Lia Tirabeni
Solitudine Estemporanea
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SOLITUDINE ESTEMPORANEA Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2010 Lia Tirabeni ISBN: 978-88-6307-301-0 In copertina: Terra crepata di Selinunte, Sicilia. Foto di D. Berta
Finito di stampare nel mese di Giugno 2010 da Digital Print Segrate - Milano
A tutti i ladri di fiori del mondo A Federico, un amico che il cielo mi ha portato via troppo presto e ora, da lassù, mi starà guardando e ridendo
- La gente si innamora del proprio dolore al punto che non riesce più ad abbandonarlo. Lo stesso vale per le storie che racconta. Siamo noi stessi a tenerci in trappola. Ci sono storie che quando le racconti si consumano. Altre storie, invece…Chuck Palahniuk - Cavie
NOTE PER IL LETTORE E RINGRAZIAMENTI
Per la costruzione e descrizione psicologica della protagonista e dei suoi meccanismi relazionali ringrazio sentitamente le Dott.sse Alessia Trevisani e Patrizia Tescaro, sempre prodighe di consigli e brillanti intuizioni. Mi auguro che l’albo degli psicologi non se ne abbia a male se, nonostante le ricerche in ambiti che poco mi competono, dovessi aver scritto delle nefandezze: in caso affermativo, invoco sin da ora il mea culpa e chiedo umilmente perdono. La mia riconoscenza più sentita va a Daniela Berta: amica sincera e sempre presente, giudice onesto e, infine, mio primo inflessibile critico letterario. Ringrazio chi mi è stato vicino, ha creduto in me e ora, leggendo, sorride. Da ultimo, un ringraziamento particolare va a tutti coloro che, con le loro peculiari e originali dinamiche psicologiche, inconsapevolmente, sono stati fonte di ispirazione. Personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto della fantasia di chi scrive, ogni riferimento alla realtà è puramente casuale.
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ALLA RICERCA DI SÈ
Ho amato e odiato Ma è troppo tardi ora per tornare sui miei passi Ricordo mia madre piangere Ricordo il mio cuore urlare Credo che ricomincerò da qui Questa volta Questo è quel che scrivevo tanti anni fa. E’ strano come certe parole, in un momento particolare della propria esistenza, possano, dispiegandosi in un’eco di rimandi, rivelarsi a un tratto, a distanza di anni, estremamente profetiche. Io stessa stento a credervi. Il mio nome è Mahela Vincente e, ironia della sorte, vincente non lo sono affatto. Da un po’ di tempo a questa parte c’è una domanda che mi martella continuamente la testa, una domanda costante che non dà pace e non trova respiro: ma questa cosa, che tutti definiscono benedetta, meravigliosa, sacra e chi più ne ha più ne metta, chiamata usualmente vita, piena di tormenti e sacrifici, varrà poi la pena d’esser vissuta? Sull’onda di vaghe reminescenze universitarie, leggo testualmente da un volume di Goffman 1: - Un’istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro di persone che – tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato Goffman sapeva vedere lontano. 1
E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza, 1961
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Sarà per caso per questa domanda martellante che mi sono trovata qui, in questa claustrofobica istituzione totale (per usare le parole del nostro amico Goffman) che è il reparto psichiatrico dell’ospedale Sant’Ambrogio? Priva di senso è quel che io ho sempre pensato fosse la mia vita, e non solo la mia, ecco l’ossessione mentale che ho sempre avuto. Dicevo, questo è quel che ho sempre creduto, ma qualcosa ha cambiato le carte in tavola, qualcosa ha sconvolto cuore e mente, un qualcosa di non cancellabile, mio malgrado. Se ripenso ora a quanto accaduto, a ciò che ho vissuto, è come se quel passato non mi fosse mai appartenuto realmente. E’ curioso come la memoria giochi a volte di questi scherzi. Faccio fatica a ricordare i dettagli ora che tutto è finito, eppure, mentre scrivo, quegli stessi dettagli riaffiorano pian piano nella mente e il volto si riga di lacrime che hanno un sapore amaro, un sapore che avevo scordato. Pian piano tutto diventa più lucido, ombre e luci sono più nitide ed è più facile riattaccare la spina e premere play per far ripartire un film che credevo scordato e che ancora fa male. Adesso tutto sembra essere più chiaro, scoperto dal fitto velo che ha rivestito la mia memoria così a lungo, un velo che ho imparato da poco a strappare, quasi una coltre fatta di ghiaccio e sangue, che mi dà i brividi. Ora è più facile ricordare e farlo con distacco. Ma andiamo per gradi.
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LA FELICITÀ
Eppure mi sembra di non essere sempre stata infelice. Nella mente ritornano istanti entusiasmanti, serate di una bellezza travolgente in cui tutto sembrava essere perfetto e andare per il verso giusto, ricordo giornate febbrili tanto le ho vissute intensamente. Mi ritorna in mente quella sera, non programmata, in cui io, Giulia e qualche nostro amico abbiamo fatto follie e ci siamo catapultati dentro un cassonetto del cartone, mentre qualcuno ci spingeva nel cuore della notte per le vie di un paese in montagna di cui non rammento neanche più il nome; ricordo noi in macchina a cantare a squarciagola Like a Prayer 2 e ridere, ridere soprattutto, ridere di tutto e di niente, urlando al mondo intero l’amicizia che ci univa. Una serata come ce ne sono state tante altre, impossibile ricordarle tutte. E poi, quel viaggio nel cuore. Io e Riccardo, zaino in spalla, cane al fianco e via, pronti per nuove avventure. Ricordo tutto di quel viaggio, fatto esclusivamente a piedi, attraverso sentieri scoscesi, a volte dirupi non troppo agibili. Ricordo di aver camminato a lungo in mezzo a prati immensi in un saliscendi continuo fino a una forcella: la sensazione di dominare il mondo, il nostro sguardo che accarezza orgoglioso tutto la valle, sfiora le montagne, saltella sulla vallata e sotto di noi il vuoto, un vuoto che fa paura, ma che emoziona anche. Ricordo i momenti passati in una casera trovata lungo il cammino, piccola alcova durante il viaggio, ricordo i fuochi accesi la sera per scaldarci o anche solo per il piacere di guardarne le fiamme e io addormentata, cullata da Riccardo con il mio fedele cane in braccio. Di avventure come queste ce ne sono state altre, in luoghi diversi, ma sempre di una bellezza quasi primordiale: il contatto con la terra, l’odore del bosco, i rumori degli animali e il diventare noi stessi un po’ animali, come se le nostre percezioni abituali diventassero più forti in quelle determinate condizioni. Ricordo dunque la felicità, una gioia di una purezza devastante, ma anche una beatitudine che sa di fuoco acceso la sera, corse nei prati, 2
Madonna, Like a Prayer, dall’ album Like a Prayer, 1989
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patate cotte nella cenere, una felicitĂ umana e ultraterrena allo stesso tempo. Ricordo quella spensieratezza, ma forse giĂ allora giaceva in me sepolto il seme della disperazione, un seme che in qualche modo prima o poi qualcuno o qualcosa avrebbe fatto crescere. Ho sempre pensato di essere troppo fragile per sopravvivere al dolore: lo ero davvero?
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LASCIARSI
Ecco, pensavo. I miei top aperitivi, perché ho sempre adorato l’ora dell’aperitivo. Dunque: - Krug (averne casse!); - Yeger n’ tonica (assolutamente un must, da provare); - Moijto (che volete che vi dica, va così di moda!); - Spritz (gentile concessione alla mia terra natale. Grazie nonna); - Vodkalemon (per le serate davvero accelerate); - Martini rosso liscio (un grande classico non deve mai mancare). Tutto questo per introdurre cosa? Ah, ecco, rimembro aimè il funesto argomento.
ORE 19 – L’APERITIVO Sono superstiziosa, non mi vergogno ad ammetterlo, ma non superstiziosa nel modo in cui lo sono normalmente le persone. Diciamo pure che mi creo delle credenze tutte mie, personalissime. Ad esempio, se una sera metto un vestito nuovo e quella stessa sera si rivela un disastro oppure accade qualcosa di brutto, allora io, in modo totalmente arbitrario, decido che quell’abito mi porta sfortuna e non lo metto più, tranne di rado e solo in situazioni totalmente controllabili, come andare a fare la spesa e cose di questo genere (mia madre, poverina, spesso mi fa domande del tipo – ma perché non metti più quella maglia che ti sta tanto bene? – ed ecco che voi capirete come io non possa, mantenere una parvenza di sanità mentale, darle la vera risposta, pertanto accampo lì sempre qualche assurda scusa, che nella maggior parte dei casi regge, il che, credetemi, ha dell’incredibile). Stesso discorso vale per la musica: se in un determinato periodo sto ascoltando un certo album e tutto mi sta andando storto, allora vuol dire che non devo più ascoltare quel determinato autore o pezzo, questione che oltretutto mi provoca spesso grandi sofferenze estetiche perché nella maggior parte dei casi l’autore colpito è fra i miei preferiti. Se alla personale superstizione si aggiunge il fatto che sono una seguace accanita di Paolo Fox potrete capire il dramma della mia
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esistenza, fatta di astrologiche complicanze a cui si aggiungono quelle che quotidianamente ogni persona vive. Ebbene sì, qui lo dico, io credo nell’astrologia: ho studiato tanti anni per poi affidarmi alle stelle! D’altronde, essendo atea, a qualcosa debbo pur aggrapparmi per non precipitare e potendo farlo ho scelto le stelle: sono lassù e non me le leva nessuno. Ma ritorniamo a noi.
Quella sera non avrei dovuto mettere quel vestito, insomma, lo sapevo che mi avrebbe portato male, ma la mia vanità è stata più forte del mio buon senso e poi in quel bar stavano trasmettendo proprio Shine On You Crazy Diamond 3, pezzo tanto bello da procurarmi una sofferenza interiore pari ad un taglio vivo in un fianco, ma purtroppo anche pezzo portasfiga, ormai cancellato per ovvi motivi, con patimento, dalla mia playlist personale. Insomma, tutto concorreva a far sì che la serata implodesse e la tragedia entrasse ad ampi passi da elefante fra noi, fra me e Riccardo, ormai in crisi da troppo tempo. Un bar qualunque, un posto qualunque, in fondo si stava parlando del più e del meno, come spesso accadeva da un po’; dovevamo scegliere un ristorante per la cena e io facevo le solite lamentele: - Forse avremmo dovuto prenotare, non troveremo posto, vedrai, io lo so. Discorsi banali, una serata come le altre, fino a che lui mi chiede: - Mahela, cosa c’è che non va? Il cuore d’un tratto incespica, poi si ferma, il volto è diafano, il sangue ghiaccio, io sono deceduta. Forse. - Non voglio più stare con te – gli dico. Ecco. L’ho detto. Fatto. 10 anni, 10 anni buttati. 10 anni affogati piano nel mio Yeger n’ tonica e rimbalzati veloci nel suo ormai consueto Bloody Mary liscio. 10 anni e non sembra vero. Ho sempre pensato che a noi, a me e a Riccardo, questo non sarebbe mai potuto succedere, che noi fossimo diversi, che la nostra storia fosse diversa, ce lo eravamo detti un’infinità di volte questo, schernivamo le altre coppie, noi sì che eravamo forti, altro che! E invece sbagliavamo, invece eccoci lì. 3
Pink Floyd, Shine on you crazy diamond, dall’album Wish you were here, 1975
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Oltretutto in un bar qualsiasi. Non so, anche questo mi sembra assurdo, che la nostra storia debba concludersi proprio qui, in un posto come questo. Credo che nella vita ci preoccupiamo troppo spesso di essere amati, questa sembra essere la nostra principale preoccupazione. Quando le amiche ti chiedono del nuovo fidanzato, le domande son sempre le stesse – lui com’è? Ti ama? – e nessuno ti chiede mai se sei tu ad amare, ma quel che è peggio è che troppo spesso siamo noi stessi a non porci quella domanda, come se fosse quasi scontata, come se questa fosse una cosa certa: noi sì che amiamo, sono gli altri a non amarci. E invece no, penso che sovente il problema sia l’opposto: pretendiamo troppo e diamo in cambio troppo poco, amiamo ma non amiamo mai così a fondo o forse non ci impegniamo poi molto nei confronti dell’altra persona, dei suoi desideri, troppo intenti come siamo a pensare ai nostri di bisogni, raggomitolati in una calda coperta fatta di egoismo e capricci. Ma l’Amore ha bisogno di maturità e forse quella un po’ ci manca, o perlomeno a me è mancata, insieme a tante altre cose che non riuscivo più a gestire, prima fra tutti la mia ingiustificata follia dal sapore adolescenziale. Non sono tagliata per Amare, nel senso nobile del termine. No, non vi sono proprio portata. Per Amare l’altro bisogna innanzitutto Amare se stessi. Sì, lo so, è una constatazione tutto sommato banale, ma è anche un fatto sul quale non si riflette mai a sufficienza. Sono circondata da persone che si affidano a qualcun altro per completare se stesse, io la penso diversamente: prima di affidarsi a un altro bisogna essere già completi. L’Amore, per come la vedo io, è bearsi dell’altra persona dando beatitudine e la beatitudine la si raggiunge solo nel momento in cui si riesce a stare bene anche da soli. L’altra persona non deve essere un’ancora di salvezza alla quale aggrapparsi, deve essere un di più che ci aiuta a stare meglio, ma senza il quale si sopravvive. L’Amore è dedizione, la dedizione si riesce a dare nel momento in cui non si ha più bisogno di aiuto per affrontare la propria di vita. Infine l’Amore richiede anche sforzo, uno sforzo che io allora non ero in grado di affrontare. Voglio dire, come potevo Amare Riccardo se non ero neanche in grado di volere una briciola di bene a me stessa? Lui era diventato la mia ancora: chiedevo tutto e non ero in grado di dare nulla, preoccupata com’ero di tenermi a galla, nel vano tentativo di non annegare. In questo modo non ho fatto altro che rischiare di fare affogare anche lui. Era assolutamente necessario dare un taglio netto, tentare di nuotare. Che io in quel periodo abbia realmente iniziato a
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nuotare, in una piscina reale, credo non sia un caso, credo sia legato a questa mia visione metaforica dell’Amore più di quanto si possa immaginare. Nuotare realmente era strettamente legato al mio metaforico nuotare per sopravvivere a me stessa. Ed ora eccomi qui: una reazione, è questo che aspetto, ma lui no, lui mi guarda laconico, inespressivo. - Va bene, anche io non ce la faccio più - dice. Ed è così che è finita quella che credevo essere la storia d’amore più bella che potessi mai desiderare di vivere. Mi porta a casa subito dopo. Lo stomaco è chiuso. Non una parola, solo monosillabi, quasi sospesi, senza fiato e senza vigore, appesi al nulla e io rimango sola, in questa scontata valle di lacrime. Non riesco a dormire, figuriamoci! E poi quella frase finale che rimbalza in testa: - Sono proprio curioso di vedere che cosa combinerai nei prossimi mesi, senza di me. Ora puoi dedicarti fin che vuoi alla tua stramaledetta corsa. Però ti voglio bene. Il giorno dopo eccomi qui, con gli occhi ancora pesti di pianto, a correre con il mio allenatore: io e la mia stramaledetta mania di correre.
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TU E LA TUA STRAMALEDETTA MANIA DI CORRERE!
Ho iniziato a correre per lo stesso motivo per cui il 90% delle ragazze inizia a farlo: volevo perdere peso. Non che fossi grassa, però abbondante sì, un’abbondanza che cominciava a non piacermi affatto. Io e la mia amica Laura lavoravamo all’epoca in un ristorante e ci facevamo un mazzo senza senso. Ci eravamo ribattezzate CER: cameriere in prima linea (da ER, Medici in Prima Linea, nota serie tv) perché non avevamo orari ed eravamo sempre disponibili al servizio di sua maestà, il padrone della baracca. Tutte e due lavoravamo per mantenerci all’università. Erano tempi duri: chiudevi il locale verso l’una, poi andavi a berti una birra veloce se avevi ancora qualche energia in corpo e poi via a nanna, di solito verso le 3 di notte. Al mattino sveglia all’alba e lezione all’università alle 8. Tempi duri, ma soprattutto stipendi da fame. Io e Laura ci arrabattavamo come meglio ci riusciva. Il cibo era un dramma: non potevamo mangiare in servizio perché, come insegnava il Grande Capo, sua Maestà il Datore di lavoro - quando si lavora non si mangia! - Così, nelle piccolissime pause concesseci, rubavamo qua e là qualcosa, in genere tutti cibi ipercalorici (d’altronde, in una trattoria cosa vuoi trovare? Verdure al vapore e pollo bollito?), tra salumi, formaggi, fritto misto e chi più ne ha più ne metta, era difficile districarsi. Laura aveva trovato una soluzione tutt’altro che dietetica: il suo pasto consisteva in un piatto di dolci misti consumato in fretta davanti al frigo a servizio quasi terminato. Io facevo quel che potevo, ma l’ago della bilancia si stava vertiginosamente impennando. E’ stato in quel momento che io e la mia Lauretta abbiamo preso la solenne decisione di buttar giù qualche chilo e dedicarci almeno due/tre volte la settimana a una corsetta di circa 40 minuti. Detto, fatto. Iniziammo a correre che era una gelidissima sera di febbraio, poi la cosa proseguì qualche rara domenica mattina. Laura in ben poco tempo abbandonò il progetto “perdi peso entri in forma” da
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me volenterosamente inaugurato, lasciandomi sola, inerte, con un progetto in mano e poca voglia in corpo. Come io sia potuta passare dalla svogliatezza totale all’iperattivismo podistico nel giro di appena un anno resta ad oggi ancora un mistero. Quel che importa è che, raggiunto l’obiettivo della perdita di peso, mi resi conto che amavo correre. Incredibile ma vero, era bellissimo correre e ogni momento era buono per mettere le scarpette ai piedi e tentar di fuggire dal mondo, anche se solo per un’ora. Ricordo ancora con nostalgia il primo paio di scarpe usato da neofita: un paio di Reebok da pallacanestro, senza il benché minimo ammortizzamento, né davanti né dietro. Se ci penso adesso mi viene la pelle d’oca. Un paio di scarpe assolutamente inadatte alla corsa: un po’ come andare a giocare una partita di calcio con gli scarponi da sci, ho reso l’idea? Correre divenne quasi una malattia. Un giorno mio padre mi disse, probabilmente senza realmente pensare alle conseguenze della sua proposta: - Ma perché invece di correre così, senza obiettivo, non ti iscrivi a un gruppo sportivo e ti metti a fare qualche gara? Fu così che iniziò la mia sgangherata e tragicomica carriera podistica. All’inizio mi allenavo con il gruppo presso il quale mi ero iscritta tramite un’amica che già correva per lo stesso, ma erano allenamenti sporadici, forse anche un po’ privi di entusiasmo, qualche competizione en passant, ma nulla di più. In fondo ben poco era cambiato, salvo il mio atteggiamento verso la corsa. Ora volevo di più, nella testa avevo mezze maratone, maratone, le lunghe e lunghissime distanze. Forse avevo anche una punta di ingiustificata follia agonistica, ma dopo essermi cimentata in qualche maratonina locale ormai mi sentivo pronta per quella che era per me la sfida più importante: la maratona, quei terribili 42 km e 195 metri da correre a perdifiato. Quello volevo e volevo anche un po’ perdermi dentro me stessa. Ma a chi affidarmi? Non è che uno dall’oggi al domani mette le scarpette ai piedi e via, pronto alla partenza di una maratona. Ci vuole preparazione, costanza, disciplina! Ma soprattutto ci vuole un programma mirato di allenamento e dove lo trovavo io un programma mirato? Un giorno arriva nuovamente mio padre (sempre lui, con proposte di cui ignora le conseguenze): - Sai, un mio amico si fa allenare da un ex maratoneta molto forte, uno che è stato in nazionale, se vuoi ti faccio avere il numero. Lui non lo fa
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di mestiere, allena per passione, chissà, magari può darti una mano, eh? - mi dice. Fu così che strinsi fra le mani con timore un numero di telefono molto particolare, quello del mio futuro allenatore, Claudio. Questo incontro cambiò davvero tutta la percezione avuta in passato nei confronti della corsa. Quello lo ricordo come un periodo bellissimo. La preparazione della maratona, le corse tutti insieme, io ed altri ragazzi, la domenica, le gare serali, i bagordi dopo le gare, l’amicizia che ci ha legati tutti sin dall’inizio e infine, il giorno della maratona, la mia prima maratona, questo mostro sacro a lungo temuto ma a lungo desiderato. Mi rimbalzano in testa le parole di un romanzo di Covacich 4, non posso fermarle, non posso farne a meno davvero: – La maratona è un’arte marziale. Chi la corre compie una scelta estetica, non una sportiva. Lo sport non c’entra niente. Vorrei dire: resistere alla più alta velocità possibile per una strada così lunga è la cosa più bella che una mente umana possa produrre – La maratona è una cosa folle, senza pietà, per questo è così affascinante. La mia prima maratona è per me un ricordo dentro il cuore, forte e tenace, profondo nelle viscere e duro come la pietra. E’ un ricordo che sa di fatica, sudore e lacrime, di abbandono a se stessi e dentro se stessi. Ecco, per me la maratona è stato tutto questo e poco importa il tempo finale in una competizione che nulla ha a che vedere con gli altri, ma che è innanzitutto con se stessi. Chiaramente la maratona accrebbe esponenzialmente il mio assurdo stato di esaltazione agonistica, ma in fondo io mi crogiolavo bene in quel marasma fatto di allenamenti sempre più intensi con il gruppo e gare sempre più numerose. Solo Riccardo mi guardava con sospetto: - Guarda che stai esagerando, prima o poi ti spacchi - continuava a ripetermi come un uccellaccio del malaugurio e fu così che, difatti, venne l’infortunio e tutto ciò che questo comportò. Poco importa ora di quell’anno infausto fatto di corsa e stop vari, di dolore e ripresa, di ramanzine da parte di amici, parenti e fidanzato, sul 4
M. Covacich, A perdifiato, 2003
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perché e il percome della mia assurda mania di correre anche se sentivo dolore. La frase tipo era: - Insomma Mahela, non fare l’atleta che non sei! Non tutti siamo fatti per correre come gazzelle! Poco importa ora che l’infortunio è superato, ora ho ripreso ad allenarmi con più testa rispetto a una volta. Poco importa anche perché ora che ho ripreso, comunque sia, non c’è colui che più amorevolmente impostava la propria ramanzina. Riccardo non c’è più e in fondo sono io che ho voluto che accadesse questo.
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GLI EX. QUELLI CHE A VOLTE RITORNANO
Ma chi ti tiro fuori dal cilindro magico? 10 anni che non ci vediamo e sentiamo, tolto un sms assurdo inviatomi circa 3 anni or sono: - Scusami per tutto il male che ti ho fatto. Spero tu possa perdonarmi. I.- recitava, melenso. 10 anni appunto, ma il mio numero, l’essere immondo, ancora ce l’ha, evidentemente. Così, dopo non molto che io e Riccardo ci siamo lasciati, ritorna a farsi vivo, complice il fatto che la mia amica Claudia lo ha rivisto ad una cena di compleanno. Inizia un frenetico scambio epistolare via sms che culmina nel seguente dialogo virtuale al limite della schizofrenia. Lo cito testualmente, più per me stessa che per i posteri. Io – Sto cominciando a pensare che le poste italiane ce l’abbiano con me. Avrò mandato via qualcosa come cinquanta curricula e nessuno si è ancora fatto vivo. Credo che nella vita ci si debba dunque inventare un mestiere. Io pensavo di fare la raccoglitrice di more, sarà stagionale, ma secondo me è fantastico! Lui – Ma il fidanzato che fine ha fatto? Io – Ci siamo lasciati. E la tua di fidanzata? Lui – Più o meno. Ma è per colpa delle ferie? Io – Non è che abbia tanta voglia di parlarne. Piuttosto, dì la verità, ti è passata la voglia di rivederci? Lui – Alza gli occhi al cielo. Guarda che splendida notte. Io – Sì, bellissima, ma questa risposta mi fa confermare la mia ipotesi. Non so, non te lo voglio negare, mi dispiace non rivederci, ma forse è meglio così. Buonanotte. Lui – No…Io…Io, ecco, sto uscendo dal lavoro ora…Il tempo è prezioso, goditelo e dedicatelo finchè puoi, spero domani…
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*** Ho smesso dieci anni fa di analizzare questa persona, all’epoca ho perso solo tanto tempo, dover ricominciare ora è quantomeno frustrante e faticoso, perciò decido di lasciar andare le cose come devono andare, sono troppo stanca, di tutto, anche di dover pensare. E lui continua: sms, telefonate…Ti chiamo, non ti chiamo, mi chiama. Usciamo, non usciamo, usciamo. Che fatica il solo fissare un incontro, sfiancante, peggio di una maratona davvero! Quella sera fa freddo, piove che dio la manda ed io ho messo su l’abito migliore, forse un po’ estivo, ma non importa, in fondo voglio fargli vedere quanto sono cambiata e migliorata in questi lunghissimi anni. Porto anche una buona bottiglia e mi sento in gran forma. Vado da lui, faccio la brillante. Lui è sempre lo stesso, qualche capello in testa in meno, ma sempre lui: Ivan, Il Terribile. Di nome. Di fatto. Quante ferite sgorganti mi ha lasciato questo tizio… Mi accoglie in casa, apriamo il vino, parliamo tanto, cioè parlo tanto io, lui ascolta, strano. Sta filando tutto liscio, incredibile, non mi sento neanche troppo coinvolta. Caspita se sono forte, mi dico. Poi ecco, mi accompagna alla porta: - Sai, si è fatto tardi - dice. E lì, proprio lì, sulla porta, mi bacia. Adesso tutto è di nuovo come allora: le gambe tremano, la pelle d’oca, una quattordicenne nel corpo di una trentenne e ritorno a ricamare sopra questo tizio che a suo tempo mi fece perder senno e ragione, ma è un ricamo pacato il mio, forse frutto di un’età diversa o forse è il fatto che esco da poco da una storia che mi ha lasciato senza fiato in gola e senza energie; lui pure, a quanto dice. Nessuna promessa di rivedersi, solo quel bacio. I giorni seguenti aspetto in silenzio, in fondo non voglio nulla, non voglio ricominciare di colpo una nuova storia, sono troppo fragile, ma sì, avrei voglia magari di rivederlo, mi piacerebbe molto poter capire se è lo stesso di allora o se è cambiato, maturato, cresciuto, in poche parole: se non è più il solito stronzo. Aspetto, ma poi non resisto, mi conosco e due giorni dopo gli scrivo: - Sono stata bene l’altra sera, ma se quello era un bacio d’addio potevi evitare di darmelo perché ha scombussolato di nuovo tutto il mio mondo. M.
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Nessuna risposta, fino al mattino. “BIP! Hai ricevuto un nuovo messaggio, cara” sembra dirmi il telefonino. - Io farei del volontariato…I – recita tristemente l’sms. Bene, ora ho la risposta: è sempre il solito stronzo, sai che novità. Vorrei sotterrarmi sotto otto metri di terra e non vedere più la luce da tanto mi sento umiliata. Ma come si fa a rispondere così? Come si fa? Eppure è successo, ebbene sì. Rido (per non piangere, chiaro) e gli annuncio ufficialmente che non gli darò più fastidio per il resto dei miei e dei suoi giorni, chiedendogli cortesemente di fare lo stesso. Per me la faccenda è ovviamente chiusa qui, ma evidentemente solo per me, come dimostreranno i fatti a seguire. Ecco, il termine esatto per definire il tutto credo sia PARANOIA. Il termine PARANOIA deriva dal latino parànoos – dissennato, ed è composto da parà – para, e nous – mente. Se andiamo al di là del suo significato letterale, ossia: malattia mentale caratterizzata da idee deliranti, di persecuzione, di grandezza e simili, in personalità che per il resto sono normali o, ancora: stato di crisi, di confusione mentale, di depressione. E’ illuminante ragionare sulla base latina del termine per capire esattamente cosa significa, perlomeno per quel che mi riguarda, questa parola. Il termine parare significa oltre che preparare, anche scansare, il termine nous, che in latino indicava genericamente la mente, in italiano passa ad assumere un significato più complesso e affascinante: noia, ossia il male della contemporaneità, termine che non indica solo uno stato di inerzia mentale e fisica, ma anche uno stato di pena, dolore. Se uniamo i due termini para e nous, forzando un po’ le cose, il passo è breve: scansare la noia, o ancora scansare la pena, il dolore. In entrambi i casi il risultato è affascinante: in questo senso farsi le paranoie significherebbe: a) scansare la noia; b) scansare il dolore. Trovo la questione oltremodo inquietante. Nel mio caso scansare il dolore sembrerebbe essere la traduzione più azzeccata: sono paranoiata nel senso che la mia paranoia è letteralmente uno scansare il dolore della perdita, un ammazzare la noia in cui mi ritrovo: Ivan in questo senso fa parte del gioco.
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Il mio scopo, uscendo con lui, andava oltre il vedersi. Il mio scopo era null’altro che un tentativo di riscossa, un regolare i conti con un passato ingombrante, ma anche un voler rivivere un’emozione forte che mi era stata regalata molti anni prima e che da tempo ormai non provavo più. Io, uscendo con lui, volevo sentire di nuovo le gambe tremare. Una volta ottenuto, tutto questo però non mi è bastato. Non è che volessi ricominciare una storia seria. Dopo Riccardo ogni rapporto con l’altro sesso mi sembrava vuoto di significato. Dopo di lui tutta la mia percezione nei confronti dell’amore era cambiata e con essa il mio vivere le emozioni ad esso connesse. Quel che volevo da Ivan era il regalo di un ricordo, ben impacchettato e infiocchettato, un ricordo da rivivere che mi facesse dimenticare temporaneamente la disperazione degli ultimi periodi. Strano come lui non sia riuscito a darmi neanche questo, curioso come lui abbia rovinato tutto quando con pochi gesti, dal dispendio energetico pari a zero, avrebbe potuto rendermi felice; d’accordo, una felicità di latta, ma pur sempre una parvenza di felicità. Credo che il problema sia dato dal fatto che io e Ivan ci siamo sempre fraintesi e forse per questo ci siamo sempre scontrati: come in un passato remoto lui mi dava solo un rapporto da amante e io avrei voluto un rapporto più stabile, ora che io avrei voluto un rapporto da amante lui voleva darmi un rapporto di amicizia. Gli amici amo sceglierli da sola, odio le imposizioni di qualunque tipo, forse è questo il mio problema. Di amici ne ho a sufficienza, un amico è l’ultima cosa di cui avrei avuto bisogno in quel periodo: io volevo il sogno, volevo il sogno di latta. In definitiva, rifletto, il rifiuto sessuale è il peggior rifiuto che una donna possa ricevere: è come dirle – ti sono amico perché non sono attratto da te – il che equivale a dirle – sei una schifezza, ma sei una persona brillante, simpatica e dunque possiamo uscire e farci un sacco di risate, ma il sesso scordalo. Non voglio essere brillante, non voglio essere simpatica, io voglio essere desiderata. Ho passato gli ultimi venti anni a cercare di essere intellettualmente interessante, a forgiare il mio cervello, ad abbellirlo con inutili orpelli semantici, ora mi sono rotta le scatole, ora voglio essere guardata come carne, sangue e pelle. Dopo il meraviglioso messaggio inviatomi quel mattino appena sveglia (giusto per incominciare bene la giornata), qualche giorno dopo Ivan mi chiama al telefono.
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Leggere il suo numero sul display mi ha in qualche modo turbata e per un istante sono stata molto indecisa sul da farsi: rispondere e rischiare di ricevere un altro inutile turbamento oppure non rispondere ed evitare la tragedia imminente? Alla fine ho optato per la prima soluzione, complice una curiosità morbosa che mai mi ha abbandonato e probabilmente mai mi abbandonerà. Dall’altro capo del telefono una voce contrita e rotta: - Mahela, scusami, mi sono comportato come uno stronzo – mi dice. - Ma dai? Guarda Ivan, lascia stare, ok? Non peggiorare le cose, è già abbastanza brutta la faccenda così, non deteriorare ulteriormente quel poco di buono che potrebbe ancora esserci fra i miei ricordi, davvero, lascia stare – riesco a dirgli. - Credimi, non ho dormito per due notti dopo che ci siamo visti, lo sai esco anche io da una storia lunga, non ho voglia di complicazioni – mi risponde. - Nessuno ti ha chiesto complicazioni, sai? Proprio nessuno, il vedersi non significa complicazione, il vedersi significa solo vedersi, divertirsi insieme, nulla di più nulla di meno. Non voglio che mi sposi! – e la mia voce assume, mentre pronuncio queste ultime parole, un timbro oltremodo ironico che spero lui colga. - No, è che sono un po’ disturbato. Avrei bisogno di fare chiarezza dentro di me, capisci? – mi dice. Rifletto su quella parola: disturbato. Per una volta è riuscito a mettere il termine giusto al posto giusto, incredibile! - Capisco, capisco. Allora senti, fai una bella cosa, fai chiarezza dentro te stesso e non chiamarmi più, va bene? – gli rispondo. - Dai, non fare così, io voglio rimediare, voglio esserti amico!- ha il coraggio di dire. - Senti Ivan, non rimediare, non voglio la tua amicizia – detto questo con estremo savoir faire riattacco e, chiaramente, scoppio in lacrime. Possibile che non riesca a capire? Possibile? Continuo a ripetermelo, possibile che non riesca a capire che voglio essere desiderata, come è possibile che un uomo non riesca a capire che la cosa peggiore che si può dire a una donna che è attratta da te è che la vuoi come amica? Possibile che lui non riesca minimamente a calarsi nei miei panni? Evidentemente è possibile. La verità è che, nonostante tutto (e in questo si denota la mia scarsa intelligenza), nonostante questa telefonata, quel messaggio, nonostante io abbia chiuso la comunicazione in maniera così brusca, una maniera
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che non permette repliche, ho passato i giorni successivi alla telefonata ad attendere che lui richiamasse, che rinsavisse, che mi dicesse che in realtà no, che in realtà mi desidera, che si è sbagliato. Ho aspettato, per la verità non invano. Ho atteso senza agire, a conferma del fatto che negli anni almeno un po’ ho imparato ad aspettare. Ho aspettato che lui rinsavisse, credo. Ho aspettato e lui ha alla fine richiamato qualche tempo dopo. La faccenda che credevo/temevo chiusa non si era chiusa affatto, ma questa è un’altra storia ed è necessario informare il lettore sugli eventi trascorsi nel mezzo per poter chiarire meglio il contesto in cui è avvenuto il secondo round della nostra battaglia personale, quella mia e di Ivan.
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VALERIA
Chissà come mai, quando finisce una storia importante, invece di andare avanti, come vorrebbe la regola del gioco che chiamiamo vita, io torno sempre indietro, a tentare di regolare i conti con un passato irrisolto, un po’ come diceva De Andrè: - Quel che allora chiamammo dolore è soltanto un discorso sospeso 5 – Io di discorsi sospesi sembro sempre averne troppi e Valeria non fa eccezione. Valeria era la mia migliore amica, dico era perché poi ci siamo perse di vista, complice il mio innamoramento per Riccardo, ma soprattutto complice la sua partenza per Londra. Eppure Valeria mi è sempre rimasta nel cuore, come una spina che non riuscivo a togliere. Non so quante volte ho affrontato il perché e il percome della nostra amicizia conclusa con Riccardo che ascoltava in silenzio. Non so quante volte mi sono chiesta dove in realtà potesse essere, come potesse vivere. Ogni tanto mi arrivava qualche notizia da amici comuni, ma nessuno era troppo convinto e nessuno, soprattutto, l’aveva più vista. Il suo recapito telefonico era peraltro cambiato da un pezzo e io non possedevo di certo quello nuovo. Ricordo ancora il giorno in cui mi ha annunciato solennemente che sarebbe partita: - Mahela, parto, vado a Londra. Lo sai, ormai è troppo tempo che faccio corsi di recitazione qui in Italia e non sono riuscita a combinare un bel niente. Qui non ci sono possibilità. Credo di poter avere più fortuna in quella città. All’inizio mi arrabatterò in qualche modo, poi qualcosa succederà. Ti voglio bene e ti penserò sempre – mi ha detto. No, non l’ho accompagnata all’aeroporto, l’ho salutata pochi giorni prima che partisse, con il pianto in gola e troppi ricordi nel cuore, 5
Fabrizio De Andrè, Ballata degli impiccati, dall’album Tutti morimmo a stento, 1968
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perché con lei ho passato momenti indimenticabili e certe amicizie ti rimarranno sempre dentro, indelebili ritratti della tua esistenza. Certe amicizie ti cambiano e ti formano, come ti cambiano e ti formano certe storie d’amore e lei e Riccardo mi hanno cambiata dentro, nel profondo, a piccoli passi, senza farsi sentire. Lei è partita ed è rimasto il vuoto, un vuoto colmato da Riccardo, al quale mi sono aggrappata. Con il tempo la mia testa ha cominciato a scordare, il mio cuore, invece, non ha mai dimenticato del tutto quell’amica fuggita via per realizzare un sogno, quasi un’utopia, un’amica che ha avuto coraggio, un coraggio che le ho sempre invidiato perché io mai sarei stata in grado di fare quello che ha fatto lei, o almeno così credevo allora. Quel che restava era vuoto misto a un pizzico di rabbia, come solo un abbandono può darti, ma ormai era passato tanto tempo e tutto si era trasformato in malinconia, un’emozione, credo, molto più nobile. Le persone non scompaiono mai del tutto, come Ivan insegna. Chi non muore si rivede, così dice la saggezza popolare ed è vero più che mai. Chiusa la storia con Riccardo rimane l’angoscia e mi accanisco contro un passato ingiusto. E’ in quel periodo che mi ritorna in mente Valeria e la nostra amicizia, ma come fare a rintracciarla ora, dopo tutti questi anni? Idea! Rifletto sul fatto che Internet ormai è una potenza e sicuramente se qualcosa questa mia amica ha combinato, anche fosse capitato nel più sperduto paese del mondo, sicuramente tramite un potente motore di ricerca quel qualcosa sarebbe stato in qualche modo rintracciabile. Così, molto semplicemente, digito il suo nome e il suo cognome sulla tastiera del computer affidandomi alla memoria virtuale di Google. Compaiono sullo schermo diversi link riguardanti la mia amica: alcuni sono molto vecchi, perlopiù esperienze teatrali fatte qui in Italia, altri sono decisamente più recenti, ma quello che attira il mio sguardo è la presenza di un link che mi conduce a una pagina di facebook. A questo punto occorre fare un excursus sul tema.
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MONDO BLOGGER
Quello dei bloggers è uno strano mondo. Ricordo molti anni fa di essere capitata in una chat, quasi per sbaglio, ma allora era tutto diverso. Incappavi perlopiù in maniaci sessuali & Co. Chi entrava nelle chat line lo faceva più che altro per uscire dalla routine o per fare del sesso virtuale. Ora le cose sono molto cambiate: innanzitutto ormai chiunque ha un blog, dal vicino di casa, all’amico che non vedi da una vita, al professore di Canicattì, ai gruppi musicali che creano un blog tutto loro per farsi pubblicità e comunicare le date di concerti e uscite di album. Trovi ancora pervertiti, ma è più difficile e comunque ci incappi solo se lo vuoi, basta non concedere loro l’add, come si dice in gergo, e li tieni a distanza. Punto secondo: per comunicare con un blogger devi diventare a tua volta un blogger. Capirete che la cosa non è così semplice, soprattutto per una come me che di queste cose ne ha sempre saputo davvero poco. Eppure era necessario diventare una blogger per comunicare con Valeria e così ho creato il mio blog. Il blog, se ti fai prendere la mano, incredibile a dirsi, diventa quasi una droga, anche per chi, come me, ha sempre creduto molto poco in queste cose. Il mio blog all’inizio era estremamente essenziale, d’altronde doveva essere solo un modo per mettermi in contatto con Valeria. Aveva solo qualche dato e neanche una foto: il mio nome, la città di provenienza, la data di nascita e poco altro, ma io possiedo un nome che non è proprio così comune. In questo modo ho chiesto l’amicizia virtuale alla Vale e lei ha dato inizio al nostro intenso scambio epistolare, non più fatto tramite blog, ma tramite E-mail. Vi garantisco che raccontarsi le proprie vite dopo anni che non ci si sente né ci si vede richiede tempo ed energia, ma scriversi con una persona che ritrovi e che un tempo ti scaldava il cuore, mandarsi le foto per confrontare come si è ora e come si era un tempo è qualcosa di
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estremamente elettrizzante. Scoprire che in fondo non si è cambiate poi molto, ritrovare l’antica sintonia, ti fa ritornare indietro in un tempo remoto che pensavi di aver ormai sepolto e che invece è ancora lì intatto, pronto per essere riscoperto e ritrovato. Valeria, che voleva fare l’attrice, alla fine era riuscita a fare solo una sorta di B-movie e poco altro, ma era contenta. La sua dimensione da londinese le stava a pennello ed era bello leggere nelle sue mail, oltre alle sue avventure sempre divertenti e raccontate con la consueta ironia di un tempo, le parole italiane così spesso inglesizzate, o il suo intercalare fatto di domande, quasi retoriche – credo si scriva così in italiano, vero? Ormai sto perdendo la mia lingua madre! – e il mio risponderle che no, ora c’ero io a farla ritornare con la testa un po’ in Italia. Bello potersi scrivere e confrontare di nuovo, chiedere consigli, raccontarle di Ivan e immaginare un suo - Oh my god! - leggendo le mie storie. Ora che avevo ritrovato Valeria mi sembrava quasi di aver ritrovato anche quel passato così a lungo temuto e, pur non essendo vicine fisicamente, adesso sapevo che in qualunque momento avrei potuto prendere un aereo per volare da lei. Quante volte ci siamo dette in quel periodo che ci saremmo riviste presto, ma lei nel frattempo aveva cambiato lavoro e non aveva né ferie né denaro, io d’altro canto ero messa peggio di lei con i miei duecento euro in banca e senza un lavoro. Alla fine ci siamo ripromesse di vederci in momenti migliori, quando lei fosse stata in grado di tornare, anche solo per qualche giorno in Italia oppure quando io fossi stata in grado, economicamente parlando, di permettermi un viaggio anche breve in quel di Londra. Non so se alla fine quel viaggio l’avrei fatto, il sapere che lei era di nuovo mentalmente con me, che potevo contattarla ogni volta avessi voluto, era rassicurante e forse in quel momento sufficiente a farmi stare meglio. Una cosa in ogni caso era certa: dovevo trovare un lavoro, impresa tuttavia più semplice a dirsi che a farsi dal momento che era già da un po’ di tempo che avevo iniziato la ricerca senza ottenere risultati.
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L’ARDUA RICERCA DEL LAVORO (o di se stessi?)
Quando mi sono messa a cercare lavoro ero convinta che, pur faticando, tutto sommato non sarebbe stato così difficile. Come mi sbagliavo! Innanzitutto era necessario scrivere un nuovo curriculum perchè quello che avevo era vecchio e andava decisamente aggiornato, ma ero piena di entusiastica speranza. Nel curriculum inserisco un po’ di tutto: titoli accademici, lavori passati, la passione per i cani, la corsa e quanto di altro mi venga in mente. Guardo, spulcio, pulisco, anche con l’ausilio efficiente di una madre che, da brava contabile, riesce a trovare sempre il pelo nell’uovo, e non solo quello. La fase numero due, la più difficile, consiste nel capire che cosa voglio davvero fare da grande (anche se, aimè, grande lo sono da un pezzo). Considero tutte le opzioni, mi rivolgo con lo sguardo indietro nel tempo e in una pellicola mentale rivivo le passate esperienze: ho fatto davvero di tutto, dalla cameriera alla barista, dalla cassiera alla commessa, dalla dogsitter al fattorino, fino all’ultima grande esperienza di ben tre anni con mansione customer service (che poi è un modo grazioso per dire impiegata commerciale, diciamo che customer service fa figo, non impegna e sembra un po’ meno schifoso di quello che in realtà è) Dunque, esperienze passate archiviate, ora devo pensare al mio futuro. Ma quale futuro? Rifletto un attimo: laurea in filosofia, laurea in scienze della comunicazione, un diploma da sommelier, podista. Quattro cose che hanno davvero poco a che fare le une con le altre ed io ho una confusione in testa tale che non so proprio dove andare a parare. Posso far tutto e niente. Inizia la frenetica spedizione di buste con dentro i curricula. Li mando ovunque, a giornali podistici, giornali locali, in librerie, in biblioteche, presso case editrici, nelle enoteche, nei ristoranti, presso aziende di ogni tipo, dal settore manifatturiero a quello alimentare, ma quello che ricevo è il nulla. Mi indirizzo verso luoghi migliori, almeno credo. Una sera, la mia amica Claudia mi consiglia di andare su un sito internet di ricerca rapida del lavoro. Ho deciso: diventerò una selettrice di personale.
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Ecco, sì, mi iscrivo in tutte le pagine web che riesco a trovare e che propongono mansioni riguardanti gestione risorse, personale & Co. Mi iscrivo a ogni newsletter, inserisco la mia bella mail nell’apposita casellina e attendo. Attendo il nulla. O meglio, non siamo così catastrofici, non proprio il nulla, ma quasi. Cominciano ad arrivarmi via mail varie offerte di lavoro e scaricando la posta sono quasi emozionata. Dentro di me dico - ma tu guarda, dove falliscono le poste italiane, ecco esplodere la magia del millennio: internet, questo mostro sacro. E invece no, grande, grandissima delusione! Il 90% degli annunci di lavoro come selettore del personale recitano pressappoco la stessa lagna. Eccone una per tutti: - Cerchiamo laureati/e o laureandi/e, possibilmente in area umanistica, con spirito di collaborazione, bella presenza, conoscenza pc, esperienza di almeno 2 anni nel settore. Età compresa fra i 25 e i 30 anni. Disponibilità immediata full time per stage presso rinomata azienda torinese di 3 mesi, prorogabili. Compenso: buoni pasto Non spreco neanche tempo a commentare l’annuncio, uguale a mille altri, credo che si commenti da sé, anche se, mentre scrivo, mi assale una punta di rabbia, non solo per quel “compenso: buoni pasto” che sa di fame nera, ma anche per quella, sempre richiesta, in qualunque tipo di annuncio (anche come impiegato contabile, per intenderci, che non ha pressoché contatto con il pubblico), bella presenza. L’osservazione amara riguarda un mondo in cui non solo non vi è spazio relazionale per le persone non dotate di quella tanto richiesta bella presenza, ma non vi è spazio neanche nel drammaticissimo mondo del lavoro, in cui devi essere bello, intelligente, parlare mille lingue, dotato di ogni qualità possibile e immaginabile, flessibile negli orari e negli spostamenti (in fondo viviamo in un mondo flessibile, no?) e soprattutto senza scrupoli. Ecco, voglio dirlo, io non ci sto. Io rinuncio. FINE ANTEPRIMA CONTINUA...