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ROSSANA MOGGIA
SEGRETI & SEGRETE
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/
SEGRETI & SEGRETE Copyright © 2020 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-402-1 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Giugno 2020
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CAPITOLO 1
Emma Mi condussero su un sentiero pieno di buche e sassi, con le mani legate dietro alla schiena. Erano tre uomini incappucciati e vestiti di nero. Mi trovai sull’orlo di un baratro. Mi spinsero e io caddi violentemente dentro la pancia della montagna, giù, non capivo dove. Improvvisamente mi fermai. Ero morta sfracellata? No… Cominciai a muovermi, qualcuno mi scosse. Sentivo tutti i dolori della caduta. Mossi una mano, poi l’altra e sentii che le gambe, pur indolenzite, rispondevano ai comandi. Tastai intorno. Qualcosa di molliccio, un morbido tappeto che aveva attutito la caduta. Per questo ero ancora viva. Era buio come in una notte senza luna. Guardando in tutte le direzioni scoprii un esile filo di luce che arrivava da una crepa in cima al baratro. Dov’ero? Vedevo una nicchia nella roccia e intorno polvere e scaglie di pietra che franavano nel cunicolo. Era il fondo di un pozzo, da cui non si poteva uscire. Meglio se fossi morta nella caduta. Avevo freddo. L’umido mi penetrava nello stomaco. Vidi due coperte sopra un materasso. Mi avvolsi in quegli stracci sporchi e cominciai a strisciare sulla pancia come un serpente, ma più mi allontanavo più si faceva buio, umido e viscido. Pensai che fosse tufo e si sentiva lo scrosciare dell’acqua. Sarei andata a fare la fine del topo affogato, il mio cadavere sarebbe marcito qui sotto, in questo umido. L’oscurità completa e il movimento strisciante mi toglievano il senso della distanza. Ero esausta. Decisi di tornare indietro verso il giaciglio, almeno avrei ritrovato una fessura di luce. Scontrai qualcosa che fece un rumore assordante. Con le mani tremanti cercai d’indovinarne la natura. Era un secchio appeso a una corda, che pendeva da un’apertura in alto.
5 Dunque non mi volevano morta. Probabilmente per il momento mi avrebbero solo torturata, fino a ottenere quello che volevano. Non so quanto tempo passò. Poi sentii dei rumori provenire dall’alto. “Ecco, ora vengono a torturarmi”. Invece nel secchio trovai un cestino. Tastai il contenuto e capii che conteneva pane, formaggio e acqua. Agguantai avida e il secchio si sollevò. Era chiaro. Dovevo sopravvivere. Greta Il pianto disperato di Andrea mi svegliò. Guardai l’orologio e le lancette segnavano le quattro in punto. Avrei voluto girarmi dall’altra parte perché mi restavano ancora tre ore di sonno prima della sveglia, ma quel pianto non smetteva, anzi diventava un urlo disperato. Mamma che faceva? Perché non si svegliava? Io volevo dormire. Avevo solo tredici anni e sarei dovuta andare a scuola. Quando sei nato, diciotto mesi fa, sono venuta a vederti in ospedale. Un bel bambino, pacioccone. Te ne stavi tranquillamente tra le braccia di mamma a ciucciare il latte al seno. Lei ti stringeva forte e io ho provato anche un po’ di gelosia, perché avevo capito che avrei dovuto dividerla con te. Poi le cose sono cambiate. Venuti a casa, mamma e papà non facevano che litigare, spesso urlando. Una sera papà, pensando che fossi già a dormire, disse che aveva deciso di andare a vivere con la sua segretaria. Io ero nascosta dietro alla porta e sentii la mamma rispondere che non ci poteva abbandonare, specialmente ora che era arrivato Andrea, che aveva bisogno di suo padre. Fu crudele e cattivo, irremovibile. Replicò che ci avrebbe passato una cifra cospicua e che non avrebbe fatto mancare nulla al nostro mantenimento. Grazie, come se bastassero i soldi a risolvere tutti i problemi. Mia madre lo supplicò di non farlo, inginocchiandosi ai suoi piedi, toccandolo dappertutto. Ma lui era una statua di ghiaccio. Lentamente cominciò a sistemare le sue cose in una valigia. Dopo un lungo silenzio sentii il clic della porta che si chiudeva. Da quella sera per me è stato un inferno.
6 Non potevo più sentirlo. Mi alzai e andai in cucina. Nel lavello vidi i piatti da lavare e anche i biberon di Andrea. Bicchieri caduti a terra e liquido versato sul tavolo raccontavano quello che era avvenuto poco prima. Da quella fatidica sera, la mamma cambiava uomo spesso e beveva, e forse si drogava. «Mamma! Svegliati! Andrea deve mangiare!» La scossi violentemente, la schiaffeggiai, ma niente… sembrava morta. A scuola andavo raramente perché non me la sentivo di lasciare Andrea in balìa di mia madre, tutto il giorno frastornata. Preparai il biberon, lo cambiai e lui, dopo averlo scolato tutto, si addormentò, sfinito dal pianto e con la pancia piena. Anche quella mattina si fece tardi. Comunque non potevo certo lasciare Andrea a mia madre. In un momento di lucidità mi aveva raccomandato di non raccontare niente a nessuno, altrimenti Andrea sarebbe stato affidato a un’altra famiglia e io sarei andata in collegio, e la colpa sarebbe stata soltanto mia. Ma io non potevo più far finta di nulla. La mamma era persa, non riuscivo a immaginare cosa e chi l’avrebbe salvata. Mi avvicinai di nuovo al letto. La tirai chiamandola, e ogni volta che non rispondeva, mi assaliva il timore che fosse morta, ma ancora una volta lei aprì prima un occhio e poi l’altro. «Lasciami dormire» disse biascicando. «Mamma, io devo andare a scuola. Andrea dorme, l’ho cambiato e ha mangiato.» Lei era già ripiombata nell’incoscienza. Emma Mi addormentai. Non so quanto riuscii a dormire, tra incubi e realtà. Precipitando in una realtà parallela, lì restavo il più a lungo possibile, raggomitolata su me stessa per proteggermi. Le pareti umide di quella caverna erano diventate il mio incubo. Dovevo tenermi viva. Dovevo evadere, almeno con la mente. Per non atrofizzarmi cercavo di muovermi, facendo esercizi con le gambe e le braccia. Parlavo ad alta voce a un’amica inventata a cui confidavo i miei pensieri. Le raccontavo di lunghi viaggi.
7 Qualcuno ha detto che la psiche umana utilizza tutti i mezzi a disposizione prima di abbandonarsi alla pazzia. Dunque, fino a quando la mia mente avesse passeggiato in spazi lontani da quella realtà, non sarei diventata pazza. Mi alzai per andare via. Tornai bambina in un paese del Piemonte a cinquanta chilometri da Cuneo, nel 1950. Ero l’ottava figlia, unica femmina dopo sette maschi. I miei genitori erano contadini e allevatori di bovini, e le braccia dei miei fratelli servivano ad aiutare l’azienda, mentre io non servivo a nulla. Dopo la quinta elementare mi dissero tutti in coro: «Perché non vai in convento?» Io non volevo. «Sai, in convento ti faranno studiare, poi magari ti trovi bene e prendi i voti.» «Ma che dite? Io non voglio farmi suora!» Dovetti andare perché gli ordini del padre non si discutevano. Cercarono un convento vicino casa, ma era di clausura. Mi accompagnò mamma, e quando entrai rimasi sbalordita dalla grandezza dei saloni austeri. Ci fece strada una suora guardiana fino al parlatorio. Con un inchino ci disse di aspettare la madre superiora. “Io fuggo”, pensai “non ci sto un minuto di più”. «Ti prego, non mi lasciare qui, mamma.» «Vedrai che starai bene» mi rispose. I miei singhiozzi erano sempre più forti quando la suora guardiana, ricomparsa, ci diresse in un lungo corridoio illuminato da candele tremule, fino a una porta che aprì cedendo il passo a me e mamma. Ci accolse una vecchia suora dalla pelle rattrappita: «Buongiorno.» Ritornò dietro a uno scrittoio. Ricordo che mi faceva paura, tutta vestita di nero. «Non devi aver paura, vedrai che ti troverai bene qui con noi e le altre ragazze. Andrai a scuola, pregherai, parlerai con le ragazze, e poi tua madre verrà spesso a trovarti, vero?» Mia madre annuì senza dire una parola. Allora non capii, ma oggi sono certa che si erano già accordate, mia madre e la suora. Ricordo i loro sguardi d’intesa. Allora ero troppo spaventata e addolorata per rendermene conto. «Vengo presto» disse mia madre, mi diede un bacio veloce e se ne andò.
8 Rimasi immobile, in compagnia dei miei singhiozzi e della madre superiora che, presa da tenerezza, mi tese le braccia e mi strinse forte. Io la guardai negli occhi, lei mi sorrise e io mi sentii protetta e capita. Era bello trovarsi in refettorio a parlare tutte insieme, chi della scuola, chi del lavoro, anche se non si riusciva a capire quasi niente per il gran baccano. Finché la madre superiora, con un comando quasi impercettibile, metteva a tacere tutte quante. Mi piaceva questa grande famiglia perché, essendo io la più piccola, tutte mi coccolavano e mi facevano sentire meglio che a casa. Quando ero a casa mia, specialmente a tavola, non potevo dire nulla. Appena cercavo di parlare, uno sguardo di mia madre bastava per farmi capire che non dovevo continuare. I pasti insieme erano una vera tortura. Se qualcosa non mi piaceva dovevo ingoiarla a forza altrimenti i miei fratelli, in particolare il più grande, s’infuriavano e non tardavano a dirmi che ero una mangiapane a tradimento e che mi permettevo pure di fare la schizzinosa. Io non capivo e mi mettevo a piangere. Allora interveniva mia madre per difendermi quando uno di loro accennava a picchiarmi. «Lasciala stare!» diceva «non ti azzardare a toccarla.» Non mi volevano proprio i miei fratelli, e me lo facevano capire fin troppo chiaramente. Ma io lo stesso non capivo perché cercavo di fare tutto quello che mi si chiedeva. Passarono sette anni sereni, protetta da tutte quelle persone che s’impegnavano a farmi sentire meno sola. Poi la madre superiora, per raggiunti limiti d’età, fu trasferita in un convento per suore anziane. Greta «Devo andare a scuola!» dissi per l’ennesima volta «Andrea ha mangiato, l’ho cambiato e ora dorme!» urlai. Andai in camera per vestirmi, se volevo arrivare a scuola in tempo, dovevo lasciare il letto disfatto, come sempre, con la coperta ammucchiata in un angolo. Presi il diario aperto sulla scrivania per metterlo nello zaino. Guardai l’ora, era tardissimo. Sentii i ragazzini del quartiere ridere e scherzare mentre aspettavano il bus. Neanche quella mattina potevo essere con loro.
9 “Accidenti! Basta! Non ce la faccio più”. Cercai di calmarmi e sentii Sara, una ragazza venuta ad abitare da poco tempo nell’appartamento di fronte al mio. Faceva scrosciare l’acqua in bagno mentre sua madre le urlava: «Muoviti! Perché devi fare sempre tardi?» Ho sempre pensato che Sara fosse seguita e incitata dalla madre. Poi sentii l’odore del sugo che stava preparando. “Che bello sarebbe tornare da scuola e trovare pronto in tavola!”. Era simpatica la mamma di Sara. Sempre gentile quando la incontravo. Poteva essere la mia ancora di salvezza. Avevo sperato che papà tornasse, ma non si era più fatto vivo. L’ultimo segno di vita era stata una comunicazione di un avvocato che mia madre aveva ricevuto, nella quale c’era scritto che mio padre voleva il divorzio perché intendeva sposare un’altra donna. Dall’indirizzo della lettera era evidente che si fosse trasferito all’estero. Provai a scrivergli, ma non ricevetti mai risposta. Le foto di mio padre erano sparite tutte, ero riuscita a salvarne solo una dall’ira di mia madre. Avevo bisogno di guardarla quell’unica foto, e più la guardavo più mi rendevo conto che di noi non gli sarebbe più importato nulla. In principio fu difficile crederci, ma mano a mano che Andrea cresceva, mi convinsi che era vero e il suo silenzio lo confermò. Trepidante, suonai il campanello e lasciai la porta di casa aperta perché solo un pianerottolo divideva i due appartamenti. Dopo qualche minuto sentii passi e la porta si aprì. «Ciao, che sorpresa» disse la donna, dietro di lei Sara mi salutò con la mano. «Scusi l’intrusione a quest’ora, ma…» «Vieni dentro, non stare sulla porta.» Entrai e cominciai a singhiozzare. Lei mi vide così disperata che mi prese fra le braccia e mi strinse forte. Mi abbandonai alla dolcezza di quell’abbraccio silenzioso, e liberai le mie lacrime. Quando vide che ero più calma, mi fece accomodare su una poltrona in salotto e mi offrì biscotti e tè. «Che succede?»
10 Le spiegai che io dovevo andare a scuola, ma la situazione era grave. Maria rispose che era necessario informare le autorità competenti, e che ci avrebbe pensato lei. «Devo andare, ho lasciato Andrea solo a dormire. Magari si sveglia e si spaventa.» Salutai e rientrai in casa. Andai nella camera di mia madre, che dormiva ancora. Guardai la culla di Andrea. Vuota. Pensai che mia madre si fosse svegliata e avesse sistemato Andrea accanto a sé. Sentii che ce l’avremmo fatta da soli, senza l’intervento dell’assistente sociale. Guardai attentamente il lettone e tirai giù le coperte, di Andrea nessuna traccia. Allora gridai: «Dov’è Andrea?!» Guardai sotto il letto, ovunque, ma nessuna traccia di mio fratello. Sparito nel nulla. Scrollai mia madre. «È sparito e tu dormivi, come sempre. Chi l’ha preso? Chi è venuto?» Lei mi guardò senza capire. La tirai su di peso e le buttai dell’acqua in faccia. Faticosamente riuscì a rispondere: «Non so niente! Non mi sono accorta di nulla!» Ai carabinieri mia madre disse che non stava bene, che prendeva dei tranquillanti per dormire e che io, pur sapendo delle sue condizioni, avevo lasciato Andrea da solo senza avvertirla. Che stronza! Cosa mi sarei dovuta aspettare da mia madre? Da piccola me ne stavo nascosta per ore dentro un armadio nel buio, dopo che mi aveva picchiata perché mi era sfuggito di mano un bicchiere o perché avevo rovesciato qualcosa per terra. Ogni volta che mi nascondevo mi trovava sempre, anche nei posti più impensati. Anche se cercavo di non respirare, come se quel suono flebile bastasse a farmi ritrovare. Allora mi obbligava a uscire dal mio nascondiglio e mi guardava con occhi neri penetranti, e già promettevano quello che sarebbe successo. Puntualmente arrivavano sberle in faccia, mi diceva che ero maldestra e cattiva, che lasciavo la camera in disordine, che sporcavo ovunque, e mi elencava un sacco di cose che non dovevo fare. Odiava le briciole, tanto che avevo deciso di non mangiare più né pane né biscotti. Non avrei più
11 bevuto dal bicchiere né usato i pennarelli. Nonostante tutto il mio impegno, qualcosa di sbagliato accadeva sempre. Quella volta che incidentalmente ruppi un vaso di cristallo, urtato per prendere un libro, pensai fosse arrivata la mia fine. Mi rifugiai nella baracca degli attrezzi in giardino, dove non mi ero mai nascosta, sperando che pian piano l’ira di mia madre si sarebbe smorzata. Mi sentivo soffocare. Neanche una finestrella, e un acre odore dalla nafta che il giardiniere usava per la falciatrice. Era così forte che non riuscivo a respirare perché la nafta era anche per terra. Immaginai che se avessi acceso un fiammifero avrebbe preso fuoco tutto. Il tempo passava lentamente. Mi coprii con degli stracci trovati in un angolo. Forse ero salva. Invece, poi, la sentii gridare sempre più vicina, come se un uragano si stesse per abbattere su di me. Improvvisamente il rumore dei passi cessò e anche il battito del mio cuore. Lei spalancò la porta e io chiusi gli occhi, sia per la luce accecante sia per la paura. Mi tolse gli stracci e mi afferrò per un braccio. «Cos’hai combinato!» mi urlò con gli occhi fuori dalle orbite, scuotendomi. «Lo sai che valore aveva quel vaso! Ma tu sei una peste, fai solo guai.» Mi schiaffeggiò così forte da farmi cadere per terra e la mia testa batté contro uno spigolo. Mi toccai e vidi la mano rossa. Neanche alla vista del sangue si arrestò e continuò a picchiarmi fino a quando intervenne mio padre. «Basta! Cos’ha fatto di tanto terribile? Guarda come l’hai conciata!» Mi aiutò ad alzarmi, mi portò in casa e mi tamponò la ferita, fortunatamente non grave. «Non l’ho fatto apposta, papà» dissi singhiozzando «l’ho scontrato mentre cercavo di prendere un libro ed è caduto.» «Sei un disastro, non fai niente di giusto, non ti sopporto più. Ti metto in collegio!» replicò mia madre ancora infuriata, forse più di prima. «Ma ha solo sei anni! Ci vuole un po’ di pazienza.» Mia madre era maniacale. Bastava un velo di polvere sui mobili per maltrattare la domestica di turno, che naturalmente cambiava spesso. Restava dura anche dopo avermi picchiata. Mai una scusa. Mio padre raramente era in casa e, quando capitava, non voleva contrastarla troppo.
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CAPITOLO 2
Emma Mi svegliai. Aprii gli occhi ed era tutto buio. Ero in una caverna e non capivo se avevo sognato a occhi aperti o meno, ma non faceva differenza. Avevo freddo e ho fatto qualche esercizio per scaldarmi. Perlustrai la caverna centimetro per centimetro, le pareti, in alto e in basso. Trovai una ciotola con dell’acqua e vicino un pezzo di sapone e uno straccio. Dunque volevano che mi lavassi, ma che gentili. Mi volevano viva e presentabile ancora per un po’. Più in là trovai dei pantaloni e una maglia. Dovevo orinare e mi misi sopra a un secchio che quasi subito venne tirato su con una corda. “Allora mi spiano, vedono i miei movimenti. Come fanno?”. Dopo qualche minuto il secchio tornò giù. Era pulito e conteneva un cestino con acqua, pane e un intruglio di carne. Non mi andava ma il mio stomaco reclamava cibo, quindi presi tutta la roba dal cestino. Mentre mangiavo mi immersi di nuovo nella storia della mia vita. La nuova madre superiora ci aveva preoccupate. Bei lineamenti, belle labbra. Ma che ci faceva lì? Eravamo forse accomunate dallo stesso destino? A guardarla bene non aveva niente di mistico. Il velo era gonfio come se nascondesse una chioma folta, e la veste metteva in risalto la forma del seno. Veramente un personaggio enigmatico, e da subito mi trattò in modo diverso dalle altre. Il fatto non era sfuggito a nessuna. Passandomi accanto, mi guardavano di sottecchi e si davano spallate. Un giorno mi chiamò in privato e mi disse: «Allora, cara figliola, hai pensato seriamente di prendere i voti? Tu sei qui da tanto tempo» guardandomi dritta negli occhi «prima o poi dovrai decidere la tua strada. Ricordati, una volta entrata qui non si esce più.»
13 Mi parve che sogghignasse mentre pronunciava quest’ultima frase, ma forse fu solo una mia impressione. A quell’ultima frase sentii un pugno nello stomaco. Non era quella la vita che volevo, almeno non per sempre. Lì ero stata bene, serena, nell’adolescenza, ma non riuscivo a pensarmi lì per sempre. Spesso mi soffermavo a guardare come la madre superiora, pur giovane e bella, sapesse comandare, e le consorelle diventavano tanti soldatini pronti a ubbidire, quasi telecomandati. Capitò che la vidi rivolgersi a una novizia con tono austero, quasi cattivo. «Che fai qui?» le chiese urlando «non dovresti essere in chiesa?» «Sì, madre, mi scusi. Mi avevano chiamato al telefono.» «Era finita l’omelia in chiesa?» «No» rispose la novizia guardando il pavimento. «E allora dovevi aspettare! Che non succeda più. Oggi, per punizione, mentre le altre andranno in giardino, tu starai a pregare nella tua cella. È chiaro? Mi sono spiegata?» Accidenti, che stronza! Io continuavo a godere di privilegi, senza fare nulla di particolare. A ottobre mi unii alla classe delle postulanti. Indossai l’abito corto come le altre e mi avrebbero dovuto tagliare i capelli, ma intervenne la madre: «No, lasciatele i capelli lunghi.» La suora con le forbici in mano rimase meravigliata: «Perché?» «Non sono fatti che ti riguardano.» La madre mi assegnò una piccola cameretta privata, e anche questo provocò malcontento e indignazione. Perché mi metteva in imbarazzo? Sicuramente aveva un progetto, ma quale? Erano sette le altre postulanti, tutte intimidite, timorose della madre, e tutte provavano odio e rancore nei miei confronti. In particolare Anna, che sussurrava che mi avrebbe ucciso. Di nascosto diceva: «Eccola là, la ruffiana che si dà un sacco di arie e si crede chissà chi. Non lo sa che tra un po’ nelle grazie della madre entrerà un’altra.» Io non avevo mai chiesto di avere un trattamento diverso dalle altre. Andai dalla madre e le dissi: «Senta, ho dei problemi con le ragazze, soprattutto con Anna. Mi odia, non fa che gridare con me, aizza le compagne. Perché non mi mette a dormire con loro? Perché non ha voluto il taglio dei capelli?»
14 «Ci penso io» rispose semplicemente. Poco dopo si sparse la voce che Anna era stata duramente rimproverata e io mi sentii in colpa. Tra l’altro, si diceva che Anna sapesse cose terribili sulla madre, e che a tempo debito le avrebbe spifferate. Poi Anna non si presentò più alle orazioni. Era scomparsa. Dissero che, non sopportando le angherie della madre, una notte fosse fuggita. Scorgevo spesso la madre guardarmi con interesse, come per studiarmi, e ciò mi procurava imbarazzo e inquietudine. Che voleva da me? In seguito al convento arrivarono altre ragazze che furono sistemate nella stanza comune, mentre io rimanevo da sola. La madre mi chiamò nel suo salotto privato: «C’è un corso che inizia fra una settimana per diventare novizia. Che ne pensi?» «Non sono sicura di voler diventare suora. La decisione non è stata mia, ma di mio padre.» «L’ho sospettato fin da principio. Senti la loro mancanza?» «A volte. Mi manca quello che avrebbero dovuto essere e non sono mai stati. A volte mi chiedo dove sono, cosa fanno, come se la cavano con gli altri figli, e concludo che proprio io ero quella in più.» «Saremo noi, io e le tue compagne, la tua famiglia.» «Lo so» risposi poco convinta, senza mostrarlo. Mi prese sottobraccio e mi guidò in giardino: «Ti piacerebbe piantare e seminare? Avresti molto tempo da passare all’aria aperta.» Naturalmente risposi di sì. Doveva esserci una ragione anche per questo, ma non capivo. A tutte ormai fu chiaro che io ero la prediletta della madre. Lei veniva spesso a controllare quanto avevo realizzato, e io le facevo vedere le verdure e le erbe che crescevano, e le fragole sempre più squisite. Greta Anche a me i carabinieri chiesero com’era andata. Io spiegai che mi ero allontanata per soli dieci minuti per andare alla porta accanto, lasciando aperto per sentire un eventuale pianto di Andrea. «È colpa mia, non dovevo lasciarlo… e se non si trova?» sussurrai portandomi una mano alla bocca, come a fermare le parole che più temevo. Ripresi fiato: «Trovatelo! Non me lo potrei perdonare.»
15 «Una pattuglia sta perlustrando il quartiere. Probabilmente sono ancora qui vicino.» Frugarono nei cassetti, aprirono gli armadi, cercando qualche indizio. Trovarono solo polvere, letti sfatti, bottiglie e bicchieri per terra. Che sfacelo! I carabinieri capirono la tragica situazione in cui mi trovavo. «Suo marito, signora?» chiesero a mia madre. «Mio marito ci ha abbandonate. Se n’è andato con un’altra, quel bastardo.» Capirono anche che la mamma era alcolizzata, dunque incapace di curarsi dei figli, e io ero troppo piccola per farmi carico di tutto. Chiamarono l’assistente sociale: «Che ne diresti di andare qualche giorno presso una famiglia, giusto il tempo per avvertire tuo padre?» “Papà” pensai “sei da qualche parte, vienimi a prendere, per favore. Io non vorrei andare via di qui”. «Hai parenti, nonni, qualcuno che si possa prendere cura di te?» «No, nessuno.» «Starai bene» continuò l’assistente sociale «con questa famiglia andrai a scuola. Non ci vai mai, vero? Non rifiutare questa sistemazione temporanea.» Non avevo alternative. Quello stesso giorno conobbi la famiglia adottiva. Mi parvero simpatici. Lei cicciottella, capelli rossi a caschetto, occhi verdi, e mi venne in mente un soprannome: Pallina. Lui alto, muscoloso, nasone sporgente, manone tali da stordirti con un manrovescio. Lo chiamai Armadio. Sì, gli calzava. Non mi dissero che avevano un figlio loro sui quindici anni. Ricci rossi come la madre, spigoloso, antipatico. Mi guardò dall’alto in basso. Chi si credeva di essere? L’avrei chiamato Babbuino. «Forse ti chiedi perché abbiamo deciso di prendere in affido dei ragazzini. Noi pensiamo che il nostro Riccardo deve abituarsi a convivere con ragazzi o ragazze con cui condividere giochi e genitori. Non si può avere tutto per sé. Giusto?» mi spiegò la donna. «Giusto» risposi. «Come ti senti?» «Bene.» «Sono sicura che starai a tuo agio qui.» Era una villetta in mezzo al verde, un parco con tanti alberi. Subito mi portò a fare il giro della casa. Un sacco di stanze. Me ne indicò una.
16 «Questa è la tua camera e accanto il tuo bagno privato.» Cavolo! Avrei avuto un bagno tutto mio. «Vuoi mangiare qualcosa?» «No, grazie, non ho fame.» «Lo capisco, dopo tutto quello che è successo. Ma ti preparo una cosa che non potrai rifiutare. È buonissima.» Mandai giù il suo budino tiepido senza fiatare e lei fu contenta. Mi piacque tutto di quella camera. Il letto grande, il piumone extra morbido, l’enorme armadio, lo specchio dove mi potevo vedere a figura intera. Dalla portafinestra si accedeva a un ampio terrazzo. «Ti piace?» mi chiese Mary. «Sì, tutto molto bello.» «Abbiamo un giardiniere che si occupa di tutto il parco.» Appoggiate alla ringhiera, io guardavo il parco distrattamente, perché la mia mente era concentrata sui fatti appena accaduti. Come se mi leggesse nel pensiero, mi disse: «Non ti devi sentire in colpa, hai sofferto molto» e mi abbracciò «sei la benvenuta qui, ricordalo sempre.» Mary era entusiasta, Alberto, il marito, un po’ meno, ma si faceva i fatti suoi. Il problema era Riccardo. Evidentemente gli stavo sulle palle. Mi guardava in cagnesco come a dirmi: «Ma che vuoi qui? Che ci stai a fare?» Naturalmente io non volevo niente. Mi avevano costretto e speravo che mio padre arrivasse al più presto. Ma poi cosa avrebbe fatto? Mi avrebbe portato con lui? E se la sua nuova compagna non avesse voluto? In fin dei conti non aveva mai risposto alle mie lettere. Pensavo che avrei saputo qualcosa dall’avvocato. «La cena è in tavola!» gridò Mary, distogliendomi dai miei pensieri. Il mattino seguente ero pronta da un pezzo, seduta sul letto ad aspettare. «Non vieni a far colazione?» «No, grazie, non la faccio mai.» «Devi farla! Fa male andare a scuola senza mangiare!» Dovetti trangugiare due biscotti con il latte.
17 I giorni passavano. Scuola nuova. Gente nuova. Tutto nuovo. Un giorno vennero a casa dei compagni di scuola di Ricky. Mary mi incoraggiò ad andare a giocare con loro. Ma cosa c’entravo io con loro? Per non scontentare Mary andai, altrimenti sarei passata per la musona, asociale e maleducata. Subito mi pentii amaramente, perché Ricky disse a quei mocciosi: «È arrivato lo stecchino!» e tutti sghignazzarono. «Siete proprio stronzi.» «Va beh, dai. La mamma ha preparato dei panini per merenda, uno per ciascuno.» «Veramente io non faccio mai merenda.» «Non vorrai offendere mia madre?» «No, certo.» Presi il panino che Ricky mi offriva. Ne uscì una lucertola. Lo buttati e urlai: «Sei un bastardo! E tutti voi siete degni di lui!» Risero a squarciagola. «Pensavi di entrare a far parte dei miei amici? Prima di te sono passate tante stronze e tanti stronzi, e nessuno ha avuto vita facile. Tutti se ne sono andati e così farai tu.» Scappai piangendo, non potevo sopportare anche quell’umiliazione. Sarei fuggita, sarei andata da mio padre. Non sapevo come, ma lì non sarei rimasta. Mary stava scendendo mentre io salivo per rifugiarmi nella mia camera. «Che è successo?» «Non voglio restare qui. Ricky mi odia.» «Cara Greta, devi avere pazienza. Lui è geloso, lo sgriderò e non ci saranno più problemi. Te lo prometto.» Per raggiungere la scuola dovevo attraversare la passerella sul fiume e prendere l’autobus. Una mattina rimasi seduta sulla panchina a riflettere, delusa e amareggiata. Dalla padella alla brace. Prima le angherie di mia madre e l’assenza di mio padre. Ora quel mostro rossiccio. Perché se n’erano andati tutti i ragazzi di cui aveva parlato Ricky? Proprio non capivo il perché di prendere in affido tanti ragazzi. Comunque anch’io avrei tolto il disturbo.
18 Rientrai in casa pensando di non trovare nessuno. Volevo scoprire qualcosa della presenza di altri ragazzi. Volevo trovare delle fotografie. Nessuno era in casa, dunque via libera per le mie ricerche. Chiusi la porta a chiave da dentro. Andai nella camera matrimoniale e cominciai a rovistare nei cassetti. Niente. Passai alla grande cassettiera in salotto. Cartelle di analisi, garanzie di elettrodomestici, cartelle esattoriali, ricevute di grosse somme di denaro. Nel cassetto più basso tante cose inutili, come guanti, foulard, vecchie cravatte, eccetera. Non so bene perché, ma pensai che proprio quel cassetto doveva nascondere qualcosa. Emma Mi lavai con l’acqua fredda e il sapone, dopo essermi tolta i brandelli di vestiti tutti sporchi. Il fatto che mi stessero spiando mi spaventava e intimidiva, così mi avvolsi nel lenzuolo per coprirmi mentre mi lavavo a pezzi. Avrei potuto uscire da lì non da morta? Intanto volevano che continuassi a vivere. Nel secchio trovai una bottiglia di latte e dei biscotti. Mi rifocillai, feci i miei soliti esercizi e ritornai col pensiero al convento. Un pomeriggio, mentre ero in giardino a potare le rose, arrivò la madre che mi fece i complimenti per come curavo sia l’orto che i fiori. «Sei proprio portata per il giardinaggio. Hai il pollice verde. È normale, vieni dalla campagna» e aggiunse: «non c’è niente di male in tutto questo, anzi…» Dopo qualche minuto di silenzio, come se soppesasse la mia condizione: «Ti andrebbe di conoscere padre Elia? È venuto per sostituire temporaneamente padre Vincenzo, che sta poco bene.» «Sì, certo.» «Allora vai pure, ti aspetta in confessionale.» Mi lavai accuratamente le mani, controllai rapidamente, con l’aiuto della madre, il mio aspetto e mi avviai, chiedendomi perché proprio io. «Tu sei Emma, giusto?» mi chiese nascosto dalla grata. «Sì, sono io. Come fa a conoscermi?» «La madre mi ha parlato molto di te. So che sei la sua preferita fra tutte.»
19 «Non sono riuscita a capire il perché. Io non ho fatto nulla per avere questi privilegi.» «Evidentemente meriti più delle altre.» Mi chiesi che aspetto avesse. Certo, la sua voce era suadente e profonda. «Perché ti fai suora?» «Io non volevo, ma i miei, essendo femmina e l’ultima figlia, mi hanno costretto pensando alla mia sistemazione.» «Hai mai confessato questo fatto prima di oggi?» «No, a nessuno.» «Hai più visto i tuoi genitori?» «Non li ho più visti né sentiti. Ormai si sono liberati di me.» «Che peccati hai commesso?» «A parte che non sento nessuna vocazione, odio le mie consorelle perché mi fanno sentire il peso di essere diversa da loro. La camera privata, i capelli non tagliati, il tempo che passo in giardino.» «Non ti rammaricare. Se la madre ha deciso così, vuol dire che per te ha grandi aspirazioni.» “Bah, che aspirazioni può avere?”, pensai ma non glielo dissi. «Recita tre Ave Maria e vai in pace.» «Grazie, padre.» «Aspetta, si direbbe che tu hai bisogno di un cambiamento. Non essere severa con te stessa, anzi, scrollati dalle spalle queste idee. Ora vai pure.» Ritornando alle mie piante, mi accorsi di avere dimenticato i guantoni, forse in confessionale. Tornai indietro e vidi una suora inginocchiata davanti alla grata. Mi fermai in ascolto, cercando di capire il bisbiglio. «È lei quella che ci serve, ingenua e manipolabile.» Parlavano di me? Quel tarlo non mi abbandonò per tutta la giornata.
20
CAPITOLO 3
Greta Il mio fratellino mi mancava tantissimo. Stavo male al pensiero che era stata anche colpa mia. Se avessi chiuso la porta, sarebbe ancora con me. Chiesi a Mary se si sapesse qualcosa. Lei negò e mi ricordò che notizie del genere si sarebbero conosciute subito, infatti della scomparsa aveva parlato anche la televisione. Persone del condominio dicevano di aver visto una coppia aggirarsi, nei giorni precedenti la scomparsa, chiedendo di un appartamento da affittare, e poi non si era più vista. Alcune foto di Andrea circolavano, quelle più belle. Si distinguevano perfettamente gli occhioni chiari, le guancette rosee e il sorriso dolcissimo. Naturalmente chi avesse ricordato qualcosa d’insolito poteva informare direttamente la polizia, che aveva promesso che le ricerche sarebbero proseguite in tutte le direzioni. Il mostriciattolo rosso a tavola, quando madre e padre erano intenti ai fornelli, magari discutendo, mi tirava in faccia molliche di pane bagnate con la sua saliva e mi minacciava con lo sguardo che se avessi parlato mi sarebbe successo di peggio. Una sera, andando a dormire abbastanza tranquilla, sotto le coperte trovai una biscia. Lo stronzo era nascosto per godersi la scena e fece in tempo a mettermi le mani sulla bocca per impedirmi di emettere un grido. Mi girai e gli diedi un pugno che lui abilmente scansò, e io caddi pure per terra. “Basta! Domani scappo”. La mattina dopo Mary ci diede un passaggio a scuola e noi ci sedemmo dietro. Riccardo aprì il mio zaino, tirò fuori il quaderno di matematica e stracciò senza far rumore tutti i fogli del compito. «Ora vai in classe e se dici qualcosa sei morta. Sei pure un’assassina, hai fatto uccidere tuo fratello. Sì, perché tanto ormai è morto» mi disse nell’orecchio.
21 «Non è vero, non è stata colpa mia» gli risposi a bassa voce. Era troppo! La mia vita era un inferno. Meglio in mezzo alla strada. Ma prima dovevo esaminare a fondo quell’ultimo cassetto. A tutti i costi. Che fine avevano fatto gli altri bambini? Con la scusa di non sentirmi bene, l’indomani rimasi a casa. Quando tutti se ne furono andati, tornai al famoso cassetto. Lo svuotai completamente e cercai con un cacciavite di sbloccare il fondo, che era di colore diverso dagli altri. Non riuscivo. Picchiavo sopra e sentivo un rumore strano. Ero sicura che sotto avrei trovato qualcosa di abominevole. Suonò il campanello. “Chi può essere? Tutti loro hanno le chiavi”. Rimisi tutto a posto e andai ad aprire. Trovai l’Armadio. «Che ci fai qui? Sono andato a parlare con i prof di Ricky e mi hanno detto che stavi male. Così sono venuto a controllare.» «Sto meglio. Forse ho avuto un’indigestione.» «Ah, ok. Ti preparo un tè o una camomilla?» «No, grazie, me ne vado a letto.» «Bene, io mi faccio un tè e vado nello studio, tanto ormai è tardi per tornare in ufficio.» “Merda! Anche oggi è andata male. Mi tocca rimandare le mie ricerche e la mia fuga”. Emma Sentivo che non sarei uscita viva da quel posto. Non sapevo quando ma sarei morta, per mani loro o per una malattia. Ero debole, sfinita, forse avevo la febbre, mi stava passando la voglia di combattere. Ripensai a quello che mi avevano fatto. Quel giorno dopo la confessione, mentre ritornavo in giardino sentii provenire da una stanza chiusa dei lamenti, non di dolore, anzi… mi fermai ad ascoltare. Sentii una voce che sembrava quella del padre che mi aveva appena confessato, forse solo un’impressione: «È lei, è perfetta per noi, me la lavoro io.» Chi erano? Un uomo e una donna? Oppure due uomini? A chi si riferivano? Cosa si faceva in quella stanza? Nonostante tutte quelle domande, proseguii spedita verso il mio lavoro di
22 giardinaggio, che mi dava tante soddisfazioni e mi aiutava a sopportare quel posto. Nel mio giardino mi sentivo libera di ricordare. La vista che si acutizzava sui sentieri finché non sorgeva la luna. Ho percorso tante volte quei sentieri fino a conoscerli a memoria. Anche l’udito si è affinato, fino a percepire misteriosi rumori fiabeschi. L’odorato è il re dei miei sensi. Appena valicherò il colle lungo il canale frastagliato che porta alla vetta, l’odore della terra di quel luogo riempirà le mie narici. Sentivo quell’odore anche in quel posto, perché ero riuscita a imprigionarlo per assaporarlo nei momenti più difficili. Spesso m’inoltravo nel bosco, fra il fitto intrico dei castagni e le lame di luce. Nel silenzio gli scricchiolii del sottobosco mi facevano rabbrividire come se, da un momento all’altro, potessero comparire mostri inquietanti. Allora la paura accelerava il mio passo per cercare le indicazioni giuste per tornare a casa. Era sempre tardissimo e mia madre mi sgridava, giustamente, non perché la mia presenza fosse importante a casa. Fondamentali erano le braccia dei miei fratelli, capaci di arare il terreno, di pascolare le mucche, di produrre il formaggio, di tagliare la legna per l’inverno. Ricordo un unico momento caldo. Quando ci trovavamo seduti davanti al camino e i miei raccontavano quanto era successo, purtroppo niente di buono. Latte e formaggio mal pagati, coltivazioni rovinate dalla grandine, eccetera. E io? Io non esistevo. Forse ero invisibile. Ricordo un’unica volta in cui mi sentii considerata. Un mio fratello stava male e mi invitò ad andare con lui nella stalla per mostrarmi come si mungono le vacche. Non ero mai andata e, così grandi, mi fecero paura. Mio fratello mi guardò e non mi mostrò nulla: «Vattene! Te ne stai lì impietrita. Sei proprio una buona a nulla.» Udii provenire un forte rumore da sopra. Erano urla, litigavano, forse anche botte. Non riuscii a distinguere. Poi silenzio, solo il rumore di un masso spostato. “Cosa accadrà? Non mi daranno più il cibo e morirò di fame e sete?”. Dopo qualche tempo tornò giù il secchio e io mi precipitai su quel poco
23 che conteneva. “Quanto durerà ancora questa agonia?”. Meglio tornare lassù, sulla mia montagna. Rividi nitida la faccia di mia nonna, l’unica persona che mi ha fatto sentire importante. Peccato sia morta quando avevo solo sei anni. Lei mi accompagnava nei boschi e m’insegnava tutto sulle proprietà delle erbe. Tutti le chiedevano consigli. A me rivelava i suoi segreti. Per esempio, che prima di raccoglierle bisogna sentirne il profumo. Se l’odore è forte sono pronte, altrimenti bisogna aspettare con pazienza. Mi diceva: «Vedi, non c’è bisogno di medicine e dottori. Io mi sono sempre curata con le erbe e sono arrivata a quest’età.» Non ricordo che età avesse quando mancò, ma tutti dicevano che era centenaria. Per me è morta troppo presto. Forse, se fosse vissuta ancora, io non sarei qui. Greta Ho finto di andare a scuola. Ho sfilato leggera lungo la colonna di automobili, con una tale indifferenza che nessuno mai avrebbe potuto capire che ero in cerca di un modo per tornare indietro. A un certo punto ho notato un’auto diversa, splendente, grande, con una portiera aperta perché l’autista era sceso per comprare qualcosa. La tentazione di salire e lasciarmi trasportare fino a mio padre fu forte. Ma prima dovevo controllare quel fondo. Ormai me l’ero messo in testa. Mi nascosi e aspettai che il mostro rossiccio entrasse in classe. Mi aveva notata mentre andavo lesta verso scuola, così non mi avrebbe cercato, anche perché eravamo in classi diverse, avendo lui due anni in più. Tornai di corsa a casa e sperai che non arrivasse nessuno. Aprii il famoso cassetto, munita di cacciavite e altri attrezzi. Lo misi sul letto e cominciai a far leva. Strizzai le palpebre e serrai i denti per la fatica e la paura. Il cacciavite mi scappò e si conficcò nella mano. Uscì sangue e, per non sporcare, presi una federa e mi tamponai. “Merda! Sento male, ma devo continuare”. Presi un cacciavite più piccolo e feci leva con più attenzione. Miracolo! Il fondo si staccò. Trattenni il respiro e lo sollevai lentamente. Mi apparve un mare di banconote raccolte in mazzette. Cercai di scoprirne la provenienza e trovai dei foglietti intitolati a tipi di fiori. Tulipano,
24 quindici milioni. Crisantemo, venti milioni. Ranuncolo, cinque milioni. Che cavolo significava? La frase del mostro rosso mi era ben chiara. Gli altri erano i bambini che erano stati lì e che erano stati venduti. Solo così si potevano spiegare tutti quei soldi. Dovevo rimettere tutto a posto e scappare. Andare dai carabinieri? No, mi avrebbero fatto un sacco di domande e portato da un’altra famiglia. Meglio cercare mio padre. Però volevo che questa famiglia non la passasse liscia. Prima di partire avrei scritto qualche riga in stampatello per i carabinieri. «Fare una visita alla famiglia Pepero e guardare nell’ultimo cassetto del comò. Sotto il finto fondo troverete una bella sorpresa. Tanti soldi per commercio di bambini.» Scappai via veloce e corsi verso la stazione. Imbucai il biglietto dopo aver aggiunto «DESTINAZIONE CARABINIERI». Non avevo i soldi per il biglietto quindi non aspettai il treno. Mi guardai in giro in cerca di un camion. Vidi posteggiato un bestione targato GB. Proprio quello che cercavo. La portiera era aperta, forse l’autista era andato a mangiare. Entrai e dietro trovai degli stracci per coprirmi interamente. Rimasi in attesa. Salirono in due. Ridevano. «Ottimo quell’arrosto! Speriamo che non mi rimanga sullo stomaco con tutto quel sugo.» «Eh, sei diventato uno da brodino e minestrina?» «Sai, il tempo passa.» «Riepiloghiamo. Adesso ci aspettano almeno cinque ore di viaggio. Caricare a Marsiglia e poi andare verso Calais.» Avevo avuto una gran fortuna. Non poteva andarmi meglio. «Accendi la radio, voglio sentire le notizie sul traffico.» «Ma dai, siamo appena partiti, non vedi che è tutto liscio? A proposito, tua moglie a quando?» «Tra due settimane. Magari quando nascerà sarò da qualche parte lontano.» Non potevo fare a meno di pensare a mio fratello. Mentre cercavo di farmi un po’ di spazio, trovai una cosa dura che mi diede fastidio. Era un fondotinta come quelli che usava mia madre.
25 Anche lei, dov’era? La mia famiglia non esisteva più. Quando usava creme e fondotinta era una vera modella. Tacchi alti, capelli sempre in ordine, feste con amici, e io guardavo che si specchiava nel suo vestito attillato. «Che vuoi? Che hai da guardare?» «Niente, sei molto bella» dicevo mentre pensavo che se ne sarebbe andata, come tutte le sere. La radio interruppe la musica per il notiziario, che cominciò con il rapimento del piccolo Andrea. “Ancora nessuna notizia del piccolo rapito un mese fa dalla sua culla. Qualche testimone dice di aver visto aggirarsi, anche nei giorni precedenti la scomparsa, una coppia sui quarant’anni, che chiedeva informazioni su un appartamento. Rintracciati e interrogati a fondo, sono risultati estranei al caso. Le indagini continuano a trecentosessanta gradi. Intanto la madre del piccolo, trovata in possesso di cinquanta grammi di coca purissima è in stato di fermo. Il padre, dopo varie ricerche agli ultimi indirizzi, non si è ancora presentato.” Senza interessarsi delle altre notizie, i due camionisti commentarono la vicenda. «Roba da matti, come si fa a rapire un bambino così piccolo, e poi mi sembra che non sia una famiglia tanto ricca da poter pagare un riscatto.» «Se succedesse a me, credo che morirei, ma prima andrei io alla ricerca di quei delinquenti e li cercherei per tutta la vita. Sono certo che li troverei e allora gli farei provare tutte le sofferenze possibili.» «Va bene, sono d’accordo, ma avresti anche una ragazzina da tirare su. Non vorrai mica lasciarla senza padre? Pensa che si è sentita pure in colpa per aver lasciato la porta aperta. Che fine avrà fatto?» «Sarebbe veramente un grosso problema. Certo non la potrei lasciare. Ho sentito alla televisione che l’hanno data in affido provvisorio. Hanno fatto vedere anche le foto del bimbo. Bello. Un bel bambino. Penso al mio figlio che deve nascere e mi sento già male al pensiero che possa succedere una cosa del genere.» «Succedono troppe cose brutte! Comunque tu non avresti la figlia.» «Hai ragione. Sarei libero di agire» disse l’autista. Pensai a mia madre in carcere. Dove aveva nascosto la droga? Non poteva essere stata lei. Sicuramente qualche uomo che si portava a casa
26 l’aveva incastrata. Ma come dimostrarlo? “La mamma è sempre in stato confusionale, se non torna papà chi l’aiuterà? La vorrà aiutare? Non credo, dopo tutto quello che ha passato. È certo che non ho più una famiglia. Se non trovo papà, sarà la fine anche per me”. Emma Cercavo di evitare le mie compagne ogni volta che potevo. Ma quando si andava al vespro o in mensa, mi era impossibile. Mi guardavano sottecchi, si sgomitavano, come se avessi la lebbra. Non lo sopportavo più. Ritornai a confessarmi da quel don arrivato da poco tempo. «Senta, io non sopporto più di essere additata dalle mie compagne come se fossi una lebbrosa, solo perché la madre superiora mi ha concesso cose che loro non possono fare. Non è colpa mia. Se lei gliene potesse parlare, le sarei grata.» «Non ti devi preoccupare se la madre si comporta così con te. Significa che ha dei progetti per te, come ti ho già detto.» «Scusi, potrei sapere qualcosa di questi progetti? Comincio a preoccuparmi e sto male.» «Presto te ne parlerà. Intanto goditi tranquillamente le tue concessioni, tra cui il giardinaggio. Mi ha detto che sei molto brava.» «Sì, mi piace molto, anche perché mia nonna mi ha insegnato tanto.» «Ora vai, e niente penitenza. Non hai nulla da farti perdonare. Ancora una cosa, avrei piacere di vedere con te il giardino. Mi accompagneresti?» «Sì, senz’altro, quando vuole.» «Allora, ti troverò in giardino domattina?» «Sì, a domattina.» Non venne quel mattino. Lo rividi solo a pranzo con tutte. Arrivò la domenica e, mentre stavo andando al giardino, il prete si avvicinò. «L’altra mattina ho avuto da fare, ma oggi sono qui per vedere come fai a far crescere così bene i prodotti della terra. Che bei pomodori!» Lo guardai e mi attirarono i suoi occhi, grigio-azzurri, bellissimi ma sfuggenti, glaciali. Comunque era un uomo affascinante. Non aveva
27 niente del sacerdote. Sotto la veste, inappuntabile, s’indovinavano muscoli atletici, un fisico longilineo perfettamente proporzionato. Mi fissava con un’intensità tale da farmi abbassare lo sguardo. Ci avviammo verso la parte del giardino che sembrava un paradiso terrestre. Rose di ogni tipo, tulipani, viole del pensiero e altre meraviglie. Infatti mi disse proprio così: «Ma sei proprio brava, che meraviglia!» Io stentavo a rendermene conto, eppure, quando mi giravo per raccontargli le mie cure, notavo il suo sguardo non proprio da prete. Guardava le mie forme, appena percettibili. Ma no… erano solo miei pensieri. Non credevo proprio di poter piacere agli uomini. Cosa mi stava frullando in mente? Una contadina, cresciuta in mezzo a sette fratelli, alle pecore, alle erbe di campagna, e poi scaraventata in quel posto. Cosa potevo sapere degli uomini? «Scusi, le posso fare una domanda un po’ indiscreta?» «Fai pure.» «Ma lei perché si è fatto prete?» Notai uno sguardo cattivo, allora: «Scusi, non sono fatti miei.» «Non ti devi scusare, un giorno te lo dirò. Pensi che dopo questo percorso prenderai i voti?» «Non lo so, io non so cosa sia la vocazione.» «Voglio capire se t’interessa sapere cosa si prova con un uomo, e poi sposarsi e avere dei figli.» «Non so nulla di tutto questo. Non so cosa rispondere. Può darsi che quando avrò compiuto diciotto anni me ne andrò, non so dove.» «Hai ancora tempo per decidere.» «Pensandoci bene, resterò qui perché la famiglia non m’interessa, non m’interessano i figli se penso a come sono stata trattata da mio padre, con mia madre d’accordo. Non voglio lasciare un figlio in convento perché è femmina oppure perché non posso mantenerlo.» «Hai pensieri saggi. Ricordati sempre che la madre è molto contenta di averti qui. Ora devo andare, a presto.» Lo seguii da lontano fino a quando lo vidi fermarsi a parlare animatamente con la madre superiora. Ma che avevano da discutere sempre quei due? Intenta a lavare il pavimento, non mi accorsi delle occhiate di due compagne ma sentii distintamente che dicevano: «Ora se la fa anche col prete.»
28 «Siete delle stronze! Lasciatemi in pace.» La madre superiora mi guardava dal suo studio e quando la vidi le feci un cenno di saluto. Ma lei non rispose, mi sembrò inquieta. Forse seccata che il prete fosse rimasto a parlare con me così a lungo. O forse avevo fatto qualcosa di sbagliato? “Che andassero al diavolo tutti. Appena potrò, me ne andrò da questo posto lurido”. Il giorno seguente la vidi arrivare in giardino mentre zappavo. Ero accaldata, avevo le guance rosse e nascosi il viso con le mani. Dovevo essere imbarazzata per i discorsi col prete? «Non ti coprire. Sei anche più bella con quel colorito roseo.» Avvampai ancora di più. Che mi stava succedendo? Il primo complimento da una donna. «Te l’ha mai detto nessuno che sei bella? Hai una grazia, un portamento… non certo da contadina.» «No…» dissi, abbassando lo sguardo. «Che stai facendo?» «Preparo il terreno per gli asparagi.» «Domani avremo il pranzo di Pasqua. Ho visto un gran fermento in cucina. Ci sarai?» «No, io porto solo i prodotti dell’orto e loro li cucinano.» «Ma ci saranno i tuoi parenti.» «Non credo, non si sono più fatti sentire, né vedere. Lei sarà al pranzo domani nel convento?» «Certo, a domani… spero.» Mi accorsi che i battiti del mio cuore erano accelerati. Quando mi guardava, mi sentivo sciogliere. “Cretina! È una donna” mi dissi “piantala!”. All’indomani andai a preparare la tavola e mi sistemai in fondo a tutte, vicino alla suora più anziana e ben lontana da quelle che ammiccavano. Lui si sedette accanto alla madre. Erano venuti altri ospiti, parenti delle postulanti e delle suore. Alla fine del pranzo, luculliano direi, mangiammo la torta. Dopo una fetta abbondante io, golosissima, feci il bis. Poi mi alzai in tutta fretta per togliere i piatti. Arrivata davanti a lui mi sentii in forte disagio, quasi paralizzata. Mi raggiunse in cucina: «Ti rivedrò domani al solito posto?» Mi voltai, ma non riuscii a rispondere. Fuggii al lavello, dove mi aspettava una montagna di roba da lavare.
29 Greta Nel sentire di mamma in carcere mi era uscito un gridolino, che fortunatamente l’alto volume della radio aveva coperto. La fibbia dello zaino mi stava scavando la coscia. Dovevo cambiare posizione se non volevo restare paralizzata all’arrivo. Da Calais a Dover serviva il traghetto. Se loro si fossero fermati a Calais come avrei fatto a passare? Dovevo progettare qualcosa. Si fermarono all’autogrill. “Bene! Così mi sgranchisco”. Aprii lo zaino, mangiai due merendine, controllai il portafoglio con i soldi che ero riuscita ad arraffare e guardai il giochino di Andrea. Pensai che se non fossimo arrivati a Dover mi sarei dovuta infilare nel traghetto a Calais. Se invece fossi scesa a Dover, per Londra avrei dovuto fare un sacco di autostrada. “Potrei fare l’autostop. No, mi fermerebbero di sicuro. Dovrò infilarmi in un altro camion” capii. Quando i due camionisti tornarono, mi coprii in fretta con gli stracci e non respirai nemmeno, per non far rumore. “Chissà com’è Londra? L’ho vista solo in televisione. Un ronzio continuo, i rintocchi del Big Ben, il tè al lampone che mi piace tanto, gli autobus rossi a due piani, le cabine telefoniche rosse, i negozi scintillanti. Non so altro”. Avrei chiesto a qualcuno circa l’indirizzo del mittente e mi sarei sforzata di capire, visto che non sapevo una parola d’inglese. “Meglio chiedere a un tassista, sperando che mi bastino i soldi per farmi portare. Ma dovrò cambiarli in sterline. Potrò riuscire in tutto questo?”. Il camion frenò bruscamente. “Dove siamo? A Marsiglia? Forse devono caricare, allora mi tocca scendere e aspettare a risalire. Mi sembra un’impresa difficile”. Li vidi andare verso un capannone, dunque avevo ancora un po’ di tempo. In fondo aveva attirato la mia attenzione uno scatolone. Andai a vedere e trovai provviste di cibo. Ne avevo bisogno. Gallette, scatolette di tonno, biscotti. Mentre cercavo di arraffare il più possibile, sentii una voce: «Che ci fai? Chi sei?» Non riuscii a spiaccicare parola.
30 «Da dove sbuchi? Parla!» Non ero in grado di emettere alcun suono. «O parli o chiamo la polizia.» Intanto arrivò l’altro: «Abbiamo portato con noi anche questa ragazzina. Ti rendi conto? Ma il tuo viaggio finisce qui.» «Vi prego, devo arrivare a Londra da mio padre.» «Non m’interessa, io nei guai per te non ci finisco. Sottrazione di minore, magari abuso. Non se ne parla, tu sei matta. Noi abbiamo famiglia e a lui sta per nascere un figlio.» Il primo si allontanò per telefonare. L’altro, quello che aspettava un figlio, fu meno duro: «Perché vuoi andare da tuo padre?» «Perché non mi piaceva la famiglia a cui ero stata affidata e perché mia madre è in prigione.» «Ci mancavi te ora. Siamo già in ritardo sulla tabella di marcia, e chissà quanto tempo ci vorrà per far capire alla polizia che hai fatto tutto da sola. Ma che ti è saltato in testa? Eh, voi giovani non pensate alle conseguenze, ai danni che potete arrecare con le vostre mattane. Hai fame?» Risposi di no ed era vero. Mi si era chiuso lo stomaco perché non riuscivo a immaginare cosa sarebbe successo. Il silenzio dell’alba era accompagnato da una coltre di nebbia. Non si vedevano le case e neanche l’asfalto. Solo il ciglio erboso, qualche albero e i tralicci. Pensai di essere in aperta campagna. Rimasi in attesa, un’attesa estenuante. Pensavo solo a mio padre, che sarebbe venuto a salvarmi da quella situazione terribile.
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CAPITOLO 4
Emma Non sapevo da quanto tempo fossi seppellita lì. Forse solo una settimana, forse un mese. Comunque il cibo arrivava regolarmente, e non erano più soltanto panini ma spezzatini, minestroni e altre cose buone. Pensai che tra loro fosse arrivata una donna, giudiziosa. Anche perché nel cestino trovavo cambi con maglie nuove, pantaloni nuovi e indumenti intimi ancora imballati. Mi domandai dove volessero arrivare. Mi lavai e mi cambiai, e dopo aver mangiato misi tutto nel secchio. Regolarmente la fune venne tirata su col solito cigolio. “Com’è possibile? Mi sento guardata a vista. Non è possibile che calcolino tutte le mie azioni. Qualcuno deve guardarmi continuamente. Mi sorveglino pure, ma i miei pensieri sono soltanto miei. Loro non li scopriranno mai”. Tornai ai miei ricordi. Mi sentivo attratta dal don, sempre di più. Lo vedevo davanti a me, bello, sexy, affascinante, con una voce suadente e profonda che mi faceva vibrare tutto il corpo. Forse era normale, visto che era il primo uomo che mi guardava in modo diverso dai miei fratelli e da mio padre, gli unici uomini che avevo conosciuto e che mi avevano trattato come se non fossi un essere umano. Però lui era un uomo, ma anche un prete, cavolo! Ci mancava lui a complicarmi l’esistenza. Non bastava la madre superiora a mettermi in imbarazzo, con tutti quei privilegi mai richiesti, di fronte alle altre. Quando il don mi parlava, sembrava che le sue mani si trattenessero più del dovuto sulle mie spalle, oppure prendessero le mie senza volerle lasciare. Era una mia suggestione, perché era quello che volevo? O tutto era frutto
32 della mia immaginazione? Volevo che le sue mani mi toccassero dappertutto, mi facessero tremare e non si staccassero più da me. “Stupida!” mi dicevo “piantala con questi pensieri, sei proprio mal presa”. Talvolta scorgevo in lontananza lui e la madre, vicini che guardavano verso di me. La verità è che ero gelosa. Cosa complottavano? Greta Eravamo lì da un po’, avevo freddo, la nebbia del mattino mi penetrava nelle ossa. Oltre che per il freddo, tremavo per la paura di cosa sarebbe successo. «Vieni, ti porto al bar a prendere qualcosa di caldo» non avrei voluto rischiare, ma il miraggio del cappuccino mi attirava molto. Scappare non potevo. Uno mi sorvegliava a vista e l’altro aveva già avvertito la polizia di confine, che mi avrebbe raggiunta sicuramente. Consumati cappuccino e brioche, tornammo fuori. La pattuglia della polizia di confine mi attendeva. Che tempismo! «Allora, ragazzina, lo sai che hai fatto preoccupare molto la famiglia che ti aveva preso in affido? Perché sei scappata?» «Non ci voglio stare con loro! Sono dei truffatori. Ho trovato in un cassetto un fondo finto e sotto c’erano un sacco di mazzette di banconote con i nomi dei ragazzini che avevano tenuto prima di me. E poi il mostro rosso mi perseguitava.» «Chi è il mostro rosso?» «Il loro figlio. Mi ha detto che lui e i suoi amici hanno fatto così con tutti quelli che sono stati ospitati prima di me. Io non ci torno, piuttosto mi ammazzo.» «Dove cerchi di andare?» mi chiese il poliziotto in un italiano stentato. «Da mio padre.» «Sai l’indirizzo?» «Veramente gli ho scritto tante lettere, ma mi sono tornate tutte indietro.» «E allora come pensavi di trovarlo?» «Qualcuno, al vecchio indirizzo, saprà pure dove trovarlo, dov’è finito. Io non voglio vivere con estranei.» «Quand’è stata l’ultima volta che l’hai sentito?»
33 «È più di un anno che non lo sento.» «Ma tu perché sei stata affidata ai servizi sociali?» «Mia mamma è in carcere per droga, mio fratello è stato rapito e io sono indagata.» «Quanti anni hai?» «Tredici.» «Quando è nato tuo fratello, tuo padre era già andato via?» «No, è andato via poco dopo.» «Tu non sei responsabile di nessuna cosa che fanno gli adulti. Ricordatelo!» Forse era vero. Se me lo diceva la polizia doveva essere vero. Arrivammo al confine italiano e mi consegnarono alla polizia italiana. Dopo aver parlato tra loro, mi fecero salire su un’auto, dove trovai una donna. «Ti chiami Greta, so già tutto di te.» La sua voce era morbida e tranquilla. Aveva pronunciato il mio nome con dolcezza. Si può dire che fosse bella. Minuta, capelli raccolti sotto il berretto e la divisa era impeccabile. «Ho una bella notizia per te. Abbiamo rintracciato tuo padre e sta arrivando.» «Come avete fatto? Dove si era cacciato?» «Ti racconterà tutto lui, comunque ti posso dire che la sua nuova compagna l’aveva lasciato, così lui si è dovuto trasferire, più volte.» «Ho capito.» La mia gioia fu immensa. Emma Ero nella mia stanzetta spartana, ma ovviamente mi sentivo privilegiata perché potevo fare quello che volevo, per esempio tenere la luce accesa per leggere o scrivere. L’arredamento era composto da un armadio molto stretto, ma capace di contenere gli stracci con cui ero arrivata e i pochi indumenti intimi, un tavolino tarmato con un piccolo cassetto, e una sedia scomoda. Questo bastava per farmela sembrare una reggia. Nel cassetto conservavo un quaderno dove avevo imparato a scrivere gli avvenimenti che mi accadevano, le mie impressioni, i miei pensieri. Mi sembrava di avere un
34 amico con cui condividere la mia vita. Molte pagine erano dedicate a un ricordo dell’infanzia con la nonna, l’unica persona che mi aveva fatto sentire importante. Poi le gioie, anche se poche, e nelle ultime i brividi, i tremori, i sentimenti, che stavano prendendo tutto lo spazio del mio cuore. Nessuno doveva leggere il contenuto. Quello era il mio mondo. La stanza privata dove potevo mettermi a nudo, anche davanti allo specchio dello stretto armadio. Mentre mi guardavo, immaginavo il don dietro di me, che mi abbracciava e mi baciava. Dopo essermi masturbata chiudevo la porticina, anzi la sbattevo, arrabbiata per quello che la mia immaginazione voleva succedesse, ma non succedeva. Le compagne mi guardavano in cagnesco. Nessuna mi parlava e, quando passavo nel corridoio per andare in mensa o in chiesa, mi facevano capire con gli sguardi che ero sola contro tutti. Volevo andarmene, scappare, come ha fatto una suora che purtroppo non avevo conosciuto. Ma dove andare? Certamente non tornare a casa, e poi ero ancora minorenne. Sopportavo quella situazione solo perché sentivo crescere il mio sentimento per il don, un sentimento che forse era solo mio. Un giorno ero accucciata con la zappa a mezz’aria quando lui mi disse: «Lascia che ti aiuti.» «Non c’è bisogno, lo faccio sempre.» «Ma a me fa piacere starti vicino.» «La ringrazio.» «Hai gli occhi tristi.» «Sì, è vero. Perché le mie compagne mi evitano. Mi additano perché ho una camera tutta mia, perché la madre mi ha affidato la cura dell’orto e tanto altro che non capisco.» «Cerca di stare alla larga da loro. Tu sei la prescelta, quella che farà grandi cose.» Non capivo a cosa alludesse. Avevo poco meno di diciotto anni e non conoscevo niente della vita. Di tutto quello al di là delle mura del convento, e neanche delle terre intorno alla mia casa natale. «Nemmeno in cucina mi vogliono, per rassettare e lavare le pentole. Per
35 i miei genitori ero un peso, una bocca da sfamare non voluta. Loro avrebbero voluto un altro maschio. È per questo che sono qui.» «E lei?» chiesi timidamente dopo una breve pausa. Lui esitò prima di rispondere. Una smorfia scura e cupa gli attraversò lo sguardo. Con fatica riuscì a rispondere: «Scusami, ero distratto da brutti pensieri. Anch’io sono qui per volere dei miei genitori. Ma non ne vorrei parlare.» «Grazie per l’offerta di aiuto.» Avrei voluto domandargli se stava bene o se qualcosa non andava, ma il suo atteggiamento troncò ogni domanda. Il giorno successivo ero in biblioteca a cercare un manuale per la coltivazione della vite. Perché suor Agata, la suora portinaia, mi aveva detto: «Potresti provare a piantare la vigna, ci faremmo del buon vino che a me piace molto. Qui non ne abbiamo perché costa troppo.» China su una cassa di libri, sentii dei passi oltre la porta. Si arrestarono e poi tornarono indietro. Mi prese il panico, mi paralizzai in attesa, e allora sentii cingermi la vita da due mani possenti. Mi voltai e me lo trovai così vicino che mi prese un colpo. «Mi ha spaventata.» Lui mi tappò la bocca con un bacio e la sua lingua s’infilò prepotente nella mia bocca. Io non sapevo cosa fare. Scossa da mille tremiti, il mio mondo sottosopra, non feci alcuna resistenza. Risposi al suo bacio sempre più irruento. Le sue mani mi toccavano dappertutto e io persi il controllo. Un rumore ci fece trasalire. Lui si ricompose subito, mentre gli dicevo sottovoce: «Ti amo.» Rimasi senza la risposta che avrei voluto sentire. Greta Sedevo dietro con la faccia appiccicata al vetro del finestrino. Accanto a me il poliziotto, mentre la poliziotta simpatica era vicina al guidatore. Ogni tanto si girava a sorridermi. Dall’autostrada vidi il porticciolo di Sanremo con il mare di colore blu intenso. Poi il mare sparì e mi ritrovai nei miei paesaggi di sempre. Le colline con le viti, i frutteti e lontano i borghi. Tante volte avevo sentito dire da papà a mamma: «Stasera stappiamo una
36 bottiglia di barolo, dobbiamo festeggiare!» Ma cosa si doveva festeggiare? Non lo avevo mai capito. Ricordavo il museo del vino, che avevo visitato con la scuola, e pure il castello. Arrivati in commissariato, mi fecero sedere in una saletta con l’altra porta semiaperta da cui potei vedere papà, seduto, di spalle. Gli stavano facendo delle domande. I poliziotti che mi avevano accompagnato se n’erano andati e io ero lì in attesa d’incontrare mio padre. Mi avvicinai per capire cosa dicevano. «Lei ha lasciato i suoi figli e non ha dato notizie di sé per più di un anno. Se non l’avessimo rintracciata, lei non sarebbe più tornato. Suo figlio non è stato ancora trovato. Lei dov’era quando l’hanno rapito?» «Non è mio figlio.» «Ma cosa dice?» Rimasi senza fiato e la mia mente ripercorse le immagini di papà e mamma che non facevano altro che litigare, e alla fine mio padre diceva di volere il divorzio. Ma come faceva ad affermare che non era suo figlio? «Il nostro matrimonio era finito da un pezzo, anzi, quasi subito avevo capito che mi aveva sposato per la mia buona posizione. Ha sempre trattato male nostra figlia e, quando ha capito che me ne sarei andato, ha giocato sporco. Una sera avevo già bevuto molto e non so cosa avesse messo nel mio bicchiere. Al mio risveglio si presentò nuda per farmi credere che quella notte era stato concepito il bambino che già aspettava. Chissà da chi.» «Scusi, ma perché non poteva essere vero?» «Un pomeriggio, rientrando a casa prima del previsto, l’avevo sentita parlare al telefono. Non mi aveva sentito arrivare così conversava liberamente con un’amica: “Sai, Mirella, ho fatto credere a Marco che questo bambino è suo. Aveva bevuto un sacco e io ho aggiunto droga nel suo bicchiere. Alla fine si è accasciato sul divano come un sacco. Quando si è svegliato mi sono fatta trovare nuda su di lui. Gli stavo sopra come se… devi sapere che Greta non la volevo, ma Marco non mi dava tregua e allora non ho potuto fare a meno di averla. Ma era un ostacolo alla mia vita. Io amo le feste, la bella vita, gli amanti. Intanto lui ha trovato una puttana che se lo voleva portare via. Come sarebbe stata la mia vita nelle ristrettezze? Non era possibile! Quindi ho studiato
37 questo piano e naturalmente non è stato difficile reperire la materia prima”. La sentii ridere alla fine della telefonata.» Mio padre raccontò ancora: «La consapevolezza della crudeltà di quella donna, che pure avevo amato, mi spinse verso l’altra. Fui sicuro di potermene andare senza sensi di colpa, incontro alla mia felicità. Sono pronto a fare il test del DNA, quando sarà possibile.» «Papà!» gridai, senza che me ne importasse qualcosa del fatto che eravamo in commissariato. Non riuscivo più ad aspettare. Lui si girò verso di me, si alzò e mi accolse in un abbraccio infinito. «Non mi lasciare più, ti prego.» «Ragazzina, torna a sederti di là, non abbiamo finito con tuo padre.» Tornai a sedere, ma stavolta chiusero la porta. Appoggiai l’orecchio e sentii che gli chiedevano della droga trovata in casa. «Non ne sapevo nulla. Finché sono stato in casa le ho passato quasi tutto lo stipendio, ed era una somma rilevante, dunque non aveva certo bisogno di smerciare droga.» «Quindi non aveva il minimo sospetto?» «No, assolutamente.» «Secondo lei, è possibile che il rapimento del bambino sia collegato alla droga?» Pensai che poteva essere vero. Poteva trattarsi di un ricatto e… senza droga niente bambino. “Non l’hanno trovata e allora hanno preso Andrea. È andata proprio così”. Dunque mamma conosceva quella gente. Lei avrebbe potuto cercare Andrea, ma non poteva lasciare la città, finché non avessero provato la sua estraneità ai fatti. «Papà, che facciamo ora?» «Andremo dalla mamma. L’avvocato d’ufficio ha detto che la mamma è estranea alla droga, ma frequentava uomini che si conoscevano e facevano parte di una congregazione. Andrea deve essere da uno di loro.» «E la droga?» «Probabilmente lei è veramente estranea. Gliel’hanno messa a sua insaputa.» «E ora cosa succede?» «La polizia manderà avanti le indagini. Se mamma dice chi sono, è
38 fatta.» «Pare che li abbiano già sentiti e hanno un alibi di ferro. Sono persone insospettabili. Allora, chi ha preso Andrea?» «Non lo so.» Andammo a casa, gli dissi che mamma voleva vendere la casa appena concluse le indagini. «Se ne esci pulito, mettimi in un istituto e vai pure per la tua strada.» Emma Lasciammo la biblioteca in fretta e io andai verso il giardino, inebetita. “Mi ha baciato, allora mi ama, anche se non l’ha detto”. Fortunatamente nessuno mi aveva notata mentre percorrevo il lungo corridoio fino all’orto. Sicuramente avevo un sorriso da ebete perché continuavo a pensare a quei momenti e mi domandavo se quanto fosse successo era reale o me lo fossi sognato. Era il mio diciottesimo compleanno. Quale regalo migliore il destino mi avrebbe potuto preparare? Non riuscivo a prendere sonno. Mi giravo e rigiravo nel mio letto. Contavo le ore e i minuti che mi separavano da un nuovo incontro, quando sentii bussare alla porta. Sobbalzai, chiesi: «Chi è?» «Sono io.» Saltai dal letto e mi precipitai alla porta. Lui guardò in giro, a destra e a sinistra. Non vedendo alcuno, chiuse velocemente la porta alle sue spalle. Ero sconvolta. Mi sentivo in imbarazzo perché ero spettinata, con i capelli raccolti in una treccia ormai sfatta e l’aria persa di chi non ha dormito. Mi prese tra le braccia e con le dita seguì il profilo del mio collo. Mi guardò intensamente. Attratta da quello sguardo, mi accostai a lui e appoggiai le labbra alla sua bocca. Una morbida eccitazione crebbe dentro di me. Un brivido mi percorse la schiena, mentre scoprivo che io, così pudica e innocente, lo desideravo più di ogni altra cosa al mondo. Intuii che lui non sperava in un mio cedimento così pronto, tuttavia rispose immediatamente e cominciò a esplorare ogni centimetro della mia pelle. Mi cinse i fianchi, mi strinse selvaggiamente, strappandomi i bottoni della camicia da notte. Con le labbra scese dal collo all’incavo del seno e poi giù, sempre più
39 giù, fino a catturare la ruvida eccitazione che trattenni con un brivido. Ci lasciammo cadere sul lettino. Lui mi guardava bramoso e io mi sentivo a disagio da morire, mentre, nuda, cercavo di nascondere le mie intimità con mani tremanti. Mi chiese di spogliarlo e io cominciai a togliergli la tunica mentre mi baciava e mi toccava dappertutto. Ebbi un gemito di dolore quando mi penetrò. Certamente era esperto perché, subito dopo, il dolore si trasformò in immenso piacere. Io gli gridai che l’amavo alla follia, ma lui mi baciò, si rivestì e mi disse solo che doveva andare. «No, ti prego, rimani. Dormiremo abbracciati fino all’alba. Ho bisogno di te.» Ma lui se ne andò. Rimasi con l’amaro in bocca. Avevo bisogno della sua vicinanza fisica dopo quanto era successo tra noi. Io l’amavo alla follia e mi sentivo totalmente sua. Evidentemente questo a lui bastava. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
INDICE
CAPITOLO 1 .................................................................................. 4 CAPITOLO 2 ................................................................................ 12 CAPITOLO 3 ................................................................................ 20 CAPITOLO 4 ................................................................................ 31 CAPITOLO 5 ................................................................................ 40 CAPITOLO 6 ................................................................................ 50 CAPITOLO 7 ................................................................................ 61 CAPITOLO 8 ................................................................................ 66 CAPITOLO 9 ................................................................................ 74 CAPITOLO 10 .............................................................................. 83 CAPITOLO 11 .............................................................................. 92 CAPITOLO 12 ............................................................................ 101 CAPITOLO 13 ............................................................................ 108 CAPITOLO 14 ............................................................................ 118 CAPITOLO 15 ............................................................................ 126 CAPITOLO 16 ............................................................................ 135 CAPITOLO 17 ............................................................................ 145 CAPITOLO 18 ............................................................................ 154 CAPITOLO 19 ............................................................................ 164 CAPITOLO 20 ............................................................................ 174 CAPITOLO 21 ............................................................................ 181 CAPITOLO 22 ............................................................................ 188 CAPITOLO 23 ............................................................................ 196 CAPITOLO 24 ............................................................................ 205
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