Racconti intorno al fuoco

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In uscita il 29/7/2014 (15,00 euro) Versione ebook in uscita tra fine agosto e inizio settembre 2014

(i racconti verranno pubblicati singolarmente)

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TOMMASO SGUANCI

RACCONTI INTORNO AL FUOCO

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RACCONTI INTORNO AL FUOCO

Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-752-0 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Luglio 2014 Stampato da Logo srl

Borgoricco – Padova


A MARIO SGUANCI, MIO PADRE A Gianvittorio Cappelletto, mio maestro



LA FONTE DELL’AMORE



7

Accadde che un giovane monaco Zen si recò dal suo maestro e gli chiese: «Che cos’è l’amore?». Il maestro rispose: «L’amore è come l’acqua». Il discepolo, per cercare di capire le sue parole, decise di andare in cerca di una fonte. Giunto nel villaggio più vicino vide l’aridità in cui viveva e ne chiese il motivo a un passante. Questi gli disse: «Sono ormai trascorse diverse generazioni da quando i signori di qua, che vivono su quel colle, costruirono una diga per raccogliere l’acqua del fiume e servirsene a loro comodo. Il nostro villaggio è ricco di pozzi, ma ormai si sono prosciugati quasi tutti. Si vede ancora il letto del fiume, asciutto e pieno di piante avvizzite, che passa nel mezzo del villaggio». Il monaco benedisse il buonuomo e decise di recarsi dal signore del luogo con l’intenzione di chiedergli ospitalità per un giorno, e di poter usare la sua acqua. Giunto che fu in cima all’erto colle, gli si parò davanti un grande altipiano rigoglioso di boschi, circondato da solide mura. Si sentiva l’acqua scorrere vivacemente e gli uccelli cantare. Sembrava incredibile che in una regione così arida potesse esistere un tale paradiso. Avvicinatosi al cancello della reggia, chiese ospitalità per il giorno. Il signore del luogo era un tipo molto riservato che non amava gli stranieri e i mendicanti. Una volta, molti anni addietro, si era presentato un monaco chiedendo ospitalità e suo nonno, che era signore all’epoca, l’aveva cacciato malamente. Il monaco non era altro che uno dei Bodhisattva del cielo orientale che lo aveva voluto mettere alla prova. Dopo che era stato cacciato, il Bodhisattva aveva punito suo nonno causandogli una grave malattia. Da allora i monaci furono sempre accolti, più per paura che per devozione. Così fecero entrare anche il giovane discepolo Zen.


8 Il signore lo ricevette personalmente e gli fece fare il giro della sua tenuta, dopo avergli presentato la famiglia. Il monaco chiese di potersi lavare al fiume, secondo l’usanza della sua scuola, e di raccogliersi in meditazione lungo le sue sponde. Il signore acconsentì e lo lasciò solo. Il giovane si lavò felicemente nell’acqua fresca (ne aveva bisogno, dopo il lungo viaggio) e scoprì la sua capacità di pulire, di rinfrescare, rendendo tono alle membra stanche. Facendosi scorrere l’acqua addosso sentì la sua energia penetrare nel corpo. Bevve di gusto, perché la sua gola era riarsa da molto tempo. Come se fosse la prima volta, si accorse di quanto fosse buona e dissetante l’acqua. Quando scendeva all’interno del suo corpo, sentiva che lo puliva. Uscito dal fiume, si asciugò al sole, disteso sull’erba. Guardando il bosco rigoglioso si stupì dell’incredibile capacità dell’acqua di dare vita. Rivestitosi, seguì il corso del fiume e vide che si raccoglieva tutto in una grandissima cisterna. Prese la sua borraccia (una zucca vuota) e la riempì. Gli venne da sorridere nel vedere la differenza fra il suo piccolo contenitore e la cisterna: l’acqua sapeva adattarsi magicamente alle situazioni. Dal serbatoio si dipartivano diversi canali per l’irrigazione dei campi e alcuni si dirigevano verso un giardino abbondante di giochi d’acqua. Il monaco rimase affascinato dalle forme incredibili che questo elemento poteva creare. Ma presto si stancò di tutto quel saltare di schizzi: gli sembrava così inutile, in confronto alle altre doti dell’acqua! Visto che il sole era ancora alto nel cielo, il giovane decise di meditare lungo il fiume. Il canto dell’acqua che scorreva lo cullava, portandolo rapidamente in profondità. Prima di partirsi da quel luogo volle ripagare l’ospitalità del signore, secondo l’insegnamento del suo maestro. Dato che una delle nipoti del padrone era malata di una febbre che non voleva andarsene, avendo visto nel bosco delle erbe medicinali, decise di guarirla. Con le erbe fece un impiastro che applicò sul petto della piccola, la quale respirava a fatica. In poco tempo il respiro si fece calmo e profondo e la piccola si assopì beata. Il signore non riusciva a smettere di ringraziarlo e lo invitò a tornare ogni volta che avesse voluto. Il giovane salutò, rifiutando i doni del signore, e tornò al villaggio. Vi arrivò che il sole stava tramontando. Gli era tornata sete a causa del lungo camminare e si attaccò alla sua borraccia. Che bello sentire l’acqua scorrere lungo la gola secca! Non si era mai reso conto di quanto fosse preziosa l’acqua. D’un tratto vide un bambino guardarlo


9 con occhi pieni di desiderio: il monaco capì subito che aveva sete. Dette la sua borraccia al piccolo che bevve avidamente. Questi, una volta dissetato, ringraziò il monaco senza parlare e corse via felice. Così il monaco capì l’ultima qualità dell’acqua: di poter essere donata a chi non ne ha. Quando tornò dal maestro, questi gli chiese: «Cosa hai imparato?». Il discepolo rispose: «Che l’amore lava e purifica, anche nel profondo del nostro essere, che ristora e dà energia, che disseta e rinfresca l’anima inaridita, che dà vita, che sa adattarsi a ogni situazione, che il suo canto porta in profondità aiutando la mente a svuotarsi. Ho scoperto che se lo si usa per giocare diventa noioso e inutile, sprecato. Ma le sue capacità le tira fuori maggiormente quando viene donato a chi non ne ha». Il maestro sorrise e disse: «Molto bene! Hai capito. Adesso va e metti in pratica ciò che hai imparato». Il giovane gli chiese un consiglio e il maestro gli rispose: «Non sobbarcarti di pesi al di là delle tue forze». Il discepolo ringraziò e partì. Ripercorse tutta la strada fino alla tenuta del signore, padrone dell’acqua. Questi lo ospitò volentieri, ormai lo riteneva un amico di famiglia. Il monaco gli chiese, in virtù della loro amicizia, di aprire la diga che contiene il fiume per permettere alla gente del villaggio di dissetarsi, irrigare i campi, pescare; in definitiva di vivere. Ma il signore disse che non poteva: quella diga era un’antica costruzione fatta dai suoi avi: era l’orgoglio della famiglia, costruita perché la tenuta era rimasta senz’acqua mentre il villaggio era ricco di pozzi. A niente servì spiegare al signore che i pozzi al villaggio erano prosciugati e che la gente pativa la sete. Sotto le insistenze del monaco, il ricco padrone accettò che il giovane potesse portare via ogni giorno tanta acqua quanta poteva caricarsene in spalla, per ogni viaggio. Fu così che cominciò la sua missione. Tutte le mattine riempiva delle borracce d’acqua e le portava al villaggio. Gli abitanti accorrevano per potersi conquistare almeno un sorso d’acqua. Molti lo ringraziavano per il suo operato, ma tanti di più pativano ancora la sete. Il monaco ci mise tutto se stesso compiendo più viaggi al giorno, sotto il peso dell’acqua. Ma la strada era lunga e faticosa. Quando era esausto, si fermava nella


10 tenuta del signore a ristorarsi nel fiume. Quando il corpo si adattò allo sforzo, costruì un grosso otre che poteva portare sulle spalle, così da far arrivare più acqua al villaggio che non con le zucche vuote. Dopo qualche mese, distrutto dal suo lavoro, tornò dal maestro e gli disse: «Faccio la spola ogni giorno e porto l’acqua al villaggio, ma non tutti riescono a bere, l’acqua è ancora troppo poca. Di più di così non riesco proprio a fare. Se radunassi tutti gli abitanti del villaggio per andare dal signore, prendere la sua acqua e distribuirla a tutti?». Il maestro rimase in silenzio per un po’, poi rispose: «L’amore non si può possedere, ma solo portare». Il discepolo rimase colpito dalla risposta e con nuovo entusiasmo si lanciò nella sua missione. I suoi viaggi divennero ancora più frequenti, tanto che il suo fisico s’irrobustì decisamente. Ciò che lo spingeva avanti era il sorriso delle persone che grazie al suo sforzo riuscivano a bere. Anche se a molti non toccava l’acqua, si mise il cuore in pace perché lui dava il suo massimo e più di così non poteva fare. “Non si può aiutare tutti” si ripeteva ogni tanto. Eppure dopo un po’ un tarlo cominciò a rodergli la testa. “Io porto l’acqua alle persone, l’amore è come l’acqua, quindi porto l’amore. Possibile che non si possa amare tutti? Eppure con le mie forze non riesco a farlo. Ma dev’esserci un modo”. Tornò così dal suo maestro e gli confessò le sue pene: «Se l’amore ha tutte queste qualità perché non si può darlo a tutti?». Il maestro rispose sorridendo: «Certo che si può!». Il discepolo ribatté: «E come si fa?». Il maestro rispose: «Non si fa, si lascia fare». Il giovane rimase in silenzio, cercando di capire. Poi chiese: «L’acqua non va da sola dal colle al villaggio!». Rispose il maestro: «Ma solo perché c’è una diga nel mezzo!». Il discepolo capì sempre di meno e disse: «Ma non posso abbatterla!». Il maestro disse:


11 «Nessuno te l’ha chiesto. Chi è che porta l’acqua dal colle al villaggio?». Il giovane rispose: «Io». Il maestro esclamò: «È quello il problema! L’”Io”! Finché non diventerai tu l’amore non potrai amare tutti. Non limitarti a portare l’amore, sii l’amore». Il monaco partì alla volta della diga. Il signore lo ospitò come sempre. Il giovane chiese di poter far un bagno nella cisterna per contemplare l’acqua e la vita che vi era dentro. Il signore acconsentì. Il monaco si spogliò e lentamente entrò nell’acqua. Riprovò tutte le sensazioni che lo avevano accompagnato la prima volta che era giunto lì. Si avviò al largo e mirò i pesci che nuotavano con lui. “Essere amore…” si ripeteva nella testa. Provò a imitare i pesci: vivendo nell’acqua erano gli esseri più vicini a quell’elemento. Poi vide delle alghe in basso e s’immerse per guardarle meglio: in che modo poteva essere come loro? Guardò verso la superficie e vide la luce filtrare nell’acqua. Tornò a galla e si disse: “Non devo essere come loro. Vivono nell’amore, vivono di amore, ma non sono l’amore. L’amore è trasparente, fa passare la luce”. Un luccichio attrasse il suo sguardo: veniva dalla profondità lontana, verso il muro della diga. Prese aria e s’immerse. Seguì il bagliore e arrivò a ridosso della parete della diga, sul fondo. C’era una leva di metallo che chiudeva una grossa saracinesca. La smosse, usando tutte le sue forze. La leva scattò e la saracinesca si aprì. L’acqua cominciò a uscire, trascinando tutto con sé. Il monaco tentò di risalire verso l’alto, ma invano: il risucchio era troppo forte. Fu inghiottito e spinto fuori dall’apertura. La leva stessa si spezzò, e con lei la saracinesca. La diga cominciò a crepare fino a spaccarsi in due, tanta era la forza dell’acqua. Il monaco si trovò nel vecchio letto del fiume che scendeva al villaggio: stava tornando a riempirsi d’acqua. Il giovane era in balia della corrente, che lo trascinava sbattendolo ovunque. Ma finalmente aveva capito: solo se scorre l’acqua purifica, ristora, rinfresca, dà vita e non è inutile; solo se scorre è dono per tutti. Così l’amore: se lo teniamo chiuso in noi non agisce, non purifica, non dà vita, non ci fa crescere. L’amore è inesauribile, come l’acqua che viene dal cielo: più lo facciamo scorrere senza bloccarlo (tenendolo solo per noi e appesantendoci), più l’amore si espande, arricchendo tutti, anche noi


12 che lo diamo. Più l’amore scorre, più ce n’è. Fu l’ultima consapevolezza del monaco prima di lasciare il mondo: allora si sentì egli stesso fiume, si sentì parte visibile dell’infinito amore invisibile, che scorre in eterno. Il suo corpo non fu mai ritrovato. Da quel giorno l’acqua non mancò affatto al villaggio, che divenne florido e rigoglioso di alberi. Anche nei periodi di siccità, il fiume non calò mai. La sua acqua fu ritenuta miracolosa: curò più di una malattia. Tutti al villaggio capirono di dover ringraziare il giovane monaco. Lo sentivano presente nel fiume. Li proteggeva e si rivolgevano a lui per ogni bisogno. Gli abitanti battezzarono il corso d'acqua con il nome di fonte dell’amore.


IL SETTIMO GIORNO



111

Sono giorni ormai che sono rinchiuso qua dentro. Con poche speranze di essere trovato. A volte essere nel posto sbagliato al momento sbagliato può diventare fatale. E tutto per una bottiglia di vino! Chissà gli altri. Saranno vivi? Giulia, la mia dolce mogliettina? Alla fine a me è andata bene... finora. Ma non ce la faccio più! L'aria è pesante e respiro a fatica. È buio da così tanto che non ricordo di aver mai visto la luce. Posso solo immaginare ciò che ho intorno toccandolo con le mie dite indurite dal freddo. Credo di impazzire. Parlo da solo, a voce alta. Canto a squarciagola. Passo il tempo in qualche modo. A volte mi agito, provo a scavare con le mani... ma in quale direzione? Per fortuna la cantina ha una riserva di bottiglie d'acqua minerale. Oltre al vino. Così riesco a sopravvivere. Ma niente da mettere sotto i denti. Ho lo stomaco così piccolo che non credo di poter ricominciare a mangiare. Ma tanto non ho fame. Quando mi addormento sogno quel fatidico momento. Mi vedo scendere le scale, infilare le chiavi nella toppa. Entro, cerco il vino migliore. Poi un forte boato, tutto trema e cade. La luce se ne va, qualcosa si rovescia su di me. Il terrore doma il mio corpo scuotendolo fino alle ossa. Poi perdo i sensi. Ogni volta mi sveglio di soprassalto, tremando di freddo e di paura, sotto il tavolo da lavoro. Ho urlato per ore, fino a perdere la voce. Ma nessuno mi ha sentito. Perché non sono morto? Così la facevo finita subito. Invece questa agonia eterna... Non si sa per quale insondabile motivo la mia cantina sia rimasta quasi intera. Quasi. Posso con la memoria ricostruire la stanza in cui sono. L'altra è però inaccessibile. Non c'è più la porta d'ingresso, solo un muro di macerie. Chissà il palazzo sopra di me in che condizioni è. Se fosse crollato tutto, non mi troveranno mai.


112 Mi diletto a inventare poesie, alcune davvero belle. Canto canzoni nuove, che nessuno però sentirà. Se avessi carta, penna e luce scriverei tutta la mia vita. Da sempre ho avuto questo desiderio, ma mai il coraggio e la forza per seguirlo. Adesso la vedo nitidamente davanti a me. La sento accanto, come un dolce abbraccio. La corteggio coccolandola, la mia piccola vita insignificante eppure così importante. Le scosse non sono mai smesse, dalla catastrofe. Nessuna pericolosa, ma il loro ondeggiare mi ricorda con terrore la mia sorte. Non ci si abitua al sussulto della terra, con i suoi tremiti improvvisi. È come dovessi rivivere il parto, rinchiuso sotto terra, spinto da contrazioni spasmodiche a uscire, ma troppo terrorizzato dalla vita per farlo. Rischio davvero di rimanere un aborto, un uomo deforme, mai realizzato. Piango, aggrappato alle gambe di legno del tavolo. Che disdetta morire così! Neanche la soddisfazione di un bardo che canti le mie piccole glorie ai posteri. Uno dei motivi per cui non ho mai scritto un diario è perché non riuscivo a riportare su carta i pensieri che la mia mente partoriva, accompagnati da quelle intense e rinfrescanti emozioni. Certi pensieri erano così belli che mi scuotevano nel profondo, commuovendomi. Ma se provavo a registrarli finivano in una bolla di sapone. È proprio un peccato. Nessuno saprà di quando riuscii a scalare il Monte Tacco da solo! Che esperienza! Lo zaino mi segnava le spalle col suo peso, l'aria pungeva e il sentiero era costellato di bellissime viole. C'era una pace, un silenzio mistico. Sembrava che la natura stessa fosse timorosa di romperlo. Un capriolo fuggì al mio passaggio, per nascondersi dietro i tronchi e studiarmi curioso. Minuti interi a guardarlo col mio monocolo tascabile... e a ringraziarlo. Quando giunsi in cima mi sentivo così pieno e in pace che non mi sembrava vero. Misi la tenda sotto tre querce e finché resistetti al freddo rimasi a mirare l'incredibile spettacolo delle stelle. Non le avevo mai viste così nitide è scintillanti. Sirio, poi, sembrava un diamante da quanto era splendente. Pareva sbalzare dal cielo, quasi si poteva toccare. Fu una notte unica e mi risvegliai insieme al Monte. Ero l'unico essere umano e ne godevo appieno. Mi incamminai verso un torrente e mi immersi. Nudo, come uscito dal ventre materno. L'acqua ghiaccia


113 mi scaricava fiotti di energia lungo la schiena. Che vibrante sensazione! Dopo un'abbondante colazione esplorai il boschetto di querce e incontrai una cerva meravigliosa. Che regali! Tornando infine a casa mi traversò la via un giovane tasso. Non seppi mai trasmettere ai miei amici quelle splendide emozioni. Che presto moriranno con me... Non sono certo un eroe, ma di lotte ne ho fatte tante. Anche molti errori, ma se si vuol crescere con coraggio sono necessari. Sopportare il tradimento del mio caro amico e socio di lavoro è stata forse l'impresa più dura. Chi l'avrebbe mai detto che la persona con cui hai condiviso la vita sin dall'infanzia se ne andasse con tutti i clienti della vostra società tagliandoti fuori e facendoti rischiare il carcere? Per cosa poi? Per guadagnare due lire in più, spinto da quella arpia di moglie che non mi ha mai sopportato? Quanto ci stetti male. Ancora mi vengono i dolori di stomaco a pensarci. Io come un ingenuo accettai un lavoro a mio nome, invece che a nome della società. Mi aveva detto che era per semplificare le cose. Sì. A lui, per mandarmi via. Mi misero agli arresti domiciliari per un anno. Fu un colpo tale che mi ammalai gravemente. Se non ci fosse stata Giulia sarei finito da qualche psichiatra. Magari dal dottor Cucciollo, suo padre. Eppure adesso non lo odio più, dopo anni di rancore nero da bruciarti il fegato. Non mi fa neanche pena, solo sorridere. Un sorriso amaro. Per la sua vita. Un sorriso che non mi fa male. Una sorta di compassione. Mia moglie ha speso tante energie per tirarmi su. Credo che anche lei sia rimasta segnata. Da me però. Per quanto mi abbia aiutato, non mi ha capito proprio fino in fondo. Ma come darle torto, l'ho forse capita io? Può forse un uomo capirne un altro in pienezza? Non lo credo più. E tutto quello di noi che non è capito e alberga nel nostro cuore, dove finirà? Sento l'aria bruciarmi i polmoni e la gola. Si vede che le vie per cui riusciva a entrare si sono chiuse. La fine è vicina. Una lacrima amara solca la mia guancia. I miei pensieri, i miei preziosi pensieri! Le mie emozioni! Quella poesia che da ragazzo dedicai alla bella Laura. La nuotata a mezzanotte in Sardegna, tutto nudo. Le ispirazioni per i miei racconti. Le mie canzoni strampalate! L'emozione che mi riempie il


114 cuore e la pancia ogni volta che compro un regalo a mia moglie. Le chiacchierate filosofiche con mio fratello. Le notti d'amore con Giulia. Dove sta andando tutto questo? Come vorrei che un uomo invisibile, un angelo scrivano, annotasse tutti i momenti importanti della mia vita, e li cantasse per tutta la terra. Che nessuno scordi mai le gesta del felice Fabio! Ce ne dovrebbe essere uno per ogni persona, che lotta e soffre di gioia sulla terra. Tutti abbiamo un tesoro nel cuore, ma questo rimane nascosto e viene sepolto con noi. Se almeno alla morte si potesse liberare in cielo come un grido o un canto potente! Chi l'ascoltasse continuerebbe a farlo vivere, e noi con esso. Sudo, affannato, raspo le macerie. Mi sento mancare... Sono passati sette giorni ormai da quando il terremoto ha distrutto la città di Telina, in Lucciardia. Le vittime ammontano a un migliaio, ma se ne stimano altrettante sotto le macerie. Le forze dell'ordine, i pompieri e la protezione civile lavorano febbrilmente da giorni. Vari campi sono stati montati nelle zone lontane dalla catastrofe, dove però le scosse si fanno ancora sentire. Oltre a svariate abitazioni, sono stati colpiti tutti gli edifici del centro come il municipio, la biblioteca, il museo d'arte contemporanea e l'ospedale. Sebbene per i primi tre giorni non siano emersi che cadaveri, dal quarto sono stati trovati dei sopravvissuti, alcuni anche in discrete condizioni. Con il grande afflusso di volontari si spera in una rapida azione di ricerca e recupero di altri sopravvissuti. Per adesso è tutto, a voi la linea. Il Vecchio della Montagna Vagante ripose la penna nel calamaio. Stirò le dita delle mani e sospirò. Gettò un ultimo sguardo sulla pergamena. Poi la arrotolò con cura, la mise in una custodia di cuoio, e la ripose in uno scaffale, in uno scomparto separato. Sopra lo scomparto una targhetta d'argento diceva: Fabio Natali. Accanto si poteva leggere: Giulia Cucciollo. Tale scomparto era già pieno e la pergamena in attesa di essere letta alla Corte dei Saggi dei Cento Picchi e poi cantata nella Valle dei Venti. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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