Sotto la maschera, Monica Tessarin

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In uscita il 31/ /2019 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine PDJJLR e inizio JLXJQR 2019 ( ,99 euro)

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MONICA TESSARIN

SOTTO LA MASCHERA

ZeroUnoUndici Edizioni


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SOTTO LA MASCHERA Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-308-6 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Maggio 2019 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


La questione finisce sempre davanti ad una scelta a due uscite. Darsi da fare a vivere o darsi da fare a morire. (S. King)



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PROLOGO

«Sei muto?» Il bambino aveva una salopette sporca di terra e cavalcava il suo triciclo con la consumata perizia di un cowboy da rodeo. C’era un pezzetto di gomma da masticare rosa attaccato ai capelli e una macchia di gelato sulla guancia sinistra. «No.» Il bambino sembrava deluso. Lo fissò con aria di rimprovero. «Allora perché non parli?» Antoine non rispose e non distolse lo sguardo. Era seduto su quella panchina dall’alba e ancora non era stanco di guardare le foglie cadere dagli alberi. C’era qualcosa di elegante, quasi poetico, nel lieve planare delle foglie rossicce del primo autunno. Il parco ne era pieno e lui ne aveva raccolte diverse da mettere nel suo sacchetto di plastica della Migros. Quel sacchetto conteneva tutte le cose che gli erano care. Quelle


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foglie gli avrebbero ricordato il primo giorno della sua nuova vita. Per sempre avrebbero evocato l’esaltante profumo della libertà, quel sottile brivido che provava quando pensava al suo futuro vuoto e perciò pieno di possibilità. «Io mi chiamo Claude e ho quattro anni. Tu quanti anni hai?» Un piccione si appoggiò sullo schienale della panchina. Tubò la risposta e ripartì lasciando una piuma grigio smog sui pantaloni di tela grezza di Antoine. «Vuoi un pezzo di crêpe? C’era il cioccolato, ma io l’ho già leccato. Però la crêpe è buona… vuoi?» Frugò nella tasca della salopette e gli porse qualcosa avvolto in un tovagliolino di carta. «No.» Ancora non distolse lo sguardo. Il bambino non disturbava la sua concentrazione, tra qualche ora non avrebbe neanche ricordato quella conversazione. Antoine era incapace di interrompere il filo dei suoi pensieri, la sua mente correva su di un binario stabilito e niente poteva rallentarne la corsa. «Mia mamma non vuole che venga in questa parte del parco.» Il bimbo alzò il mento in direzione del brutto edificio degli


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anni Cinquanta che confinava con la recinzione del parco. «Dice che quelli sono pericolosi.» Antoine non aveva bisogno di distogliere lo sguardo per sapere che

si

riferiva

all’Istituto

“Jeanne

d’Arc”,

l’ospedale

psichiatrico più tristemente noto della Francia. Nimes era famosa per due cose principalmente: per la sua alta concentrazione

di

“disturbati”

e

per

l’arena

dove,

occasionalmente, si svolgevano sanguinose corride. Antoine doveva ancora vedere l’arena, dicevano somigliasse a quella di Verona. Con un po’ di immaginazione poteva fingere di essere in Italia e di visitare i luoghi immortali del tragico amore tra Romeo e Giulietta. Era un romanticone, Germaine glielo aveva detto una volta. Germaine era l’unica che lo avesse mai capito. «Sei uno di quelli?» si informò educatamente il bambino, mentre con una mano cercava di recuperare briciole di gomma da masticare dai capelli e se le infilava in bocca. Alla sua età già sapeva che non era educato dare del “matto” o del “maniaco” a un adulto. Ciò nonostante gli piaceva parlare con chiunque gli prestasse un minimo di attenzione. «Sssì.» Le sibilanti erano un problema per Antoine. Ma non quanto le “v” e le “z”.


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Il bambino lanciò ancora uno sguardo sospettoso all’edificio squadrato e anonimo. Una fiancata era annerita dalla fuliggine: qualcuno aveva tentato di appiccargli fuoco, ma era riuscito a bruciare solo qualche sedia e un divano che erano già stati portati via. Il bambino si era rammaricato di non aver visto i pompieri in azione. Sembrava non esserci nessuno, né dentro né fuori. Tanto il parco era curato nel prato, nei sentieri di ghiaino e nelle fontanelle art déco, quanto il giardino dell’istituto era invaso dall’erba alta calpestata e cosparsa dei bicchierini di plastica utilizzati per le medicine dei pazienti. Persino il platano nero e deforme che sorgeva al centro del giardino sembrava malato e pericoloso. Dalle finestre si vedevano le luci al neon accese notte e giorno, e teste ciondolanti che guardavano fuori per ore. Non erano le maglie di rete metallica alle finestre a mettere i brividi, ma il fatto che molte di queste fossero scardinate dall’intelaiatura e nessuno si fosse curato di aggiustarle. Il bambino si chiese, a disagio, se era giusto che quel tipo strano stesse al di qua della barriera elettrificata. A guardarlo bene, però, non sembrava cattivo. Solo molto brutto. Magari poteva dargli qualche buon consiglio per diventare più bello.


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«Dovresti tagliarti la barba e i capelli. E magari comprarti un paio di scarpe nuove. Tua mamma non te le dice queste cose?» Antoine finalmente distolse lo sguardo dagli alberi e lo abbassò sulle sue scarpe. Erano le stesse che indossava quando era arrivato a Nimes. Ed erano vecchie anche allora. Ma loro lo avevano aspettato tre anni e lui non avrebbe mai avuto il cuore di gettarle via. Il bambino cominciò a dondolare sul suo triciclo da rodeo, un misto di noia e impazienza. Del resto, verso l’ora di pranzo non c’era quasi nessuno al parco. Era stanco di gente troppo distratta o impegnata per avere il tempo di scambiare due parole con un piccolo cowboy. «Sei povero?» insistette, masticando la gomma riciclata. «Se non hai soldi puoi cercarti un lavoro. L’ho visto fare allo zio Philippe…» Spinse il triciclo fino al vicino bidone dei rifiuti. Si sollevò sulla punta dei piedi e afferrò con destrezza sospetta un vecchio giornale che sporgeva. Lo lanciò ad Antoine mirando troppo avanti. La mano dell’uomo scattò ad afferrarlo con una mossa tanto fulminea e sicura che il bambino si zittì all’istante.

L’uomo

non

lo

stava

guardando,

anzi,

probabilmente non lo stava neppure ascoltando. Eppure aveva


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riflessi prontissimi e stringeva quel giornale in una morsa tale da esser felici che la carta non potesse provare dolore. Il bambino ritenne prudente allontanarsi un po’, giusto per sicurezza. «Lo zio Philippe ha trovato qui dentro il lavoro. Ogni mattina guardava qui, finché non ha trovato un lavoro bellissimo allo stadio. Secondo me ora è ricco. Puoi farlo anche tu, no?» Era indeciso se tornare dalla noiosissima sedicenne che gli faceva da baby-sitter: seduta sullo schienale di una panchina all’ingresso del parco, con i piedi sul sedile e la sigaretta in mano, era al telefonino con un’amica da almeno tre quarti d’ora. Era stato interessante per lui imparare tutte quelle parolacce, ma quando aveva iniziato a ripetersi non era stato più tanto divertente. Però forse, a quest’ora, si era accorta della sua assenza e magari gli avrebbe anche rifilato una sberla. Sì, era tempo di rientrare. Antoine stava lisciando il giornale sulle ginocchia. Sembrava non averne mai visto uno da vicino. La prima pagina riportava la notizia dell’esplosione di un appartamento a causa di una fuga di gas. C’era la foto con i pompieri che cercavano di spegnere l’incendio all’ultimo piano di un’elegante palazzina.


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«Tu sai leggere, vero?» aggiunse il bambino, come in un ripensamento dell’ultimo minuto. «Perché io so leggere solo il mio nome. Non posso aiutarti.» Lo fissò dubbioso ancora qualche secondo, poi fece spallucce e si allontanò spingendo con foga il triciclo e lasciando solchi profondi nella ghiaia. La sua scomparsa non provocò nessuna particolare reazione in Antoine. Lentamente, molto lentamente, un abbozzo di progetto per il futuro si stava delineando nella sua mente. Negli ultimi tre anni non aveva mai avuto un solo pensiero che riguardasse il futuro. Non c’era futuro nell’ospedale, i giorni erano indistinguibili gli uni dagli altri, e non era neanche tanto male. Ma poi Germaine si era interessata a lui e qualcosa aveva iniziato a cambiare. La terapia aveva funzionato perché lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per compiacerla, e lei desiderava provare le sue teorie e ottenere una promozione a dirigente del reparto. E se lei era felice, lui era felice. Gli occhi scorrevano sugli annunci economici, la testa annuiva adagio seguendo le colonne del giornale. Non c’era niente che attirasse la sua attenzione, niente che gli facesse venire la voglia di alzarsi da quella panchina.


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Girando la pagina, rimase colpito dall’immagine di una creatura mostruosa che reggeva in braccio un bambino. La testa e le mani erano sproporzionate, il muso allungato con un naso tondeggiante e due grossi incisivi distanziati, le orecchie lunghe e un buffo cappellino in testa. Per qualche istante Antoine rimase interdetto, senza riuscire a distinguere la tridimensionalità dell’immagine. Poi comprese che non poteva che trattarsi di una maschera. Sì, un uomo dentro a un pupazzo. L’annuncio recitava i versi di una canzone della sua infanzia e invitava chiunque avesse “voglia di cambiare vita, di immergersi in un mondo di divertimento, musica e colori, voglia di essere qualcuno di diverso dal solito” a presentarsi all’ufficio reclutamento del personale di Euro Disney a Marne La Valée, appena fuori Parigi. Antoine strappò la pagina meticolosamente, ripiegando ripetutamente il riquadro dell’annuncio fino a farlo diventare della dimensione esatta del suo logoro portafoglio. Soddisfatto dell’operazione, si alzò infine dalla panchina e raccolse il suo sacchetto di plastica. La sua destinazione sarebbe stata quindi Parigi. E poi Euro Disney.


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Non per i bambini. Non per le giostre, la musica, il chiasso. Ma per la maschera.


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CAPITOLO 1

Fabio lanciò il fascicolo sulla sua scrivania, accompagnando il gesto con un’imprecazione rabbiosa. Il fascicolo planò sulla pila di incartamenti e crollò insieme al resto dalla parte opposta. «Un pensierino per chiudere la settimana?» chiese bonario il collega con il quale divideva l’ufficio contabilità della piccola rivendita di camper e caravan. «Quella stronza… quella maledetta stronza vuole che io chiuda i conti prima di tornare a casa! Di venerdì pomeriggio!» Il collega tornò a sfogliare il catalogo delle crociere sul Nilo che stava consultando da almeno sei settimane e che probabilmente era quasi scaduto. «Ci ha concesso qualche giorno di ferie, no? Cerchiamo di partire lasciando tutto a posto.» «Se mi dai una mano, potrei finire prima…»


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L’altro lanciò uno sguardo in tralice al mucchio di carte sparpagliate per terra. «Neanche per idea, il casino l’hai combinato tu. Cerca di aver finito per le sei, non aspetteremo un minuto di più.» «Ma devo ancora fare la valigia!» «Affari tuoi. Non sono tua madre e neanche la tua ex moglie. Arrangiati.» Fabio si inginocchiò per raccogliere le carte digrignando i denti. Il progetto del “weekend lungo” aveva impegnato le loro elucubrazioni mentali per mesi. Loro due e un responsabile delle vendite avevano noleggiato l’autocaravan più lussuoso e confortevole del catalogo a un prezzo assolutamente stracciato. «Lei lo sapeva che oggi volevo uscire prima. L’ha fatto apposta.» Avevano in progetto di percorrere tutto il litorale romagnolo, l’unico posto ancora “caldo” fuori stagione. All’interno del loro comodo gioiello ipertecnologico non sarebbe mancato nulla: cibi pronti e birra in quantità, filmetti e videogiochi a ciclo continuo, fumo senza restrizioni di sorta. Fuori dal loro guscio ovattato, la vita nei locali e nelle osterie, nuove amiche da conoscere e invitare nella loro alcova. Quello era il punto forte


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del loro progetto: erano tutti e tre divorziati di recente e con la voglia matta di sentirsi ancora cacciatori. Non ne avevano parlato apertamente, ma avevano pensato persino a qualcosa di gruppo, di quelle cose che si leggono spesso nelle riviste specializzate, ma che non si ha mai veramente l’occasione di mettere in pratica. «È probabile», considerò l’altro, accarezzandosi la calvizie incipiente. «Forse non ha digerito gli ultimi due o tre dispettucci. Sai di che parlo», proseguì fingendo di leggere il programma dell’escursione ad Abu Simbel. «I punti metallici nel vassoio della fotocopiatrice, la frase oscena con il pennarello indelebile sulla lavagnetta degli ordini, la cenere di sigaretta nel vaso del suo ficus preferito… Hai mai pensato che un giorno potrebbe stancarsi delle tue bravate e sbatterti fuori?» Come tua moglie, avrebbe potuto aggiungere, ma non lo fece perché il tacito accordo tra gentiluomini gli impediva di accennare troppo frequentemente alle ex consorti. «Lo so io cosa vuole veramente da me. Ho visto come mi guarda. Forse un giorno le darò quello che vuole», e fece un


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gesto allusivo. «Ma per il momento posso tenerla sulla corda tutto il tempo che voglio.» L’altro guardò l’orologio ed emise un sospiro. Ripose la rivista sgualcita nel cassetto e mise in ordine perfetto le penne, i timbri, il tappetino del mouse e la rubrica telefonica in modo che fossero allineati con la tastiera del computer. Contemplò il risultato, che avrebbe fatto imbestialire la donna delle pulizie, e prese il cappello alla pescatora appoggiato sull’attaccapanni. «Congratulazioni, allora. Le darei una botta anch’io, se me lo chiedesse. Ma la verità è che un’amante che vedi tutti i giorni è un po’ come una moglie. Non ne vale proprio la pena.» «Te ne vai di già?» Fabio assunse un’espressione afflitta. «Dobbiamo riempire il frigo del camper, qualcuno deve fare il lavoro sporco. Poi ti presenterò la nota spese e ricorda», disse alzando un dito ammonitore, «che se per caso non ti presenti all’appuntamento, pagherai la tua parte lo stesso.» «Quante storie, certo che ci vengo, ci metto due minuti a finire qui, cosa credi?» La porta dell’ufficio si chiuse alle sue spalle e Fabio rimase a fissare il poster della Ferilli che vi era rimasto appeso dall’estate precedente. Con un sospiro accese il computer e,


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invece di aprire il programma della contabilità, perse qualche istante prezioso a meditare vendetta. Il telefono squillò facendolo sobbalzare. Non aveva voglia di rispondere, ma al sesto squillo alzò la cornetta innervosito. «Fabio?» La sua ex moglie! Fantastico! Un sorriso compiaciuto gli distese i lineamenti: sentiva il bisogno urgente di sfogarsi e con nessuno riusciva a farlo meglio che con lei, era libero di fare e dire quello che voleva finché non si fosse svuotato completamente di ogni sentimento negativo. Questo gli mancava veramente da quando era andato a vivere da solo: qualcuno su cui riversare quantità spropositate di veleno, di cattiverie, di disprezzo all’ennesima potenza. «Cosa vuoi?» rispose brusco. «Devo lavorare, io, non sono mica come te che non fai un cazzo dalla mattina alla sera!» La partenza era ottima, ottima, l’importante era trovare sempre l’aggancio giusto per iniziare a litigare. «Allora?» «Mattia», rispose lei con voce neutra, «la partita finisce alle sei e mezza.» Fabio raddrizzò la schiena cercando di ricordare se aveva promesso qualcosa al figlio. Partita? Quale partita? Non aveva


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mai assistito a una delle partite di basket del figlio e certo non avrebbe iniziato proprio quel pomeriggio. Lanciò uno sguardo al calendario da tavolo. C’era un cerchietto sulla data di quel giorno, 13 ottobre, ma nessun appunto specifico. Aveva segnato l’inizio della sua vacanza, nulla più. Visto che lui non rispondeva, lei proseguì un po’ incerta. «Ci sono ancora tutti i tuoi vestiti invernali qui. Se prima di partire vuoi passare a farti la valigia…» Un brivido premonitore lo percorse da capo a piedi. Balzò dalla sedia indignato, rovesciando un’altra volta tutte le fatture e le liquidazioni per terra. «Ma si può sapere di che cazzo stai parlando? Quale partita? Quale valigia? Ti sei sniffata la boccetta dello smalto per unghie?» «Hai promesso a Mattia che questa sera sareste partiti per andare a Euro Disney e che avreste passato il weekend lì», spiegò paziente. «Dovevi passare a prenderlo dopo la partita. Ti ho telefonato per comunicarti l’orario di uscita dei ragazzi.» Fabio si lasciò cadere sulla sedia privo di forze. «Stai farneticando», mormorò sbalordito per l’assurdità dell’idea.


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«Solo a una stupida senza cervello come te poteva venire in mente uno scherzo del genere.» «Non è uno scherzo. Ne abbiamo parlato a Pasqua, ricordi?» «Pasqua?!» Un barlume di ricordo si fece avanti nella sua mente. In verità non avevano parlato di altro per tutto il pranzo con i suoceri. Si era persino preso quei quattro giorni di ferie per quel motivo. Poi, dopo qualche mese, si era ritrovato quei giorni liberi senza ricordare perché li aveva chiesti e aveva subito aderito alla proposta del viaggio in caravan. Si aggrappò alla scrivania con una smorfia feroce. Il suo motto era “la migliore difesa è l’aggressione”. «Non dire stronzate, questo weekend ho un altro impegno. E se credi che io abbia intenzione di buttare nel cesso tutti quei soldi… Vacci tu se ti prude tanto di fare un giro con i sette nani!» «Non mi importa dove vai questo weekend, ma è sicuro che lo passerai con tuo figlio. Hai saltato tutti quelli del mese scorso, hai tanto rotto per averli e questa volta tocca a te. Vai a rileggerti la sentenza di divorzio.» «È… è un’idea del tuo avvocato?» «Ti aspetto tra un’ora.»


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Rimase con la cornetta in mano anche dopo che lei aveva riattaccato. Puttana. Non poteva essere vero! Cominciò a girare nervosamente per l’ufficio deserto. Doveva fare qualcosa! Subito! Doveva farsi venire in mente un’idea! Entro un’ora avrebbe dovuto trovarsi nel piazzale del concessionario con la valigia pronta e un paio di mutande pulite per iniziare il weekend più memorabile della sua vita. Raccolse una a una tutte le fatture e le lisciò con le mani per levare le pieghe agli angoli. Meglio essere fiduciosi e ottimisti. Aveva sempre una buona idea a trarlo dall’impaccio, bastava aspettare che venisse fuori. Non c’era motivo di preoccuparsi, Mattia avrebbe passato il weekend con la sua mortifera madre e lui magari gli avrebbe fatto una telefonata da Riccione per raccontargli quanto si stava divertendo. Sì, gli avrebbe promesso di comprargli una di quelle magliette “I ricci scopano a Riccione”, ammesso che se ne fosse ricordato. Accese una sigaretta e cercò di rilassarsi mentre immetteva dati nel computer. Il mondo è di chi sa sfruttare le occasioni. I furbi si divertono. Gli stupidi restano a casa.


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CAPITOLO 2

La stazione dei treni di Nimes era affollata da gente diretta a Nizza per prendere l’ultimo weekend di sole di settembre. Antoine si sentiva un po’ stordito da tutto quel vociare sovrastato dagli annunci all’altoparlante e dalla musica del piccolo bar vicino alla biglietteria. Due banconote da cento franchi, una da cinquanta e una manciata di spiccioli. Era quanto aveva in tasca quando l’avevano preso. Ora tutto costava di più. Si era concesso una zuppa di lenticchie con una mezza baguette e una bottiglietta di Evian. Si era comprato una saponetta e un pettine: aveva tutte le intenzioni di rendersi presentabile per il suo nuovo lavoro. Ripose con cura le due banconote rimaste e si fermò a fissare le sue dita tozze come se fosse la prima volta che le vedeva. Sottili cicatrici bianche attraversavano le nocche pelose e i pollici erano stranamente deformi. Erano mani forti, erano


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mani di cui era sempre andato orgoglioso. Le cicatrici se le era fatte con la corda di un pianoforte. I dottori ridevano quando lo raccontava, non lo credevano proprio un tipo che si diletta con il pianoforte. Ma lui non aveva mai detto che la corda era nel pianoforte quando si era ferito. Raccolse il suo sacchetto di plastica e si avviò verso la toilette degli uomini. C’era anche la possibilità di farsi una doccia, ma a lui sarebbe bastato potersi radere e tagliare i capelli. Scelse uno dei lavabi in marmo e preparò sul bordo la saponetta, il pettine e il rasoio a mano che teneva nella borsa di plastica. Un ricordo di suo padre, che era stato barbiere a Lione. Contemplò la sua faccia riflessa nello specchio e si rammaricò che Germaine l’avesse sempre visto così. Una specie di orso arruffato con peli grigio ferro e rosso ruggine. Con la forbice iniziò a tagliare i ciuffi sulla fronte, mettendo così in evidenza la cicatrice slabbrata che partiva dal centro della fronte e si perdeva nell’attaccatura dei capelli. Catherine e il suo calice d’argento... nel suo sacchetto di plastica ne conservava ancora un pezzo (del calice, purtroppo! Di Catherine non aveva fatto in tempo a prelevare nulla, l’intero convento era stato richiamato dalle urla e le suore infuriate erano pronte a dare


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battaglia). Quel segno inciso sulla pelle gli ricordava quanto l’aveva amata e per lui era quasi come il tatuaggio di un bacio che non aveva mai ricevuto. Poi iniziò ad accorciare la barba. Ciuffi crespi cadevano a pioggia sul pavimento e nel lavandino, e lui si meravigliava della trasformazione. Ecco il suo naso, non ricordava neppure quante volte si era rotto. In verità, era quasi convinto di averlo sempre avuto rotto e dolorante da quando aveva tre anni. L’ultima volta glielo aveva rotto il dottor Clavier, uno studente di psichiatria criminale. Un teppistello che si divertiva a tormentare i pazienti portando alla luce gli episodi più angosciosi della loro vita con la pretesa di aiutarli ad affrontare la realtà. I tapini si vedevano distruggere le difese che avevano costruito in una vita intera di tormento e poi venivano abbandonati alle terapie farmacologiche come unica via di uscita. Antoine non era certo un tipo che amava provocare i dottori, ma doveva essere stato un suo commento diretto a Germaine a far arrabbiare Clavier. Nulla di offensivo, per dirla tutta, ma Antoine era rimasto inerte mentre l’arrogante piccolo strizzacervelli si accaniva sulla sua faccia. E aveva fatto bene a non reagire, dopo Germaine era stata tanto mortificata che gli


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era rimasta vicino per tre giorni supplicandolo di non dire niente dell’accaduto. Il loro piccolo segreto. Un segreto d’amore. Si insaponò la faccia e prese il rasoio. Era lucido e scintillante nonostante l’età, Antoine ne aveva molta cura. Riapparve il mento, ridicolmente piccolo e a punta in rapporto alle labbra carnose e piene. Uno spray anti-aggressione gli aveva procurato un eczema spaventoso ed era stato necessario asportare il primo strato di epidermide. Non era una bella vista. Terminata la sua operazione, Antoine non era più tanto convinto di aver migliorato la situazione. Sperava solo di non dover parlare con i turisti di Euro Disney. La sua pronuncia era blesa a causa di un piccolo incidente occorsogli nove anni prima

con

un

“cliente”

che

praticava

pugilato

da

semiprofessionista e che gli era costato i due incisivi superiori. Si era fatto medicare da un amico infermiere e non si era mai fatto vedere da un dentista vero. Questo ulteriore svantaggio estetico non danneggiava molto la qualità dei suoi sorrisi, perché Antoine non sorrideva mai, neppure per lavarsi i denti. La porta della toilette si aprì fragorosamente e fece il suo ingresso una coppia di giovani vestiti da spiaggia. Uno portava


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una bandana con i colori di una squadra di calcio e una maglietta nera con il simbolo della Nike. «Nooo… era solo una fumatina innocente. Se lo fa di nuovo, le sputo nel caffè!» L’altro, shorts verde militare e scarpe da ginnastica monumentali, rispose con una risata ragliante: «Fallo lo stesso, sì! E a tua sorella mettile una caccola nella coca!» «Che cretino che sei», rispose il tipo con la bandana dall’interno del cubicolo con la porta aperta. «La si vedrebbe galleggiare, no? E poi mia madre ricomincia a rompere…» Lo scroscio dello sciacquone e un sussurro a denti stretti: «Hai visto il tipo? Che ne dici?» «È grosso, Hervé.» «Ma che dici, sarà un metro e settanta. Gli ho visto il portafoglio nel sacchetto di plastica.» Uscirono dal cubicolo per lavarsi le mani con la stessa andatura baldanzosa con la quale erano entrati. Antoine li seguì con la coda dell’occhio mentre si sciacquava il viso. Forse il suo cervello non era tanto veloce, ma i suoi sensi erano sempre vigili e acuti. Se non fosse stato così non sarebbe arrivato a quarantaquattro anni con il mestiere che faceva. E i suoi sensi


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gli dicevano che i due avevano intenzione di disturbare le sue abluzioni solitarie. Forse, continuando a ignorarli, avrebbero cambiato idea. In ospedale di solito funzionava, gli ospiti in genere gradivano restare nei loro universi privati. Antoine aveva imparato a temere di più gli aghi degli infermieri e tutti quei veleni che lo facevano stare male. «Che schifo! Guarda quanta sporcizia lasciano in giro questi barboni!» Antoine sospirò, Germaine gli aveva ripetuto più volte, con quella sua voce da usignolo, che la gente cattiva si era approfittata di lui per fargli fare cose cattive. Ma che lui era un gigante buono, aveva la mente di un bambino in un corpo che metteva paura, lui non voleva veramente fare del male alle persone. La violenza era qualcosa di sporco e fastidioso. Ripensò al volto di Germaine, la pelle soffusa di candore virginale e i capelli corvini raccolti in uno chignon molto professionale. Rilassò le spalle e chiuse gli occhi: li avrebbe riaperti quando quei due si fossero stancati di tormentarlo. Voleva mantenere un comportamento che avrebbe reso orgogliosa Germaine.


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«Non dovrebbero lasciarli circolare liberamente, scommetto che non è neanche francese!» Allungarono il collo per vedere cosa stava facendo. «Di dove sei, bello? Parli la nostra lingua?» Lo circondarono aspettando una risposta, che non arrivò. «Ehi, ce l’ho con te!» sbottò il tipo con la bandana dandogli una gomitata. «Sei ubriaco? Sei fatto o cosa?» «Lascialo perdere», rispose l’altro chinandosi per afferrare la borsetta di plastica rigonfia. «Vediamo un po’ cosa c’è di interessante qui dentro.» «No.» Antoine, senza aprire gli occhi, aveva intercettato la mano del ragazzo e aveva stretto il polso con delicatezza. Voleva dire qualcosa di gentile per essere lasciato in pace, qualcosa tipo “Non voglio guai”, oppure “Ehi amici, non sto facendo nulla di male”, ma nella sua mente si era formata l’immagine di Germaine l’ultima volta che l’aveva vista e ora la stava contemplando a occhi chiusi. «Lasciami! Lasciami!» strillò spaventato il ragazzo, con gli occhi lucidi per il dolore. «Aiutami! Mi spezza il braccio!» gridò all’indirizzo dell’amico.


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«Bastardo! Lascialo andare!» L’altro cercò di scrollarlo, ma era come accanirsi contro un Menhir di due tonnellate. Antoine lasciò il braccio e aprì gli occhi piuttosto seccato, ma non ancora veramente arrabbiato. Si chinò per raccogliere la borsa e andarsene a cercare un passaggio per Parigi, ma il ragazzo con la bandana fu più veloce di lui. «Questa la prendo io, brutto stronzo.» Solitamente i due provocatori scappavano fuori dalla toilette con le ali ai piedi, sfruttando la loro consumata abitudine alla fuga. Non che si aspettassero di trovare veramente qualcosa di valore nella borsa di un barbone, ma era l’idea di assoluto potere su qualcun altro che li esaltava. Nessuno finiva in prigione per aver rubato mutande sporche e calzini bucati… ma erano consapevoli che quello che rubavano poteva essere per qualcuno tutto ciò che possedeva. In quell’occasione, però, la loro reazione fu congelata: uno con in mano il sacchetto, tenuto alto come un trofeo, e l’altro che si reggeva il polso dolorante. Entrambi ipnotizzati dalla faccia di Antoine, paralizzati in attesa di vedere cosa avrebbe fatto. Antoine fissava il ragazzo di fronte a lui con una strana luce negli occhi, ed era stato forse questo che li aveva bloccati, che


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aveva fatto loro perdere istanti vitali per capire il significato di quello sguardo. Antoine strinse i pugni facendo scrocchiare sinistramente le nocche. Di solito amava perforare i polmoni della vittima e ascoltare il soffio della vita che usciva sibilante come da una gomma bucata. Era divertente guardare qualcuno che cerca di respirare con i polmoni collassati, quelle due sacche sgonfie che di solito non ricordiamo neanche di avere e che collaborano ubbidienti ogni secondo della nostra vita. Era ora di provare qualcosa di diverso? Sì, era ora. L’altoparlante appeso sopra la porta annunciò la partenza dell’espresso per Nizza; sul marciapiede del binario numero tre una donna con una bambina stava aspettando sempre più infuriata il ritorno del figlio e del suo amico. Ma lì, nella stanza dalle piastrelle sberciate e dagli specchi opachi, nessuno aveva più fretta di andare da qualche parte. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

Prologo ........................................................................5 Capitolo 1 ..................................................................14 Capitolo 2 ..................................................................22 Capitolo 3 ..................................................................31 Capitolo 4 ..................................................................36 Capitolo 5 ..................................................................46 Capitolo 6 ..................................................................53 Capitolo 7 ..................................................................61 Capitolo 8 ..................................................................68 Capitolo 9 ..................................................................73 Capitolo 10 ................................................................79 Capitolo 11 ................................................................83 Capitolo 12 ................................................................89 Capitolo 13 ................................................................92 Capitolo 14 ................................................................96 Capitolo 15 ..............................................................103 Capitolo 16 .............................................................. 111 Capitolo 17 .............................................................. 115 Capitolo 18 .............................................................. 119 Capitolo 19 ..............................................................127 Epilogo ....................................................................135



AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Seconda edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2019) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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