti. Le travi bruciacchiate sembravano aver smesso da poco di fumare ed emanavano ancora un odore ripugnante; cal‐ pestando quelle cadute sul terreno e in parte sprofondate nel terriccio molle, gli sembrava di violare l’intimità vergi‐ nale di un riposo eterno, che lì aveva eletto dimora. Ecco, il senso di inquietudine ora stava assumendo una sua ra‐ gione profonda. Laerte ebbe per un istante un’orribile sensazione di morte, come vi fossero cadaveri ancora gia‐ centi, insepolti lì sotto i suoi piedi, sotto quelle povere macerie. Il senso del macabro lo stava pervadendo facen‐ dogli nuovamente perdere di vista la ragione, così logica e materiale, per cui era giunto in quei luoghi. Nulla lo legava


15 a quelle macerie, nulla lo tratteneva né lo costringeva a provare alcun sentimento di pena per una storia che non conosceva. Scrollò la testa come per farvi uscire quei pensieri molesti e si guardò intorno alla ricerca di un punto cospicuo che corrispondesse alle annotazioni della Carta. Gli bastava individuarne almeno uno, uno solo, per iniziare le misura‐ zioni e terminarle al più presto. Ma la strana sensazione di essere osservato lo distolse nuovamente.


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Un gesto per comunicare Franz era vecchio ma nessuno sapeva quanto e a nessuno importava saperlo. Viveva da anni isolato dal resto del pa‐ ese ed era ignorato da tutti, come se non fosse mai esisti‐ to. Nessuno passava più da quelle parti. Gli anziani del po‐ sto sapevano il perché, ma non gradivano raccontarlo. A‐ gli estranei e ai bambini che facevano domande bastava far sapere che ci viveva Franz, un tipo strano. Uno fuori di testa, forse pericoloso, meglio stargli alla larga. Lui non faceva che avvalorare questa tesi con un compor‐ tamento scorbutico e minaccioso ogni volta che vedeva comparire nei paraggi qualcuno, di solito cacciatori o ra‐ gazzi in giro per i boschi che gli gridavano: “Franz! Ka‐ putt!” senza saperne il perché, e gli tiravano pietre, ben sapendo che non sarebbe stato in grado di rincorrerli. Da giovane Franz era soprannominato “Nettuno”, ma ora tutti si erano scordati anche del suo vero nome e del suo intrepido ruolo, per il quale era stato invidiato da molti e corteggiato dalle belle ragazze; era stato un sommergibi‐ lista. Franz era solo il soprannome dispregiativo con cui i pae‐ sani sparlavano di lui. Ormai lo portava con orgoglio, co‐


17 me guardava con fierezza quelle case semidistrutte e ab‐ bandonate che ora costituivano tutto il suo mondo. Lì ci viveva, di lì non usciva mai. Non sentiva il bisogno di in‐ contrare nessuno. Unica eccezione al suo isolamento erano gli incontri con colui che garantiva la sua sopravvivenza. Un tipo più stra‐ no di lui, un pugile suonato, il cui vero nome coincideva con il soprannome: Carlomagno. Per tanta che fosse la fantasia dei suoi concittadini, per lui non c’era sopranno‐ me in grado di spodestare il suo nome vero. E l’avevano battezzato così perché era nato di sei chili e grosso era rimasto, cresciuto nel fisico come un gigante, ma piccolo nell’animo come un bambino. In paese tutti lo temevano e lo evitavano. Proprio a lui che non aveva mai fatto male a nessuno… se solo qualcuno si fosse degnato di cono‐ scerlo personalmente lo avrebbe classificato nella catego‐ ria evangelica dei “puri di cuore”, nel senso che era del tutto privo di quella sana dose di malizia che permette a un essere umano di ritagliarsi il suo spazio vitale nella giungla della società. Infatti non ci era riuscito. La forza, quella non gli mancava. Fin da ragazzino si era guadagnato da vivere come manovale alla miniera. Poi, da giovane, a prendersi botte come pugile, nel ruolo che il suo fisico mastodontico gli aveva appiccicato addosso. E quando non fece più cassetta lo scaricarono. Ma nella sua semplicità viveva senza rancori verso nessuno, anche se la sua faccia mostrava una perenne smorfia che sembrava di


18 rabbia e metteva paura non solo ai bambini. Portava il se‐ gno irreversibile del tragico incontro che aveva messo fi‐ ne alla sua misera carriera. Grande, grosso, paurosamente brutto, era vittima delle leggende che si erano diffuse sul suo conto. Carlomagno ritirava puntualmente, per delega, la pensio‐ ne di Franz dalla banca del paese e, all’incirca una volta a settimana, gli portava a spalle un prezioso carico: i viveri e le bevande preferite, alcuni sigari, i giornali della settima‐ na passata e l’olio per le lampade. Franz gli lasciava libe‐ ramente gestire parte dei soldi che avanzavano, anche lui aveva il diritto di vivere! Carlomagno non aveva grandi pretese ma non aveva alcun sussidio, mentre Franz gode‐ va di una discreta pensione, certamente eccessiva per le sue esigenze. Franz si sapeva accontentare, e a suo modo anche lui viveva una serenità interiore che nessuno a‐ vrebbe sospettato, poiché lo credevano un individuo me‐ schino e abietto. Carlomagno e Franz non avevano bisogno di tanti conve‐ nevoli. Il primo non riusciva quasi a parlare a causa della mascella rotta e malcurata. Le sue poche parole, lo stret‐ to necessario, uscivano spesso sconnesse e incomprensi‐ bili ai più. Solo Franz, per abitudine, le interpretava al volo leggendogliele sulle labbra e quel che non capiva lo sup‐ pliva con la fantasia, tanto i loro brevi discorsi rimanevano sempre a mezzo e non avrebbero cambiato di una virgola le loro vite neppure se correttamente intesi. E le risposte


19 erano sempre di maniera, cortesi, anche se spesso scorre‐ late dalle domande. Franz era decisamente sordo da un orecchio, anzi il padi‐ glione non ce lo aveva quasi più, sembrava gli fosse stato tagliato di netto. Correvano varie voci sull’incidente in cui aveva perso l’orecchio, ma erano tutte maldicenze prive di fondamento, poiché quel fatto non lo aveva mai rac‐ contato a nessuno. E se mai ci fossero stati testimoni ocu‐ lari, di certo avrebbero fatto in modo di non ricordare l’accaduto! Né Franz né Carlomagno sentivano la necessità di parlare, né per fare domande, né per esternare la propria visione del mondo, tantomeno per lamentarsi o per imprecare contro il governo o contro quel destino che li aveva e‐ marginati. Eppure avrebbero avuto entrambi molte ra‐ gioni per lagnarsi del mondo. Si guardavano negli occhi giusto il tempo di fumare insieme mezzo sigaro a testa, poi Carlomagno, ripresa la cesta vuota, se ne andava col suo passo pesante, così come era venuto, e Franz riscom‐ pariva per rinchiudersi nei suoi antri bui. Quella mattina Franz era comparso come dal nulla. Si muoveva silenzioso incontro a Laerte, ma senza guardare verso di lui. L’andatura era ciondolante e piuttosto ridico‐ la, come se calzasse scarpe molto più lunghe del suo pie‐ de. Un passo dopo l’altro gli si avvicinava.


20 Era un vecchio demente perso nel bosco? O un contadino in cerca di legna da ardere? La sua zazzera biancastra e in‐ colta che si fondeva in una barba altrettanto incurata lo mostravano come persona trasandata, ma innocua. Basso di statura, gli occhi piccoli e il naso pronunciato. Lo sguar‐ do però non si riusciva a penetrare. Gli potevi dare tra i settanta e gli ottanta anni. Laerte non era preoccupato per quella presenza, solo un po’ infastidito. Era il padrone del terreno? Avrebbe dovuto rendergli conto di quello che stava facendo? Si sarebbe sparsa la voce in giro? Era pro‐ prio ciò che gli avevano caldamente consigliato di evitare. Discrezione, soprattutto con la gente del posto! Gli isolani sono diffidenti, gelosi della loro terra, sempre pronti a fa‐ re storie con gli estranei; era tutto ciò che gli avevano in‐ segnato preparandolo al viaggio. Stava pensando quale scusa accampare… ma poi di cosa doveva scusarsi? Franz intanto proseguiva con la sua andatura buffa e arri‐ vò a circa cinque metri da lui; ma al posto di alzare lo sguardo lo scansò con una mossa, facendosi da parte, per andare a sedersi su di un masso piatto alcuni metri di lato. E da quella postazione continuò a ignorarlo. Una mossa dall’apparenza irrazionale. Estrasse dalla tasca mezzo si‐ garo ben tagliato e un fiammifero di legno che strofinò sulla pietra con gesto abituale. Poi, acceso il sigaro, dopo due lunghe tirate se lo tolse di bocca, e dopo aver scosso la cenere roteandolo sul masso, lo rivoltò guardandolo at‐ tentamente e se lo reintrodusse in bocca ma dal lato ac‐


21 ceso, senza accennare la minima smorfia. Subito emise una nuvoletta di fumo dal naso e i suoi occhietti si illumi‐ narono, come un bambino che fa una bravata, un gesto impertinente che dimostra sprezzo del pericolo, un modo per apparire adulto. Poi estrasse di bocca il sigaro umido con un leggero sogghigno e rimase immobile. Laerte non smetteva di osservarlo sconcertato. Quell’omino barbuto non sembrava pericoloso. Probabilmente era solo un po’ fuori di testa. Poi pensò. E se il suo comportamento fosse un modo per attrarre l’attenzione su di sé, vincere il disa‐ gio nei confronti di un estraneo, un gesto per comunica‐ re? D’improvviso Laerte si meravigliò dei suoi spunti da psico‐ logo dilettante. Di abitudine, non analizzava spesso l’animo umano o il comportamento altrui, eppure in quei gesti vi lesse subito una captatio benevolentiae1, una of‐ ferta di pace. Allora Laerte realizzò che toccava a lui tro‐ vare una via per uscire da quella situazione di imbarazzo reciproco; doveva rispondere al vecchio con un gesto al‐ trettanto distensivo. Una situazione così fuori dai canoni comportamentali non gli era mai capitata, ma la scenetta che si andava compo‐ nendo gli sembrava quasi divertente. Pensò allora di ri‐ spondere con un gesto, imitando il vecchio, come fanno le scimmie. Adocchiò un ripiano, un davanzale di finestra che i crolli circostanti avevano abbassato a poco più di un 1

Si dice di azioni fatte esplicitamente per attirarsi la simpatia di qualcuno.


22 metro da terra e vi si accostò con un leggero ma rapido balzo, in modo da incuriosirlo creando sorpresa, preve‐ nendo una reazione immediata del vecchio. Poi, sedutosi, estrasse un pacchetto di sigarette dalla tasca e se ne mise una in bocca, fermando la scena così, immobile, in quella posizione di attesa. Passarono secondi, forse minuti di ge‐ lo, l’imbarazzo tornava a farsi sentire. E adesso cosa sa‐ rebbe successo? Franz, apparentemente incurante delle sue mosse, ora sollevò lo sguardo verso di lui e, come se conoscesse la battuta successiva, tratta da un preciso copione, riprese l’iniziativa. Si tolse lentamente dalla bocca lo spezzone di sigaro sbavato da entrambi i capi e lo protese verso di lui mostrandone la parte fumante. Un dialogo muto appeso a un filo di fumo. Un protocollo di comunicazione il cui codice, ignoto a priori a entrambi, andava via via rivelan‐ dosi nell’abbozzo di un rapporto non verbale. Un solo ge‐ sto inappropriato e sarebbe svanita l’ombra di quel tenue dialogo che si era faticosamente avviato. Dopo un momento di riflessione, Laerte capì che era ve‐ nuto nuovamente il suo turno. Sapeva come rispondere. Era il caso di alzarsi e avvicinarsi a lui in segno di accetta‐ zione dell’offerta. E così fece. Accesa la sigaretta contro il sigaro tremolante e puzzolente gli si sedette di fianco. Le limitate dimensioni del masso lo costrinsero ad avvicinarsi oltre limiti che avrebbero potuto mettere in imbarazzo anche conoscenti di vecchia data. Da quella posizione di‐


23 veniva impossibile guardarlo in viso. Sentiva solo un pro‐ fondo odore di rancido, talmente intenso da coprire il puzzo emanato dal sigaro. Il vecchio non si scostò, ma questa volta non sembrava dare il pur minimo cenno di voler prendere la parola. La risposta di Laerte era andata al di là delle aspettative? Si era preso troppa confidenza? Laerte non resistette oltre e decise di cominciare a parla‐ re. «Scommetto che siete voi il padrone di questo villaggio.» Temeva di aver usato un tono canzonatorio e di aver già compromesso sul nascere ogni possibilità di prosecuzione del dialogo. E per prevenire una risposta brusca proseguì: «Mi dovete scusare se mi sono addentrato tra queste ca‐ se, credevo non fossero abitate.» Ancora silenzio, ma la risposta era lì per arrivare. «Parlate più forte, giovanotto! Eh, scommettere, scom‐ mettere… eh, non fate bene a scommettere, o mio gio‐ vane foresto, oggiù! Non ci si deve mai far guidare dalle apparenze, bisogna andare dritti al nocciolo delle cose, al‐ la sostanza! Osservare bene per capire… che non vuol di‐ re solo farsi un’idea vaga, ma mettersi nei panni degli altri. Quanti fastidi si potrebbero evitare se non foste tutti così superficiali… e diffidenti.» Pausa. Ma pareva una sospensione breve, forse per pren‐ dere fiato o per scrutare le reazioni del giovane. Cercava di metterlo in soggezione? Di incutergli timore?


24 Laerte pensò che era il caso di fermarlo intervenendo a sua volta, ma con quali argomenti? Il vecchio era andato a ruota libera, blaterava cose senza un nesso… però a mo‐ do suo con una certa logica, anche se non era chiaro a co‐ sa si riferisse. Non sembrava del tutto pazzo e mostrava anche una certa proprietà di linguaggio, non certo da mentecatto né da boscaiolo. Se non era il padrone, che ci faceva lì? Provò a incalzarlo con una banale affermazione interrogativa. «Dite bene signor…?» «Franz, chiamami pure Franz e basta, come fanno tutti, ci sono abituato, non me la prendo, tanto…» Venne così il suo turno dei convenevoli, formali e stringa‐ ti. «Mi chiamo Laerte, vengo da Milano. Faccio l’architetto e amo visitare luoghi solitari.» Una verità e una bugia. Non gli conveniva scoprirsi trop‐ po. Si rendeva conto che stava scandendo quelle parole in modo innaturale, come si trattasse del primo incontro con un extraterrestre. Per colmare il successivo silenzio, proseguì sullo stesso tono, sebbene si sentisse tra il ridicolo e il provocatorio. «Mi piacerebbe avere notizie su queste “case tradiziona‐ li”. Che peccato lasciarle andare in rovina… una cultura che va scomparendo…»


25 Troppe banalità da bere tutte insieme? Ne ottenne come risposta una concessione accompagnata da un monito di cui non riusciva bene a capire il senso. «Se siete qui per vedere guardate, guardate pure, ma non giudicate. Sono troppi quelli che giudicano senza cono‐ scere, non ne sopporterei uno in più. Andate dove vi pare, laggiù c’è l’acqua che zampilla; è la mia fonte. Bevetene pure liberamente, è acqua bona…» per mantenere le di‐ stanze era tornato al voi. Laerte volle ancora giustificarsi per non lasciare l’impressione di avere secondi fini «Siete molto gentile si‐ gnor Franz. Vorrei fare qualche fotografia, prenderò degli appunti. Magari poi scriverò un articolo, chissà… la cosa vi interessa?» Ma Franz era già assorto in altri pensieri. «Non mi interessano queste cose, e adesso ho altro da fa‐ re. Ma voi, ve l’ho già detto, fate quello che vi pare e non curatevi di me.» Non c’erano più argomenti per continuare. Bruscamente Franz si alzò e se ne andò con la stessa andatura ciondo‐ lante con cui era venuto. Uno gnomo apparso e scompar‐ so nel bosco incantato; un sogno, un’allucinazione? Era tutto reale. Durante la breve conversazione, fissi fianco a fianco, i due non avevano mai potuto, né forse voluto, guardarsi in faccia. Non si erano incontrati di proposito. Due esseri umani, né l’uno né l’altro di carattere così aperto da fami‐


26 liarizzare al primo incontro. Tanto più in un luogo fuori dal mondo, un posto isolato dove la natura sembrava avvol‐ gere ciascuno come in un involucro protettivo che agisce da barriera verso ogni suo simile, mostrandolo al pari di un intruso, se non di un nemico. E Laerte si sentiva l’intruso di turno, avendo percepito dagli atteggiamenti del vecchio che la sua presenza in quel luogo non poteva essere gradita. Ma aveva fatto del suo meglio per ridurre il reciproco disagio. In fondo quel colloquio abbozzato non aveva dato né tolto nulla; ognu‐ no conservava la propria privacy. Perfetti estranei erano e tali erano rimasti. Laerte non aveva trovato come replicare al vecchio che già gli voltava la schiena e si stava allontanando, ma non ce n’era bisogno. Così com’era iniziato, il dialogo si era concluso. Ma sì, tutto era andato per il meglio! Due con‐ venevoli rassicuranti… questione risolta, la curiosità è appagata e si riprende il lavoro senza intoppi.


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Un groviglio di radici Per trovare un punto cospicuo che avesse un senso con‐ creto per iniziare il lavoro ci mise parecchio. Tempo speso a guardarsi intorno. Nulla era come sulla carta. Alla fine si decise e scelse un masso affiorante, un grande masso, co‐ sì grande che pareva giacere sul luogo da sempre tant’è che vi poggiava il muro portante di un basso fabbricato, probabilmente una stalla ormai priva di tetto. Si fece largo tra le erbacce, si avvicinò e ripulì una piccola porzione del masso sul piano orizzontale per incidervi un segno di riferimento accostato al piede del muro. Per po‐ sizionare quel punto sulla mappa dovette riferirlo a un fosso, un rivolo d’acqua che scorreva a pochi metri; quello era l’unico elemento consistente, indicato sulla carta co‐ me “rivo”, sempre che nel tempo non avesse deviato il proprio corso. Come primo riferimento andava bene; poi, se avesse trovato un punto coerente con la carta, si sa‐ rebbe potuto traslare il tutto facilmente. Per eseguire la ricognizione perimetrale ci volle più tem‐ po. Non era per niente agevole trovare un passaggio per girare con continuità intorno ai resti delle case. Le pietre di crollo, sparse in ogni direzione, rendevano difficile ogni


28 spostamento e sarebbe stato utile avere un machete per liberare il passaggio dai rovi. Un rilievo di tipo solo fotografico non era sufficiente. Do‐ veva arrangiarsi. Prima fotografava, poi piantava un pic‐ chetto, agganciava e svolgeva il nastro misuratore, quindi un nuovo picchetto; poi annotava misura e angolazione con riferimento alla foto, quindi era costretto a tornare sui suoi passi per recuperare il picchetto, e via così. Da so‐ lo e in quell’ambiente dalla visibilità limitata, non poteva usare metodi più sofisticati. Aveva cercato di dirlo al suo capo che ci sarebbe voluto almeno un collaboratore. Ma il parere dell’architetto Masserano era stato inspiegabilmente secco e negativo. Per un attimo Laerte pensò che il vecchio Franz avrebbe potuto dargli una mano. La fortuna glielo aveva fatto in‐ contrare! Avrebbe anche potuto chiedergli delle indica‐ zioni toponomastiche, magari venire a conoscenza delle ragioni dell’abbandono di quel luogo, identificare i manu‐ fatti più importanti e il loro uso originario. Ma no, gli a‐ vrebbe di certo fatto domande su cosa stesse facendo. Meglio non rivederlo più. Aveva caldo. Un capo alla volta si era tolto giubbotto, cravatta, gilet, e aveva arrotolato le maniche della cami‐ cia. Qualche graffio alle braccia era già riuscito a procurar‐ selo. Ma come gli era venuto in mente di partire con l’abito da riunione? E con quelle scarpette a suola di cuoio liscia da prima comunione?


29 Eppure aveva messo in valigia qualcosa di più appropria‐ to, ma aveva finito per lasciare tutto in albergo. Era uscito la mattina senza riflettere un istante, come per fare due passi, un giro in centro città. Aveva sottovalutato l’ambiente. Non aveva la stoffa dell’esploratore, dunque neanche l’abito adatto. Intanto il tempo passava e il lavoro iniziava a dare qualche frutto. Aveva già riempito alcune pagine di dati e schizzi. Guardava compiaciuto quelle bozze, ma non riusciva an‐ cora a coglierne un risultato d’insieme. Ormai era chiaro; l’area era circoscritta ma la mappa an‐ dava proprio rifatta da zero con i nuovi dati che aveva raccolto. Un lavoro da ufficio. Poi col Catasto, le vecchie mappe e i vari problemi burocratici se la sarebbe vista qualcun altro. Di certo c’erano in ballo cose grosse, che avrebbero richiesto ulteriori approfondimenti se l’idea, come era facile immaginare, era di acquisire tutto il com‐ prensorio. Non osava neppure stimare il valore di un simi‐ le business e quanto bisognasse essere immanicati con le amministrazioni ai vari livelli di potere. In quegli anni i progetti per promuovere la vocazione turi‐ stica dell’Isola stavano per convincere poco alla volta an‐ che le forze politiche più ostili, quelle che da sempre si battevano per un rilancio industriale, nonostante molti tentativi avessero già dato risultati deludenti. La gente però rimaneva idealmente legata al lavoro vero, quello di miniera e degli altiforni. Così era l’Isola. Un’illusione tratta


30 dai racconti nostalgici dei nonni, idealizzati nella vecchia‐ ia. Ma i giovani erano pronti alle nuove professioni? I tempi erano cambiati. Con le nuove disposizioni sul rias‐ setto territoriale molte zone divenivano urbanizzabili, per edificare strutture residenziali e turistico‐alberghiere. Il territorio che Laerte stava misurando, dal grezzo aspetto verginale, sembrava avere tutti i requisiti per una valoriz‐ zazione turistica e avrebbe potuto ad esempio ospitare alcuni alberghi, un villaggio residenziale o una schiera di villette signorili. L’Elba in vendita. Nuove opportunità, la‐ voro, soldi. Ma per chi? Se lo domandavano gli abitanti. Naturalmente occorreva prima di tutto una strada. Poi in‐ terventi burocratici. Il territorio era molto frazionato e andava ricomposto sotto un’unica proprietà prima di lan‐ ciare una gara per il progetto. Il giovane architetto stava correndo troppo col pensiero. Sapeva bene che i prelimi‐ nari avrebbero richiesto anche parecchi anni e vari livelli di intermediazione. All’inizio non era lavoro da architetti, ma per curatori, avvocati e notai, società finanziarie e pubbli‐ ca amministrazione. Un lavoro sopratutto da faccendieri. Nessuno di quei ruoli e delle fasi che stava mentalmente pianificando lo riguardava. Per ora erano solo aride misu‐ razioni, aggiornamenti catastali, chissà quanti altri sareb‐ bero venuti dopo di lui per una miriade di valutazioni, prima che si potesse spendere qualche parola concreta e abbozzare un progetto tecnico. Ecco perché non era il ca‐ so di sognare.


31 Nell’attimo di divagazione che si era concesso e mentre tirava le somme del lavoro svolto sentì i violenti richiami del suo stomaco, che aveva per tutto il tempo cercato di ignorare. Era digiuno dalla colazione, per di più fatta di buon’ora. Aveva camminato, lavorato, sudato… e si era fatto pomeriggio. Aveva ben diritto di riposarsi! Non era il caso di chiudere lì e tornare alla macchina? Ci avrebbe ri‐ flettuto la sera in albergo mettendo in ordine i dati, ed eventualmente sarebbe tornato il giorno dopo per una verifica. Ma solo se necessario. Decise così di raggiungere la fonte, l’acqua che sentiva scorrere lì vicino, per darsi una ripulita e togliersi almeno la sete. Più che per bere, la fonte sembrava meglio adatta ad abbeverarsi, per il tenue getto che usciva da quel tubo quasi parallelo al terreno e il fango intorno che recava tracce profonde del passaggio di fauna selvatica. Bastava accovacciarsi e protendersi in avanti, come nei film western. Si arrotolò l’orlo dei pantaloni fino al ginoc‐ chio e fece un ampio passo avanti, puntando una pietra che doveva fungere, secondo lui, da appoggio. Ma il ter‐ reno molle gli inghiottì il piede, e la caviglia su cui aveva caricato tutto il peso del corpo rimase impigliata in quella melma, non molto in profondità ma presa tra un groviglio di radici. Le sentiva premere sull’osso, maledette radici! Il film era giunto alla classica scena delle sabbie mobili. Come uscire da quella situazione? Lo sforzo per estrarre la gamba non riusciva efficace perché mancavano punti di


32 appoggio sul terreno. Le mani sprofondavano e l’altra gamba, ripiegata con il ginocchio nella medesima melma, non era di nessun aiuto. Gli veniva da ridere, per l’imbarazzo e la situazione grottesca. Calma, bisognava stare calmi. L’unica soluzione sarebbe stata di chiamare qualcuno. E di qualcuno c’era solo Franz, se non se ne era già andato lontano. Pensò di mettersi a urlare, o fischiare, o gridare il suo nome. Calma, era me‐ glio evitare di rivedere quell’uomo… Calma. Era abituato a far da solo e a usare l’intelligenza nei momenti più critici. Si guardò intorno. C’era un unico appiglio, si poteva tentare. Provò ad allungare il più pos‐ sibile il braccio destro per raggiungere il tubo di ferro che spuntava come dal nulla dal terreno. Lo afferrò e tirò quanto poteva. Il risultato fu di farne riemergere un mez‐ zo metro prima di incontrare una certa resistenza. Ma alla fine tenne. Lo afferrò più saldamente alla base e applicò una lenta ma continua trazione che per reazione gli permise di ruotare il corpo, che faceva perno sul piede impigliato. La posizio‐ ne, benché scomoda, era la più favorevole per districarsi, ma diventava sempre più dolorosa man mano che si ruo‐ tava. Ora bastava avere il coraggio di dare uno strappo deciso per liberare la caviglia. L’operazione gli costò atti‐ mi di tensione, un conto mentale fino a dieci, poi uno strappo e un dolore immenso, ma ci riuscì.


33 Era fatta, e da solo! Non sapeva se compiacersi per l’abilità e freddezza con cui era riuscito a cavarsi d’impiccio, o lamentarsi per il dolore lancinante che non lo faceva decidere di alzarsi, o iniziare a preoccuparsi per come la vicenda sarebbe proseguita. E il tenue sorriso di compiacimento gli si smorzò presto, appena fu in grado di valutare in modo realistico la situazione. Gli appariva subi‐ to chiaro che comunque non sarebbe stato in grado di af‐ frontare la camminata di ritorno verso l’auto. Almeno non subito. Il copione del film western a questo punto preve‐ deva che si legasse una stecca alla caviglia e si trascinasse fuori dal bosco… ma non c’era nessun regista che gli spiegasse come. Con braccia e gambe totalmente imbrattate di fango, si trascinò fino al masso e si tolse scarpe e calze per control‐ lare il danno subìto. La caviglia non presentava ferite su‐ perficiali ma stava gonfiando e il dolore, che rispetto al momento dell’estrazione si era attutito, si riacutizzava a ogni tentativo di muovere l’articolazione. Provò ad alzarsi ma la caviglia non sopportava il peso del corpo. In quelle condizioni non era proprio pensabile di rimettersi in cammino. A questo punto sperava nel ritorno Franz, al diavolo la ri‐ servatezza del lavoro. Gli avrebbe proposto una ricom‐ pensa perché facesse in modo di fargli raggiungere l’auto o l’albergo… o almeno un telefono per sbloccare questa


34 situazione senza via d’uscita. Amara constatazione: i tem‐ pi moderni funzionano solo nei luoghi moderni. Passò un po’ di tempo, forse un’ora, e miracolosamente Franz ricomparve come dal nulla. Laerte non aveva prega‐ to né imprecato ad alta voce. Un caso del destino benevo‐ lo. Franz non impiegò molto a rendersi conto della situazio‐ ne, ma non fece domande. Osservò la caviglia, la tastò con movimenti che avevano del professionale, attento al‐ le sue reazioni di dolore più o meno intense a seconda di dove esercitava la pressione delle dita, poi sentenziò: «Sicché, siamo fortunati, non pare rotta. Pare solo una di‐ storsione, che può diventare cosa seria se riprovi a starci sopra. Cheffare? Riposo in branda giovanotto, oggiù!» Poi prevenne i suoi pensieri: «Non mi chiedere di accompagnarti al piano. Non ce la fa‐ rei a sostenerti per più di qualche metro, non vedi i miei piedi come sono ridotti? Né possiamo chiamare qualcuno. Non ci abita nessuno a meno di un’ora, e presto farà buio. Sicché, mettiti l’animo in pace, sei in buone mani, oggiù, sei un ragazzo fortunato!» Laerte non se la sentiva di ribattere e neppure di immagi‐ nare ciò a cui sarebbe andato incontro. Franz lo aiutò a rimettersi in piedi e, facendosi da appoggio a vicenda, con fatica si avviarono entrambi barcollando pochi passi più in là, oltre la fonte.


35 Dietro a folti cespugli comparve una costruzione che La‐ erte non aveva notato. Era meno diroccata delle altre ma bassa. Il tetto piatto, poco inclinato, era ricoperto con la‐ miere, canne e rovi. Un restauro disgustoso alla vista di un architetto. Ma la base dell’edificio, ancora nelle condizioni originarie, era costruita, non con pietrame comune, ma con grandi conci di calcare squadrati e ben assestati che ne davano un tono, nel suo piccolo, archeologicamente monumentale. Si entrava in uno stanzone scendendo tre gradini. La poca luce entrava da tre finestrelle poste più in alto del norma‐ le, di forma vagamente ogivale e prive di vetri. Nel varcare quella soglia il vecchio biascicò tra sé qualche parola che suonava come, ripensandoci poi, “c’abbiamo ospiti, Bet‐ ta!”. Laerte fu adagiato su di un giaciglio comparso dietro a una tenda di tessuto pesante. «É il letto per gli ospiti. Feldbett, brandina da campo, do‐ no del Reich. É come nuova… da quando ci dormì… bah, ‘sta poveretta, che riposi in pace. Che riposino tutti in pa‐ ce, oggiù!» Da quelle parole Laerte se lo immaginò come un reduce tedesco rimasto in Italia alla fine disastrosa dell’ultima guerra: «Ma lei, signor Franz, non mi sembra tedesco. Il suo ac‐ cento italiano è perfetto, del luogo direi ... toscano, ve‐ ro?»


36 «Se ci tieni a saperlo, per la gente io sono come un tede‐ sco, sono Franz. Credono di offendermi, ma io non sono né tedesco né italiano, sono un essere umano, capisci? Quando si smetterà di fare di queste distinzioni? Se fossi tedesco, maledetto il diavolo, che ti avrei fatto? Ti avrei cavato dal pantano o ti avrei lasciato a marcire costaggiù? O ti avrei giustiziato a colpi di Mauser, eh? Sono solo un uomo. E se anche fossi italiano, non potrei forse derubarti e lasciarti ignudo nel bosco da dove sei venuto? O che ci sei venuto a fare, foresto, nella mia vita? Da che mondo vieni?» «Mi scusi, mi scusi, ma per me non fa alcuna differenza. Se lei mi aiuta a uscire da questa situazione gliene sarò grato. Anzi, potrei… certamente, se non si offende …» riuscì a replicare Laerte impaurito. «Qui non è un albergo! E Franz non è in vendita! Tanto per mettere le cose in chiaro. Tu non immagini cosa… mah, è il passato, anche se non riesco a dimenticare.» Scese di nuovo il silenzio. Laerte non era affatto tranquil‐ lo. Non sapeva cosa dire per evitare che si alterasse di nuovo. Era nelle sue mani. Era sempre più convinto che fosse fuori di testa, sì, uno schizofrenico che alternava una personalità affabile a una scorbutica. Facilmente ecci‐ tabile e imprevedibile. Poteva diventare violento. Meglio non contrariarlo, con quella caviglia non avrebbe potuto andare lontano.


37 «Fa male, eh?» il tono di Franz era già tornato normale, anzi stranamente cordiale, quasi materno «ora ci mettia‐ mo sopra un ottimo rimedio, eh? E domattina sarà tutto passato. Finisci il tuo lavoro e te ne torni a casa sano co‐ me un pesce. E ti scordi di questa brutta giornata, e di un vecchio scorbutico come me.» Poi sparì per alcuni minuti e ricomparve con un rotolo, ro‐ seo e molliccio, che gli spenzolava tra le mani come gela‐ tina, e si mise a svolgerlo con cura e compiacimento. E‐ manava un odore rancido, come di grasso avariato o di pelle untuosa. Laerte non riusciva a capire cosa fosse e tappandosi il naso trattenne a stento un conato di vomi‐ to. Srotolata la cosa, Franz gliela posizionò con cura in‐ torno alla caviglia e la fermò con dei lacci. Laerte stando disteso non poteva vedere l’operazione e subito avvertì un bruciore superficiale, ma non ebbe il tempo di aprire bocca per emettere un qualche lamento. «Brucia, eh? Lo so bene. Non ti preoccupare, la cotenna di cinghiale al peperoncino fa sempre così. Da anni ne metto una sulla schiena quando la sciatica si fa sentire. A noi non serve essere amici del farmacista, nevvero?» e scomparve nuovamente senza attendere risposta. Quando tornò aveva in mano una ciotola con liquido fu‐ mante, un infuso di erbe. Come avrebbe potuto rifiutarlo? Ormai era in sua completa balìa. Appena lo ebbe bevuto Laerte iniziò a sudare e cadde pian piano in uno stato di benefico dormiveglia. Fine anteprima. Continua...


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