ALARICO BERNARDI
RACCONTI DAL BUIO
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RACCONTI DAL BUIO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-681-3 Copertina: Immagine Shutterstock.com
Prima edizione Febbraio 2014 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Questo romanzo è opera di fantasia, ogni riferimento a fatti o personaggi viventi o realmente esistiti è da ritenersi puramente casuale.
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I DUE VOLTI DELLA DIVERSITÀ
L’Aquila, ventidue dicembre, ore sei del mattino. Una vocina stridula canticchia un motivetto stonato, soffocato dalla spessa coltre di neve caduta durante la notte. I candidi fiocchi hanno cessato d’imbiancare il paesaggio circostante per espresso volere del gelo. Esso, con fredda determinazione, ha disposto la fine delle evoluzioni dei minuscoli funamboli divenute sempre più temerarie sotto il magico tendone della notte. Percorro le strade con prudenza, affondando in buoni dieci centimetri di soffice panna montata, mentre la figura nera del mio Dan si staglia sulla strada lattescente. La tiritera mi precede, raggiungendo toni acuti, oserei dire sgradevoli. Il giovane si esprime in un’altra lingua e, oltre a essere insopportabile, la nenia risulta incomprensibile. Il mio cane guida è leggermente agitato dal tamburellare delle nocche delle sue dita sui pali metallici dei lampioni.
4 Ad un tratto, una finestra al primo piano s’illumina per poi dischiudersi e una voce fioca esclama: «Non vedi la neve? Non posso farti ripulire il cortile… oggi la tua scopa è inutile, mi spiace.» La saggina della granata fruscia tra i cristalli di ghiaccio, che imperlano la superficie delle vetture in sosta, producendo un tintinnio sgraziato. Subito dopo, il manico legnoso dell’arnese rovina a terra con un rumore sordo, coperto da un solo, impressionante singhiozzo. Guadagnarsi da vivere è difficile, come riuscire a sentirsi parte della società… lo so bene. Tiro fuori dalla tasca una banconota e, senza soffermarmi a stabilirne il valore, tendo la mano intirizzita verso il ragazzo. «No, grazie. Non accetto elemosine!» mi viene detto con decisione, mentre sento una stretta amichevole alla spalla sinistra. Allora ritiro il braccio e, salutando, proseguo per la mia strada. Il portone dello stabile che costeggio si apre e qualcuno invita lo straniero a rimuovere la massa ghiacciata con una pala. Trascorre qualche secondo… La cantilena ricomincia, ma adesso mi soffermo ad ascoltarla… è davvero gradevole.
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IL PETTIROSSO
L’alba d’un giorno d’agosto entrava nella mia stanza da letto, attraverso la finestra spalancata. I primi, deboli raggi di sole si riflettevano sul vetro d’una bottiglia vuota, rimasta sullo scrittoio. La notte era passata e, con essa, gli spettri che l’avevano sconvolta. I torbidi pensieri della sera precedente erano miseramente annegati in una sconsiderata quantità d’alcool. Una fastidiosa sensazione di nausea metteva sottosopra il mio stomaco, costringendomi ad assumere una posizione fetale. Il turchino del cielo si faceva sempre più intenso, mentre un vento leggero agitava i rami del pino piantato dal nonno di mio padre in prossimità dell’angolo sinistro del giardino. Il timido canto d’un pettirosso ondeggiava tra il muro di cinta e la cima dell’albero, modulando irripetibili melodie.
6 Ad un tratto il verso gioioso dell’uccellino cambiò tonalità, divenendo simile a un’accorata, quanto flebile richiesta d’aiuto. Un maldestro battito d’ali, un volo indeciso furono le ultime immagini che riuscii a cogliere, prima che il pettirosso si rifugiasse tra i folti rami del pino. Nella fatata atmosfera della natura, allora, iniziò un dialogo tra il volatile e la conifera, che chiese: «Cosa ti succede, perché hai smesso di cantare? Racconta! Forse posso aiutarti. Mio cugino il cipresso sostiene che solo alla morte non c’é rimedio! Se vuoi sfogarti... fallo. Ti farà bene.» Il vecchio amico aveva creato le condizioni ideali perché il pettirosso si aprisse a lui con estrema franchezza: «Niente... un dolore sordo e improvviso alla zampina mi ha costretto a fermarmi qui. Spero passi subito. Che sfortuna! Questa sera avrei dovuto incontrare un’amica molto aff...» Il pino lo interruppe: «Lasciati visitare da un medico, saprà dirti con esattezza cosa fare.» «Ne ho già consultato qualcuno e, a quanto pare, dovrò imparare a convivere con questo fastidioso dolore. La cosa non mi piace, sai? Sono nel pieno della gioventù e affidarmi al caso mi sembra una sorta di punizione immeritata, una forma di degenerazione del corpo in un’età in cui dovrebbe dare il meglio. Forse se consultassi un altro ortopedico... chissà.»
7 Il pino annuì: «Sono d’accordo, ma si deve procedere in fretta. Le cose non vanno mai trascinate alla lunga. La tua amichetta dal rosso piumaggio aspetterà! Adesso devi guarire. Boby ti accompagnerà. A dopo.» Il cane da tartufi accorse prontamente al richiamo dell’albero e, preso il leggero fardello sulla schiena, si diresse verso lo studio dello specialista, situato sul monte Sirente. Il professor Gufo li attendeva. Aveva già inforcato un grosso paio di occhiali gialli per darsi un tono ulteriore di professionalità. Aprì loro la porta e, con un certo sussiego, domandò: «Chi di voi deve essere visitato? Se si tratta di lei…» aggiunse rivolgendosi a Boby «…non posso aiutarla. La mia specializzazione è sulle ossa cave, per l’appunto quelle degli uccelli.» Il pettirosso interloquì: «Sono io che soffro, mi duole la zampina destra e non riesco a muoverla con la scioltezza di sempre. Mi dia un’occhiata, so che lei affronta le cose con competenza. Devo sapere se c’é un rimedio al mio problema.» Il professore si avvicinò al malato, iniziando a piegare l’arto con determinazione, poi si attardò a palpare con maestria, finché rimase immobile, come se tentasse di raccogliere le idee in un pensiero logico e comprensibile al pettirosso.
8 Dopo qualche secondo, il professor Gufo spiegò flemmaticamente:
«Una
semplice
artroscopìa
risolverà
l’inconveniente. Si tratta di una nuova tecnica chirurgica che permette di ritornare in forma in poco tempo. Vorrei eseguire l’intervento tra quindici giorni.» Il pettirosso lanciò uno sguardo in direzione di Boby, quasi cercasse in lui il parere dell’amico pino. Il cane lo fissava con dolcezza, lasciando trasparire dagli occhi grandi ed espressivi un palese entusiasmo. «Va bene. Tra quindici giorni sarò da lei. Arrivederci» esclamò l’uccellino, rincuorato dalla sicurezza del luminare e dal lampo di approvazione colto negli occhi di Boby. Questi lo riprese in groppa riaccompagnandolo dal pino, poi, salutati gli amici, tornò a casa dove trovò il padrone, preoccupato per la sua incomprensibile scomparsa. L’albero stette ad ascoltare attentamente il racconto del piccolo amico alato e, piegata la cima a un’improvvisa folata di vento, commentò: «Ecco quello che ci vuole: fermezza. Il professor Gufo ne ha da vendere e, in tutta sincerità, il suo modo di fare infonde coraggio. Non ti resta che attendere.» Tutto andò per il verso giusto. L’artroscopìa fu breve, quasi indolore, la convalescenza trascorse senza troppi imprevisti e la guarigione tanto attesa arrivò. Il pettirosso tornò a svolazzare nei pressi di casa mia con il suo garrulo canto.
9 Io, invece, avevo appreso che sarei divenuto cieco di lì a poco. Non avrei potuto più bearmi della bellezza dei paesaggi che la natura ama proporre, né delle forme tornite di un corpo femminile. Avrei dovuto soltanto immaginare il viso di mia moglie o quello dei miei figli. Rassegnarmi a vivere di ricordi, cercando di richiamare le immagini conosciute alla mente, sperando in una nitidezza duratura. Dipendere dagli altri per qualsiasi motivo rappresentava uno dei tanti drammi che si affacciavano all’orizzonte del mio triste futuro. Avevo scoperto che l’alcool non aiutava e che il male che mi rubava la vista era incurabile, lento, inesorabile. Perché, allora, continuare a vivere? Mentre ero immerso in questi pensieri, uscivo nel giardino e mi avvicinavo al pino, tenendo in mano una corda lunga e robusta. Avevo deciso di porre fine alla mia vita. Cercavo il ramo più forte che avesse la capacità di sopportare il mio peso, quando il pettirosso mi si poggiò sulla spalla, iniziando a parlarmi: «Non farlo! So cosa vuol dire sentirsi inutili, sopportati dagli altri, prigionieri d’una malattia. Ho imparato, però, che c’è una soluzione a ogni problema. Mi rendo conto che il tuo è molto pesante da affrontare e, per questo, mi vorrei proporre in veste di aiutante, che ne pensi?
10 Mi sostituirei ai tuoi occhi, rimanendo sulla tua spalla! Sono abbastanza bravo nel descrivere le situazioni e le persone, fidati.» Credevo di sognare, ma il pettirosso aveva parlato veramente, non ero ancora impazzito. Il sortilegio di madre natura si era compiuto per l’ennesima volta, tendendo una mano a chi non riusciva a individuare il sentiero che gli era stato assegnato. Rimasi a pensare, poi decisi che era giunto il momento di rispondere: «Uccellino generoso, ti ringrazio. Non posso condannarti a vivere in simbiosi con me. Non sopporterei che un altro essere debba vivere con delle limitazioni che si è imposto per rendere la mia sofferenza più o meno accettabile. Sarebbe ingiusto.» Ritornai sui miei passi, pronto a misurarmi con le sfide che la cecità mi aveva riservato. Il sole, affacciatosi tra due nubi di piombo, illuminò il sorriso fugace che stranamente mi modellava le labbra.
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L’EUFORIA DEL NATALE
Tra qualche giorno è Natale. Ero sul punto di dimenticarlo. Non avrei potuto, c’è sempre qualcosa o qualcuno che te lo rammenta. L’abete, infiocchettato da vezzosità luminose o lo sguardo estatico di un bimbo davanti alla vetrina di un negozio di giocattoli. Dimenticavo… e la corsa ai regali? La sacrosanta tradizione del dono a ogni costo, dove la mettiamo? Non si può certo abolire, che Natale sarebbe? Per non parlare dei “trofei” acquistati all’ultimo minuto, mentre la bancarella sta rimettendo le sue cianfrusaglie nel furgoncino. Il vanto di essersene impossessati, la gloria inneggiata da chi ha fatto compere ordinarie e ora è galvanizzato dall’abilità altrui, non avrebbero ragion d’essere se non ci fosse la Festa delle feste. Nelle chiese vedi donne ancora giovani, lontane dal fiore della gioventù, che costruiscono presepi straordinari, impiegando tutto il loro tempo libero.
12 Un tempo che avrebbero potuto trascorrere pensando alla solitudine che è stata regalata loro e che tentano vanamente di riciclare. Le solitudini del Natale… Già… esistono anch’esse. Sono nascoste da quelle che ti spingono a esibirti, come un giocoliere improvvisato, nel tendone multicolore del Circo di Babbo Natale. La povertà di una mangiatoia, la semplicità di un bue e di un asinello, l’innocenza di un bambino
e
la
gioia
dei
suoi
genitori
sono
scivolati
nell’indifferenza, abbagliati dalle luminarie, assordati dal frastuono degli uomini contemporanei. Ida è cieca, non può essere distratta dall’euforia del Natale, non ha tempo per attendere la visita di qualcuno che non verrà. La cercheranno soltanto quando il rito si sarà consumato, quando le lacrime non serviranno più a simulare laghetti di montagna nel contesto d’un presepe. L’euforia del Natale, allora, farà in modo che i panni laceri del povero vestano lo spaventapasseri, mentre il gioco più interessante e costoso spiccherà tra le mani del bimbo malato. Il Natale è anche questo: sognare un mondo migliore.
13
LA BEFFA DELL’INDIFFERENZA
Una sera d’estate sedevo sugli scogli, mentre il tramonto infuocato regalava alle onde marine colori indefiniti. La sfera vermiglia del sole s’immergeva inesorabilmente nelle acque tumultuose, insanguinando l’inerme battigia. Il profumo intenso della salsedine saturava lentamente l’aria, riversandosi sulla mia fronte, sulle mie guance barbute e sulla maglia di cotone bianco tirata fuori dal guardaroba poche ore prima. Volsi lo sguardo in alto, restando a fissare il grandioso baluardo di nuvole di piombo che galleggiava nel cielo, trafitto da una luce incolore. A breve, la notte sarebbe piombata sulla scogliera, immergendo ogni cosa in un silenzio incantato. D’un tratto, una brezza incessante iniziò a spirare dall’orizzonte. Proprio da quella direzione mi sembrò d’intravedere una sagoma scura, sospinta dalla marea. Gab-
14 biani impazziti volteggiavano intorno a essa, lanciando grida strazianti che laceravano il cuore. L’insenatura alla mia destra era deserta, pronta ad accogliere quell’ombra indistinta, quell’oggetto misterioso che stentava ad approdare. Mi misi in piedi, tentando di dare un nome alla figura che avanzava verso la costa. Un veliero senza timoniere sfiorava il pelo dell’acqua, lasciando dietro di sé una scia luminosa. Il vento gonfiava le sue vele diafane, mentre il languido chiarore della luna lambiva la tolda inondando un gruppo di persone in attesa dello sbarco. La baia si preparava a ospitare lo straordinario vascello, mentre rifletteva, sul suo specchio incrinato, le scintillanti sbavature delle stelle. Pensai d’essere nel bel mezzo d’un sogno, d’un sortilegio, d’una vera e propria allucinazione, ma il mormorio dei passeggeri mi convinse del contrario. Mi trovavo a vivere un’esperienza eccezionale, naufrago alla deriva del tempo e dello spazio. Dal mio osservatorio naturale, potevo scorgere alcuni particolari difficilmente visibili da lontano. Scoprii, allora, che alla guida del battello c’era qualcuno coperto da un saio, realizzato con lo stesso tessuto inconsistente delle vele. La gente in coperta aveva un’espressione triste e terrorizzata, quasi
15 fosse sfuggita a una catastrofe, a una calamità naturale. In quello spazio di pochi metri quadri, sofferenza e mistero riuscivano a coesistere, trasmettendo impressioni dissonanti. «Dove sono i soccorritori? Non vedo nessuno… Mia figlia doveva essere a bordo, ma… non riesco a trovarla. Qualcuno mi aiuti!» urlava una donna non più giovane, guardandosi intorno, con lo sguardo perso nel nulla. «Siamo stati costretti a evacuare le nostre case, senza alcun preavviso, senza spiegazioni… Dicevano che si sarebbe verificata un’immane tragedia… non so cosa pensare» aggiunse un uomo sulla cinquantina, scuotendo il capo, quasi volesse scrollarsi di dosso l’ansia e l’umidità salmastra che gli imperlava il viso. «La cosa più importante è essere sfuggiti alla morte… Avremo presto delle notizie più precise. Non disperiamo!» soggiunse un giovane pieno d’ottimismo, volgendosi verso i marinai alle prese con le operazioni di sbarco. La piccola folla cominciò a scendere dalla ”Fatua”, rimanendo assiepata sulla sabbia.
16 Una volta che l’ultimo passeggero raggiunse i compagni, l’equipaggio del natante s’affrettò a prendere il largo, nonostante la linea dell’orizzonte fosse divenuta ormai indistinguibile. La ”Fatua”, veliero fantasma, insieme ai suoi oscuri marinai, era scomparsa, quasi fosse stata inghiottita dal denso inchiostro nero della notte. La dimensione irreale dalla quale era giunta la chiamava a sé, facendole strada tra il grottesco e l’assurdo, consentendole di valicare i confini della realtà. Sulla spiaggia si aggiravano una cinquantina di superstiti d’una disgrazia ancora tutta da definire, meravigliati dall’imprevista partenza della nave. I soccorsi tardavano a intervenire, consentendo al rumore della risacca d’interporsi tra le convulse conversazioni telefoniche degli sfollati. Sembrava che tutti ignorassero quella realtà che andava assumendo, con il passare del tempo, una connotazione irrazionale. I telefonini venivano riposti, a poco a poco, nelle rispettive custodie e il panico iniziava a serpeggiare tra quelle persone provate nel corpo e nello spirito. Nel Paese dal quale erano stati allontanati, le novità erano scarse, incomplete e le telecomunicazioni fortemente disturbate. Nulla trapelava sull’entità dell’evento disastroso pre-
17 annunciato, mentre il Governo di Levitas taceva, come se fosse all'oscuro dell’invio di quei profughi sulle coste meridionali della Sicilia. «Non riusciamo a capire cosa sia veramente accaduto, ma questa è la pura verità… mi creda!» chiarì un vecchio dalla lunga barba bianca, trattenendo le lacrime a fatica. Mi fissava con uno sguardo febbricitante, tentando di fugare ogni dubbio sulla sua posizione e su quella dei suoi compagni di sventura. Raggiungere quella gente era stato un gesto spontaneo, naturale, un impulso proveniente dal profondo dell’animo, da quella sensibilità che, spesso, mi aveva trascinato nel bel mezzo di situazioni a dir poco complicate. Gli occhi lucidi del vegliardo riuscivano a narrare impietosamente i timori, le preoccupazioni, gli affanni di cui erano stati testimoni, riproponendoli in una sorta di cortometraggio dai fotogrammi sfocati. Nel frattempo, un vento di scirocco aveva iniziato a soffiare, impregnando l’aria di minuscole gocce d’acqua simili a rugiada. L’umidità penetrava nelle ossa, lasciandoci in balia della morsa d’un freddo innaturale. Volsi il capo in direzione d’una pineta che sovrastava gli scogli e un’idea mi balenò nella mente, offuscata sino ad allora dall’emotività. Pregai
18 alcuni ragazzi di seguirmi, raggiungendo in pochi minuti il boschetto. Presi a staccare i rami più secchi dai tronchi delle conifere, imitato prontamente dai volontari al mio seguito. In poco tempo trasportammo una discreta quantità di legna da ardere sulla spiaggia, accendendo un provvidenziale falò. Le vivide lingue di fuoco squarciavano le tenebre, mentre scintille aranciate si riverberavano nel cielo di pece. Gli astanti si accovacciarono intorno al fuoco, tentando di cogliere, tra quelle braci ardenti, la rassicurante entità della speranza. In quel momento, ricordai d’aver conosciuto, qualche mese prima, uno dei funzionari del Centro d’Accoglienza per immigrati di Aviana, una cittadina a pochi chilometri dal luogo in cui mi trovavo, e pensai di contattarlo. Mentre mi accingevo a prendere il telefonino dalla tasca dei jeans, fui assalito da una giustificata esitazione. Mezzanotte era passata da un pezzo e disturbare una persona nel cuore della notte mi sembrava inopportuno. Non potevo, però, restare a guardare, ad attendere che il fuoco si spegnesse, abbandonando quella gente intirizzita al proprio destino. Digitai, tremando, il numero del mio conoscente e rimasi ad aspettare una sua risposta. Dopo alcuni secondi, una voce assonnata bofonchiò dei monosillabi incomprensibili che presto si trasformarono in parole di senso compiuto: «Pronto… con chi parlo? Spero
19 che ci sia una valida ragione per avermi svegliato a quest’ora!» «La prego di accettare le mie scuse, ma mi sono venuto a trovare casualmente in una situazione che credo la riguardi e che dovrebbe essere risolta il prima possibile. Nella baia di Tamurri sono sbarcati dei profughi, provenienti dallo Stato di Levitas. Sono arrivati qui senza cibo, né acqua… Circa cinquanta persone, compresi donne e bambini. Ci siamo conosciuti in ben altre circostanze e non sapevo a chi rivolgermi se non a lei… Da solo non saprei come rendermi utile!» «Capisco… Mi dia il tempo di organizzare gli aiuti necessari e saremo lì. Ci attenda sulla Provinciale… sarà più facile individuarvi. Quando ci incontreremo mi ricorderà dove e come ci siamo conosciuti. A presto e… grazie!» concluse l’uomo, troncando bruscamente la conversazione. «Venga, ci sono delle novità! Abbiamo avuto una spiegazione da Levitas… Ci troviamo in un bel pasticcio. Pare che qualcuno sia impazzito o abbia bevuto qualche bicchiere di troppo… E’ inaudito!» gridò rabbiosamente l’anziano dalla barba candida, divenuto ormai il portavoce del gruppo.
20 Mi avvicinai con passo incerto agli sfollati, mentre il cuore mi martellava inesorabilmente le tempie. Ero ansioso di conoscere l’accaduto e, nello stesso tempo, mi rifiutavo di scoprire la fondatezza delle mie supposizioni. L’anziano, ancora con il cellulare in mano, iniziò a parlare in tono perentorio: «Il Governo di Levitas non ha voluto metterci in salvo, ma, al contrario, si è arrogato il diritto d’esiliarci dal nostro Paese usando l’inganno. La motivazione è vergognosa: tutti noi ci siamo macchiati di un unico quanto riprovevole crimine, quello d’aver avuto nei confronti del nostro prossimo un atteggiamento generoso, comprensivo, sensibile, indulgente, contrario al sentimento riprovevole, dilagante nella nostra società: l’indifferenza. Questa è stata la sola catastrofe verificatasi nella nostra Terra. Non ho parole per definire un’ingiustizia di tale genere. Concludo il mio intervento, certo d’interpretare il pensiero di ognuno di voi. Siamo orgogliosi di essere considerati dei criminali.» Un applauso interminabile si levò dalla folla rimasta in piedi ad ascoltare l’eloquente chiarimento del vecchio conterraneo. Il mio corpo era accanto a loro, ma la mente rincorreva quei pensieri, presenti già da tempo, sulla soglia del dubbio. Il nome della Nazione non era altro che la traduzione dalla lingua latina della parola “leggerezza”, mentre il tessuto delle
21 vele, le divise dei marinai e la nave stessa potevano definirsi inconsistenti, fatui. I fatti sembravano essere frutto di oniriche allucinazioni, ma, in realtà, tutto era maledettamente lampante. In quel mentre, ricordai l’appuntamento sulla Strada Provinciale con la squadra di soccorso e mi diressi verso la sommità della scogliera. Superati i primi massi, iniziai a percorrere un sentiero ghiaioso scavato nella roccia, facendo attenzione a non scivolare. La luce verdastra della luna andava scemando e, con essa, i contorni del paesaggio che mi circondava. Il cielo stellato sembrava capovolgersi, risucchiandomi in un vortice tenebroso. Una spessa nebbia m’impediva di vedere a un palmo dal naso, procurandomi un’indescrivibile sensazione d’asfissia. Arrestai, allora, il mio cammino, realizzando d’aver perso completamente la vista. Senza voltarmi urlai a squarciagola: «Aiutatemi! Non vedo… Non vedo più!» La mia invocazione echeggiò nell’etere non ricevendo risposta. Rimasi ad ascoltare, sperando di percepire l’avvicinarsi di qualcuno, ma il mio udito captò esclusivamente il cadenzato rumore della risacca. Per l’ennesima volta la superficialità, l’indifferenza, la leggerezza avevano vinto, beffando chi le aveva rinnegate da sempre.
22 Il suono molesto della sveglia mi riportò nella camera da letto, abbracciato alla mia cecità , inseparabile compagna di un’esistenza tutta da vivere. Fine anteprima. Continua... Disponibile anche in ebook a 3,99 euro da marzo-aprile 2014