Daniele Cavagna
Scarface una storia violenta
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SCARFACE, UNA STORIA VIOLENTA Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2010 Daniele Cavagna ISBN: 978-88-6307-290-7 In copertina: immagine Shutterstock.com
Finito di stampare nel mese di Giugno 2010 da Digital Print Segrate - Milano
Prefazione dell’autore
“Scarface, una storia violenta” è un grido di aiuto di un ragazzino che, non per colpa sua, si trova in balia di un mondo che non sa crescere i propri figli. Il linguaggio, i temi, le situazioni narrate sono la rappresentazione realistica di una società che è nel suo complesso, dai vertici alla base, debole, pavida e incapace di autogestirsi. Le vittime, che diventeranno a loro volta carnefici, sono i bambini. Nell’era di internet, del mondo globale, del tutto subito, non si è più capaci di educare i propri figli. Non si sa più creare una famiglia stabile, non si è più capaci di soffrire, di agire, di reagire. Salvo eccezioni, naturalmente. Mi piacerebbe che il mio libro fosse un punto d’innesco per un percorso personale di riflessione. Proviamo a riflettere un po’ di più sulle conseguenze delle nostre azioni e delle nostre non azioni. Forse questo migliorerà la nostra vita e, insieme, la vita di tutti. Daniele Cavagna Oltre il Colle Giugno 2010
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1 Scarface
Il ragazzino lasciò il marciapiede dissestato e sporco sul quale tutti gli altri stavano muovendo i loro passi elettrici e allucinati. Si accinse ad attraversare il parco, anch’esso squallido e sporco, dentro al quale svettavano quattro alberi spogli che non avrebbero avuto più nemmeno l’orgoglio di opporsi con forza al rumoroso e devastante taglio di una motosega. Si sarebbe detto che ognuno di quegli alberi non solo meritasse, ma avesse addirittura il diritto di essere abbattuto per tornare almeno, in qualche umile modo, utile. Sotto la sovranità di quei principi senza gloria versavano ancora pochi fedeli sudditi raggruppati in famigliole di fili d’erba ingiallita. Altrove l’unico vero tiranno era il marrone di una madre terra capricciosa ed esigente che per fiorire avrebbe avuto bisogno di attenzioni. La direzione era quella di casa. L’ometto avrebbe dovuto oltrepassare la desolazione buia del parco, prima di calpestare l’asfalto della Quinta strada. Da lì avrebbe potuto incunearsi nel canyon di cemento che si stagliava a poche centinaia di metri dai suoi occhi. Quella gola che, per qualche scherzo del destino, aveva un nome alquanto insolito e rassicurante. Un nome dedicato da una sudicia, enorme, città alla memoria di un qualche scrittore dimenticato. Un intento nobile e fallito, poiché il ricordo dell’artista era già da tempo esclusivo patrimonio della targa arrugginita appesa all’inizio del via. VIALE DEI PENSIERI luogo prediletto dallo scrittore Luciano Fontana per “riflettere e filosofeggiare”. Il Viale dei Pensieri poteva in qualche modo considerarsi l’equivalente del veneziano Ponte dei Sospiri che conserva questo romantico e malinconico nome per via del luogo, che niente aveva di romantico, al quale conduceva in passato. “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate“, avrebbe piuttosto dovuto recitare quella targa.
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E chi avesse percorso il Viale dei Pensieri avrebbe avuto questa sensazione in cuor suo, questa frase nella testa. “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate”. Non esiste nessun ragionevole dubbio per credere il contrario. Si trattava di un chilometro e mezzo di asfalto, con buche sparse un po’ovunque, al quale facevano da degne sponde un’infinità di scritte incomprensibili. Si potevano intuire, delle metropolitane “opere d’arte”, soltanto le parti oscene, degnamente rappresentate dai loro idioti pittori. E dietro alle scritte si stagliavano alti palazzi simili gli uni agli altri, con freddi serramenti ferrosi. Un’infinità di tende bianco marcio, illuminate da lampadine volgarmente appese ai soffitti, tentavano di celare l’esistenza di altrettanto marce vite che scorrevano lentamente in quella gola ventosa apertasi, chissà come e chissà perché, nel cuore di una delle più grandi città del paese. Ai bordi della nera striscia d’asfalto sostavano lunghe file di auto vecchie e trasandate intercalate da motorini pieni di polvere. In alcuni punti il luccichio di qualche Mercedes o di alcune Bmw, parcheggiate in bella mostra a denunciare la presenza dei loro padroni malavitosi, sembrava poter forare la pesantezza del degrado. Ma il tutto si riduceva a una misera illusione quando, alzando lo sguardo dalla vernice metallizzata, ci si trovava a mirare i cornicioni che minacciavano pioggia di intonaci e le arrugginite scale antincendio, senz’altro più pericolose e pericolanti di un edificio in fiamme. Tra le auto e i palazzi, immerse nella semi oscurità dei marciapiedi ormai compromessi dal lavoro inesorabile del tempo, muovevano i loro passi felpati, mimetizzandosi tra i cassonetti stracolmi di immondizie, gli unici esseri grazie ai quali qualcuno conosceva ancora il Viale dei Pensieri. Un luogo dove o andavi per rimediare una puttana, oppure per stare da solo con te stesso, sederti in un angolo più buio della tua anima e ficcarti in vena un ago con una dose di falsa, impalpabile e irreale temerarietà, stupida e insensata quanto l’esistenza di quel luogo maledetto. Il ragazzino che prese ad attraversare il parco, in quel viale, ci era cresciuto. Vi aveva vissuto molte di quelle ore e di quei giorni che l’avevano reso quello che era. Non c’è possibilità di scelta, purtroppo. Ognuno di noi si porta appresso il proprio passato, ciò che gli è stato insegnato e quello che nessuno mai ha avuto la premura di spiegargli. E il piccoletto aveva avuto per educatori dei protettori pieni di idee anarchiche, di disprezzo per le regole e pieni, non ultimo, delle più svariate
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qualità di stupefacenti. Aveva ricevuto rimproveri che si riducevano, generalmente, a un “Togliti dalle palle e lasciaci lavorare in pace!”. Aveva visto sfilare centinaia di prostitute diverse, quasi che il Viale dei Pensieri fosse una dogana del sesso dalla quale dovevano transitare tutte le aspiranti lavoratrici. Qualcuna di loro si era affezionata a quel ragazzino che camminava tutti i giorni per strada e aveva avuto la sensibilità, tipicamente femminile, di provare ad aiutarlo a crescere. Qualcuna gli chiedeva della scuola, qualcun’altra si interessava semplicemente di parlare un po’con lui. Altre, invece, gli accarezzavano i capelli al suo passaggio. Ma la loro permanenza nel viale era sempre troppo breve per poter permettere a una donna, seppur con tutta la buona volontà, di instaurare un rapporto veramente materno con il piccolo. Così, anche per lui come per ognuno di noi, non c’era stato scampo, aveva dovuto arrendersi al tempo e crescere, volente o nolente. Per il piccoletto, passare le ore su quella lunga striscia d’asfalto, sassi e cemento era diventata la normalità. E’strano come le persone, soprattutto i bambini, abbiano la capacità e il bisogno di abituarsi a qualsiasi cosa. Sono poche, a questo mondo, le cose a cui non si tende ad assuefarsi. I suoi amici non lo andavano quasi mai a trovare nel viale, era lui ad andare da loro. Non perché si vergognasse di vivere in quel posto. Semplicemente gli piaceva di più viverlo da sé. Forse perché era in quel modo che l’aveva sempre vissuto, da sé. Quando gli andava di starsene da solo si sedeva in qualche angolo un po’riparato del marciapiede sotto casa, infilava le cuffie del lettore nelle orecchie e si lasciava scivolare addosso le ore. E quando lasciava la compagnia dei ragazzi imboccava, sempre da solo con la sua ombra, le mani nelle tasche vuote e desolate, la strada di casa. E lungo il viale camminava a testa bassa, il più delle volte pensando alle ville dei ricchi ai piedi dei colli che spesso andava a spiare con gli altri, con le piscine coperte, i portici ad arco con le colonne di marmo in stile classico e le infinite scalinate d’ingresso. E così andò anche quella volta. Scavalcò la vecchia staccionata del parco che aveva visto marcire crescendo. Infilò le mani nel vuoto scoraggiante delle tasche del giubbino strappato di jeans e allungò il passo con la mente esaltata ed eccitata per via di ciò che era accaduto quella sera. Per via di ciò che aveva visto e imparato quella sera. Dopo quella lezione la sua vita non sarebbe stata più la stessa, ne era convinto. E for-
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se, purtroppo, aveva pure ragione. I suoi amici continuarono a camminare imperturbabili, come morti viventi nel loro lento ma inesorabile deambulare, quasi senza badare al tipetto vestito da ganzo con i vestiti strappati e il ciuffo ribelle sulla fronte che era uscito dal gruppo. Se non si erano nemmeno accorti della scissione del gruppo un motivo c’era. Stavano fumando l’impossibile, bruciandosi con piacere e soddisfazione le poche possibilità di rivalsa sul mondo che dei ragazzi disagiati come loro avevano a disposizione. Parlottavano con calma, farneticando su ragazze e macchine sportive che avrebbero comprato spacciando droga o rapinando banche, era lo stesso. L’importante era non cadere nel disonore di un lavoro onesto. Su questo come su poche altre cose, erano tutti d’accordo. «Rommy, sei un grandissimo stronzo!» urlò con una voce stanca e indispettita, senza preavviso, il più grande del gruppetto formato da sei o sette piccoli bulli che già si portavano appresso, come un pesante bagaglio d’esperienza, tutti i peggiori difetti degli adulti. Rommy, senza voltarsi verso quella voce da sonno indotto da canna, sorrise orgoglioso. «Che ci vuoi fare con tutta quell’erba? Torna qua, andiamo!» continuò il tipo dall’altra parte del parco, circondato dai suoi amici irritati e barcollanti sulle gambe instabili. «Vai al diavolo Tuco!» rispose Rommy con il sorriso fiero ancora pennellato sulle labbra. Dopo di che si girò verso il gruppo e cominciò a camminare all’indietro per guardare gli altri, intorno a Tuco, che dal loro mondo fatato non avevano ancora compreso appieno la situazione. Il ragazzino ululò una risata, troppo fragorosa per essere vera, che trasformò il parco triste in un viluppo spettrale. «Se vuoi questa roba devi venire a sfilarmela da sotto il culo!» proseguì Rommy dopo un istante di quiete. Gli storditi dall’altra parte della staccionata si presero alcuni attimi per ingoiare e digerire la cosa. Si guardarono l’un l’altro. Tuco si arrese alla decisione che tutti avevano già preso senza bisogno di riflettere. Decisero, svogliati, che Rommy avrebbe potuto andarsene al diavolo con tutta la roba che aveva addosso. «Fatti beccare e ti spacco la faccia, Rommy!» sbraitò Tuco, ormai rassegnato, giusto per dimostrare che l’ultima parola sarebbe stata la sua. «E’più al sicuro con me che con voi tutti rincoglioniti messi insieme!» rispose il ragazzino dal buio ventre di quel grosso fantasma di erba, alberi rinsecchiti e giochi arrugginiti. Anche lui aveva dentro di sé
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l’orgoglio sufficiente per voler essere l’ultimo a parlare. A tredici anni, Rommy, aveva già troppi guai alle spalle per aver paura di provocare un tipo come Tuco. Rommy non sembrava uno come gli altri, a dire il vero. Aveva la faccia pulita, una faccia da bambino con le labbra ben disegnate che se guardavi bene ti sembravano ancora sporche di latte, e dei capelli neri perennemente arruffati che gli cadevano sopra gli occhi e gli donavano un’aria innocente e spensierata. Non era molto alto per la sua età, era nella norma, ma la sua altezza si sostentava su due gambine un po’ troppo sottili. Solo gli occhi tradivano la sua vera essenza. ”Gli occhi, Chico, non mentono mai”. 1 O forse era il contrario, forse era tutto il resto che narrava di lui in modo onesto, mentre gli occhi erano stati piegati e plasmati da una vita non sua, che lui stava vivendo per conto o per colpa di qualcun altro. Un’ingiusta pena impartita a un imputato innocente. Il fatto è che aveva due piccoli occhi scuri di cui non si riusciva mai a raggiungere il fondo. Non furbi e nemmeno cattivi. Rommy non era cattivo, anzi, disprezzava i suoi amici quando se la prendevano con quelli più piccoli e li menavano per passare il tempo. Non era un bullo. Soltanto, aveva un paio di occhi inespressivi, quasi fossero una maschera. Due biglie che servivano a nascondere un piccolo mondo fatto di frivole speranze. Dopo aver pronunciato le ultime parole si voltò nuovamente verso quell’inferno del Viale dei Pensieri e camminò fiero, sperando che i suoi compari lo stessero osservando e vedessero il suo incedere fermo e sicuro. Ma sapeva di trovarsi nel cono d’ombra di quegli occhi annebbiati dalla marijuana che non potevano e non sapevano osservarlo. Lui e Tuco stavano scherzando. Non era un litigio vero, si trattava di finte provocazioni e di falsi insulti. Come due piccoli tigrotti che si azzuffano per gioco. Per qualche grammo di fumo non si sarebbero scannati, anche se con certa gente non c’era mai da scommetterci. Ma era importante dimostrare comunque che non aveva paura di loro. Non aveva paura di niente in realtà, perché sulla strada, e in quella strada in particolare, chi aveva paura, era perduto. E lui lo sapeva. Quella sera il film era durato quasi tre ore. I suoi compari si erano annoiati a morte per buona parte della proiezione. Rommy, invece, ne era 1
Citazione dal film “Scarface” di Brian de Palma, 1983
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rimasto molto colpito. E ora che percorreva la strada di casa era gasato e carico per ciò che aveva visto sullo schermo lucido del vecchio televisore. Certamente lo era molto più di quando Tuco li costringeva a vedere quei maledetti western che piacevano soltanto a lui, oppure quei suoi dannati porno che nascondeva in soffitta e che non eccitavano più nemmeno un cane tanto erano stati spolpati, scrutati e sfruttati. Lui, in quelle storie di pistoleri polverosi o di poliziotte propense al sesso promiscuo non trovava nulla di buono. Che senso aveva ammazzare un sacco di indiani per una ferrovia? Oppure vagare nel deserto in cerca di un tesoro che magari non esisteva neppure? Tuco, invece, le adorava a tal punto che aveva scelto di farsi chiamare come uno di quei pistoleri. Il suo film preferito era “Il buono il brutto e il cattivo”. Tuco, in quel film, era il brutto e questa era l’unica cosa che andava a genio anche a Rommy. Le battone che a quell’ora della sera affollavano il marciapiede del viale, vedendolo passare, lo salutavano distrattamente come fosse un abituale cliente. Qualcuna si degnava di regalargli un sorriso compassionevole. Una ragazza alta, con i capelli biondi, che non doveva avere più di venticinque anni gli passò una mano nei capelli. Si chiamava Romina ed era arrivata meno di un mese prima dalla Polonia. Era molto sensibile e carina, aveva l’aspetto di una ragazza dolce e sembrava spaesata in quell’ambiente vestita, o svestita, a quel modo. Rommy ne aveva incontrate altre come lei, prima d’allora. Donne buone che si affezionavano a lui e, in qualche modo, gli rendevano meno gravoso il vivere in mezzo a loro. Gli facevano sentire, quantomeno, di non essere invisibile. Rommy rispondeva alle piccole attenzioni di tutte quelle prigioniere con poche parole appena accennate e con sguardi carichi di desiderio. Alla sua età un bambino avrebbe meritato dei pensieri diversi. Ma lui aveva perso da un pezzo la pura innocenza e l’ingenuità che il “telefono azzurro” pretendeva di garantirgli. Non era che un sasso su un pendio in balia del passo distratto degli scalatori. A nessuno importava quello che meritava o quello a cui aveva diritto. Bastava un niente e lui precipitava un altro po’, perdendo ogni volta la spensieratezza che si accompagna all’inesperienza. Sapeva bene cosa ci facevano quelle donne mezze nude e ammiccanti per strada. Aprì il portone e percorse i quattro piani di scale con calma, come se dovesse ambientarsi, come un alpinista che prepara l’assalto finale alla vetta. L’ascensore non funzionava ormai da due anni e l’unico motivo
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per cui Rommy ne rammentava l’esistenza era il fatto che ogni volta, passando vicino alla cabina sospesa in mezzo alle scale, si sentiva osservato. Nemmeno lui sapeva bene se da qualcuno all’interno del vano o dall’ascensore stesso, che in quella posizione, con il corrimano della scala che lo tagliava obliquamente in due parti, gli appariva come il perfido ghigno di una creatura soprannaturale. Ma si sentiva osservato. Arrivò a destinazione. Si fermò qualche istante a fissare lo zerbino con la scritta beffarda “Casa dolce casa” prima di concentrarsi sulla porta blindata rivestita in simil-noce. Di nuovo attese alcuni secondi guardando, senza vederla, la porta, l’appartamento che vi si nascondeva dietro, il palazzo e la sua vita che lì dentro si stava lentamente spegnendo senza che lui se ne rendesse conto. Fissò distrattamente la targhetta ovale con il numero 12 che aveva visto centinaia di volte e che, ogni volta, avrebbe voluto dimenticare. Poi si decise a impugnare la maniglia e a torcerla, prima di spingere la pesante apertura che dava sul suo difficile mondo. La prima cosa che incontrò subito dopo aver varcato la soglia fu un mucchietto di vestiti da donna sparsi in disordine sul pavimento. Lo scavalcò come un cavallo ben addestrato avrebbe scavalcato un ostacolo, senza badarci troppo. Aveva imparato a non farsi più sorprendere dalle serate piccanti di suo fratello. Sil, intanto, si accorse dell’arrivo del fratello e prima di poterlo scorgere dal salotto lo salutò a modo suo: «Che cazzo ci fai a casa Rom? Ti avevo detto di far tardi, abbiamo da fare... » «Non importa Sil, ho finito» si intromise una voce maschile. Rommy, questa volta, non riuscì a rimanere indifferente. Quella voce che non si sarebbe aspettato di sentire lo incuriosì a tal punto che decise di non andare direttamente in camera sua, come faceva di solito. Oltrepassò la porta del suo piccolo regno senza degnarla di attenzione e arrivò allo stipite che separava il corridoio dal salotto. Si trovò davanti agli occhi la solita stanza che conosceva bene, con il divano di spalle e il mobiletto della tv di fronte. Il solito disordine, il solito sporco e la solita puzza di malavita. Di insolito c’era soltanto un uomo inginocchiato vicino al sofà. Indossava un vecchio camice giallognolo e stava sistemando degli attrezzi in una borsa di cuoio che aveva appoggiato sul tavolino tra la tv e il divano. Quest’ultimo era occupato da una donna di cui Rommy poteva vedere soltanto i capelli e i piedi che sporgevano dalle due estremità dell’oggetto d’arredo. Sil stava dietro all’uomo con il camice e lo guardava armeggiare
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dall’alto del suo metro e novanta. «Vattene a dormire» disse seccato, senza staccare lo sguardo dal lavoro dello sconosciuto. Rommy, invece, continuò a camminare verso il divano per vedere meglio, senza dire una parola, apparentemente sordo. Quando fu avanzato abbastanza da poter oltrepassare con lo sguardo lo schienale del divano poté scorgere, abbandonata in un sonno innaturale, la ragazza. Aveva gli occhi chiusi e la testa rivoltata all’indietro sostenuta dal morbido bracciolo. Era completamente nuda. «Ok,» strillò Sil spostandosi verso Rommy con passo minaccioso «vuoi guardare?» Lo afferrò per i neri capelli e lo trascinò dall’altra parte del sofà, vicino al tizio senza nome. «Guarda!» gli disse, spingendogli la testa a pochi centimetri dal grembo nudo e soffice della povera ragazza. Rommy cercò di nascondere al fratello il suo sconcerto. Ora che aveva aggirato il mobile su cui stava la ragazza aveva di fronte la scena in tutta la sua crudeltà. Sulle piastrelle del pavimento, ai suoi piedi, stava una chiazza di sangue con dei grumi solidi che il fantomatico dottore, evidentemente, non si era preoccupato di ripulire. Il morbido basso ventre della donna era solcato da due incisioni incrociate, lunghe circa dieci centimetri ciascuna, ricucite alla meno peggio, che la facevano assomigliare al cuscino spiegazzato di una poltrona di pelle. L’uomo con il camice sorrise nella sua bassezza morale, trovando simpatico quel rimprovero ai danni del ragazzino curioso. Dopo di che se ne andò. Il padrone di casa lo accompagnò alla porta lasciando Rommy davanti a quel macabro spettacolo. «Ora sei contento?» chiese sarcastico Sil dopo aver chiuso l’ingresso alle spalle del medico. «Vattene a dormire. E cerca di dar retta a tuo fratello la prossima volta.» Rommy si diresse verso camera sua con gli occhi duri e con il petto all’infuori nel tentativo di dimostrare la sua solida indifferenza a quella scena da film dell’orrore. Paradossalmente, proprio in quel tentativo rendeva evidente il contrario. «‘Notte Sil» disse prima di chiudersi la porta alle spalle. Fu una frase messa lì con il compito di rompere un silenzio pesante e imbarazzante. Ma come la maggior parte delle cose di questo mondo il suo significato non si riduceva alla semplice superficie, alla parte emer-
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sa. Il tono di Rommy, la sua voce, la sua espressione, erano ricchi di colori diversi e contrastanti. Dalla delusione al rimorso, dall’affetto al rimprovero, dal dolore allo sconforto. Quasi che in quel Notte Sil, il ragazzino, avesse ficcato drasticamente e a forza tutti quei pensieri che in due parole così piccole e brevi non potevano stare. La stanchezza di essere trattato come un intruso, il bisogno di sentire calore e amore, la fatica di tornare a casa tutti i giorni sapendo che ad aspettarlo avrebbe trovato un fratello simile. La difficoltà di crescere a quel modo. Ma Notte Sil fu l’unico messaggio che uscì dalle labbra del piccoletto. Messaggio che, ovviamente, Sil non recepì e non interpretò. Forse, nemmeno si preoccupò di sentirlo visto il silenzio che seguì. Non appena si fu rifugiato nella sua camera, quel piccolo mondo sicuro, Rommy cercò di spodestare dalla mente l’immagine persistente e perversa di quella nuda ragazza sventrata sul divano del salotto. Il modo migliore che trovò per raggiungere il suo obiettivo fu quello di sostituire il pensiero inquietante della donna priva di sensi con quello di gran lunga più piacevole del film che tanto l’aveva affascinato quella stessa sera. Appoggiò lo zaino sulla vecchia sedia a dondolo vicino alla finestra, eredità di un’infanzia che non aveva mai avuto, e smise la maglietta scura e un po’lisa per gettarla sul pavimento, nel mucchio dove altri abiti già giacevano in attesa che qualcuno decidesse del loro destino. Immediatamente dopo fu il turno dei pantaloni. Nella stanzetta regnava un disordine pressoché assoluto, ma era proprio questo a donarle una sorta di pace che Rommy adorava. Il fatto che tutto rimanesse sempre come lui lo lasciava era confortante. Lo faceva sentire padrone di se stesso. Quella stanza era una specie di bolla spazio-temporale dove avrebbe sempre potuto andare a nascondersi, lontano dal mondo, lontano dalla scuola, dalla gente, da tutto. Per questo tornava a casa tutte le sere, per trovare rifugio e conforto nella sua rocca, non certo per rivedere Sil e subirne gli insulti. Ultimato il rito della svestizione Rommy si coricò in mutande sul letto disfatto, sopra le lenzuola consumate, e prese a pensare al film fissando l’intonaco scrostato del soffitto. Lui e i suoi amici si trovavano spesso per vedere dei film. La maggior parte delle volte si trattava, anche solo per il gusto di trasgredire, di opere vietate ai minori di quattordici, sedici e nelle occasioni migliori anche di diciotto anni. Questa era una delle poche cose che accomunava
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Rommy al resto del branco, la passione per il cinema. Si trovavano sempre da Tuco, per due ragioni. La prima era che casa sua aveva una stanza abbastanza grande da contenere una decina di persone in modo quantomeno umano, almeno non schiacciate come lo sarebbero state in una scatola di sardine. La seconda era che capitava spesso che in casa non ci fosse nessuno. Tuco era figlio unico e viveva solo con la madre. Di suo padre non sapeva assolutamente nulla. Era persino giunto a considerare l’ipotesi di non averlo nemmeno, un padre. L’unico genitore che aveva, comunque, era più che sufficiente per lui e per tutti i suoi compari, che ronzavano intorno a casa sua come mosche intorno a un letamaio. La madre di Tuco era una sventola da paura, nonostante l’età non fosse più quella di un giovane fiore. L’unico problema era che non aveva un briciolo di cervello. La combinazione ideale per ridursi a fare il mestiere più antico del mondo, solo con un po’più di classe e un po’più di grana in saccoccia rispetto ad altre oneste lavoratrici meno fortunate che dovevano battere i marciapiedi tutte le sere e tutte le notti. La madre di Tuco era una puttana dell’alta società. Una di quelle che oggi si chiamerebbero escort. Una di quelle che, all’inizio del novecento, si sarebbero potute trovare in un’esclusiva sala da ballo di Parigi, intente a gettare i loro ami e pronte a spellare i boccaloni, coscienti o meno, di tutte le loro risorse umane ed economiche. Una donna che avrebbe benissimo potuto sostituire Mona nel romanzo Sexus di Henry Miller. Il fatto di poter mettere a disposizione casa sua, in parte, era il motivo che rendeva Tuco il ragazzino, uno dei ragazzi più influenti della scuola. Ma questa non era l’unica ragione. Era anche il più grande della compagnia, aveva quasi sedici anni. Come la madre, poteva vantarsi di tutto tranne che di essere un cervellone. Era tonto come una campana, ma forte come un cavallo da tiro. Riusciva a spostare la cinquecento del professore di matematica afferrandola per il parafango e facendola dondolare fino a piazzarla di traverso nel parcheggio. Si era già preso un sacco di richiami per questo, sua madre aveva dovuto presentarsi dal preside con le sue migliori scollature e gli spacchi più profondi per farla passare liscia al figlio. A scuola si sussurrava di servizi completi nell’ufficio del grande capo. Voci che suscitavano l’invidia e l’eccitazione di tutti gli adolescenti in piena tempesta ormonale. Le risate di tutta la scuola e la stima di tutti gli scemi come lui, comunque, ripagavano abbondantemente Tuco di tutti i rischi che correva. In realtà, rischi veri e propri, con le stupide leggi che circolano, non ne correva proprio.
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Queste ragioni insieme a molte altre facevano di Tuco uno dei bulli più temuti e rispettati. Il rispetto può avere due sorgenti, la stima o la paura. Inutile dire quale sia il più genuino e il più puro. E inutile anche sottolineare quale fosse il tipo di rispetto che circondava il ragazzotto. La vita è fatta di priorità. A volte le pubblicità ci azzeccano. Quando si è giovani le priorità sono frivolezze che fanno sorridere. Le ragazze ammirano e invidiano quelle con le tette più grosse, i ragazzi riconoscono la supremazia del più dotato, oppure di quello che mena più forte. Fasi di gioventù che hanno la loro bella fetta di importanza e che si ricordano con piacere. Il problema è che, crescendo, troppe persone non trovano motivi per modificare la loro scala di priorità. Così le riviste per soli uomini spopolano con la pretesa di insegnare come conquistare dozzine di puledre in calore. Uomini di quarant’anni che continuano a considerarsi i migliori perché ce l’hanno grosso e lungo, perché vanno in palestra a pomparsi i muscoli e fumano spinelli al sabato sera nel locale alla moda prima di calarsi una dose di qualche stronzata chimica che fonde i pochi neuroni buoni che hanno in testa. E poi si scannano per un parcheggio, oppure accoltellano quelli della squadra avversaria. Tuco, nella scala media delle priorità dei ragazzi che lo frequentavano, era l’esempio da seguire, il modello a cui ispirarsi. Picchiava sodo, e l’aveva dimostrato in più di un’occasione, non aveva paura di prendere in giro i professori, conosceva molti ragazzi più grandi di lui e, girava voce, l’aveva fatto con la tipa più carina della scuola. Cosa si poteva chiedere di più a un sedicenne? Rommy, comunque, non aveva paura di lui. Non aveva paura di nessuno. Vivere con suo fratello gli aveva insegnato a non temere calci e pugni. Si alzò dal letto e andò a trafficare nello zaino. Ne estrasse a colpo sicuro un piccolo sacchetto trasparente e un accendino, poi tornò a coricarsi e preparò una canna con un po’di quell’erba che si era portato via contro il volere di Tuco. Alla faccia sua. Tirò un paio di profonde boccate e assaporò l’aroma dolciastro chiudendo gli occhi e abbandonandosi ai suoi pensieri. A un tratto sentì la forza scorrergli nelle vene. Voleva fare qualcosa di importante. Doveva fare qualcosa di importante, al più presto. Voleva andarsene da quella casa squallida dove suo fratello faceva abortire le sue puttane e dove
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ogni giorno doveva subire insulti e umiliazioni. Aveva tredici anni ormai, non era più un bamboccio con il moccio al naso. Poteva farcela. Avrebbe vissuto per strada, all’inizio. Un sacco di gente viveva per strada, perché non lui? In principio sarebbe stata dura, ma poi avrebbe fatto un mucchio di soldi, avrebbe conosciuto le persone giuste, ne era certo. Sapeva di avere fiuto per quel genere di cose. Riconosceva uno che faceva girare la grana quando ce l’aveva sotto il naso. E questo lo doveva a Sil. Era lui che trattava con certa gente, era lui che la portava in casa e Rommy aveva imparato bene, osservando attentamente, come si muoveva uno spacciatore, come si vestiva un protettore, come si comportavano le persone che per vivere organizzavano rapine o grandi colpi sotto i baffi della legge. I suoi pensieri correvano leggeri come se rivivessero l’intreccio di quel sacrosanto film che Samu era riuscito a fregare a suo cugino. Samu era il fornitore ufficiale delle opere cinematografiche. Suo cugino aveva un noleggio film in una bella via del centro e si faceva prestare, quando non gliele fregava da sotto il naso, una marea di dvd. Quella sera aveva portato “Scarface”, benedetto lui. Il film di Brian de Palma con il grande Al Pacino. La storia di Tony Montana. Quel Tony Montana che Rommy, ora, aveva davanti agli occhi come un miraggio. Venuto dal nulla era arrivato ad avere una casa come quella, un sacco di soldi, il potere e dozzine di persone che lavoravano per lui. Il tutto grazie a un paio di palle quadrate e a una giusta dose di sfrontatezza. Lui, a differenza di Tony, non si sarebbe lasciato prendere la mano dall’ebbrezza del potere e della ricchezza. Aveva imparato la lezione. I film avevano sempre una lezione da impartire. Tirò un altro paio di boccate profonde dalla spartana sigaretta imbottita di erba illegale. Poi si alzò, aprì la finestra che dava sul cortile e buttò giù il mozzicone ancora acceso che disegnò un’infuocata scia arancione nell’aria e nella mente di Rommy. Tornò sul suo pagliericcio e si mise a dormire con il cervello leggero come il volo di un’aquila e svuotato come una lattina di birra in un cantiere infuocato dal sole d’estate.
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2 La strada del potere
Il giorno seguente Rommy si svegliò con uno stato d’animo insensibile, come se qualcuno gli avesse disinfettato l’anima con una spruzzata di alcool puro. Tutto lo sporco era stato spazzato via, ciò che rimaneva del giorno precedente era un ricordo sbiadito. Da molto tempo, ormai, si svegliava con quella sensazione. Le canne, per lui, erano diventate una comoda gomma da passarsi sulla coscienza tutte le volte che ne aveva voglia. Ma i fogli bianchi e immacolati di un quaderno, a forza di cancellare gli errori, si stropicciano e diventa difficile scriverci sopra di nuovo. Perciò Rommy non era più certo di vivere la propria vita. Gli sembrava di essere lontano da quel letto, da quella stanza. Come se corpo e mente fossero due unità distinte e separate della sua persona, indipendenti l’uno dall’altra. Si sentiva una sorta di estraneo con un punto di vista privilegiato tale da permettergli di osservare ogni movimento di quell’esile ragazzo del Viale dei Pensieri. Niente di più. Le sue emozioni erano sempre meno violente, i suoi sentimenti sempre più spenti. Sarebbe un processo naturale se parlassimo di un adulto. Crescendo, le persone si accorgono di non poter più provare i fuochi adolescenziali che tanto hanno amato, o odiato. Ma Rommy aveva tredici anni. Il problema era dovuto a qualcosa di diverso dalla crescita. Mano a mano che il sonno abbandonava la presa, il ragazzino si rese conto di non aver nessuna voglia di andare a scuola. Rimase ancora un po’sotto le calde coperte a godersi il tepore di un letto amico. Poi, quando fu completamente sveglio, prese la sua decisione. Si alzò e si vestì in tutta fretta. Doveva cercare di arrivare sotto casa di Lucio prima che questi uscisse e potesse raggiungere il freddo edificio dove alcuni professori falliti avrebbero dovuto insegnar loro qualcosa di cui non avrebbero mai avuto bisogno. Uscì dalla sua stanza e si diresse verso la cucina abbandonata in cerca di qualcosa di commestibile. Attraversando il salotto, con un gesto inconscio quanto preciso, gli cadde l’occhio sul pavimento. La chiazza di sangue era scomparsa. Rimase un istante interdetto, chiedendosi se avesse soltanto sognato la ragazza nuda e pri-
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va di sensi sul divano di casa. Chiuse gli occhi e si convinse di no. L’immagine era troppo nitida nella sua mente. Si avvicinò al luogo del delitto ed ebbe prova della veridicità della sua ipotesi. Alcune minuscole macchie rosso scure decoravano la pelle sintetica del divano e forse l’avrebbero decorata per sempre. Sorrise pensando a quanto quel divano e la sua mente, in quel momento, fossero simili: entrambi segnati per l’eternità da un’altra bella trovata di suo fratello. Sil non c’era. Probabilmente aveva portato la ragazza in qualche squallido buco lontano da casa. In fondo, a modo suo, cercava di tenere lontano dai guai quel fratellino che aveva ereditato da un padre morto in un incidente stradale e da una madre drogata e alcolizzata, scomparsa in una fredda mattina d’autunno dopo essersi lasciata alle spalle un semplice biglietto con scritto “Mi dispiace”. Ma a Rommy tutto questo non importava più. Non aveva bisogno di sentirsi protetto, non aveva bisogno di una madre e di un padre, voleva solo camminare un po’, bigiare e divertirsi in città. Prese la mela meno marcia che la fruttiera appoggiata sul banco della cucina poteva offrire e lasciò l’appartamento. Scese le scale polverose a quattro gradini per volta e si incamminò deciso verso la Quinta strada, quasi correndo. In dieci minuti aveva percorso il chilometro e mezzo che lo separava dal condominio in perfetto stile decadente dove abitava Lucio. Schiacciò il bottone del campanello del quarto piano sapendo che non ci sarebbe stato nessuno in casa se non, forse, il suo potenziale alleato di bravata. Pregò a occhi chiusi di non essere arrivato troppo tardi. Sentiva di non poter sopportare un giorno di scuola, così come un maratoneta non avrebbe potuto sopportare di perdere la vittoria solitaria a cento metri dal traguardo per uno scivolone su una buccia di banana. Avrebbe potuto marinare pure da solo, ma aveva voglia di compagnia. Il motivo, anche se Rommy non lo avrebbe mai ammesso, perché non se ne rendeva pienamente conto, era semplice. Quando si è soli, il più delle volte, si finisce per riflettere. E non sempre, questo, è soltanto uno svago. Anzi, spesso è faticoso e scomodo, ma non c’è niente da fare. L’uomo è fatto in modo da non poter mai stare senza far niente. La nostra mente ha bisogno di essere impegnata, in ogni momento, per qualsiasi sciocchezza. Purché non si fermi mai. C’è una canzone di Ligabue che dice “…ci riposiamo solo dopo morti…”. Ecco, quando il nostro cervello si prende una pausa è perché siamo morti.
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Ma le preghiere di Rommy furono esaudite quando dalle fessure fredde e mezze arrugginite del citofono uscì la voce bionica, resa tale dall’apparecchio, dell’amico. Lucio non era uno che andava pazzo per cose di questo genere. Non gli piaceva infrangere le regole. Era un debole. Ma proprio per questo era facile da convincere. A Rommy bastarono due minuti, dopo di che i due si incamminarono insieme verso il cuore pulsante della città, con lo zaino sulle spalle e l’euforia di chi sa di compiere un atto proibito e, anche solo per questo, eccitante. Chissà per quale assurdo motivo gli uomini hanno questa smania di compiere azioni e atti illeciti? Sono così noiose le regole? Così stupide da doverle aggirare per sentirsi vivi e liberi almeno per qualche ora? Le regole sono il vangelo della libertà. Ma la maggior parte delle persone non sa e non vuole essere libera. Essere liberi è faticoso e impegnativo, come tutte le cose migliori della vita. Verso le nove e mezza i due briganti erano fermi sotto i portici di via Ventura a praticare il passatempo preferito di centinaia di generazioni di maschi allupati e schiavi del sesso debole: guardare le ragazze passare e correre con la fantasia, non necessariamente in quest’ordine. Si appollaiarono sul davanzale di una grossa finestra che rientrava nel muro e cominciarono a guardarsi in giro. «Che ne dici di andare…» cercò di dire a un tratto Rommy, distratto e pensieroso. «Guarda, guarda quella!» lo interruppe Lucio, indicando un magnifico esemplare che camminava con il passo deciso dell’emancipazione, sui trent’anni, con lunghi capelli neri, un paio di occhiali firmati appoggiati sul naso e due gambe lunghe e sottili che sbucavano dalla gonna chiara e avvolgente. «Io a una così strapperei tutti i vestiti e me la scoperei anche qui» concluse Lucio che, quando cercava di darsi delle arie, faceva tenerezza. Rommy scoppiò a ridere. «Che cazzo ti vuoi scopare, Lucio?» esclamò Rommy con l’aria di chi, riguardo a certe cose, non ha niente da imparare. «Lascia perdere, quella ti asciugherebbe prima che ti cali le mutande» proseguì. Lucio non aveva nessuno. Suo padre, un dipendente di un’impresa di lavori stradali che mandava avanti con mille sacrifici la famiglia, era morto due anni prima per un ictus, e sua madre, da allora, si ubriacava
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al mattino per non dover pensare, durante il resto della giornata, a come crescere il suo unico figlio. Era stata licenziata dall’ufficio perché combinava solo casini e ora lavorava qualche ora di notte in un’impresa di pulizie, giusto per guadagnare lo stretto indispensabile per sopravvivere. Rommy provava tenerezza per Lucio. Era evidente che, in un’altra vita, magari con un pizzico in più di fortuna, sarebbe stato uno di quei ragazzi che studiano fino a trent’anni, si sarebbe fatto una famiglia e avrebbe fatto il medico, o l’avvocato. Non aveva niente del ragazzo di strada. Ci si era trovato senza avere le armi per sopravviverci. E i ragazzi, per questo, lo prendevano in giro. La vita non è sempre giusta. La vita, forse, è governata da infallibili, indispensabili e inevitabili leggi naturali, ma non è sempre giusta. «Senti,» ricominciò Rommy, dopo che la donna li ebbe oltrepassati senza degnarli della minima attenzione «che ne dici di mettere in ballo i nostri spicci e andarcene per un paio di giorni via di qui?» Lucio rimase molto sorpreso. Non si sarebbe mai aspettato che uno dei ragazzi gli proponesse un’avventura simile. Sapeva di essere considerato da tutti un fifone. E questo, in fondo, gli faceva comodo, perché lo metteva al riparo da offerte simili a quella che aveva appena ricevuto. Era certo di non essere un ideale compagno di bravate, perché si faceva mille problemi. L’idea, dopo l’attimo iniziale di euforia mista a incertezza, gli parve sospetta. Pensò che l’unico motivo per cui Rommy gliel’avesse chiesto fosse perché si trovava al verde e aveva bisogno di qualcuno da poter spennare. «Perché lo chiedi a me?» spiccicò dopo lunghi istanti di silenziosa riflessione che avevano visibilmente infastidito Rommy. «Oh, cazzo Lucio, piantala di farti domande, ci vuoi venire o no?» «Non so…» rispose Lucio affascinato e impaurito allo stesso tempo, con la sua fragile innocenza dipinta nel modo di fare incerto e delicato. Lucio odiava le “dimostrazioni di coraggio” come quella. Non che fosse un codardo, ma le trovava stupide. «Mia madre potrebbe pure crepare,» improvvisò, infine, con vistoso imbarazzo «e poi dove vuoi andare, e a fare che?» «‘Affanculo!» sbottò Rommy lasciando il riparo dell’ampio arco nel muro e cominciando a camminare per strada. «Tu pensi troppo» concluse quando il suo timoroso amico, che lo seguì immediatamente, gli fu di nuovo accanto.
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Passarono alcuni minuti in cui nessuno dei due spiaccicò parola, dopo di che Lucio tentò di dirottare l’argomento: «Che t’è sembrato del film di ieri sera? Io l’ho trovato un po’una stronzata. Uno come Tony l’avrebbero ammazzato subito, senza permettergli di fare tutti quei soldi.» «Tony aveva le palle. Uno così non lo ammazzi tanto facilmente» rispose duramente Rommy, scocciato per il tentativo di Lucio di cambiare materia di dialogo, ma allo stesso tempo affascinato da quella domanda. «Io credo che è questo il messaggio del film. Se hai le palle vai avanti, se no rimani la merda che sei» continuò Rommy. Di nuovo silenzio. «Che ne dici di andare al parco di Santa Chiara a fumare qualcosa?» riprese Rommy. A Lucio non piaceva nemmeno fumare. Lo faceva per dimostrare, forse a se stesso, di non essere da meno degli altri ragazzi. Si lasciava trascinare da quel senso di appartenenza al gruppo che ha rovinato molti giovani e molti altri ne rovinerà. In quell’occasione, inoltre, Lucio non si sentì di negare al compagno di scuola, un’altra volta, la propria complicità. Così, pur di non parlare più di una fuga improvvisata, accettò di affrontare il parco di Santa Chiara. Mentre camminavano Rommy cominciò a preparare una canna, in mezzo alla gente, sul marciapiede, come niente fosse. Sembrava che stesse facendo una cosa qualsiasi, come leccare un gelato. Invece, quello che sentiva sulla punta della lingua, era il sapore insipido della cartina. Non se ne rese nemmeno conto, la sua mente era altrove, aveva già preso quel treno sul quale avrebbe voluto salire con i propri muscoli e con tutta la sua carne, ed era andata lontano. La mente non ha bisogno di denaro per viaggiare. Lucio si agitò all’istante, divenne rosso e cominciò a sudare freddo. Si staccò dal compagno, ordinandogli al contempo, con tutta l’energia e la fermezza che riuscì a estrapolarsi di gola, di mettere via la roba. «Non rompere!» disse Rommy, irritato, quasi che le parole di Lucio lo avessero destato da un piacevole sogno. «Non me ne frega un cazzo se ci vedono!» proseguì con decisione, senza sapere esattamente cosa stesse dicendo. I suoi occhi erano vuoti e persino i suoi movimenti sembravano quelli di un automa, privo di volontà e di desideri. Si trovava di nuovo in quella condizione che provava al risveglio dopo una serata all’insegna delle canne. Distante, apatico. E ciò accadeva soprattutto quando si sen-
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tiva schiacciare dal mondo intero. Il dolore, quando non uccide, rende più forti, si dice. Ma la sofferenza rende anche insensibili. Ecco perché il desiderio di evasione di Rommy si traduceva in quella specie di trans. La sua mente si isolava, non sentiva più il male che la schiacciava, non udiva più nessuno stimolo, perché ogni stimolo sarebbe stata una voce che lo avrebbe esortato ad andarsene, magari a farla finita per sempre…Era la pagina, non più bianca e immacolata, della sua anima che riportava troppe incongruenze, troppe ingiustizie, troppe macchie e andava di nuovo cancellata, resettata. In quei momenti, il piccolo, aveva l’aria di un pazzo. Compiva le sue azioni senza pensare assolutamente a nulla, quasi fossero ordini impartiti da Dio stesso ai quali lui non poteva che obbedire. Proprio mentre Lucio stava per andarsene e riprendere la via di casa abbandonando Rommy alla sua follia, un’auto accostò al marciapiede in modo deciso, facendo fischiare leggermente le gomme in frenata. I due passeggeri che si intuivano attraverso i vetri scuri della coupé grigia metallizzata, dovevano essere piuttosto di fretta. Rommy e Lucio vennero liberati dal dominio dei loro rispettivi pensieri grazie all’arrivo dell’auto. Sia per il modo sportivo con cui il pilota aveva attraccato al bordo della strada, sia perché quella non era una macchina che passasse del tutto inosservata, anche se in centro, di macchinoni come quello, ce n’erano a valanghe. Subito dopo la vivace frenata, dallo sportello del passeggero scese una donna che completò l’opera di catalizzazione sugli sguardi dei passanti. Una mora di rara bellezza, con due occhi chiari e vivi, la bocca rossa e perfetta, il naso sottile, dalla piega mordila e dolce. Aveva dei tacchi a spillo assurdi, una minigonna che metteva in risalto le gambe lisce e formose e una maglietta scollata a diffondere tutt’intorno il profumo di primavera che emanavano gli abbondanti seni geometricamente ed esteticamente perfetti. La fatina mosse alcuni passi corti e veloci, per quanto glielo consentissero le scarpe e i vestiti, verso l’edicola che stava dall’altra parte del marciapiede. Rommy diede uno sguardo veloce alla signora, ma fu quasi subito attratto da un altro particolare: sul sedile lasciato vuoto dall’invidiabile posteriore della donna, al di là della portiera aperta dell’automobile di lusso, era rimasto, solo e abbandonato, un grosso portafogli firmato. Al posto di guida sostava in tutta la sua pomposità un grasso uomo in giacca e cravatta, sulla sessantina, con le gonfie mani sudate appoggiate al volante in attesa di riprendere a condurre la macchina in mezzo al traf-
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fico. Perché, si chiese Rommy, un uomo così poteva avere una macchina del genere e una ragazza simile, mentre lui doveva addormentarsi ogni sera in un buco pieno di pulci, da solo, dopo essersi fatto una canna per non pensare a tutta la merda che aveva intorno? Decise in un battibaleno di prendersi quel dannato portafogli. Tanto quel ciccione non avrebbe mai potuto rincorrerlo. Gli ci sarebbe voluta mezz’ora per scendere dalla macchina. Lo voleva e se lo sarebbe preso. Proprio come avrebbe fatto Tony Montana. Si, era stanco di stare a guardare. Era giunto il momento di cominciare a mettere in pratica la lezione ”Scarface”. Doveva agire. Ora, subito, e in fretta, altrimenti la pupa sarebbe saltata di nuovo in macchina, avrebbe chiuso lo sportello e sarebbe sparita insieme a quella possibilità che ora gli si offriva davanti agli occhi in tutta la sua semplicità. Rommy scattò verso la macchina prima che Lucio potesse riaversi dallo shock provocatogli dalla mora. Il poveretto era ancora con la bava alla bocca, mentre in Rommy si era appena compiuta una rivoluzione. Il giovane delinquente afferrò il piccolo oggetto di cuoio, gustando la sensazione di quel contatto sui polpastrelli. Subito dopo prese a correre con tutto ciò che aveva in corpo, esaltato per l’adrenalina che gli gonfiava le vene. «Muoviti, andiamo scemo!» strillò allontanandosi da Lucio che rimase inebetito, in mezzo alla via. Il ciccione, colto di sorpresa, cominciò a insultare il mondo intero, slacciò la cintura di sicurezza e aprì in fretta e furia la portiera, mentre la donna, da sotto la tettoia dell’edicola si girava per capire cosa stesse succedendo. Accadde tutto in un attimo, senza che né l’uomo né la donna si potessero rendere conto che la loro vita era arrivata a un bivio. Rommy, correndo verso la sua libertà, udì un fischio di gomme sull’asfalto che andò a disturbare il rumoroso, lento e annichilito flusso del traffico. Subito dopo un altro rumore, più forte, di lamiere che si accartocciavano, di vetri che si rompevano, di un destino che bussava alla porta. Rallentò la corsa per riuscire a voltarsi e ciò che vide lo lasciò di ghiaccio, non una sensazione, non un rimorso, niente di niente. Lucio, nel frattempo, non si era mosso di un millimetro. Aveva sentito la voce di Rommy che lo invitava a correre e subito dopo uno scroscio di maledizioni sgorgare dall’auto. Non aveva compreso fino a quando non si era voltato di nuovo verso il suo compagno di bigiata che correva col sorriso sulla bocca e con in mano un grosso portafogli. Poi, in un istante, aveva visto quel grosso uomo aprire la portiera e voltarsi verso
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il ladruncolo, il suo volto contorcersi in una smorfia di terrore. E poi aveva visto quel corpo voluminoso volare, colpito con la parte anteriore sinistra del cofano dalla macchina che sopraggiungeva da dietro, incolpevole e ignara di tutto. Aveva sentito il rumore delle ossa che si rompevano e il tonfo sordo che la ciccia del signore aveva provocato atterrando sulla madre terra mescolati a quello dell’auto investitrice che, scartando con umano ritardo, andava a sbattere contro un altro mezzo che proveniva dalla direzione contraria. Si udirono le urla di terrore della donna che corse, senza più badare ai tacchi o alla minigonna, verso il corpo immobile di quell’uomo, inzuppato nella pozza del suo stesso sangue in mezzo alla strada e alle voci dei passanti che chiamavano aiuto. Cominciò a correre pure lui, Lucio, per paura, per disperazione, o forse solo a causa della stessa adrenalina che esaltava anche Rommy. Alle loro spalle alcuni onesti cittadini si misero a strillare, cercando di convincere i due ragazzini a fermarsi con il tono grosso della loro voce. Qualcuno cercò addirittura di rincorrerli, ma in un batter d’occhio i due agili fuggitivi erano già spariti nella giungla di asfalto e cemento della città. Lucio scivolò lentamente con la schiena appoggiata al muro di mattoni alle sue spalle fino a trovarsi con le ginocchia al petto, come se fosse stato un enorme ammasso di miele, un liquido viscoso attratto dalla forza di gravità del pianeta Terra. Cominciò a piangere subito dopo aver arrestato quella caduta surreale, mentre Rommy, al suo fianco, spiava la strada al di là del cassonetto dell’immondizia dietro al quale si erano appartati. Sembrava che non li stesse inseguendo più nessuno da un pezzo, ormai. Avevano corso a perdifiato per almeno cinque chilometri rischiando di finire investiti almeno una dozzina di volte. Ma questo non dava loro la benché minima certezza di aver concluso la fuga. Il vicolo cieco in cui si erano cacciati era una trappola bella e buona. Era evidente che l’unica cosa che, in quel dannato posto, potevano fare, era sperare che nessuno si sarebbe messo a cercarli proprio lì. Ma soprattutto era importante svignarsela al più presto. Rommy continuava a sforzarsi di riflettere sul da farsi e Lucio, proseguendo nel suo pianto disperato e terrorizzato, glielo impediva senza averne né la volontà né la coscienza. «Non serve a un cazzo piangere!» esclamò duramente all’indirizzo del povero ragazzino seduto per terra.
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«Alzati, dobbiamo sloggiare o qui va’ a finire che ci beccano» concluse con tono brusco. «Sei un bastardo!» gridò Lucio, senza preavviso e con una forza che nemmeno lui sapeva di avere. Rommy lo fulminò con lo sguardo prima di sporgere di nuovo la testa per vedere se qualcuno potesse averli sentiti. Poi si mise a riflettere. Un bastardo. Non aveva fatto del male a nessuno, pensò. Aveva fregato il portafogli a quel ciccione, ma non era stato lui a farlo finire stirato sotto la macchina. Se quel dannato tizio se ne fosse rimasto buono al suo posto non sarebbe successo niente. Passarono alcuni istanti, poi, quando parve evidente che nessuno li aveva sentiti dalla strada in fondo al vicolo, Rommy cercò di riportare sotto il suo dominio psicologico il piccolo compagno d’avventura. «Chiudi la bocca stronzo! Se ci sente qualcuno giuro che non la passi liscia!» Questa volta fu Lucio a fulminare con lo sguardo il teppistello che l’aveva trascinato in quel casino. Le lacrime gli si bloccarono per la rabbia e sul suo volto era dipinto l’odio che in quel momento provava per Rommy. «Dobbiamo andare» gli ripeté Rommy cercando di convincerlo cambiando tattica, con un tono più amichevole e rassicurante. Ma Lucio non cambiò espressione. I suoi occhi erano inchiodati in quelli di chi, ora, sembrava essere un suo mortale nemico. Scosse fermamente la testa e disse, a voce bassa, quasi soffocata dall’ira, che non se ne sarebbe andato. «Andiamo, Lucio, non è colpa mia. L’hai visto anche tu, il grassone è sceso senza guardare» incalzò Rommy nel tentativo di difendersi dalle mute accuse di quello sguardo infuocato. Era convinto di non avere nessuna colpa e avrebbe voluto che il suo socio lo fosse stato altrettanto. Ma il piccolo, da terra, non diede segno di comprendere. «Io me ne vado» concluse infine Rommy, più deluso che furioso «tu rimani qui se vuoi, ma non dare la colpa a me quando ti porteranno dentro! Io ti ho avvertito.» Sbirciò di nuovo verso la strada e poi uscì dal nascondiglio. «E non provare a cantare con gli sbirri. Il mio nome non deve uscirti di bocca, chiaro?» sbottò prima di andarsene, senza attendere una risposta. Lucio guardò il suo coetaneo mentre, tranquillo, attraversava il vicolo per raggiungere la strada principale. Rabbrividì vedendo i suoi passi placidi e sicuri come quelli di un monaco in un convento. Come faceva - si chiese - a essere così freddo?
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Subito dopo rimise la testa tra le braccia appoggiate sulle ginocchia e riprese a singhiozzare, pentito per tutto ciò che aveva e non aveva fatto quel giorno. Rommy si lasciò diluire nel via vai delle arterie del centro. Sulle strade nessuno sembrò fare caso a quel ragazzino con la cartella sulle spalle. Era piena l’aria di bambocci che impiccavano da scuola, ogni giorno. Nessuno più, ormai da molto tempo, osava sdegnarsi per i corrotti tempi moderni. Il pensiero comune, comodo e onnipresente paravento dietro al quale nascondersi, diceva che quella dell’opposizione ai corrotti costumi contemporanei era una causa persa. Le nuove generazioni non avevano morale, non avevano rettitudine e senso del dovere. Inutile stare a discuterne o cercare di cambiare le cose. Rommy saltò su un tram senza preoccuparsi di dove fosse diretto. Non aveva nessuna importanza. Si accomodò in fondo, dove c’erano soltanto un paio di persone, e ripensò a ciò che era successo poche ore prima. All’inizio sentì un forte calore invadergli lo stomaco, ma durò soltanto un istante, il tempo di uno scoppio. Poi, per la seconda volta in quella giornata insensibile, si rese conto di non percepire nulla di intenso dentro di sé. Gli sembrò di rivedere un film, di risentire una canzone ascoltata centinaia di volte. Cose che avevano esaurito il loro potere emotivo su di lui. Non provò praticamente nulla per aver causato quell’incidente. Si chiese soltanto, freddamente, se avesse potuto, in qualche modo, evitarlo. Ciò che più gli dispiaceva in tutta quella faccenda, però, era di aver trattato in quel modo Lucio. Certo, quel bambino non avrebbe dovuto mettersi a frignare proprio in quel momento, era stato stupido. Rommy pensò che scappando e abbandonando l’amico aveva messo in atto l’unico sistema utile per non farsi beccare, anche se sentiva ugualmente una specie di timido rimorso nel profondo del cuore. Ma liquidò l’argomento pensando di aver agito con intelligenza, di aver scelto la soluzione più logica e meno rischiosa. Rommy pensò a Tony Montana. Lui, di certo, non si sarebbe perso in chiacchiere in un momento come quello. Non c’era tempo per stare a discutere. L’unica cosa da fare era mettersi al sicuro. Il ragazzino si sentì molto meglio confrontando il proprio comportamento con quello che, presumibilmente, avrebbe avuto Tony. Se voleva diventare come lui, tanto per cominciare, doveva imparare ad agire come lui. Il lieve rimorso scomparve, sostituito dalla piacevole sensazione di essere nel giusto. Se Lucio non si fosse bloccato come un lampione in
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mezzo alla strada, gli avrebbe spiegato le sue ragioni in seguito, con calma, ma oramai era troppo tardi. Quell’accidenti di “bravo ragazzo” gli aveva quasi rovinato la giornata con la sua stramaledetta fifa. Archiviato l’argomento “Lucio”, Rommy si concentrò sull’oggetto che aveva da poco rubato. Era brutto, pensò. Un arnese per il quale lui non avrebbe speso un euro. Cercò di leggervi la vita del legittimo proprietario. Immaginò che doveva essere un fottuto ricco aristocratico con la passione per la moda, per le serate mondane, le belle macchine, le belle sgualdrine che piovevano dal cielo casualmente soltanto dove c’erano un mucchio di soldi, e per le cazzate da signori abbienti e viziati. Forse aveva una villa in una di quelle zone molto costose, ai piedi delle colline che circondavano la città. Sicuramente aveva una casa al mare, in uno di quei luoghi dove d’estate si radunavano tutti quegli scemi della televisione fingendo di incazzarsi se qualcuno li fotografava. E poi in montagna, in un paesino esclusivo delle alpi francesi, dove una zuppa di patate costava cinquanta euro e gli impianti di risalita funzionavano anche di notte, con l’illuminazione artificiale e la neve finta. Forse si drogava. Di certo si drogava per soddisfare le sue biondine ventenni, e sfruttava qualche spacciatore arabo che aspettava di aver guadagnato abbastanza per martirizzarsi con quaranta chili di esplosivo e chiodi legati intorno alla vita. Si tirava delle piste lunghe un chilometro e poi stava sveglio tutta notte a giocare a poker con altri tre o quattro ricchi stronzi come lui. Doveva essere un idiota con la passione per il golf. I ricchi adoravano quello stupido sport. Un gioco insignificante e cretino per il quale sborsavano venti e passa mila euro all’anno tra abiti assurdi, porta-mazze e iscrizioni a circoli esclusivi. Forse le sue donne avevano unghie, capelli e tette di plastica. Di sicuro doveva essere così. Chissà i milioni che spendeva in quelle fabbriche di bellezza, per le sue troiette e per se stesso. I ricchi facevano di tutto pur di convincersi che il tempo non avrebbe potuto sfiorarli per via di tutta la loro grana. E invece diventavano vecchi proprio come tutti quei miserabili che vivevano per strada. Solo con un’illusione in più che sarebbe tornata, beffarda, a visitarli nel momento in cui avrebbero dovuto dire addio a tutti i loro maledetti soldi per raggiungere l’inferno. Mentre immaginava tutto questo la sua coscienza sembrò dare segni di vita, come se stesse ribollendo dentro a una pentola a pressione e volesse dire la sua in merito a quel povero ciccione che probabilmente ci aveva rimesso la pelle. Ma Rommy seppe metterla sapientemente a tacere, fantasticando ogni volta su qualcosa di più spregevole e odioso. Pensare ai mille difetti che poteva nascondere quell’uomo lo aiutò a su-
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perare l’ostacolo della sua coscienza agonizzante. Rommy si convinse di una cosa: non doveva sentirsi in colpa per aver fregato una goccia di miele alle api. Si decise ad aprire il borsello e le sue più azzardate previsioni vennero stravolte. Vi trovò più di seicento euro in contanti. Questo contribuì notevolmente a smorzare del tutto i rimorsi che sembrava potessero fiorire da un momento all’altro. Sorrise. Si infilò le banconote nelle tasche dei pantaloni, cercando di muoversi il meno possibile per non dare nell’occhio. Subito dopo riprese a frugare sperando in un altro colpo di fortuna. Saltarono fuori un paio di carte di credito, alcuni biglietti da visita, una fotografia della donna che era scesa a prendere il giornale, un blocchetto di assegni e diversi documenti di identità. Rommy approfondì la conoscenza della sua vittima apprendendone il nome e le generalità. Il tale si chiamava Riccardo Mesto ed era nato il 18 giugno del 1953. Viveva in un paese subito fuori città e accanto alla dicitura “professione” c’era scritto “imprenditore”. Sposato, segni particolari nessuno. Una volta concluso l’esame incuriosito delle scartoffie lasciò cadere furtivamente sotto al sedile del mezzo pubblico il borsello insieme a tutto ciò che non aveva valore. Conservò, infilandoli nello zaino, le carte di credito e il blocchetto degli assegni, sebbene non avesse la minima idea di come avrebbe potuto usarli senza destare sospetti. Il tram si arrestò per far scendere e salire i suoi interminabili e alienati occupanti. Rommy pensò che era stanco di stare seduto, aveva voglia di fare due passi. Si alzò e attraversò l’uscita appena prima che la porta scorrevole richiudesse dentro a quella scatola mobile gli odori e gli umori di quegli esseri stanchi che si ignoravano per non riconoscersi gli uni negli altri. Il pesante biscione arancione si allontanò sferragliando e il piccoletto si ritrovò in un luogo che non conosceva, ma di cui non aveva nessun timore. Un uomo e una donna, che erano scesi con lui dallo stesso mezzo, si presero per mano e si incamminarono sul marciapiede semi deserto, scambiandosi parole divertite e sguardi teneri come un filetto al sangue. Anche Rommy decise di incamminarsi, ma nella direzione opposta, verso una zona che appariva più tranquilla, difendendo gelosamente quella solitudine di cui, in quel momento, aveva estremo bisogno. A volte fa bene rimanere soli. Aiuta a riflettere e a trovare la pace dentro a se stessi. La solitudine è un bene raro. La solitudine, non
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l’abbandono. Si confondono spesso questi concetti. La solitudine è una condizione volontaria di isolamento a scopo morale. L’abbandono è una meschina pratica sociale simile all’emarginazione, crudele, controproducente e ingiusta. Rommy camminò per diverse ore, ma non riuscì a rimanere solo. Incappò in uno dei tranelli più feroci di una grande città, quello dell’infinito movimento, dell’interminabile e inesauribile ricambio di volti, persone, automobili, strade, palazzi, tutti diversi eppure tutti uguali, passo dopo passo. Eppure le ore, per il piccolo teppista, scivolarono leggermente sopra uno spesso strato di pensieri e riflessioni. Come poteva utilizzare le carte di credito e il blocchetto degli assegni che aveva in tasca?, si chiese. Nonostante le mille ipotesi che gli si avvicendarono nella mente non riuscì a scavalcare l’ostacolo che lo frenava e gli impediva di agire. Chiunque, vedendo un ragazzino della sua età con una carta di credito o con un assegno, si sarebbe, quantomeno, insospettito. Ciò era un deterrente adeguato a ogni slancio di incoscienza. Quando decise di tornare a casa era ormai sera inoltrata. Non che Sil si preoccupasse nel non vederlo tornare. Era stato fuori per più di due giorni, una volta, e al suo ritorno non era successo niente, non una domanda, non un rimprovero. Soltanto lo squallido saluto di tutti i giorni. L’unico motivo per cui riprese la strada di casa era che aveva voglia di dormire nel suo letto. Saltò di nuovo su un tram, questa volta preoccupandosi di conoscerne la destinazione. Sul display luminoso che incoronava il muso dell’autobus scorreva ininterrottamente la scritta “Stazione Centrale”. A quell’ora le strade non sembravano più le stesse. C’era qualcosa di magico nella notte di quella città. Il buio faceva emergere un’altra popolazione, più rada rispetto a quella che si muoveva alla luce del sole. I rumori si attenuavano, come se l’oscurità avesse il potere di smorzarne l’intensità con il suo velo di ombre. Ogni cosa di notte appariva più sorda, più sfuocata, indefinita. Il lungo autobus raggiunse la stazione centrale in venti minuti abbondanti. Rommy discese i tre ripidi scalini dell’automezzo e si trovò sul lato della strada opposto alla grande stazione. I maestosi portici gotici che immettevano nel regno delle ferrovie erano popolati da persone che si adattavano perfettamente a quello stile architettonico. Anzi, la scarsa illuminazione e i loro movimenti lenti contribuivano a fare di quegli esseri parte integrante della struttura. Come se l’artista avesse previsto, mezzo millennio prima, il contesto entro cui
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collocare la sua grandiosa opera. Come se avesse intuito che cinque secoli dopo la loro realizzazione, sotto quei portici, avrebbero vagato uomini infreddoliti, con un cappuccio in testa e pronti a vendere illusioni e rovina. Rommy doveva aspettare il mezzo numero 32, quello che passava per via Lucernini, poco distante da casa sua. La fermata a cui avrebbe dovuto attendere era la stessa alla quale era appena sceso. Si sedette su una delle panchine adibite all’attesa dei passeggeri e rimase a osservare i movimenti dei sospetti abitanti di quel borgo moderno e malfamato. Si udì lo scalpiccio lontano di un treno. Pochi istanti dopo tre o quattro persone emersero dalle scalinate che portavano ai binari. Si diressero, ognuno con passo sicuro, verso le proprie vite. Dopo di che tutto tornò a essere tranquillo e assonnato. Anche Rommy, seduto e comodo, si stava assopendo. Le palpebre cominciarono a pesargli in modo insostenibile. Chiuse gli occhi e, in quel breve dormiveglia, gli si fiondò prepotentemente in testa un’idea. Dato che carte di credito e blocchetto degli assegni, per lui, non avevano nessun valore, dal momento che non avrebbe potuto usarli, avrebbe dovuto cercare di venderli. E la persona giusta per un affare del genere era Tuco. Lui sicuramente, con i suoi traffici, conosceva qualcuno che avrebbe saputo come usarli. Il pensiero di aver trovato una buona soluzione risvegliò completamente il ragazzino che cominciò subito a fantasticare su cifre ingenti quanto improbabili. Proprio in quel momento, dall’altro lato della strada, a ridosso della breve scalinata che portava sotto i portici, accostò una BMW serie 5, tremila di cilindrata, nera, luccicante e con i vetri oscurati. Rommy calcolò, senza pretendere di averci azzeccato, che per una macchina come quella ci sarebbero voluti almeno ottantamila euro. Il motore del bolide si acquietò lentamente prima di zittirsi del tutto. Passarono alcuni secondi, un minuto, poi, dalla portiera posteriore vicina al marciapiedi, scese un uomo con i capelli lunghi e mossi, in giacca e cravatta. Nella mano destra stringeva un sacchetto di carta stropicciato grande più o meno come un grosso pompelmo. Aveva il portamento fiero e orgoglioso di un comandante. Un aspetto distinto e signorile che stonava con tutto ciò che lo circondava in quel momento e in quel luogo. Ma tutto ciò non sembrò minimamente sfiorarlo. Superò i cinque gradini che lo separavano dalla galleria dei portici con un paio di balzi atletici e plastici, poi percorse un'altra decina di passi, prima di fermarsi. Cinque delle statue viventi che popolavano la stazione gli si fecero intorno.
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Rommy trasalì per l’uomo dai capelli lunghi. Chissà cosa gli avrebbero fatto, ora, quei criminali. Come minimo l’avrebbero obbligato a sborsare la grana e l’avrebbero spogliato di tutti gli oggetti di valore, prima di prenderlo a botte. Con grande sorpresa del ragazzino, invece, non accadde nulla di tutto ciò. Anzi, il ricco signore cominciò a parlottare e, contemporaneamente, ad aprire il suo sacchetto di carta. Per un istante la scena venne oscurata, agli occhi di Rommy, dall’arrivo dell’autobus numero 32. Il piccoletto imprecò e si affrettò a salire per poter vedere il resto della scena attraverso i finestrini sporchi e unti del veicolo. Ciò che gli rimase da vedere fu il sacchetto, vuoto e accartocciato, che volava per terra lanciato dalle mani dell’uomo in giacca e cravatta. I cinque bronzi cominciarono a disperdersi, mentre il signore si diresse di nuovo verso la sua bella macchina. Il pesante mezzo pubblico cominciò a muoversi, ma Rommy rimase con gli occhi incollati al volto del tipo con i capelli lunghi, che ora poteva vedere abbastanza bene, nonostante il buio. Aveva dei lineamenti netti e decisi, da uomo magro e nervoso. Calzava un piccolo pizzetto sul mento pronunciato e portava un orecchino all’orecchio destro. All’improvviso lo sguardo dell’uomo si alzò, dirigendosi sicuro e fermo verso quello di Rommy. Quest’ultimo trasalì, anche se cercò di non darlo a vedere. Con un autentico sforzo riuscì a mantenere i propri occhi fissi in quelli dell’uomo che era quasi arrivato alla macchina. Poi, così com’era nato, quell’intreccio di luci e sguardi venne rotto dal movimento dell’autobus che seguiva, inesorabile, il proprio percorso prestabilito. Durante il tragitto Rommy si rese definitivamente conto di essere stanco e indolenzito. La tensione causata dagli avvenimenti della giornata stava presentando il conto e l’adrenalina che aveva imbottito le vene del ragazzino al momento dello sguardo di quel tizio, sicuramente, ora che scemava, contribuiva a prosciugare le energie residue di quel corpo tredicenne. Quello sguardo aveva qualcosa di affascinante. L’uomo con i capelli lunghi dava l’impressione di essere arrivato dove voleva arrivare, trasmetteva una sicurezza ferrea, una tranquillità inviabile agli occhi di Rommy. Chissà se anche lui, un giorno, avrebbe potuto vantare quel portamento? si chiese il piccoletto. Una mezz’oretta e il piccolo vagabondo scese alla fermata di via Lucernini. Era mezzanotte e un quarto, in giro non c’era un cane. Si incamminò verso il Viale dei Pensieri, dove ci sarebbe stata senz’altro più vita, visto il losco giro d’affari che là si svolgeva tutte le notti.
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Prima di raggiungere casa, però, Rommy si sforzò di compiere un ultimo sacrificio. Decise di passare da Tuco per proporgli subito l’affare. L’avrebbe svegliato, ma poco male. Di certo non avrebbe disturbato nessun’altro. Sua madre, a quell’ora, era sempre fuori a guadagnarsi la pagnotta. Non c’era motivo di attendere, anzi, sarebbe stato soltanto più rischioso. Pigiò il pulsante che riportava il nome della madre del grande e arrogante compagno di avventure e attese la risposta con le spalle appoggiate al muro. Passarono interminabili secondi, ma Rommy sapeva che quel disgraziato avrebbe risposto. «Che vuoi?» chiese il brutto con un tono che ne rispecchiava il nome dopo essersi affacciato alla finestra e aver capito di chi si trattasse. «Ti devo parlare, scendi un minuto» rispose Rommy, orgoglioso per l’affare che stava per proporre a Tuco. «Spero per te che non sia una stronzata» borbottò il ragazzone ritirando all’interno la testa con i capelli spettinati dal cuscino. Tuco impiegò cinque minuti per vestirsi e scendere in strada. Quando ci fu riuscito Rommy lo accompagnò verso il parco e cominciò a parlare: «Ho un affare da proporti.» Il ragazzo più grande sorrise e chiese con tono beffardo e superiore: «Cosa mi puoi proporre tu che non posso già avere, sentiamo?» ghignò, sicuro di sé. Rommy odiava quando la gente con cui parlava tentava di farlo sentire inferiore. «Niente stronzate, Tuco, non sono in vena» rispose con fermezza. Non gli andava che lo si trattasse come un bamboccio. Non lo era più e questa era l’occasione buona per dimostrarlo. Arrivarono in un punto piuttosto buio del parco. Il ragazzino più piccolo si fermò, levò lo zaino dalle spalle e lo aprì. Estrasse le carte di credito e il blocchetto degli assegni e li porse a Tuco insieme a una domanda: «Ti interessa? Conosci qualcuno che può usarli senza farsi beccare?» L’orgoglio del ragazzino cominciò a espandersi come poliuretano. «Dove cazzo li hai presi?» esplose il brutto con grande sorpresa dipinta sul volto. Ora la fierezza del piccolo Tony Montana era alle stelle. «Non sono affari tuoi dove li ho presi, dimmi solo se ti interessano.» Sapeva di avere il coltello dalla parte del manico e non aveva intenzione di perdere una buona occasione per maltrattare quel bullo senza cervello. Si sarebbe tolto delle soddisfazioni quella sera, sassi nella scarpa
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che sarebbero stati estirpati con gioia. «Dipende» spiaccicò il grosso adolescente che si stava riprendendo dalla sorpresa. «Da cosa?» «Da quanto vuoi.» «Beh, cinquecento mi sembra il minimo» sparò il piccoletto che non si era preparato un prezzo per quella roba. Tuco rimase a pensare per qualche attimo, poi riprese la conversazione. «Si può fare, ma è una cosa da prendere con calma. Prima devo trovare qualcuno a cui interessano questi affari, poi organizzeremo lo scambio.» Ci fu una breve pausa in cui sembrò che l’affare fosse bell’e concluso. Rommy si pentì di aver sparato così basso. «D’accordo» disse a malincuore. - «Allora questi li tengo io» disse all’improvviso Tuco. «Ma che sei scemo?» rispose Rommy alterato. «Non se ne parla proprio. Prima voglio i soldi e poi ti do i gioielli» concluse il piccoletto con fare deciso. Tuco rimase per un po’a pensare a come uscire da quella questione, poi rivelò la sua soluzione. «Facciamo così, domani sera vieni a casa mia, guardiamo una delle mie cassette con gli altri. Tu li porti e io, se ho trovato da fare lo scambio, ti do i soldi.» Quell’imbecille aveva solo ed esclusivamente cassette porno di pessima qualità. Rommy era stanco di vederle e rivederle, la proposta non lo entusiasmava, ma non era un tipo difficile, soprattutto quando si trattava di intascare del denaro. «D’accordo, ma non ne devi parlare con nessuno.» «Con chi credi di avere a che fare, sbruffone? Non me lo devi venire a dire tu quello che devo fare, chiaro?» esclamò Tuco scocciato per il tono sicuro e perentorio di Rommy. «Ok, ok» rispose quest’ultimo con un sorriso nemmeno troppo nascosto nei suoi occhi scuri. «Ci vediamo domani» salutò, e si diresse verso il Viale dei Pensieri rimettendosi nello zaino il prezioso bottino.
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3 Vendetta e rispetto
Camminando lungo l’oscuro e squallido Viale dei Pensieri Rommy assaporò le sensazioni che gli stavano inondando il cuore. Si sentiva grande, ormai adulto. Aveva la convinzione di essere maturato molto negli ultimi giorni, di aver imparato tante cose nuove e utili sul mondo, su come bisognava comportarsi per avere ciò che si desiderava. Innanzitutto occorreva determinazione. Questa era la prima cosa, quella indispensabile in assoluto. Dopo di che sicurezza e fiducia in se stessi. Parlare con le persone sfoggiando la propria sicurezza era il modo migliore per fare in modo che gli altri ascoltassero, credessero e obbedissero. Aveva scoperto un sacco di verità che nessuno gli aveva mai svelato prima d’allora. E c’era voluto un film per scoprirle. Un film. Una pellicola impressa da persone che abitavano in ville gigantesche in America, in riva al mare, con la piscina riscaldata e la Ferrari parcheggiata nel vialetto di ghiaia. Erano stati quegli uomini lontani migliaia di chilometri a svelargli come poteva cambiare la sua vita. E forse, pensò Rommy, anch’essi avevano cambiato la loro allo stesso modo. Quei pensieri di gloria fecero rapidamente presa sul ragazzo. Come è facile immaginare. Ci si abitua rapidamente al bello e all’abbondanza. È sufficiente, a volte, anche solo il pensiero. Un po’più complicato risulta essere il contrario. Rommy, ora che intravedeva un futuro dorato sulla cresta dell’onda, non aveva più intenzione di adattarsi a ciò che aveva avuto fino ad allora. Non voleva più stare in una stanza pidocchiosa di una casa pidocchiosa in un viale pidocchioso. Voleva soldi a palate per esaudire i propri desideri. Non avevano importanza il dove e il come li avrebbe trovati. Li avrebbe trovati. E voleva il potere. Essere ascoltato e temuto, rispettato e stimato. Gli si era spalancato un nuovo facile mondo davanti agli occhi, fatto di possibilità che stavano tutte alla sua portata, doveva solo prendersi ciò che desiderava. Niente scrupoli e niente rimpianti. Rommy adorava sentire le tasche gonfie di soldi, il loro peso leggero e
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rassicurante. Ma soprattutto idolatrava quella sensazione di potere che si portava appiccicata addosso, radicata in profondità, derivante dalla sorpresa e dal rispetto insolito che Tuco gli aveva dimostrato. Questo era vivere. Avrebbe concluso l’affare ricavandoci un bel gruzzolo. Ma ciò che più contava non erano i soldi che avrebbe guadagnato. La cosa veramente importante era la svolta che stava prendendo la sua vita. Il viale era intento nel suo naturale andirivieni di clienti e prostitute. Il passaggio pedonale su cui camminava Rommy era regolarmente cadenzato da quelle povere ragazze in attesa di vendersi. Una ogni due lampioni era la regola. Il ragazzino incrociò per un istante lo sguardo di una bionda molto alta e bella, che doveva avere al massimo diciassette anni. Subito dopo incassò il caloroso e disarmante sorriso di Melissa, una veterana che, in quel viale, ci aveva passato buona parte della sua vita. Lei non era come le altre. Aveva una luce diversa negli occhi. Sembrava sempre allegra e spensierata, come se quel lavoro non le pesasse affatto. In fondo Melissa era la più anzianotta ed era quella che i clienti si filavano di meno. Forse era quello il motivo della sua perenne allegria. Fatto sta che Rommy e Melissa si conoscevano da un pezzo. E da un pezzo, a unirli, c’era un tenero rispetto reciproco. Il piccoletto ricambiò il sorriso e proseguì per la sua strada, pensando che se avesse avuto bisogno di una specie di segretaria, in futuro, avrebbe scelto lei. Quel pensiero delicato e sensibile aprì in lui una breccia compassionevole che lo condusse, con la mente, all’uomo che aveva derubato quel giorno. Ma durò soltanto un secondo, il tempo di convincersi che quel ciccione avrebbe dovuto starsene buono buono sul comodo sedile della sua bella macchina. Poi, la crepa della sua coscienza, si saldò nuovamente a tenuta stagna. Rommy, dopo aver salutato qualche altra ragazza sul marciapiede, raggiunse il portone del suo palazzo. Lo spinse e si trovò a percorrere la scala con passo più deciso e vivace rispetto al solito. Nonostante la stanchezza che aveva in corpo si sentiva ancora ricco di energie, nuove e inattese. Arrivato al pianerottolo del suo appartamento il ragazzo sentì il rumore e le voci inconfondibili di due corpi che davano libero sfogo all’istinto riproduttivo della specie. Si trattava sicuramente di Sil. Rommy inserì la chiave nella toppa e la girò cercando di fare meno rumore possibile, trattenendo il fiato, quasi. Entrò e richiuse con altrettanta cura. Si diresse in punta di piedi verso camera sua. Non aveva voglia di parlare con suo fratello. E poi sapeva bene come reagiva quando ve-
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niva disturbato in quelle situazioni. Gli spasimi provenivano dal divano. Esattamente da dove la sera prima giaceva immobile quella mezza morta con la pancia divorata dai ferri di un macellaio che si spacciava per dottore. E, come la sera prima, il saluto di Sil fu caloroso e cordiale: «Vai in camera tua, porca puttana!» gridò. Rommy prima si maledisse per essersi fatto sentire, poi ebbe un sussulto d’ira. Avrebbe voluto urlare a pieni polmoni all’indirizzo di Sil che doveva fottersi. Che non lo avrebbe mai più dovuto trattare in quel modo. Ma si limitò a pensarlo, con uno sforzo immane, per non dover discutere con lui e finire così col rovinarsi il momento magico che stava trascorrendo. Così si rifugiò con calma olimpica nel suo orgoglio e nelle sue quattro mura. Quella stanza, in realtà, aveva l’aspetto perfetto di una cella, ma agli occhi di Rommy appariva più come una specie di fortino inattaccabile. Si buttò sul letto subito dopo aver gettato a terra lo zaino. Incrociò le mani dietro alla nuca e rimase per qualche secondo in silenzio aspettando il torpore del sonno che stentava ad arrivare. I due di là ci stavano dando alla grande. Rommy sentiva i mugolii di piacere della ragazza e il respiro ansimante di Sil. Con le immagini che quel casino evocava non era impresa facile riuscire ad addormentarsi. Il ragazzo si alzò sbuffando e andò a riprendere lo zaino che aveva appena abbandonato tra confusione del pavimento. Ne estrasse il bottino di giornata e lo adagiò, dopo averla sommariamente liberata dalle cartacce e dai libri inutili che la occupavano, sulla piccola scrivania color noce addossata al muro. Prese posto sulla sedia in coordinato e restò immobile a guardare le carte di credito e gli assegni. Il divano emetteva cigolii sempre più violenti. Il leggero dondolio che lo aveva sempre caratterizzato, causato da un’imperfezione di fattura, era diventato un vero e proprio fracasso nell’onda del piacere. Rommy si tolse dalle tasche anche i contanti e li appoggiò accanto al resto della refurtiva. Rimase ancora qualche secondo a guardare i frutti di quel giorno, poi si alzò e andò ad aprire un cassetto nel comò. Spostò qualche paio di calzini e un po’di mutande, fino a trovare ciò che stava cercando. Afferrò il sacchetto con l’erba e tutto il necessario per prepararsi un attimo di oblio e tornò a sedersi cominciando ad armeggiare sapientemente con le cartine. La ragazza, di là, alzò la voce e i suoi sospiri divennero singulti, poi versetti. Rommy si eccitò pensando a quel bastardo di suo fratello che se la spassava sopra di lei. Finì di rollare la canna e l’appoggiò sulla scrivania, tra le altre meravi-
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glie, come se anch’essa facesse parte di un tesoro conquistato con mille fatiche. Si alzò e tornò a nascondere l’erba e le cartine tra la biancheria. Subito dopo si portò a ridosso della porta. L’aprì senza fare il minimo rumore, cercando di migliorare la prestazione di poco prima in cui aveva fallito. Uscì dalla stanza strisciando contro il muro del corridoio e sporse la testa per vedere oltre l’angolo della parete. Sil era seduto sul divano e la ragazza era sopra di lui con la faccia rivolta proprio verso il punto in cui si trovava Rommy. Gli occhi della donna si posarono quasi immediatamente sul ragazzino sbalordito che, preso dalla curiosità di vedere, si era esposto in modo quasi ridicolo. La signorina rallentò per un attimo, lievemente sorpresa, il suo movimento di piacere. Poi, con un sorriso perverso, fece l’occhiolino a Rommy e cominciò ad agitarsi selvaggiamente e a gemere sempre più forte, con lo sguardo fisso in quello del piccolo spione. Sil finì di fare ciò che doveva fare e scostò la ragazza senza preoccuparsi di usare anche solo un minimo di buone maniere, mentre il ragazzino, di fronte a quello spettacolo, si sentì di nuovo piccolo e insignificante. Rommy strisciò di nuovo in camera sua nel più assoluto silenzio. Rimise il gruzzolo nella tasca anteriore dello zaino e lo indossò con pochi movimenti precisi. Appoggiò tra le labbra la cicca che aveva preparato e si guardò in giro, congedandosi sommessamente da quel luogo quasi sacro, per lui. Prese di nuovo a muoversi silenziosamente verso l’uscita. Sil era in bagno a farsi una doccia, quindi ci sarebbe rimasto per un po’. La ragazza, invece, si stava rivestendo con gli occhi incollati al televisore che aveva cominciato a gracchiare non appena terminato l’amplesso. Il ragazzino camminò in punta di piedi fino a trovarsi di fronte alla porta di ingresso. L’aprì lentamente e lasciò l’appartamento. Ridiscese le scale della palazzina che aveva percorso pochi minuti prima e si trovò per strada, respirando quella libertà che in casa sua non poteva avere per via di un fratello come Sil. Accese il cilindretto accartocciato che aveva in bocca e, poco dopo, udì le urla festanti della sua fierezza che lo incitavano ad andarsene e a piantare la spoglia parentela che aveva al mondo. Di certo nessuno si sarebbe dannato l’anima per cercarlo, pensò Rommy che, un attimo dopo, quasi senza rendersene conto per via dello stordimento causato dalla marijuana, suonò di nuovo a casa di Tuco. Era passata l’una. Ci fu una lunga pausa durante la quale Rommy tirò un altro paio di profonde boccate dalla sua canna. Poi una voce senza testa uscì dalla finestra del primo piano.
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«Sali» disse scocciata la voce che apparteneva al ragazzone, alterata dal sonno interrotto per la seconda volta. Il portone si aprì con un deciso rumore di corrente elettrica. Dopo aver dato un’ultima tirata alla cicca, il piccolo ospite si decise a entrare. Sentì, attraverso la tromba della scale, che al primo piano si apriva l’ingresso dell’appartamento di Tuco. «Che cazzo vuoi ancora?» lo accolse il brutto prima ancora di vederlo arrivare dalla curva ad angolo retto della scala. Rommy ebbe l’istinto di saltargli al collo e di dargli una marea di pugni sul naso, per affogargli nel suo stesso sangue quella certezza di essere sempre il più forte e il migliore in ogni cosa. Si trattenne, non senza fatica, anche perché Tuco rappresentava la cosa più simile a un amico che avesse quella notte. Così, il piccoletto, tirò due profonde boccate d’aria ed estrasse il suo tono più cordiale. «Posso stare da te stanotte? Mio fratello ha da fare.» «Che palle» sbottò Tuco rientrando in casa e facendo strada al suo sgradito visitatore. In fondo, pensò Rommy, non era tanto male. Bastava trascurare il suo carattere, la sua testa piena di convinzioni hollywoodiane, il suo modo di fare da dio dell’olimpo, il suo cervello e le sue cassette porno che facevano schifo ai porci. Niente male davvero. Si sistemarono insieme nella stanza di Tuco. Il padrone di casa tornò nel tepore del letto che aveva da poco abbandonato, mentre Rommy si sistemò per terra, in un vecchio sacco a pelo riscoperto dal ragazzo più grande per l’occasione. Prima di mettersi a dormire, come se fossero due vecchi amici, scambiarono quattro chiacchiere al buio su diversi argomenti, dai film, alle ragazze, alla scuola. Poi, dopo una breve pausa, forse a causa del torpore provocato dal sonno e dalla canna, o forse soltanto per sdebitarsi del favore che stava ricevendo, Rommy si mise a raccontare tutta la giornata che aveva trascorso e che l’aveva portato ad avere tra le mani le carte di credito e gli assegni. Narrò tutto sinceramente, per filo e per segno, a partire dal momento in cui aveva deciso di fregare quel portafogli dal sedile della Mercedes. Tuco rimase molto impressionato, o, più probabile, fu bravo a fingere di esserlo. Si mise a ridere di gusto quando il piccolo Tony Montana raccontò di come Lucio si era spaventato e del modo in cui i due avventurieri si erano separati. Naturalmente, da buon narratore, Rommy abbelliva il suo racconto aggiungendoci qua e là dei particolari curiosi quanto scorretti.
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«Non ti facevo così in gamba, scricciolo, quanti anni hai, dodici?» chiese Tuco alla fine del dettagliato rapporto. «Tredici, ma gli anni non contano» rispose lo scricciolo a metà tra l’offeso e l’orgoglioso. «Giusto!» lo assecondò il grande e grosso amico che, forse, era più furbo di quanto non lasciasse intendere. «Senti,» continuò immediatamente, «che ne dici di fare subito lo scambio, io ti do i soldi e tu mi lasci le carte e gli assegni. Perché aspettare?» Rommy ci pensò un istante e giunse ben presto alla conclusione che quella era veramente una buona idea. «Già, perché aspettare?» domandò con un sorriso soddisfatto sulle labbra. Tuco si alzò dal comodo materasso ed estrasse una scatola di cartone tutta colorata dalla stessa cassapanca dalla quale era uscito anche il sacco a pelo. Ne tolse il coperchio e tirò fuori un’altra scatola identica alla prima, solo un po’più piccola. Compì la stessa azione per tre o quattro volte, poi, dall’ultima scatola, pescò un astuccio di jeans. Lo aprì e tirò fuori un mazzetto di banconote miste. Si avvicinò al suo piccolo ospite e cominciò a contarle fino ad arrivare a cinquecento euro. Rommy, uscito dal sacco a pelo, non stava più nella pelle, ma cercò di nasconderlo senza riuscirci un granché bene. Si limitò a rimanere in silenzio con lo sguardo fisso su quel mazzo tutto colorato tra le dita abili di Tuco, pensando che in vita sua non aveva mai avuto tanti soldi tra le mani. Il ragazzino non riuscì nemmeno a farsi un’idea approssimativa di quanti potessero essere quei contanti. L’unica cosa di cui si sentì certo fu che, una volta tolti i cinquecento che gli spettavano, quel mazzetto sembrava tale e quale a prima. Tuco tornò a svolgere, all’inverso, le operazioni che aveva appena compiuto. Una volta richiuse tutte le scatole le ripose nuovamente nella cassapanca. Subito dopo, forse per rompere un silenzio imbarazzante, disse: «Lo faccio solo perché mi sei simpatico. Se no col cazzo che te li pigliavi questa sera.» La loro era una sfida costante all’ultima parola. Chi dei due avesse pronunciato la frase più perentoria, più risolutiva, per la quale non si accettavano repliche, sarebbe stato il vincitore. Rommy incassò con il sorriso sulle labbra, ben lieto di lasciar vincere quella battaglia a Tuco. In fondo aveva ottenuto ciò che desiderava e poteva permettersi di lasciare una piccola soddisfazione al suo compratore. Non per questo provava simpatia per lui.
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I due si scambiarono i rispettivi beni. Rommy ripose i soldi insieme a quelli che già aveva nello zaino. In totale aveva più di mille euro. Il solo pensiero lo riempiva di una gioia scioccante che gli annebbiava la mente. Tuco, molto più tranquillo dall’alto della sua maggiore esperienza, nascose i suoi gioielli nel portafogli che estrasse dalla tasca posteriore dei pantaloni appoggiati su una sedia. Anche lui sembrava soddisfatto. “Simpatico un cazzo, ti fanno gola, altro che storie…” pensò il più piccolo mentre si infilava di nuovo nel pidocchioso sacco a pelo. «Notte scricciolo, mi piace fare affari con te» si lasciò sfuggire il brutto con un tono indecifrabile, che a Rommy non piacque per niente. FINE ANTEPRIMA CONTINUA...