Disponibile anche: Libro: 15,50 euro (dal 16 dicembre 2011) e-book (download): 9,99 euro e-book su CD in libreria: 9,99 euro
FABIO RICCI
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Spielen Copyright Š 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright Š 2011 Fabio Ricci ISBN: 978-88-6307-xxx-xx In copertina: foto di Alessandro Pagni
Finito di stampare nel mese di Dicembre 2011 da Logo srl Borgoricco - Padova
Improvvisamente seppe che la sua vita stava per finire. Bastò scorgere l’ombra davanti a lei, statuaria e dal profilo possente. Non poteva sbagliarsi. Si voltò a destra e sinistra, controllò l’orologio al polso e con un gemito prese coscienza della verità. Era arrivata seconda. Il sudore le colava dalla fronte in grandi gocce, le scivolava lungo la schiena dandole brividi umidi. Cadde in ginocchio continuando ad ansimare, i palmi a terra, la testa bassa davanti a quel destino bastardo che l’attendeva. Era stato tutto inutile. Eppure era certa delle sue possibilità, aveva calcolato tutto alla perfezione. Era rimasta sveglia l’intera notte per ripassare il percorso più veloce, le curve dove accelerare e le piccole scorciatoie tra i palazzi. Credeva di aver trovato la scappatoia, la salvezza, correndo più veloce del vento. E adesso era a terra, riversa sul duro ciottolato di un’anonima strada, dove tutto sarebbe giunto a termine. Era buffo, quasi divertente. Aveva trascorso gli ultimi tre giorni a contatto con la morte, l’aveva annusata come mai avrebbe creduto di poter fare, arrivando a conoscerla, a inscenare un’innaturale convivenza con quella sensazione. Ma fino alla fine una voce le aveva ripetuto che non sarebbe toccato a lei, che ce l’avrebbe fatta. Che sarebbe andata in culo a tutti gli altri. C’era da ridere e l’avrebbe fatto se non fosse stata così vicina a morire. Alzò la testa a fatica e fissò l’ombra con odio. Non parlava, quella maledetta massa scura che si stagliava davanti a lei, non emetteva un suono. E questo silenzio rendeva il tutto ancora più insopportabile, più irreale e malsano. Avrebbe voluto gridarle contro, implorarla, lottare o chiamare aiuto. Ma come aveva imparato bene nelle ultime ore, sarebbe stata solo una perdita di tempo.
Le rimaneva la dignità. Una cazzo di dignità macchiata di sangue. Si mise a sedere appoggiando la schiena al muro di un vecchio edificio. L’ombra fece un passo nella sua direzione e seguì il suo esempio. Erano seduti l’una davanti all’altra, illuminate dalla fievole luce di una luna autunnale, in silenzio. Mentre lei ansimava si rese conto che dall’ombra non proveniva nemmeno un respiro. Era come se non fosse per niente stanca, come se non avesse corso. «Comment tu fais? Tu n’es pas humain.» Ma erano parole inutili ed evitò di pronunciarle. Si passò una mano sulla fronte portando via una manciata di sudore, poi sospirò. Il peggio doveva ancora accadere. Forse non sudava solo per la corsa, ma per quello che stava per succedere. La colse un tremito. Una fitta lancinante le dilaniò lo stomaco costringendola a piegarsi su se stessa. Aprì la bocca come per gridare, ma ne uscì solo un sibilo, un suono che non sembrava appartenere a lei. Il tremito si fece più violento. Appoggiò una mano a terra mentre con l’altra si teneva la pancia. La testa si muoveva in piccoli scatti simili a convulsioni che le facevano affluire il sangue alle tempie. Poi quella sensazione. Quella tremenda consapevolezza fisica. Il sentirsi abitata. Con uno schiocco liquido seppe che era cominciato. Da lì in avanti poteva sperare solo che fosse veloce, che la morte giungesse prima del resto. L’ombra continuava a osservare, seduta a pochi metri di distanza. Poi estrasse un cellulare guardando l’ora sul display e sembrò annuire. Si alzò con lentezza e si stirò le braccia. Si allontanò dalla ragazza fino a quella che decise essere una sufficiente distanza di sicurezza, allora estrasse il coltello. La lama luccicò alla luce della notte e sembrò dotata di vita propria. La ragazza osservò le mosse del suo aguzzino, ma era come vederle attraverso uno schermo. Le fitte si facevano più violente, dolorose, era come se dovesse vomitare tutte le sue interiora. L’ombra alzò la lama e l’abbassò conficcandosela su un fianco. Rimase ferma per un paio di secondi e poi, senza emettere un suono, la mosse tracciando una piccola mezzaluna sulla dura scorza della sua pelle. Il sangue colò a terra prima in piccole gocce, poi sempre più copioso, fino a formare una pozza ai suoi piedi. Questa tremò per un attimo, facendo cadere la lama a terra, ma rimase in piedi. Dopo quel bizzarro gesto di automutilazione strinse i pugni con forza, infilandosi quasi le unghie nei palmi, e rivolse lo sguardo al cielo. La ragazza stava per perdere i sensi. Ma, e malediva Dio per questo, non
abbastanza velocemente. Con un gemito batté la testa contro la parete, sperando che quel colpo bastasse a farla svenire, ma non fu fortunata. Cadde sulla schiena inarcandosi per il dolore. Dalle labbra uscì un gorgoglio profondo e oscuro, pesante come un macigno e simile al verso di una bestia. Bianca schiuma venata di sangue colò dai lati della bocca, mischiandosi con la polvere dell’asfalto. Sussultò un’ultima volta e sentì quello strano groppo nella gola. Qualcosa che saliva con lentezza la sua cavità orale, inerpicandosi nella trachea. Entro pochi istanti sarebbe venuto alla luce. Non si accorse dell’ombra che le si era nuovamente avvicinata. E come era giunta passò oltre, mischiandosi all’oscurità della notte senza dire una sola parola. Non c’era nulla da dire né da vedere, niente cui non avesse già assistito. La ragazza lo seguì con lo sguardo, negli ultimi secondi di coscienza che le rimanevano. Il dolore era quasi scomparso, forse una bizzarra forma di anestesia, le rimaneva soltanto l’odio. Una rabbia cupa e ruggente che sapeva sarebbe svanita con lei, nei meandri di quel corpo che stava per eruttare l’orrore. Odiò fino all’ultimo respiro, quando la bocca le si riempì di movimenti alieni, e una massa ributtante le invase le narici. Prima di morire li sentì uscire.
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01/10/09 Luca scorreva i nomi senza prestare troppa attenzione.
Passavano sullo schermo in fila, quasi fosse una processione o una lista di caduti di guerra. Il pensiero lo fece sorridere. Klauss, Albrecht, Burk. Li pronunciò con quella dura inflessione che la lingua tedesca sapeva regalare, fatta di lettere che di rado si trovavano nell’alfabeto italiano. Alcuni gli sembravano ridicoli, allora provava a immaginarsi i proprietari. Ditrich: senza ombra di dubbio un tipo magro allampanato, con un paio di occhialini sul naso e l’espressione severa, vestito da tirolese. Eusebius: be’, ci doveva essere dietro un uomo di mezz’età, con una lunga barba bianca, un po’ alla Gandalf. Helmut: non ci si poteva sbagliare, questo era un palestrato filo nazista. Con i capelli rasati corti, sul biondiccio, un bomber nero con qualche toppa nordica sopra. E il gioco continuava, tra i Kamill, i Meinhard e i Weigel, perchè quella ricerca diventasse un po’ più divertente. Luca si stava rompendo le scatole. Ogni anno era la stessa storia. La parte organizzativa toccava a lui, e non aveva mai capito bene il motivo. All’inizio l’aveva preso come un complimento, una constatazione della sua abilità nell’occuparsi dei problemi pratici, ma era durato poco. Come in molte altre cose della sua vita, era stato fregato. Quell’anno poi era un’impresa quasi impossibile. Si erano ridotti agli ultimi giorni, a causa di Marco e dei suoi casini sentimentali, e temeva che tutto sarebbe potuto saltare. Cercare un posto a Monaco il 20 di settembre era qualcosa che esulava dalle suddette capacità. Ci voleva una gran botta di culo. Per questo sullo schermo del suo pc scorrevano quei nomi stranieri, nella disperata ricerca di un Bed and Breakfast che ancora non fosse completamente full. Si distese sulla sedia stirandosi mollemente. Era inutile. Accanto a ognuno di quei nomi c’era un bel tondino rosso, implacabile. E
9 quando invece un verde lasciava presagire speranza, si trovava un prezzo che definire folle era un eufemismo. Erano ore che Luca cercava. Di sito in sito, esaminando quelle liste sconsolato. Stava iniziando a odiare la lingua tedesca, come se quei nomi lo schernissero tra le righe, puntandogli il dito contro. Si alzò per prendersi un bicchiere d’acqua. Che giornata di merda! Alice non l’aveva ancora chiamato, fuori pioveva a dirotto e lui era bloccato a fare quella stupida ricerca. Gli veniva voglia di mandare tutto a monte, e che la tradizione si interrompesse una buona volta. Si affacciò alla finestra osservando quel mondo bagnato dalla pioggia. Firenze, quell’anno, sembrava proiettata senza compromessi verso il Natale. Pioveva da qualche giorno e le nubi in cielo non ne volevano sapere di andarsene. Era il periodo peggiore dell’anno, l’estate sfumava sempre più, portata via dal vento che presagiva l’inverno, lo aspettava la sessione d’esami più pesante della storia e aveva anche un po’ di raffreddore. Si sedette davanti al pc accendendosi una sigaretta. Pallini rossi e basta, accanto ai vari Hoffmann, Hubert e Julia, talvolta un nome femminile, ma il risultato era sempre lo stesso. Gli squillò il cellulare che teneva accanto al mouse. Sperò che fosse Alice, finalmente, ma si trattava solo di Stefano. Fu tentato di non rispondere, ma sapeva che l’avrebbe richiamato senza dargli tregua. A volte sentiva di odiarlo. «Ciao Ste, sono ancora alla ricerca.» «Non ci deludere Luca, non possiamo saltare quest’anno, noi crediamo in te!» lo schernì l’amico, ma senza malizia. Al di là di tutto si volevano più bene di quanto davano a vedere. Avevano fatto un paio d’anni di università insieme, prima che Stefano mollasse, e avevano trascorso un sacco di belle serate. Luca ricordava ancora gli aperitivi al bar dietro la facoltà, quelle bevute che si susseguivano una dietro l’altra e i fiumi di risate a condire il tutto. Erano stati i momenti migliori che aveva passato a Firenze, oltre a quelli con Alice ovviamente. «Ci sto provando, credimi, ma stavolta mi sa che siamo nella merda.» «Accidenti, se solo quell’idiota di Marco non l’avesse tirata tanto per le lunghe, a volte penso che avremmo dovuto lasciarlo a casa.». «Forse sì, ma come si dice, fratelli una volta...» «...fratelli per sempre!» concluse Stefano dall’altro capo della cornetta. «Senti questo Ste, si chiama Arcibald! Ma come si fa a chiamare uno in questo modo nel 2009!»
10 Stefano rise. «Non ti sarai messo a fare il giochino di dare una faccia ai nomi? Lo sai che è la cosa più sfigata che conosca?» «Che vuoi?» ribatté Luca, offeso «già che tocca a me il lavoro sporco, potrò farlo come preferisco? Almeno non sono un segaiolo come te!». «Eh, ‘fanculo Luca.» «‘Fanculo te, fratello. Senti, ti chiamo appena ho novità, ok?» «Aspetto notizie. Sono incasinato con il lavoro fino a dopo pranzo, magari potemmo prendere un caffè insieme.» «Sarebbe forte ma non so se Alice... ti richiamo dai!». Agganciò. In effetti non sapeva cosa gli avrebbe detto Alice, né cosa avrebbe fatto nelle prossime ore. Era uscita la mattina presto diretta all’azienda sanitaria per ritirare quei dannati esami, molto prima dell’orario di apertura. Luca aveva insistito per accompagnarla, ma Alice era stata irremovibile. Voleva farlo da sola. Come se quella cosa riguardasse solo lei. Aveva anche pensato di seguirla di nascosto, ma sapeva che avrebbe solo peggiorato tutto. L’avrebbe coinvolto nel momento in cui l’avesse ritenuto necessario, era fatta così. E del resto l’amava anche per questo. Quindi per ingannare l’attesa aveva iniziato quella difficile ricerca. Non era in effetti la sua priorità in quel momento, ma sapeva che impegnarsi in qualcosa l’avrebbe aiutato a non riflettere troppo, e di studiare non se ne parlava. Lanciò un’occhiata alla pila di dispense sul letto e gemette. Museologia applicata ai beni culturali, con una particolare attenzione alle cause di una fruizione superficiale dell’ambiente espositivo da parte del visitatore occasionale. Solo dirlo gli provocava il mal di testa, ma era l’inferno che si era scelto. Krugg, Theodor, Hoss. Il trillo del cellulare vanificò l’ennesima ricerca, ma stavolta in Luca si accese una segreta speranza. Afferrò il telefono guardando il display: era Alice. Si alzò in piedi camminando con frenesia. Immaginava che l’attendesse una conversazione importante, quindi voleva trovare la posizione giusta. Si affacciò alla finestra facendosi carezzare dall’aria pungente del mattino. Poggiò i gomiti sul davanzale, sentendo qualche goccia di pioggia sulla pelle. Davanti a lui si estendeva piazza Santa Croce, e alla fine, maestosamente sfrontata, si ergeva la chiesa. Era il panorama ideale, premette il tasto della ricezione interrompendo lo squillo. «Piccola» esordì con voce delicata «aspettavo di sentirti.»
11 Per un attimo vi fu silenzio, ma Luca riusciva a sentirla respirare piano. «Accidenti a te, Alice. Vuoi parlare? Di’ qualcosa.» «Sono qui» disse la ragazza con un filo di voce. In Luca sbocciarono nuove ansie, finora sopite ma che covavano da giorni. «Sono incinta Luca, nessun dubbio.» «Ah» fu la sola cosa che riuscì a dire. «Ah?» riprese lei, stavolta con vigore «sono contenta che questa notizia stimoli tanto la tua immaginazione.» «Cosa vuoi che ti dica, Ali? Come si fa a ribattere a una cosa del genere al cellulare? Ti prego, torna a casa.» Ancora un breve silenzio, anche se ora erano tanti i pensieri che vi aleggiavano dentro. «Sto arrivando. Tra dieci minuti sono lì.» Chiuse la comunicazione. Luca rimase a fissare la piazza, con le persone che andavano e venivano, i turisti che scattavano le foto e i piccioni che gli cacavano sopra. Si trovava al quarto piano, e quel mondo sembrava a portata di mano eppure lontanissimo. Guardò in basso e per un attimo si chiese se non sarebbe stato meglio buttarsi di sotto. Sarebbe stato da codardi, certo. Richiuse la finestra portandosi le mani alle tempie. Era incinta. Se lo aspettavano ma... era incinta. Dentro l’utero di Alice c’era, anche se in embrione, una versione minuscola di Luca. E lui stava cercando un Bed and Breakfast a Monaco, peraltro senza trovarlo. Aveva bisogno di una sigaretta. Mentre se l’accendeva si ripeté che non era brutto come sembrava, che sarebbe bastato parlarne insieme per risolvere tutto, senza troppa confusione. Alice era una ragazza intelligente, con la testa sulle spalle, sapeva come gestire la cosa, ne era più che sicuro. L’importante adesso era fare un passo alla volta, risolvere un problema dopo l’altro, senza guardare troppo avanti. Avrebbe chiamato Stefano cercando di spiegargli la situazione. Dirgli tutto? Non sapeva se Alice avrebbe gradito, ma del resto qualcosa si doveva inventare. La ricerca, a questo punto, oltre che vana diventava obsoleta. Spense il computer rimanendo ad ascoltare quel meccanico brusio che si affievoliva per poi cessare. Si sentì solo, come se quel rumore in qualche modo avesse potuto confortarlo. Si reputava una persona concreta, non certo uno che si piangeva addosso, ma quella storia stava assumendo delle dimensioni
12 che lo spaventavano e si chiese come ne sarebbe uscito. Si guardò intorno. Il piccolo monolocale si mostrò con la consueta confusione che lo caratterizzava. Al centro della stanza c’era il suo letto, stretto e lungo, con la coperta a terra e il cuscino sgualcito. Di fianco la finestra alla quale si era affacciato pochi secondi prima, in verità il pezzo forte del suo nido e, immaginava, ciò che aveva esponenzialmente alzato il prezzo dell’affitto. Il resto era un tavolino e una piccola dependance che fungeva da bagno. Luca non sentiva il bisogno di maggiore spazio, era più che sufficiente per lui, e anche per Alice, le volte che si tratteneva. Sembrava che le cose sarebbero cambiate però, in un modo o nell’altro, e il pensiero lo spaventava. Il cellulare trillò per la terza volta. Stefano, di nuovo. Luca aprì la comunicazione con un groppo alla gola, come se avesse bisogno di una giustificazione. «Mi ero dimenticato di dirti una cosa importante» esordì l’amico con la consueta voce squillante «quest’anno saremo un bel gruppo! Credo che ci saranno anche quelle due amiche che ti avevo detto. Ricordi? Quelle conosciute al Surf Ventura.» «Sì. A proposito di questo, c’è un problema Stefano.» «Non voglio sentire cazzi, Luca. So che riuscirai a trovare un posto libero, tutti gli anni rischiamo di non farcela e poi ci andiamo sempre!» «Sì lo so, non è questo il problema.» «Dai fratello, non venirtene fuori con una delle tue menate.» Stavolta una menata lunga una vita! «Senti, è successo qualcosa di grosso, ora non posso essere più preciso, ma credimi se ti dico che...» Il campanello squillò, troncando la sua frase a metà. Doveva essere Alice. «Stefano, ti richiamo appena posso. Ora devo chiudere.» Premette il tasto off lasciando l’amico a metà di una debole, ma irritante, battuta. Luca corse alla porta e la aprì lasciando entrare un fresco venticello che, in quell’occasione, sembrò alleggerire la tensione che aleggiava nella stanza. Ma le buone notizie erano finite qui. Davanti a lui, con le mani in tasca e lo sguardo affranto, c’era Marco. Il primo istinto di Luca fu di sbattere la porta con forza, sperando magari di colpire il ragazzo dritto in volto. La mano destra formicolò e per un secondo credette che l’avrebbe fatto davvero. Non Marco. Soprattutto non ora, anche se dubitava che per lui ci fossero momenti buoni.
13 Ma adesso no, proprio no. Aveva quella sua tipica espressione da cane bastonato. Quello sguardo che gridava al mondo che lui era un martire, una vera vittima del corso degli eventi. Colui che soffriva senza sosta. Luca sapeva che l’avrebbe salutato con voce debole e rotta, che si sarebbe accasciato sul suo letto tenendosi le mani sulla fronte, che magari avrebbe imprecato un paio di volte e poi chiesto una birra, sempre con quella voce da condannato a morte. Tutto per istillare una fraterna pietà, ispirare una parola di aiuto o una pacca sulle spalle, come un povero piccolo bambino che si era perduto. «Ciao Luca» disse con voce debole e rotta. La mano gli tremò di nuovo. Doveva toglierselo dai piedi, con diplomazia e velocità. Alice stava per arrivare e l’attendeva la discussione più importante della sua vita. L’ultima cosa che voleva era che trovasse Marco che si crocifiggeva sul suo letto. «Marco! Ciao amico, senti, io...» «L’ho chiamata, Luca. Non ce la facevo più e ho ceduto. L’ho chiamata.» Parlava di Erica, la sua ex, colei che, a detta sua, gli aveva spezzato il cuore in maniera irrimediabile. L’amore della sua vita, l’unica che l’avesse fatto sentire vivo, la ragazza perfetta, che scopava di dio e tutte le altre cazzate di repertorio. Lei l’aveva mollato un mese prima, dopo una relazione durata un annetto scarso, ed era successo nella maniera peggiore. Marco le aveva fatto un’improvvisata, una sera, portandole quell’anello che gli era costato mesi e mesi di sacrifici, l’oggetto che avrebbe suggellato il loro eterno amore. La futura madre dei suoi figli però stava pomiciando con un altro, con un discreto trasporto, avrebbe aggiunto poi; sotto casa sua, in una macchina dai vetri appannati. Da allora il mondo era crollato addosso a Marco. Era entrato in una crisi talmente articolata e profonda che sembrava che la sua vita fosse stata impostata solo per essa. Era un compagno di lunga data e avevano cercato di stargli più vicino possibile, ma a volte era talmente arreso e derelitto da instillare rabbia e irritazione nell’ascoltatore. «L’hai chiamata? Fantastico! Hai fatto bene, poi mi racconti, solo che adesso...» «È stata la peggiore telefonata della mia vita, Luca. Ero sul Ponte Vecchio e, ti giuro, per un attimo sono stato tentato di gettarmi nell’Arno, per farla finita con questa vita di merda.» E perché non l’hai fatto, brutto idiota? «Dai non fare così, che ne dici di farci una birra stasera? Io te e Stefano, così ci racconti tutto per bene e...» «Credo che fosse con lui, mentre mi parlava intendo. Sentivo dei bisbigli
14 alla cornetta, sicuramente era con lui. Magari stavano scopando.» «Non pensarci, Marco. Voglio dire, a che ti serve? Ascolta, davvero, vorrei tanto farti entrare ma mi hai preso in un brutto...» «Aveva una voce strana, impastata. Sono sicuro che gli stava facendo un pompino. Non ho dubbi, quella stronza gli stava succhiando il cazzo.» Luca alzò gli occhi al cielo, stringendo la porta tanto che le unghie penetrarono nel legno. Era al limite. L’avrebbe mandato al diavolo rovinando così un’amicizia. Anzi, se era un vero amico avrebbe capito, dopo, quando le carte fossero state messe in tavola. Fece un passo avanti come a coprirgli l’ingresso e gli posò una mano sulla spalla. «Marco, ora no.» Quello lo guardò come se solo adesso si fosse accorto della sua presenza e aprì la bocca per aggiungere qualcosa. Luca stavolta fu più veloce. «Ti spiegherò tutto, a tutti voi, ma oggi dovete lasciarmi in pace, credimi.» «Tu non capisci Luca, sono stato un tanto così dal farla finita, stavolta davvero, ti immagini se...» «Cazzo Marco, piantala! Mi spiace che tu stia male, potevi fare a meno di chiamarla, però.» «È stata freddissima, distaccata, ostile, come se non avessimo trascorso tutti quei momenti insieme, come se non ci fossimo mai detto che ci amavamo, come se...» «Alice è incinta.» Lo disse guardandolo dritto negli occhi, senza tradire emozione alcuna, ma sortì l’effetto desiderato. Marco, finalmente, non parlava più. Lo guardava adesso come se fosse uno strano animale da circo, con lo sguardo perso nel vuoto e le ciglia aggrottate. Le mani di Marco, un secondo prima gesticolanti nell’aria, adesso erano ferme, e lentamente si abbassarono ai fianchi. «Alice è...?» chiese con voce ebete. «Incinta» ripeté Luca continuando a stringere la porta e facendo uno sforzo per non fare lo stesso con la spalla dell’amico. Poi le cose, con sua somma sorpresa, peggiorarono. «Grazie mille testa di cavolo.» La voce proveniva dalla sua sinistra, dove le scale terminavano sul pianerottolo d’ingresso. Lì, immobile e con le mani sui fianchi, stava Alice. Lo sguardo severo tagliò l’aria fino a colpire Luca in fronte, facendogli socchiudere gli occhi e desiderare di essere inghiottito dalla terra.
15 «Hai già fatto il giro delle telefonate? Vuoi dirlo anche a mio padre?» Il suo tono di voce stava crescendo esponenzialmente, come una scala di valori ascendente. «È tutto un gioco per te vero? Qualcosa da birra e amici. Che cretina sono stata, che cretina.» Si avvicinò senza degnare Marco di uno sguardo, con le braccia conserte e l’aria assassina. Marco scoprì di avere ancora un istinto di sopravvivenza e indietreggiò lentamente. Con un gesto della mano sgusciò alle spalle di Alice e iniziò a scendere le scale con foga. Luca lo fulminò con un’occhiata velenosa, prima di vederlo scomparire verso il basso. «Alice aspetta, lasciami spiegare.» «Non c’è nulla da dire Luca, smettila con le stronzate.» Nel dire questo lo spintonò a un fianco entrando nella stanza alle sue spalle. Luca rimase un secondo immobile, massaggiandosi le tempie con le mani. Dal basso provenne la voce incerta di Marco che pronunciava un frettoloso ciao e un altrettanto timido ci sentiamo presto. «Perfetto» sussurrò Luca a occhi chiusi «sta andando tutto alla grande, è davvero una bellissima giornata.» Si chiuse la porta alle spalle, concentrandosi sulla sua piccola Alice. Lei si muoveva per la stanza con agitazione, gettò il giubbotto sul letto e cercò con frenesia il pacchetto delle sigarette. Era una ragazza esile, con i capelli corvini che arrivavano appena sulle spalle, un volto minuto e due grandi occhi neri. A Luca erano sempre piaciuti perché quando lo guardava sembrava che la notte stessa lo fissasse, col suo insondabile e affascinante mistero. Era stata una delle prime frasi che le aveva detto e lei era rimasta un po’ sulla difensiva non capendo se fosse un complimento. Adesso quegli occhi non lo guardavano ma sprizzavano scintille. Luca le porse le sigarette che teneva in tasca e lei, dopo averlo fulminato un’ultima volta, quasi che anche quello fosse colpa sua, gliele tolse di mano senza cortesia. «Merda» disse, accendendosela con fare tremante «come facciamo adesso? Cosa facciamo? I miei mi uccideranno. Oppure mi metteranno un velo da sposa in testa.» Si rivolse direttamente a lui con una smorfia. «E non so quale sia l’alternativa peggiore.» Luca non colse la sfumatura offensiva e si massaggiò la tempia. Avrebbe voluto prendere le redini della situazione, dire qualcosa di assolutamente azzeccato. Ma non sapeva come.
16 Si sedette sul letto e le fece gesto di fare altrettanto. Alice esitò un momento ma poi, capendo che non era lui il nemico, si arrese e gli si adagiò accanto. Gli posò la testa sulle spalle, mollemente, come a scaricare su di lui tutto il peso che sentiva dentro. Luca l’accolse volentieri. Con una mano cominciò a carezzarle dolcemente i capelli, proprio come piaceva a lei, cercando di ricostruire una relativa tranquillità. Rimasero così un paio di minuti, in silenzio, mentre la sigaretta si consumava senza essere fumata. Fu infine lei a fare la prima mossa. «Me lo sentivo, sai? Una donna certe cose le capisce, sapevo che c’era qualcosa di diverso.» «Immagino che sia così. Secondo te quando è successo? Cioè... quando è stato che...» «Ho capito benissimo cosa intendi» ribatté Alice infastidita «credo un paio di mesi fa, più o meno, ad agosto.» Luca ripensò a dove si trovavano in quel periodo. Non si poteva sbagliare. «Eravamo in vacanza» aggiunse con voce mesta «in Francia, cazzo.» Ci avevano dato un po’ dentro in quel periodo, anche perché avevano scoperto che in Francia ad agosto il posto in cui si stava meglio era la camera d’albergo dotata di aria condizionata. «Ascolta, è inutile rimuginarci troppo sopra. Questo è quanto, adesso discutiamo di ciò che faremo nei prossimi giorni.» Luca annuì. Adorava quando Alice tirava fuori le palle, forse lo scalzava dal ruolo di maschio, ma a lui andava benissimo così. «Per prima cosa chiamo Stefano e annullo la partenza.» Fece per alzarsi quando la mano di Alice si posò sul suo polso. Luca si voltò verso di lei, stupito. «Che c’è? Non vorrai mica dirmi che partiremo? Come se nulla fosse!» «È proprio quello che faremo.» Il suo sguardo era risoluto e non lasciava adito a molte repliche. «Ho fatto una testa così a mia madre perché mi lasciasse venire, promettendole che avrei studiato prima e dopo, che sarei stata buona e servizievole fino alla prossima estate. Sono mesi che glielo chiedo! La cosa fondamentale, e credimi se dico che lo è, è che i miei per ora non sappiano niente di questa cosa, niente! E l’unico modo per farlo è continuare la nostra vita come se nulla fosse.» Luca la ascoltava a bocca aperta. «Se non ci andiamo, al di là della scusa che troveremo, i miei capiranno che qualcosa non va. Conosco mia mamma, Luca, capisce sempre tutto, anche quello che ancora non ho capito io!» «Ok Ali, ma come facciamo ad andare a Monaco facendo finta di nulla?
17 In mezzo agli altri poi! Non credo di essere capace di fingere per tre giorni.» «Non dovrai fingere, idiota. Visto il tuo capolavoro di cinque minuti fa, a quest’ora lo sapranno più o meno tutti, no?» Luca si morse il labbro inferiore. L’aveva quasi rimosso, ma ormai il danno era fatto. Marco non teneva nemmeno la pipì, e del resto una cosa così l’avrebbe spiattellata pure lui a meno che non gli venisse chiesto di non farlo. Ma lui a Marco non aveva fatto una richiesta del genere. «‘Fanculo» imprecò avvicinandosi alla finestra «non ce la faccio a venire a Monaco, Ali, è una pazzia! Tutto quello che voglio è rimanere accanto a te e affrontare questa cosa insieme.» Già, perché, in un modo o nell’altro, andava affrontata. E in quel momento Luca non si sentiva molto pronto a passare al vaglio le possibilità. «Lo faremo insieme» disse lei addolcendo il tono della voce «quando saremo tornati però. Si tratta di un fine settimana, in fondo, lunedì mattina saremo di nuovo a Firenze.» «Tre giorni insieme a Marco e Stefano, poi ci saranno due ragazze che hanno conosciuto al Surf e, come se non bastasse, Yuri, il ragazzo con cui lavora. Ali, sei davvero sicura di volerci andare?» La ragazza esitò un attimo, forse non si aspettava tutta quella gente, ma fu coerente con la sua scelta. «Lo sono. Non so come sarà stare insieme a loro, ma conosco i miei genitori, e non ho voglia di affrontarli adesso. Per favore Luca, credimi.» Luca annuì lentamente, tenendo lo sguardo fisso a terra. Guardò il portatile che giaceva sulla scrivania e ripensò alla fila di nomi che, fino a poco prima, stava visionando. Eppure sembravano passati anni, una vita diversa, priva del peso che adesso sentiva di avere. C’erano dentro insieme e insieme ne sarebbero usciti, nessun dubbio su questo. E si fidava di Alice, cazzo se si fidava. «Come vuoi Ali. Andremo all’Oktoberfest.»
*** Yuri osservava Stefano e, per l’ennesima volta, si pose la stessa domanda. Come faceva a rendere le cose così facili? Sì perché, era indubbio, sembrava che per lui tutto filasse liscio.
18 Poi magari non era così, lo sospettava, ma aveva la capacità di apparire un vincente, e questo era anche più importante che vincere veramente. Sapeva che non era migliore di lui, che condividevano lo stesso inutile lavoro e quell’esiguo spazio vitale quotidiano, eppure sembrava che ci fosse una differenza abissale. Yuri arrancava, si può dire così? Cercando di restare a galla giorno dopo giorno, stupendosi ogni mattina di avere la forza di alzarsi dal letto. Credeva che quel po' di energia, nonostante i suoi 28 anni, si sarebbe esaurita presto, e allora di lui sarebbe rimasto un involucro vuoto, una lucida superficie di nulla. Stefano arrivava prima di lui e usciva dopo, sempre col sorriso sulle labbra, mentre lui aveva voglia di mordere il mondo a giorni alterni, e, diavolo, sembrava assolutamente sicuro in tutto quello che diceva o faceva. All’inizio aveva pensato che fosse invidia la sua, verso quel ragazzo simile a lui eppure tanto diverso, per quella stessa vita che sembrava avere un peso specifico così differente. E per quei sorrisi provava rabbia inacidendosi e macchiando la giornata in modo indelebile. Aveva capito che la cosa peggiore non è scoprire di avere dei limiti, ma capire che gli altri non li hanno. Si era inasprito osservando il suo amico, rinunciando a emularlo per orgoglio, e finendo inesorabilmente nella sua ombra. Probabilmente Stefano veniva da un altro pianeta. Yuri se l’era spiegato così. Forse non era solo lui che arrancava in questa vita, tutti lo facevano, più o meno coscienti, ognuno scegliendo il modo che gli era più congeniale. Forse l’equilibrio ostentato dall’amico era fasullo, di facciata. La domanda comunque rimaneva. Perché anche se quell’equilibrio era falso, lo sosteneva durante il giorno con invidiabile coerenza. Stefano recitava una parte, ma lo faceva così bene che a volte Yuri non notava la differenza. Non ne aveva mai parlato con lui, promettendosi di farlo alla prima occasione. Forse aveva paura di essere frainteso, di offenderlo. O forse, più probabilmente, aveva paura di essersi sbagliato: che solo per lui, davvero, questa vita sembrasse così priva di senso. Adesso lo osservava appoggiato al bancone del bar dove lavoravano, uno straccio in una mano, la sigaretta spenta nell’altra. E il solito sorriso da furbo. Stava parlando con un ragazzo dei soliti argomenti basati sul nulla, era incredibile come riuscisse a intavolare discussioni lunghissime su tremende stronzate. Eppure questo suo lato piaceva a molti e, pur a malincuore, anche a Yuri.
19 «Il fatto del movimento è l’elemento che, in definitiva, rende Michael Myers superiore a Jason.» «Che intendi? Secondo me è il contrario!» rispondeva il ragazzo con fervore «Michael si muove a rallentatore, sembra un manichino, mentre Jason corre e salta, se lo fotte come e quando vuole!» Stefano scosse la testa sbuffando, con lo sguardo di chi la sa lunga. Fissò un attimo la sigaretta come se volesse accenderla col pensiero e poi continuò. «Michael va lento perché è sicuro di se stesso, non deve dimostrare nulla, sa che prima o poi raggiungerà la sua preda, è molto più metodico. Jason è un bamboccio dai, esagitato e ridicolo, non ha stile insomma.» «E che stile potrebbe avere un tipo con la maschera del capitano Kirk sulla faccia?» ribatté ironico il ragazzo. «Almeno non è una maschera da hockey. È una stronzata bestiale, senza considerare che Jason è un coglione deforme. Oltre che frustrato, visto che uccide quelli che scopano. Michael, al contrario, è ossessionato dalla sorella, vuoi mettere!» E così via. Per ore, davvero, per ore. Yuri diede l’ultimo colpo di straccio a terra e posò il tutto contro la parete. Poi afferrò le sigarette, uscendo dal bar. Si immerse in via San Gallo, piena di persone, per lo più studenti, che sciamavano dalle rispettive aule. Il bar si trovava proprio davanti alla facoltà di Storia e a quell’ora molti ragazzi uscivano per pranzare. Yuri aveva adocchiato un paio di ragazze niente male e, puntuale come sempre, si era appostato per non perderle. Diede un’occhiata all’orologio e, quando scoccarono le due in punto, si accese la sigaretta. Magari quel giorno non sarebbero passate, ma, nel caso, gli piaceva assumere quella posa vagamente noncurante. Aspirò il fumo con larghe boccate mentre la discussione alle sue spalle andava avanti. «Non mi dirai che quel ridicolo remake abbia reso giustizia all’originale? Rob Zombie faceva bene a continuare a suonare la chitarra.» «Ma dai! Invece c’è un notevole approfondimento psicologico del piccolo Michael , senza contare che finalmente si capisce come mai odi tanto la sorella.» E via così. Senza sosta. Senza che a nessuno dei due venisse per un attimo il dubbio che ciò di cui stavano discutendo fosse il nulla. Che stessero usando materia cerebrale in maniera assurda. Yuri si sentiva lontano da tutto questo, ma allo stesso tempo ne era dispiaciuto. Avrebbe voluto lasciarsi andare alle cazzate, piccole o grandi che fossero, senza dover soppesarle ogni volta con supponenza. Forse essere
20 un po’ più superficiale, perché no? Avrebbe vissuto meglio, senza porsi troppe domande a cui comunque non trovava risposta. Anche perché, diciamocelo, cosa aveva fatto meglio di Stefano nella vita? Una carriera scolastica disastrosa, un profilo discontinuo, bollato con un “potrebbe fare di più ma non si applica” che l’aveva portato alla rovina. Un disinteresse diffuso verso tante cose: ciò che la vita offriva ai ragazzi della sua età, il calcio, la musica, il cinema, la politica, e cose simili. Una vago imbarazzo a rapportarsi con le ragazze, e la frittata era fatta. Al liceo gli dicevano che non aveva le carte in regola, magari per spronarlo, ma avevano ottenuto l’effetto contrario. Yuri era lentamente affondato, giorno dopo giorno, anno dopo anno, fino a fare la cosa peggiore di tutte. Aveva cominciato ad accontentarsi. Ecco dunque l’aria di superiorità che lo rendeva spesso antipatico, ecco quel lavoro da sfigati in un bar di San Gallo. Soprattutto ecco l’azzeramento delle aspettative, delle speranze, come se un pilota automatico guidasse le sue giornate senza interferire. Gli studenti uscivano dalla facoltà chiacchierando animatamente. Alcuni ridevano, un paio ascoltavano musica da un ipod, qualcuno leggeva un giornale e una coppietta si baciava. Yuri li osservava e pensava che sarebbe potuto essere uno di loro. Che aveva fatto le scelte sbagliate in un curioso gioco a incastri, azzeccandole magicamente tutte. E ora tutto quello che faceva era osservare e giudicare gli altri, mentre loro vivevano. Finì la sigaretta, gettandola a terra. Le ragazze stavolta non erano passate. Era l’ennesimo smacco, la privazione di uno dei pochissimi piaceri che quei giorni gli regalavano, ma tant’era. Rientrò nel bar giusto in tempo per la fine di quella profonda discussione cinematografica. Stefano salutò l’amico, che uscì sorridendo, magari riflettendo sulle grandi verità che l’avventore gli aveva svelato. Yuri si avvicinò al bancone sbadigliando. Stefano lo osservò a braccia conserte. «Fatto le ore piccole ieri? Hai una faccia smorta!» «Sì, come no! Pazza gioia fino all’alba» ribatté ironico. «Sai qual è il tuo problema? Anche se parlare al singolare è un regalo.» Yuri sorrise appena mentre lanciava un ultimo sguardo fuori dalla porta. «Sentiamo.» «Prendi tutto dannatamente sul serio, come se ne andasse della vita stessa o che so io! Cavolo amico, rilassati un po’!»
21 Stefano concluse la sua frase con una pacca sulle spalle del compagno. «Sono fatto così, cosa devo fare? Uccidermi? E poi non mi sembra che tu sia l’immagine della gioia.» «Che c’entra, c’è modo e modo per essere triste, il tuo è il peggiore di tutti: ami piangerti addosso!» «Ma non è vero!» ribatté Yuri con vigore «comunque non ho voglia di parlarne, davvero, non cominciamo.» Stefano alzò le braccia sospirando. Che si comportasse nella maniera che preferiva, ognuno era libero di fare quello che voleva della sua vita. Yuri rifletté su come quella giornata fosse particolarmente storta, se andava avanti così quel bar non sarebbe durato molto. Lui e Stefano ci lavoravano da quasi un anno, si erano praticamente conosciuti lì, e all’inizio era anche parso un bel gioco. Quel posto davanti all’università sembrava avere le carte in regola per sfondare. E soprattutto poteva essere un ottimo luogo per conoscere gente interessante. Con questi pensieri, un anno prima Stefano aveva accettato il lavoro e vi aveva tirato dentro l’amico ripetendo più e più volte che poteva essere la soluzione a tutti i loro problemi. Adesso, vista col senno di poi, sembrava una frase molto ironica, ma allora a Yuri era sembrata una possibilità buona come un’altra. Entrò un signore anziano che, con una parlata masticata, chiese dove fosse il bagno. Se c’era una cosa che Yuri aveva imparato, lavorando col pubblico, era a odiare i vecchi. Con le loro pretese fuori dal mondo, il tono antipatico di chi crede che tutto gli sia dovuto, e la loro puzza stantia. Anche per Stefano era così, ma lui, strano, riusciva sempre a far buon viso, a sorridere e a buttare tutto sullo scherzo. Yuri invece digrignava i denti e cercava di calmare il vulcano che aveva dentro. Perché qualche volta non avrebbe voluto altro che lasciarsi andare, saltare oltre il bancone e spaccare un paio di denti. «In fondo al corridoio, a destra signore.» Eccone un altro! Convinto che quello fosse un cesso pubblico, senza porsi il problema che per usare il bagno sarebbe stato carino fare almeno un’ordinazione. Si avvicinò al collega. «Come fai a non arrabbiarti Ste, mi mandano in bestia.» Stefano sorrise continuando a rassettare il bancone. «Eddai Yuri, avrà i nostri anni per tre, davvero vuoi bacarti il fegato per una cosa del genere?» «Parlo di rispetto, perché devono credere di poter fare come cavolo vogliono?» «Be’, è vero, ma sai una cosa? Stai parlando di uno che probabilmente ha dolore alla prostata 24 ore al giorno, a cui scricchiola la schiena anche so-
22 lo a respirare e che, più o meno, non riesce ad avere una buona erezione da anni. Per me questo gli dà il diritto di essere un po’ stronzo.» Yuri si costrinse a sorridere. Bastardo di uno Stefano, bastardo. Un altro punto per lui. «E comunque, pensiamo a cose serie. Sei pronto per Monaco?» «Luca ha trovato un b&b libero?» «Non ancora, ma lo conosco, riuscirà a farlo.» L’Oktoberfest. Il mito di Stefano e Luca. Qualcosa che tramandavano da anni, quasi fosse il segreto della felicità. O almeno così ne parlava Stefano. Gli aveva raccontato molte volte delle edizioni passate, mitici fine settimana che i due amici avevano trascorso all’insegna della baldoria pura. Da soli o con altri, immersi in litri di birra e circondati da persone che pensavano solo a divertirsi. Era, a sentire loro, una delle feste più belle di tutte. «Non so come spiegartelo» gli aveva raccontato Stefano «a Monaco in quel periodo si respira un’aria diversa. Diversa dal frenetico via vai che sono le nostre vite, o le vite di tutti credo. Un’atmosfera di divertimento che sembra coinvolgere tutti, qualunque sia l’età o la professione, il sesso o la nazionalità. Con fiumi di birra che scorrono e violini che suonano, ragazze vestite da tirolesi con i reggiseni a balconcino, e voglia di staccare la spina.» Ci andavano dal 2000, da quella magica prima volta che aveva segnato l’inizio della loro amicizia. Da allora ogni anno era un appuntamento irrinunciabile, una tre giorni obbligata che non sentiva ragioni alcune. E così sarebbe stato anche quella volta, la nona per l’esattezza. Stefano sapeva che stavolta le cose sarebbero state diverse, che quello, forse, sarebbe stato l’ultimo anno. Luca si era fidanzato, e questo, se non subito, col tempo avrebbe destabilizzato il loro equilibrio. Andava bene del resto, ma quell’ultima Fest gliela doveva, Alice o meno, gliela doveva. Yuri annuì massaggiandosi la fronte. Non sentiva lo stesso entusiasmo del collega ma era contento di andare a Monaco. Al di là della festa amava la Germania. Anni prima era stato a Berlino e l’aveva trovata una città fantastica con le sue contraddizioni e gli scorci postmoderni, e voleva vedere l’altra grande città tedesca. Poi apprezzava la birra, quella buona, e, nel peggiore dei casi, sarebbe stata un’occasione per berne un po’. Stefano sorrideva perso nei suoi pensieri. La sua mente vagava nei dolci ricordi delle edizioni passate, ma non solo. Quell’anno c’era una novità
23 oltre alla presenza di Alice. «Verranno anche le americane! Ti rendi conto?» Già, le americane. Yuri non sapeva spiegarne il motivo, ma non ne era troppo contento. Non che non fossero carine, Jennifer aveva un seno che difficilmente passava inosservato, ma fino alla fine aveva sperato che cambiassero idea. Era una cosa strana, ed era certo che se avesse cercato di spiegarla sarebbe stato preso per gay. Ma non aveva voglia di dover recitare la parte dello squarta passere, non era così. E quel weekend stava prendendo una piega di quel tipo. «Allora è sicuro? Non è che alla fine paghiamo anche per loro e poi scompaiono?» «Ma piantala porta-sfiga! Quelle ci stanno in tutti i sensi! Vedrai, ti ripeto che questo fine settimana sarà indimenticabile.» Oh, lo sarebbe stato, Yuri ne era sicuro. In quanto a bello nutriva seri dubbi. Lasciò Stefano ai suoi sproloqui e uscì di nuovo in San Gallo. Lottò contro la voglia di accendersi un’altra sigaretta. Non era quella la strada giusta, lo sapeva, eppure a volte voleva solo lasciarsi andare. Uscì l’anziano signore che era stato in bagno. Lo guardò un attimo e gli sorrise facendo un cenno di saluto. Yuri rispose con un “arrivederci”. In fondo andava bene così. Che il mondo continuasse a girare come meglio preferiva. Che tutti si convincessero di vivere nella migliore maniera possibile. Senza sbavature né errori. Lui avrebbe continuato a salutarli, con il suo migliore sorriso mangiamerda. Avrebbe imparato a essere un perfetto prodotto di scarto. Si accese la sigaretta.
*** Estrasse l’assorbente con un gesto secco, felice che quella piccola tortura fosse finita. Lo osservò per qualche secondo, un cilindretto rosato, appeso a un soffice filo bianco. Con una smorfia lo gettò nel cestino. Il suo ciclo era piuttosto
24 regolare ma questo non rendeva il dolore più sopportabile, né le faceva apprezzare quel corpo estraneo che, cinque giorni al mese, abitava nella sua vagina. Dahlia si guardò allo specchio. Anche le occhiaie stavano scomparendo. Tutto sommato quella volta era andata di lusso. Aveva avuto violente contrazioni lo scorso fine settimana ma erano passate presto, appena in tempo per Monaco. Sempre se poi ci fossero andate. Jenny era molto più entusiasta di lei ma, diciamocelo, per cosa non era entusiasta quella? Se vedeva una borsa con le perline lanciava un urletto, se vedeva una cintura rosa si portava le mani alla bocca. Cazzo, il giorno prima aveva incrociato un cagnolino col fiocchetto e le erano venute le lacrime agli occhi! Intendiamoci, non era stupida, dietro a quel mare di idiozia nascondeva molto di più, e Dahlia lo sapeva, ma dava quest’impressione: oca senza cervello. E le sue tette non aiutavano. Dahlia si mise le mano sul seno a mo di coppa e se lo strizzò. Non c’era niente da fare, mancava la materia prima. Sospirò, prendendo la sua seconda di reggiseno e agganciandosela dietro. Si spazzolò i corti capelli scuri e cercò di sorridere. Non era tutto da buttare in fondo, credeva di avere un bel culo, ma uscire insieme a Jennifer era un atto di puro masochismo. Quella era appariscente nel significato più profondo del termine, una piccola pin up, Dahlia era una bellezza più intellettuale. «Ripetilo ancora bella mia» si diceva da sola «magari alla fine te ne convinci!» Non era il momento per una crisi di personalità, non quel giorno che pure il ciclo aveva abdicato. Le cose stavano andando bene. Un mese di vacanza nella “vecchia” Italia, la fine della settimana fiorentina e un extra inatteso a Monaco. Che motivo c’era di essere depressa? Il fatto di essere con Jennifer poteva tornare solo utile. Grazie a lei avevano conosciuto qualcosa come una trentina di ragazzi, solo nelle ultime cinque sere. Se poi a finalizzare era sempre l’amica questo era un problema ascrivibile esclusivamente a se stessa. E al suo carattere di merda. Due americane in vacanza in Italia. Era quasi un film porno adolescenziale. E lei a menarsela anche in quel posto, senza riuscire a lasciarsi andare, a divertirsi fino in fondo. Se poi i frutti migliori toccavano a Jenny cosa poteva farci?
25 Quel risveglio ne era una chiara dimostrazione. Lanciò un’occhiata al divano su cui aveva trascorso la notte (e buona parte del giorno secondo ciò che diceva l’orologio), e poi alla porta della camera da letto ancora chiusa. La sera prima erano state in una discoteca della zona, neppure si ricordava il nome, e ne erano usciti in quattro. Jennifer abbracciata a un tipo alto quasi due metri, con un tatuaggio su un braccio e i capelli a coda di cavallo, lei con un ragazzotto che sapeva a mala pena tre parole d’inglese. Si erano un po’ baciati ma non era andata oltre. Jenny, al contrario, se l’era portato in camera da letto e lei, per rispetto, li aveva lasciati soli. Non era la prima volta in quella vacanza e non sarebbe stata l’ultima, per entrambe. «Ho il ciclo» si era giustificata con quel ragazzo «e non mi sento molto bene.» E almeno una verità c’era stata. Non si sentiva bene a baciare quello sconosciuto e si sentiva uno schifo all’idea di farsi toccare da lui. Il ciclo aveva solo fornito una comoda scusa. Si guardò un’ultima volta allo specchio. Osservò l’iride dei suoi occhi che da larga si restringeva lentamente, quasi a focalizzare qualcosa di ben preciso. Poi sentì la porta della camera aprirsi. Ne uscì il ragazzo della sera prima e indossava solo un paio di boxer bianchi. Le fece un cenno di saluto e un abbozzo di sorriso, Dahlia rispose con un buongiorno. In un inglese un po’ stentato le chiese se avevano del caffè. Dahlia alzò il pollice in segno affermativo e disse che ci avrebbe pensato lei. Il ragazzo sorrise ancora e, stirandosi, entrò nel bagno. Mise sul fuoco l’acqua per il caffè e decise di affacciarsi in camera di Jennifer. L’amica sembrava dormire ancora, adagiata sul vaporoso cuscino, i lunghi capelli sparsi sulle coperte. Non volle svegliarla. Quando tornò in cucina trovò il ragazzo seduto al tavolo, ancora mezzo addormentato, che osservava quasi con venerazione l’acqua che bolliva. «Dormito bene?» gli chiese Dahlia, vagamente imbarazzata da quella improvvisa compagnia. «Sì, certo, anche se ci siamo addormentati tardi, la tua amica è una tigre a letto!» rispose, facendole l’occhiolino. Dahlia sorrise per cortesia anche se non aveva mai amato quei riferimenti espliciti. Il ragazzo sembrò non aver notato il suo disagio.
26 «Abbiamo fatto troppa confusione?» chiese massaggiandosi il collo. A dir la verità si era addormentata appena aveva sfiorato il divano e aveva un sonno molto pesante, quindi anche se fossero venuti a scopare accanto a lei li avrebbe probabilmente ignorati. «Non preoccuparti» disse agitando la mano e finendo di preparare la colazione. Pochi minuti dopo bevevano il caffè seduti l’uno davanti all’altra, in silenzio. Il ragazzo sembrava essersi del tutto disinteressato a lei e se da una parte non giovava alla sua autostima, dall’altra ne era contenta. Anzi sperava che, dopo, se ne sarebbe andato in fretta. Quasi esaudendo la sua preghiera, quello sussultò. Aveva visto l’orologio sulla parete scoprendo che era pomeriggio inoltrato. «Merda» imprecò alzandosi di scatto «è tardissimo.» Corse in camera facendo un gran trambusto e ne uscì dopo neppure un minuto, vestito alla buona e con le scarpe slacciate. «Grazie per il caffè» le disse. Poi, voltandosi appena verso la camera da letto, annuì. «Salutami la tua amica, devo proprio scappare!» E scomparve dalla porta nel corridoio. Dahlia finì il suo caffè, pensando che era un idiota. Comunque, a sua discolpa dovette ammettere che era davvero tardi. Erano le quattro del pomeriggio. Tornò in camera dell’amica e si sedette sul letto. C’era un forte odore di sesso. Sul comodino scorse la carta stropicciata di due preservativi, almeno avevano usato la testa. Mosse le gambe di Jennifer attraverso le coperte, quella mugolò appena in risposta. «Svegliati troietta, tra un po’ è ora di cena» le disse sussurrando con voce suadente. A quel punto l’amica aprì gli occhi e la guardò sorpresa. «Ma dai! Giura.» «Giuro! Il tuo amico se l’è filata già da un pezzo!» «Che stronzo» sillabò Jennifer mettendosi seduta. «Ma che animale che era! Ho ancora la passera in fiamme...» «Stop!» la interruppe Dahlia, alzando scherzosamente le braccia davanti a sé «non sono interessata al resoconto delle tue cavalcate.» Jennifer rise portandosi le mani alle tempie. L’alcool della sera prima tornava a farsi sentire. «Alzati dai, è avanzato un po’ di caffè!» aggiunse Dahlia facendole un pizzicotto.
27 «Il merdoso caffè italiano» mormorò l’amica. «Lo finisci in tre secondi ed è sempre bollente.» Risero entrambe. Un’oretta dopo stavano facendo un rapido inventario dei bagagli. Erano arrivate a Firenze pochi giorni prima, avevano affittato quel monolocale nei pressi di Santo Spirito e ancora non avevano sistemato le valigie dalla partenza da Roma. La loro era stata una vacanza ascendente. La prima tappa era stata la Calabria, dove erano riuscite a fare gli ultimi bagni di stagione, da lì erano passate alla capitale, che le aveva fatte innamorare dell’accento romano. Vi erano rimaste una settimana vedendo le principali attrazioni turistiche e assaporando la vita notturna italiana. Ne conseguiva che, quando erano giunte a Firenze, erano praticamente a pezzi. Avevano trascorso le prime ventiquattro ore a letto alzandosi solo per mangiare qualcosa. Dal secondo giorno avevano cominciato a uscire, soprattutto per visitare gli Uffizi e altri musei, ma avevano tenuto un basso profilo serale. Era stata soprattutto Dahlia a insistere, nonostante i mugugni dell’amica che avrebbe voluto passare le notti insonni. La quarta sera l’avevano infine trascorsa per locali e in uno di questi avevano conosciuto Stefano e Yuri. Avevano passato un paio d’ore a ridere e scherzare, parlando un italiano maccheronico che benissimo si sposava con l’inglese stentato dei ragazzi. Infine a Stefano era venuta l’idea. Quel weekend sarebbero andati a Monaco per tre giorni, in occasione dell’Oktoberfest, perché non venivano anche loro? Sarebbe stata un’uscita improntata al risparmio quindi ci sarebbero potute rientrare facilmente, inoltre Jennifer aveva sempre voluto andarci. All’inizio sembrò una proposta folle, le amiche avevano una rigida scaletta di marcia e tra pochi giorni sarebbero rientrate in America. Tra l’altro, se fossero andate a Monaco, avrebbero dovuto annullare il volo di ritorno. Quella notte, dopo aver salutato i ragazzi, ne avevano parlato a lungo. Era stata una bellissima vacanza e quell’ultima uscita sembrava la classica ciliegina sulla torta. Dahlia, se all’inizio non voleva neppure prendere in considerazione l’idea, piano piano aveva cominciato a pensarci, se non altro perché la Germania l’aveva sempre attirata. Il giorno dopo fecero una rapida ricerca su internet e videro che avrebbero potuto prendere un volo da Monaco, partendo il lunedì mattina, quindi un giorno più tardi di quanto stabilito. Fecero un paio di conti per stabilire quanti dollari avrebbero perso e vide-
28 ro che rientravano comunque nel loro budget. Rimaneva sempre una follia, Dahlia lo sapeva bene, ma era una follia che forse valeva la pena di fare. Quella sera stessa rividero Stefano e confermarono la loro presenza. Per la gioia dei due ragazzi. Dahlia guardò l’amica mentre ripiegava una minigonna di jeans e la metteva in valigia. Aveva i capelli un po’ arruffati e gli occhi spenti, ma un vago sorriso le incorniciava il volto. Capiva bene come mai i ragazzi pendessero dalle sue labbra, al di là del seno florido o delle belle gambe. Jennifer aveva una solarità contagiosa, uno spirito vitale che abbagliava. Era come se, con lei, non ci fosse quasi nulla di cui preoccuparsi, che anche le cose difficili in fondo fossero problemi da poco. Sembrava sicura di sé, della sua bellezza, delle armi che possedeva e con le quali si ingegnava a scalare la vita. E questo piaceva, lo capiva anche una come Dahlia. Soprattutto perché era qualcosa che lei non sarebbe mai potuta essere. Si conoscevano da un paio d’anni, avevano frequentato insieme il college e, nonostante le differenze, o forse proprio per quelle, erano diventate presto amiche. All’inizio Dahlia aveva visto in lei la tipica bionda americana, la statuetta da MTV, dotata di una buona dose di simpatia, che magari sarebbe tornata utile per fare interessanti conoscenze. Immaginava che anche per lei fosse stato così, non proprio allo stesso modo. Forse Jennifer, stringendo amicizia con quella mingherlina senza tette aveva pensato di avere qualche aiutino garantito per i compiti in classe. E in parte era stato così. Ma la storia era più complessa. Una sera, dopo aver assistito a uno degli scambi orali di effusioni dell’amica, Dahlia non era riuscita a trattenersi. Forse era stata un po’ d’invidia, forse solo una scala di valori differente. «Come mai ti comporti in questo modo?» le aveva chiesto guardandola negli occhi «cioè... non fraintendere, ma non credi che i ragazzi pensino che sei poco più di una scopata facile?» In quel momento Dahlia era stata quasi certa di aver fatto una frittata, che la loro amicizia si sarebbe spezzata come un rametto secco. E una parte di lei era proprio ciò che voleva. Jennifer l’aveva fissata per un lungo momento, in silenzio. E aveva sorriso. «Credo sia più o meno quello che pensano tutti» aveva risposto «ma nessuna me l’aveva mai detto in faccia. Non con questa franchezza.» «Scusami» aveva mormorato Dahlia «è che mi sembra che tu ti stia svalu-
29 tando.» Jennifer rise, senza malizia. I suoi occhi erano, se possibile, ancora più belli. «È esattamente quello che sto facendo, Dahlia. Mi voglio divertire, non ho altre finalità.» Poi il suo tono si era fatto più serio. Era come se, per la prima volta, le confidasse qualcosa di importante. «Ma sta pur certa che quando troverò un ragazzo per cui valga davvero la pena, conoscerai una Jennifer del tutto differente.» L’aveva detto con una sicurezza tale che Dahlia aveva creduto di stare parlando con qualcun’altra. Da quel giorno le cose tra loro erano cambiate. Soprattutto era cambiato l’atteggiamento di Jennifer. Sembrava che non la vedesse più come una sua amica, ma come la sua amica. E Dahlia si era adeguata. Si trovava bene con lei e, con quella battuta, era come se avesse infranto una superficie di convenienza, arrivando a toccarla nel profondo. Il loro rapporto ne aveva giovato ed entrambe avevano scoperto di stare bene insieme; probabilmente erano due opposti, ma col tempo questo non sembrò più un limite. Le loro differenze furono invece i poli magnetici che le spinsero l’una contro l’altra. Quella vacanza italiana era l’ultima di una lunga serie di progetti fatti insieme. A volte le prendeva una punta di malinconia. Il college stava per finire e avrebbero preso strade diverse. Questo non significava che la loro amicizia sarebbe dovuta finire, ma certamente non avrebbero più trascorso tanto tempo insieme. Avrebbero quindi dato fondo a tutto quello che gli restava per non aver nulla da rimpiangere in futuro. Il cellulare di Jennifer fece un breve trillo e una piccola vibrazione. Un messaggio. I suoi occhi si illuminarono leggendolo e, con un sorriso, si rivolse all’amica. «È Stefano, stasera ci invitano a uscire per definire gli ultimi particolari prima della partenza.» Dahlia sospirò, anche quella notte avrebbero dormito con il contagocce, ma in fondo era contenta di quello che le aspettava. «Ottimo, ma non fissare l’appuntamento troppo presto che mi devo fare qualche altra ora di sonno!» Guardarono l’orologio e si accorsero che mancava molto poco all’ora di cena.
30 Jennifer mise un braccio sulla spalla dell’amica. La guardò con complicità. «Cinese take away? Inizio ad avere fame.» «Pure io» ammise Dahlia «anche se temo che sia la fame per il pranzo che abbiamo saltato!» «Doppia razione allora!» esclamò Jennifer afferrando il telefono. Dahlia la osservò ancora un attimo prima di riprendere in mano la valigia. Non sapeva esprimere con esattezza come, ma quella folle ragazza le sarebbe mancata da morire.
*** Marco guardò la serranda abbassarsi con un secco sferragliare metallico. Era l’ultimo gioielliere che chiudeva, un ritardatario. Adesso la facciata del Ponte Vecchio era fatta di pesanti portoni di legno e metallo che nascondevano i loro cuori d’oro e d’argento. Stava appoggiato al muretto che dava sull’Arno, il fiume che tagliava in due Firenze, e osservava l’acqua che, con lentezza, scorreva verso il mare. Era rimasto lì per almeno un’ora. Alle sue spalle le gioiellerie storiche avevano cominciato a chiudersi, prima una poi un’altra, fino a lasciarlo solo. Anche se restare soli sul Ponte Vecchio era pressoché impossibile. Una scia di turisti e passanti era la criniera viva di quel caratteristico ammasso di pietra. Marco si sentiva del tutto estraneo a ciò che lo circondava, forse da sempre, ma mai con quell’intensità. Da un mese stava vivendo una condizione di distacco così profonda che nemmeno lui riusciva a spiegarsi, non con gli elementi che aveva a disposizione. Dare la colpa a Erica sembrava troppo facile. L’aveva abbandonato in mezzo alla strada come un idiota, mostrandogli di che pasta erano fatti i suoi sogni, e l’aveva fatto nella maniera peggiore. Umiliandolo, ferendolo. Ma era davvero tutto lì il motivo della sua tristezza? Di quella malinconica apatia che lo stava portando a fare una cazzata dopo l’altra. Il suo era un volo senza paracadute, e non gliene importava. Dopo l’ennesima notte tormentata, dopo l’ennesima masochistica telefo-
31 nata e le ultime lacrime che non riuscivano più a cadere, aveva cominciato ad avere dei dubbi. Erica era stata una ragazza su cui aveva fatto dei progetti, importanti progetti. Nulla di tutto questo era andato per il verso giusto, eppure non era da lui soffrire tanto e tanto a lungo. Qualche anno prima avrebbe affrontato la cosa come un incidente di percorso, leccandosi un po’ le ferite e cercando di rimettersi in sella. Adesso invece aveva perso qualsiasi interesse. Sapeva che l’amore era una cosa stronza, e quello che veniva dato poteva essere richiesto senza preavviso, lasciando tanto dolore quanto era stato il piacere, ma non pensava che potesse toccare a lui. Chi era stata quella ragazza per riuscire a fargli tanto male? Come cazzo aveva potuto permetterlo? E, di nuovo, era davvero solo quello il motivo? Marco sospettava una cosa che aveva timore a formulare, persino a se stesso, perché sarebbe stato costretto ad accettare un lato del suo carattere che si rifiutava di ammettere. Non era tanto l’amore, pur forte, che aveva perso, quanto la paura di rimanere solo. Se davvero fosse stato tutto lì? L’egoistico bisogno di avere qualcuno accanto a lui, indipendentemente o quasi da chi fosse. Allora Erica sarebbe stata solo una pedina che, senza spiegazione, aveva deciso di non rispondere alle sue aspettative. Allora gran parte di quel dolore sarebbe derivato da un progetto disilluso, non da un sentimento spezzato. A volte Marco credeva di essere fatto di specchi, di diverse forme e dimensioni, che riflettevano sempre e comunque la sua immagine. Tutto il resto era sfocato e sullo sfondo. Era questa paura a provocare il dolore più grande. Che Erica fosse solo un volto che si era distinto un po’ alle sue spalle per poi uscire dall’obiettivo. Era stato un pretesto per riflettere su se stesso, ma non gli piaceva ciò che stava trovando. A questo pensava Marco guardando il fiume sotto di lui, perdendosi per l’ennesima volta nell’univoca visione di se stesso. Il trillo del cellulare lo risvegliò dai suoi pensieri. Immaginò che potesse essere Erica, ma nello stesso momento capì che era impossibile. Sul display c’era il nome di Stefano. Non aveva voglia di rispondere, ma sapeva di doverlo fare, se non altro per tutte le menate che aveva causato ai suoi amici nelle ultime settimane. La voce di Stefano era, come al solito, squillante. Sentì di odiarla.
32 «Marchino! Se non ti sei ancora suicidato perché non ci raggiungi al Surf Ventura? Siamo qui con le americane per parlare di Monaco.» Marco fece una piccola smorfia, ma riuscì a trattenersi. «Non so Ste, sono un po’ in giro, non ho molta voglia di vedere gente, sarei solo un peso.» «Lo sei sempre eppure ti vogliamo bene lo stesso!» lo schernì l’amico «senti, non insisto, però promettimi una cosa: non ci darai buca per Monaco.» Era proprio quello che avrebbe voluto fare, ma c’era una piccola parte di lui che stava, pur debolmente, cercando di riprendersi. E quella parte sapeva che svagarsi un po’ era un’alternativa accettabile al suicidio. «Tranquillo, sono con voi. Te l’ho detto no?» «Sì, me l’hai detto, ma dicevi anche che tu per una donna non avresti mai sofferto! Dai ti saluto, ti faccio sapere se ci sono novità! Luca ancora non ha trovato nulla!» «Scommetto che ci riuscirà» aggiunse Marco «non ha saltato un Oktoberfest da quanto? Cinque anni almeno. Troverà una sistemazione.» «Nove, comunque hai ragione, ce la farà!» Si salutarono e chiusero la comunicazione. Marco rimase per un attimo a guardare il cellulare combattendo con la voglia di comporre un nuovo numero. Era per farsi male, perché in fondo aveva bisogno del dolore per sentirsi vivo. Per capire se c’era qualcosa di vero dentro di lui, oltre a quel buco nero che risucchiava tutti coloro che lo circondavano. Le sue dita premettero due numeri e poi si bloccarono. Alzò lo sguardo e solo allora si accorse della ragazza che aveva davanti. Immobile, a pochi metri, con lo sguardo fisso su di lui. Lo fissava con un vago sorriso sulle labbra. Tra le dita aveva quella che sembrava una canna. Lo fissava con un certo interesse. Era come se lo stesse facendo da molto tempo.
*** Alice iniziava a pensare che era stata tutta un’enorme cazzata, e non avrebbe potuto incolpare nessuno tranne se stessa.
33 All’inizio fare finta di nulla le era sembrata la cosa più saggia. Continuare con gli stessi progetti, non dare l’idea che ci fosse qualcosa di diverso, per poi affrontare la questione con calma. Soprattutto non far venire il minimo sospetto alla sua famiglia borghesecattolica del cazzo. Ma ora, immersa nell’atmosfera di un piccolo locale, circondata da quattro persone che conosceva a malapena, era tutto più difficile. Luca era al suo fianco e ogni tanto le lanciava qualche timido sorriso; poi le metteva una mano sulle gambe e la carezzava dolcemente. Era il suo modo per farla sentire protetta, almeno credeva. Alice lo apprezzava, davvero, Luca era una delle persone più dolci che avesse mai incontrato, ma avrebbe voluto fargli capire che non aveva sempre bisogno di quell’atteggiamento. Che anzi, il più delle volte, le faceva girare le scatole. Una relazione è fatta di compromessi, del resto. La sua aveva bisogno che lei ogni tanto desse l’idea di aver bisogno della sua mano consolatrice. Luca sembrava soddisfatto quando poteva recitare quella parte e per lei era un piccolo sforzo. In quel momento, però, le costava molta fatica. Aveva qualcosa dentro che aveva paura a tirar fuori, qualcosa che non sapeva come dire. La sua piccola grande vergogna. Poi c’era quella Jennifer che la indisponeva a ogni parola. Sorrideva di continuo, ammiccava con lo sguardo e, a ogni risata, sembrava che le sue grandi tette sarebbero uscite dal vestito. Non si reputava una ragazza gelosa, non aveva mai sentito il bisogno di marcare il terreno intorno a Luca, lei stessa non avrebbe sopportato tali limitazioni, ma adesso le condizioni erano straordinarie. Stefano sembrava apprezzare le movenze dell’americana, sottolineando con gli occhi ogni eccesso della ragazza, e Yuri al suo fianco annuiva non troppo convinto. Alice immaginava che dovesse esserci qualcosa di buono in lui, era disposta a dargli il beneficio del dubbio. L’amicizia che lo legava al suo ragazzo era una raccomandazione sufficiente. Eppure a volte lo trovava l’emblema della stupidità maschile, la dimostrazione vivente di un neurone attratto dal movimento dei capezzoli. Yuri era invece un mistero per lei. Era usciti tutti insieme poche volte e non era mai riuscita a capirlo fino in fondo. Era un ragazzo schivo e si era chiesta se questo nascondesse qualcos’altro, senza sapere bene se fosse una cosa buona o meno. Poi c’era la ragazza dal nome assurdo, Dahlia. Quella le piaceva, la trova-
34 va simile a lei, e se non fosse stata immersa in quella profonda frustrazione avrebbe provato a farci due chiacchiere. Ma era dannatamente difficile. «Tutto bene amore?» le chiese Luca con sguardo apprensivo «se vuoi andartene non ci sono problemi, pago e usciamo.» «È tutto a posto, Luca, e andrebbe ancora meglio se non mi stessi appiccicato come un francobollo.» Si rese conto di essere stata ingiusta nel momento stesso in cui lo disse. «Scusa ma, davvero, lasciami un po’ di spazio, d’accordo? Lo sai che sono più forte di te!» Luca sorrise baciandola sulla guancia. Era vero. Avevano trascorso buona parte del pomeriggio a discutere sul da farsi. La parola “aborto” aveva aleggiato tra loro più volte, ma nessuno dei due l’aveva pronunciata. Luca forse per paura della reazione di Alice, lei perché in fondo non sapeva davvero cosa fare. Immaginava il trambusto che sarebbe seguito facendo una rivelazione del genere. Avrebbero parlato di matrimonio riparatore e forse dalle labbra di sua madre sarebbe uscita qualche parola più colorita; in definitiva, a meno che non avessero deciso di tenerlo, quella era una cosa che dovevano affrontare da soli. Luca era stato d’accordo a proposito di andare a Monaco per salvare le apparenze, e l’incidente con Marco avrebbe necessitato di una chiacchierata con quest’ultimo, ma in definitiva avevano la situazione sotto controllo. Per quanto poteva essere possibile. Avrebbero trascorso tre giorni lontano da tutto e tutti e, al ritorno, avrebbero affrontato la cosa. Sulla carta era facile. Il problema era lei stessa. Perché, oltre alla gravidanza, c’era un altro fantasma da affrontare, e non sapeva nemmeno in che modo cominciare. Mauro, il gestore del locale, portò le bevande che avevano ordinato. Erano cocktail di sua invenzione, caratterizzati da pura follia compositiva e alta gradazione. Con una battuta a proposito di chi avrebbe guidato dopo lasciò i lunghi bicchieri sul tavolo. Jennifer prese il suo guardandolo con curiosità e disse qualcosa sulla sbronza della sera prima. Stefano rise facendo tintinnare il bicchiere contro il suo per il brindisi. Yuri si rivolse a Luca porgendogli il suo liquore. «Sei riuscito a trovare qualcosa? Se non sbaglio dovremmo partire, quando? Domani notte?» In effetti, preoccupato da qualcosa di molto più importante, Luca non aveva considerato il fulcro della questione. Non avevano ancora un allog-
35 gio a Monaco. «Ragazzi, quest’anno è ardua» disse portandosi il bicchiere alle labbra «sono ancora in alto mare, sembra che tutta l’Europa sia a Monaco ‘sto weekend!» Stefano lo guardò improvvisamente rabbuiato. Per lui quella gita voleva dire molte cose e per nulla al mondo ci avrebbe rinunciato. «Per me partiamo anche senza trovare nulla» esclamò con decisione «in qualche modo facciamo, ce la siamo cavata tutti gli anni.» Luca annuì, ma non poté evitare di rispondere all’amico. «Le altre volte eravamo due, massimo tre, stavolta siamo sette. Partire senza una meta potrebbe essere azzardato.» Guardò Alice in cerca di un gesto di assenso. Lei si limitò a fissare il suo cocktail senza dire nulla. «Voglio dire che dobbiamo lasciare una simile eventualità come ultima spiaggia.» «Non mi deludere Luca, questa potrebbe essere l’ultima volta che andiamo a Monaco.» La frase di Stefano lo fece rabbrividire. Poteva essere così, molto più di quanto l’amico sospettasse veramente. «Non mi deludere Luca!» gli fece eco ironico «cazzo ragazzi, ce l’avete anche voi internet, possibile che dipenda tutto da me?» «Sei quello più affidabile» rispose Stefano dandogli una pacca «se lo facciamo fare a Yuri si blocca sul primo sito porno e non si muove più!» Jennifer rise di nuovo, avendo intuito l’argomento, Yuri alzò il dito medio con un vago fastidio. Dahlia aveva seguito lo scambio di battute cogliendo qualcosa e sorrise. Delle due americane era quella che conosceva meglio l’italiano, ma quando si mettevano a parlare veloce perdeva brandelli di discussione. «Sono fiducioso ragazzi!» disse Stefano mettendo un braccio sulle spalle di Jennifer. «Sarà un grande weekend!» Alzarono entrambi i bicchieri.
*** La ragazza lo fissava con un vago sorriso, o almeno sembrava un sorriso,
36 sepolto sotto un pesante trucco diafano. All’inizio Marco si era voltato convinto che ci fosse qualcuno alle sue spalle, ma poi si era reso conto che non era possibile. Era infatti appoggiato al muretto che dava sul fiume. Era quindi tornato a guardare quella strana ragazza e, con suo stupore, si era accorto di essere il suo motivo di interesse. Quella aveva portato la canna alle labbra e l’aveva aspirata sensualmente. Nel farlo la punta della sua lingua aveva fatto capolino mostrando un lucido piercing. Aveva un profilo secco, con zigomi alti, eppure, a modo suo, mostrava una certa bellezza. Gli occhi erano incorniciati da un soffio di matita nera, i capelli tirati all’indietro in una lunga coda di cavallo. Oltre al ferro sulla lingua aveva un anellino sul sopracciglio destro e una specie di spina metallica che fungeva da orecchino. Indossava un giubbotto di pelle scura su una gonna al ginocchio, anch’essa nera, dalla quale uscivano due lunghe gambe con calze a rete che finivano in pesanti stivali di cuoio. Era un incrocio tra una ragazza punk e un manga eppure, e di nuovo si stupì di ammetterlo, emanava un fascino insolito, ammaliante. Di certo non passava inosservata. Marco distolse lo sguardo con vago imbarazzo. Pensò che dovesse essere ubriaca o peggio e per un attimo sperò che proseguisse per la sua strada. Riportò l’attenzione al cellulare che aveva tra le dita. Aveva fatto i primi tre numeri, ne premette un altro, e un altro ancora, ancora cinque e avrebbe sentito la voce di Erica. «Hai da accendere?» La voce della ragazza lo costrinse a fermarsi per la seconda volta. Marco la guardò chiedendosi a cosa si riferisse, visto che stava già fumando con evidente soddisfazione. Probabilmente lo stava prendendo in giro. «Non mi sembra che tu ne abbia bisogno» disse e indicò la piccola paglia che la ragazza teneva in mano. Quella seguì la direzione del suo dito e rimase un paio di secondi a fissare la canna, quasi la vedesse per la prima volta. Poi si mise a ridere portandosela alle labbra con noncuranza. Era fuori come un terrazzo, pensò Marco, forse avrebbe fatto meglio a filarsela. Fece un passo verso l’interno del ponte ma la ragazza gli si parò davanti. Lo fissò con uno sguardo penetrante, severo e accondiscendente allo stesso tempo, sorridendo. «Mi piacciono gli italiani. Siete così simpatici» scandì quelle parole con chiaro accento straniero.
37 «Mi fa molto piacere, ma se non ti spiace adesso dovrei andarmene.» Marco tentò di uscire da quella situazione imbarazzante spostandosi di lato. La ragazza fu più veloce di lui. Gli posò una mano sulla spalla facendolo voltare verso di lei. Marco stava per alzare il tono di voce quando accadde l’impensabile. Con l’altra mano lo cinse al fianco attirandolo verso di sé. Fu un movimento gentile ma deciso, che non dava adito a resistenza alcuna. I loro volti si trovarono a pochi millimetri di distanza. Marco sentì un soffio di alito caldo, reso aspro dal sapore della canna, ma era una connotazione piacevole. Lei lo baciò. Le sue labbra si posarono su quelle di Marco e vi sfregarono contro, per poi aprirsi e lasciare che la lingua cercasse la sua. Lo strinse a sé, una mano sul fianco, l’altra che era salita dietro la nuca e lo teneva costretto contro la sua bocca. Marco rispose al bacio e, nella frazione di un secondo, intrecciarono insieme le lingue chiudendo gli occhi. Non seppe perché la baciò, anche se la sua volontà aveva avuto un ruolo assai marginale. Qualcosa dentro gli diceva che era la cosa perfetta da fare, e per un attimo credette che quelle labbra fossero le uniche che sarebbe mai valsa la pena di baciare. Il tutto durò nemmeno un minuto. Le mani della ragazza allentarono la presa e permisero a Marco di respirare. I due ragazzi si guardarono per qualche secondo, gli occhi di lei immutati, vigili, determinati. Poi la ragazza parlò di nuovo e stavolta sembrò la cosa più scontata del mondo. «Hai da accendere?» Marco, come un automa, si frugò nelle tasche fino a estrarne un accendino rosso. La ragazza annuì e tirò fuori una seconda canna che rigirò tra le dita. Marco notò le lunghe unghie smaltate di nero. Se la mise tra le labbra e, servendosi della fiamma, la accese con un paio di tiri. Poi la porse al suo improvvisato compagno. «Per te.» Marco guardò la punta della canna affievolirsi in uno scintillio. L’afferrò e fece un gesto di assenso con la testa. Cosa stava succedendo? Si appoggiò di nuovo al muretto e cominciò a fumare. La ragazza si ac-
38 comodò al suo fianco, sedendosi sulla balaustra, e facendo dondolare i piedi nel vuoto. Sotto di loro l’Arno scorreva lento e indisturbato, osservandoli placido. «Mi chiamo Catherine» disse a un tratto lei senza guardarlo «ma preferisco Kikka, con tre k.» «Va bene Kikka» rispose Marco esalando qualche lingua di fumo. «Io sono Marco, piacere di conoscerti.» Poi, quasi fosse stata una priorità, si ricordò che stava per chiamare Erica. Che stava per comporre gli ultimi numeri e sentire la sua voce, certamente adirata o annoiata, che lo mandava affanculo. Invece aveva pomiciato con una sconosciuta. Cominciò a ridere scosso da un lieve tremore, un po’ per la canna, un po’ per l’emozione, e guardò Kikka con occhi riconoscenti. «Sei un angelo? O qualcosa del genere? Cos’è questo? Un regalo?» Kikka sembrò non capire, ma annuì lo stesso. Mise una mano tra i capelli del ragazzo e cominciò a carezzarli con noncuranza. La risposta venne quasi sovrappensiero, come fosse la cosa più scontata del mondo. «Io sono Kikka, e sono una Kruger.» Marco sorrise ancora. Sentiva una cascata di emozione che era sul punto di eruttare. Che idiota era! Un mese sprecato a piangersi addosso, a rigirare su se stesso come una rana in un pozzo. E quella sconosciuta con un bacio aveva spazzato via tutto. Certo, questo provava con una certa ragionevolezza la sua tesi. Che in fondo, se c’era stato dell’amore non aveva mai avuto tutto quel peso sul suo cuore. Che Erica non era speciale. Col cazzo che lo era. Kikka non badava a lui. Continuava a carezzarlo come si fa con un cagnolino e teneva lo sguardo davanti a sé. Marco gettò la canna nel fiume e osservò il profilo dei suoi seni sotto la giacca. Erano piccoli, ma sembravano sodi. «Sei straniera? Da dove vieni?» La ragazza tolse la mano dai suoi capelli e scese dal muretto. Lo guardò gettando a sua volta la cicca e si schiarì la voce. Era come se si accingesse a fare qualcosa di importante. «Ho sentito mentre parlavi al telefono, vuoi andare all’Oktoberfest?» Per un attimo Marco non capì a cosa si stesse riferendo. Come se tutta la vita che lo riguardava prima del bacio fosse solo un lontano sogno sbiadito. Poi comprese che doveva aver sentito le parole che aveva scambiato con Stefano. A ben pensarci chissà da quanto lo stava fissando. «Be’, sì, avevamo questo progetto, ma il mio amico mi diceva che è difficile trovare posto. Perché? Tu sei di Monaco?»
39 La ragazza non rispose neppure stavolta. Mise le mani nella tasca della giacca e rimase in silenzio dondolando appena avanti e indietro. «In quanti siete?» chiese poi come se stesse valutando qualcosa di preciso. «Sei, sette... non so bene. Ma scusa, perché mi stai facendo queste domande?» «Aspetta» disse lei agitando la mano davanti a sé. Si voltò verso l’Arno e piegò la testa di lato. Marco pensò che fosse davvero suonata. Che magari baciava da dio, era arrapante e tutto il resto, ma che forse una scopata quella sera non ci sarebbe scappata. Kikka sussurrò qualche parola, più a se stessa che altro, e Marco colse di sfuggita quella che sembrava essere una conta. Eins, zwei, drei, vier, fünf... E così via, fino a quello che gli parve il numero sette. Dunque era tedesca, il che spiegava in parte il suo interessamento. Ma solo in parte, minima in effetti, visto che non c’entrava nulla con quello che era accaduto pochi minuti prima. Infine si batté il pugno contro il palmo aperto e annuì con decisione. Si voltò di nuovo verso Marco e gli posò una mano sulla spalla. «Se vuoi io posso aiutarvi, conosco un posto dove potete stare.» Marco balbettò un confuso davvero?, mentre cercava di trovare il bandolo in tutta quella matassa. Kikka non notò la sua confusione o forse decise di ignorarla, e anzi incalzò con la proposta. «Mio fratello ha un alloggio per turisti, siete fortunati, in queste settimane di solito è tutto pieno.» «Be’, fico!» disse Marco grattandosi la testa. Era di natura molto sospettoso e iniziava a sentire odore di fregatura. Poteva essere che quella volesse spillargli un sacco di euro, i furbi erano in tutto il mondo. Anche se doveva ammettere che aveva scelto il modo più piacevole per farlo. «Non so, devo sentire gli altri, di che si tratta?» Kikka si passò la lingua sulle labbra, il piercing scintillò alla luce della luna e il suo volto apparve ancora più sensuale. «Della cosa migliore che potesse capitarvi.»
40
*** Stefano sapeva di poter far salire la mano, bastava essere disinvolto. Erano ormai cinque minuti che l’aveva appoggiata sul ginocchio di Jennifer, come un gesto amichevole. Poi la discussione era continuata e la ragazza non aveva mostrato segni di fastidio. Anzi, un paio di volte vi aveva messo la sua mano sopra mentre rideva per una battuta, stringendogliela in risposta. Non che questo significasse molto. Stefano aveva una discreta esperienza con le americane, maturata nelle notti fiorentine della passata estate, e aveva imparato essenzialmente due cose. Erano molto più disinibite delle italiane. Allo stesso tempo c’erano alcune trappole che potevano mandare tutto a monte. Di solito ridevano a ogni battuta, e la risata era uno dei mezzi migliori per portarle a letto, ma era capitato che fraintendessero una frase o prendessero male un’allusione. Allora la frittata era fatta. La differenza di lingua non era un grande ostacolo per Stefano, ma lo diveniva quando doveva riparare a un errore, cercare di spiegare che non intendeva essere offensivo. In definitiva non ne valeva la pena. Non quando, perso un treno, ve n’erano tanti altri pronti per essere afferrati. Da qui la sua indecisione del momento. Aveva la mano posata sulla coscia di Jennifer, negli ultimi minuti aveva guadagnato un paio di centimetri e ora le sue dita lambivano l’interno della gamba. Ma non era matematico che un’azione diretta avrebbe portato al successo. Magari quel gesto per lei non aveva molto peso, da qui il tipico libertinaggio d’oltreoceano, e non era necessariamente un invito a raggiungere le parti intime. In un altro momento non avrebbe avuto indugi e avrebbe fatto salire la mano non dando troppo peso alle conseguenze, ma quella situazione era molto diversa. Con quelle ragazze avrebbero trascorso tutto il weekend, una mossa sbagliata il giorno prima della partenza sarebbe stata una tragedia. Con un lieve sorriso strinse un attimo la coscia per poi mollare la presa. Jennifer si voltò e gli sorrise in risposta. Per ora andava bene così.
41 Avrebbe avuto tutto il tempo che voleva. Afferrò di nuovo il bicchiere e si rese conto di essere alla fine della sua bevanda. Al suo fianco Yuri aveva ancora più di mezzo cocktail. «Che c’è collega? Non lo finisci quello?» Yuri alzò un sopracciglio con una punta di nervosismo. Sembrava stesse lottando con la voglia di mandarlo al diavolo. Poi, sbuffando, gli avvicinò il bicchiere con un gesto arreso. «Se lo vuoi è tuo, credo che toccherà a me guidare stasera, quindi fa’ pure.» Stefano gli mise una mano sulla spalla facendogli l’occhiolino. Poi prese il cocktail dell’amico e se lo portò alle labbra. Mentre beveva vide che Yuri si voltava verso Dahlia. Tentò di dire qualcosa in un inglese stentato, in evidente difficoltà. Era una frana totale, e lo sapevano entrambi. Forse era uno dei motivi del suo nervosismo, sentimento che mostrava diverse volte nel corso della giornata. All’inizio Stefano aveva creduto di stargli antipatico. Erano costretti a trascorrere molte ore insieme per esigenze lavorative, ma non voleva certo dire che dovessero andare d’accordo. Col tempo aveva capito che Yuri era un ragazzo essenzialmente insoddisfatto. Della sua vita, di se stesso, di tutto quello che lo circondava, o quasi. Ne avevano parlato qualche volta ma non era mai stato entusiasta di affrontare l’argomento. Yuri era sfuggente, rispondeva spesso a monosillabi, non aveva la minima capacità di godersi le piccole cose. E Stefano di piccole cose invece viveva, convinto che si trovasse lì la vera felicità. Il suo amico, non sapeva bene quando, aveva imboccato delle strade sbagliate che avevano portato ad altre ancora più sbagliate, almeno per lui. Il risultato era davanti ai suoi occhi: un ragazzo che non ispirava molta fiducia e tanto meno simpatia, non per scortesia o cattiveria, ma per natura. Stefano non si considerava una crocerossina, ma aveva preso Yuri sotto la sua ala protettrice. Forse perché, in definitiva, era bello avere qualcosa da insegnare a qualcuno. Dahlia rise per qualcosa che Yuri aveva detto, Stefano vide il suo volto illuminarsi. Era una frana, ma forse c’era speranza anche per lui. Luca si voltava ogni venti secondi verso Alice, lei gli faceva un vago cenno col capo e lui tornava a fissare il tavolo. Non l’aveva mai visto così, immaginava c’entrasse qualcosa quel casino che gli aveva accennato al cellulare. Appena possibile gli avrebbe chiesto qualche spiegazione, ma
42 sapeva quando era il caso di tenere la bocca chiusa. Jennifer gli chiese dov’era il bagno, lui glielo indicò osservandole il sedere mentre si alzava. Era una gran gnocca, e lo aspettavano tre giorni di puro delirio! Il trillo del telefono gli fece quasi cadere addosso l’alcolico. Aveva messo la suoneria al massimo per sovrastare il brusio del locale, ma fu una sorpresa lo stesso. «Ragazzi è Marco, state a vedere che ci dà buca, ci scommetto.» Aprì la comunicazione tappandosi con la mano l’altro orecchio, la voce di Marco gli arrivò lontanissima. Parlarono per cinque minuti, duranti i quali la sua espressione mutò diverse volte. Da sorpresa divenne dubbiosa, poi di nuovo sorpresa e infine raggiante. Quando chiuse la comunicazione Jennifer era tornata dal bagno e insieme agli altri quattro lo osservava incuriosita. Stefano si appoggiò allo schienale della sedia e alzò il bicchiere a mo’ di brindisi. «Brindiamo all’Oktoberfest amici! Monaco ci aspetta!»
*** Marco ripose il cellulare in tasca e si voltò verso Kikka. «Erano entusiasti» ammise con un filo di voce. La ragazza si era accesa una seconda canna e lo guardava col capo leggermente inclinato. Aveva un’espressione indecifrabile, a metà tra l’interesse e lo snobismo. «Ottimo» fu tutto quello che disse. Si avvicinò a Marco fino a che le loro labbra furono sul punto di sfiorarsi. Lui sentì di nuovo il caldo soffio di quell’alito ammaliante, gli occhi della ragazza erano tanto vicini che sembravano volessero mangiarlo. Ebbe una seconda erezione. Il piercing sulla lingua sfregò dolcemente contro la bocca di Marco. Rimase immobile senza dire nulla, quasi temesse che il suono della sua voce potesse spezzare quell’incantesimo. Poi Kikka socchiuse le labbra facendo fuoriuscire il fumo della canna. Questo avvolse il volto di Marco in un abbraccio sensuale, nascondendo per qualche attimo gli occhi di lei.
43 La ragazza prese la sua mano e vi insinuò dentro le dita. Marco rispose alla stretta per rendersi conto che gli aveva messo qualcosa sul palmo. Sembrava un pezzo di carta. Poi Kikka parlò scandendo bene le parole, con quella voce sfuggente e decisa allo stesso tempo. «Qui c’è il numero che dovete chiamare una volta a Monaco. Vi risponderà mio fratello Hans.» «Dimmi almeno in che zona della città saremo, se vicino al centro o...» Kikka premette le sue labbra contro quelle del ragazzo. Vi fu una scintilla di brivido mentre la lingua sfregava sulla sua bocca. Poi gli diede un piccolo ma deciso morso e si staccò. «Sarai vicino a me.» Fu l’ultima frase che pronunciò. Marco rimase a guardarla mentre si voltava e si incamminava verso la fine del ponte. Il filo di fumo della canna la seguiva come una coda, ondeggiando lieve alle sue spalle. Intorno a lui non c’era nessuno, sotto l’Arno placido e sopra un cielo scuro privo di stelle. Provò a chiamarla un paio di volte, ma Catherine Kruger sembrò non udirlo. Anzi Kikka, con tre k.
*** Jennifer non riusciva a smettere di ridere. Un po’ a causa della bevuta, non era mai stata capace di reggere molto, un po’ per Stefano, che stava dando fondo alle sue scorte di simpatia. Ma soprattutto a causa del cognome. Quando Marco aveva detto loro che la ragazza si chiamava Kruger Stefano aveva iniziato una girandola di battute sul fatto che assomigliasse a Freddy Krueger, il celebre mostro di Nightmare. Certo, era stato solo un pretesto per poterle posare di nuovo la mano sulle ginocchia, quella mano che a ogni risata saliva un po’ di più. Ma non le interessava. Tra vent’anni, quando sarebbe stata una madre un po’ appesantita dall’età e dalla vita non era a quello che avrebbe pensato. Non agli scrupoli di Dahlia, né a ciò che poteva credere o dire la gente. Ma al suono della sua voce allegra, agli occhi socchiusi per il piacere e il divertimento.
44 Avrebbe risentito quelle parole che uscivano a malapena, soffocate da lacrime di gioia. Quella musica che sembrava essere la colonna sonora della sua vita, una vita pazza e senza condizioni. Ed era certa che ne sarebbe stata fiera. Quindi osservò Stefano che simulava gli artigli di Freddy, Luca che sorrideva incerto stringendo la mano di Alice, Yuri che guardava Dahlia senza farsi notare da lei, e rise di nuovo. SentÏ di amarli tutti.
02/10/09 Si svegliò con il mal di testa dei tempi migliori. La sveglia gridava il suo nome con antipatica rabbia, il mondo sembrava una coperta di sabbia che gli era stata sfilata da sotto. Si alzò senza averne voglia, lottando contro l’impulso di arrendersi. Un po’ come tutte le mattine del resto, ma quel giorno, a essere sinceri, Yuri aveva almeno un motivo per farlo. Qualcosa che, pur a fatica, guidava i suoi passi verso il bagno. Certo, sospettava che ci sarebbe stato un secondo risveglio, più brusco ancora e molto più doloroso. Ma, come sempre, non poteva fare altro che giocarsela e sperare. Giocarsela e sperare. Era molto tempo che la sua vita era tutta qui, sotto diversi aspetti. Giocarsi le poche carte che gli erano rimaste in mano, e non per colpa di qualche dio stronzo, ma perché aveva deciso di scartare le altre prima del tempo, e sperare che il mondo non si accorgesse del bluff. Quindi non poteva fare a meno di sperare che Dahlia, per qualche strano motivo, si accorgesse di lui. Che decidesse, sempre per qualche oscura ragione, che valeva la pena di perdere tempo con lui, di provare a conoscerlo, nonostante il poco tempo che avevano a disposizione. Era penoso, Yuri non si nascondeva da questa consapevolezza. Ma allo stesso tempo era l’unica cosa che gli rimaneva prima di dichiarare apertamente che la sua vita, sotto molteplici aspetti, era naufragata nella merda. La sera prima avevano tirato tardi sotto Piazzale Michelangelo. Si erano seduti tutti insieme su un muretto lasciando penzolare le gambe nel vuoto e avevano guardato le luci della vecchia Firenze e il fiume che l’attraversava silenzioso. Luca e Alice erano stati i primi ad andarsene. Si erano scusati spiegando che il giorno seguente avrebbero avuto diverse cose da fare, anche in preparazione della partenza. Era quasi buffo il loro tentativo di far finta che tutto andasse bene, per salvare le apparenze. Come se fosse possibile non accorgersi degli strani comportamenti della serata. Luca aveva scambiato un’occhiata di intesa con Stefano e aveva annuito. C’era qualcosa sotto.
46 Detto questo, a Yuri non poteva importare di meno. Gli ultimi mesi di profonda disillusione avevano fatto nascere in lui un vago disinteresse verso ciò che non lo colpiva direttamente. Gli piaceva Luca, e Alice era una ragazza piuttosto simpatica, ma finiva lì. Si augurava solo che, qualunque fosse stato il problema, lo potessero risolvere in modo indolore. Erano rimasti loro quattro. Lui, Stefano, Jennifer e Dahlia. Sospettava che tale abbinamento sarebbe stato il tema portante del fine settimana. Oltre alla coppia succitata c’era Marco che lui non conosceva molto bene. Ma sembrava stesse passando un periodo di crisi o qualcosa del genere. Stefano scherzando diceva che durava più o meno da tutta la vita. Era rimasto a parlare con Dahlia, seduti fianco a fianco, cercando di aiutarsi con i gesti quando le parole non erano sufficienti. Lei conosceva piuttosto bene l’italiano e questo era stato d’aiuto. Il problema erano stati gli argomenti. Avevano cominciato parlando dell’Italia, tipico topos da usare con una straniera: se le era piaciuta, cosa aveva visto, cosa avrebbe voluto vedere. Dahlia parlava con interesse, mostrando un vero amore per quelle mete turistiche sentite così tante volte da risultare banali. Allora Yuri capì che non avrebbero mai potuto condividere un unico punto di vista, che li separava troppa terra e cultura, che si erano incontrati nel mezzo di due esperienze diversissime, e si chiese se mai avrebbero potuto trovare un punto di contatto. Accanto a loro, Stefano e Jennifer avevano sorvolato il problema con elegante disinteresse. Pochi minuti prima Yuri aveva udito la ragazza ridere alle battute dell’amico, più o meno quando lui tentava timidi approcci verso Dahlia. Poi, quasi d’improvviso, da loro era giunto il silenzio. Mentre Dahlia parlava, raccontando la bellezza del mare del sud, il chiarore dell’acqua e la finezza della sabbia, Yuri si era voltato verso la coppia accanto a loro. Per vederli avvinghiati in un bacio. Stefano muoveva le mani sui fianchi di Jennifer, facendo scomparire le dita oltre l’orlo della gonna e della maglietta, la ragazza rispondeva al bacio resistendo blandamente ai suoi approcci, esitando con maestria per poi lasciarsi andare. Anche Dahlia si era accorta della cosa e li aveva guardati per un breve attimo. Poi si era voltata verso di lui sorridendo con imbarazzo. Aveva negli occhi una strana espressione, non proprio di vergogna, era quasi come se si stesse scusando per il comportamento dell’amica.
Allora Yuri le aveva proposto di fare due passi per lasciare loro un po’ di privacy. Dahlia aveva annuito e pochi minuti dopo camminavano lungo la strada che portava al Piazzale. Si era voltato un paio di volte a guardare Stefano, aveva invidiato e odiato l’amico, per l’ennesima volta, con rabbia. E, al contempo, era stato schiacciato dalla stima che aveva di lui, per la sua capacità, nel bene e nel male, di andare in culo al mondo. Ora si sentiva doppiamente a disagio. Da una parte avrebbe voluto bruciare le tappe, prendere Dahlia e baciarla con foga, per dimostrare che anche lui era un uomo, che non era inferiore a nessuno. Dall’altra cercava a tutti i costi di non dare questa impressione. Era ciò che la ragazza si aspettava che lui facesse, lo sapeva, però non era quello che lei avrebbe voluto. Quindi camminava un po’ distaccato, evitava di guardarla troppo negli occhi, stava attento a non sfiorarla più del necessario, fingendo un falso disinteresse. Arrivarono al Piazzale e si appoggiarono alla ringhiera. Intorno a loro c’era una scia di turisti multietnici, marocchini, neri e cinesi che cercavano di vendere una miriade di oggetti inutili, e la maestosità di una delle città più belle del mondo. La copia del David di Michelangelo scrutava l’orizzonte, inconsapevole della sua stessa falsità, tutti sembravano felici, rilassati e perfettamente a loro agio. Yuri si sentì ancora più solo e si chiese cosa ci stesse facendo in quel posto. Con quella ragazza che non conosceva e alla quale forse stava pure sulle palle, a reggere il lume a qualcuno molto più sveglio di lui, a osservare i bagliori di una bellissima città che sentiva di odiare. Fu allora che Dahlia colse il nocciolo della questione. «Anche a te dà noia questa situazione vero?» Yuri la guardò come se non avesse ben capito nonostante si fosse espressa in un perfetto italiano. «Intendo quei due» disse, indicando un vago punto sotto di loro «e soprattutto noi due.» Sorrise passandosi una mano tra i capelli. «Mi sembra che siamo in una situazione simile, io e te, soprattutto per gli amici che ci siamo scelti. Intendiamoci, a me piace Jennifer, le voglio un sacco di bene ma è molto, troppo diversa da me. E così mi sembra Stefano per te.» Yuri annuì, mentre la osservava. C’era bisogno di rompere qualcosa per poter discutere, discutere veramente di qualcosa che avesse la minima importanza, e Dahlia l’aveva appena fatto.
48 «Sì, be’, credo sia così» confermò tornando a guardare davanti a sé «conosco Stefano da anni, e non passa giorno che non provi sentimenti contrastanti verso di lui. A volte lo bacerei, giuro, per la sua capacità di dire la cosa giusta al momento giusto, a volte invece lo ucciderei, credo per la stessa ragione!» Dahlia rise di cuore, forse immaginandosi l’improbabile bacio tra i due. «Penso di capire quello che dici» aveva ribattuto lei «a volte ho l’impressione che Jennifer mi sovrasti, totalmente, e non solo per l’aspetto fisico.» E nel dirlo mise le mani a coppa sui seni mimando un paio di grosse tette. «Ha una marcia in più ma quello che non capisco è il motivo per cui io stessa ne sia così attratta. Cioè, a volte mi fa male, ma non penso mai a rinunciare alla sua compagnia.» «Forse siamo due masochisti» commentò Yuri. Poi, facendosi forza, decise di vuotare il sacco. «Sai, prima stavo morendo dalla voglia di baciarti.» Dahlia non lo guardò, ma annuì continuando a sorridere. «Il punto è che volevo farlo soprattutto perché lo stava facendo lui. Non fraintendere, Dahlia, mi piaci, ti trovo una ragazza molto carina, però l’impulso che avevo era dettato da un senso... di rivalsa. Be’, mi odio quando provo questi sentimenti, perché mi sembra che la vita sia pilotata, che non riesca a rendere mie delle sensazioni che invece mi appartengono.» «Credo di capirti» rispose la ragazza «più o meno ho provato le stesse cose con la differenza che noi donne non abbiamo il vostro spirito di competizione.» Rise dandogli una pacca sulla spalla, Yuri arrossì. «Non credo che ci sia nulla da dimostrare a nessuno, soprattutto quando hai voglia di baciare una ragazza» continuò Dahlia parlando piano «è un peccato sciupare tutto quello che c’è dietro un bacio, non trovi?» Yuri annuì e una nuova tensione lo pervase. Dahlia lo stava invitando? Era una richiesta esplicita la sua? O lo stava solo mettendo alla prova? «Ci stiamo complicando la vita per nulla» disse prendendo tempo. Dahlia si voltò verso di lui e gli mise le mani sulle spalle. Si guardarono in silenzio per qualche secondo, ognuno cercando i battiti del cuore dell’altro. «Hai ancora voglia di baciarmi?» gli chiese lei sorridendo. E fu allora che Yuri seppe cosa fare. Per tentare davvero di giocarsela, questa volta, per far sì di ritrovarsi in
mano non le carte che gli aveva destinato il caso, ma quelle che si era scelto lui stesso. La cinse e si avvicinò al suo volto. Sentì il buon odore che quei capelli emanavano e il suo respiro lento, la soffice pelle era delicata e morbida al tocco. «Da morire.» Poi si staccò, prima che quelle labbra fossero state troppo vicine per poterle eludere, lasciando Dahlia con espressione stupita. «Credo che aspetterò fino a quando sarà un bacio che mi appartiene del tutto.» La ragazza esitò qualche secondo, sicura com’era che quello fosse un copione già scritto, vero come il fatto che la terra gira intorno al sole. Invece, nel momento in cui meno se l’aspettava, era stata sorpresa. «È la cosa più strana che mi sia capitata da quando sono qui» ammise tornando a sorridere. Yuri si accorse con sollievo che non era arrabbiata. «E se questa fosse stata l’unica occasione buona per baciarmi?» chiese con una punta di malizia. «Io scommetto di no!» rispose Yuri, mettendole un braccio intorno alle spalle. Era come se l’atmosfera fosse improvvisamente cambiata. Più distesa, quasi familiare. Yuri sentì che avrebbe potuto osare qualunque cosa per il semplice motivo che non sentiva il bisogno di farlo. Rimasero qualche minuto a guardare Firenze dall’alto, i suoi tetti e le guglie, le ombre del Corridoio Vasariano e il braccio della statua dantesca in Santa Croce. Non gli era mai sembrato un panorama tanto bello. Ovviamente la poesia finiva lì. Appena tornato a casa si era masturbato selvaggiamente ripensando a ogni singolo momento trascorso con lei, alle volte in cui si erano sfiorati e al suo profumo. Era venuto sussurrando il suo nome, a labbra strette e occhi chiusi. Per cui quella mattina era diversa dal solito. Aveva un sapore di rivalsa verso un insieme di cose a cui Yuri non aveva ancora dato un nome. Sentiva di aver fatto un passo nella direzione giusta, qualunque fosse stata. Quella vacanza a Monaco era la ciliegina sulla torta. L’occasione ideale per continuare quello che aveva iniziato. Cominciò a preparare lo zaino tenendo d’occhio l’orologio.
50
*** Luca leggeva le parole sullo schermo, sentendo dei brividi lungo la schiena. «L’interruzione volontaria di gravidanza o aborto provocato consiste nell’interruzione dello sviluppo dell’embrione o del feto e nella sua rimozione dall’utero della gestante.» Il tono freddo di Wikipedia esprimeva senza peli sulla lingua il nocciolo della questione, come un robot privo di sentimenti. Era inutile girarci troppo intorno ma quei termini lo facevano rabbrividire. Nessuno di loro due aveva parlato di aborto, in fin dei conti non ne avevano proprio discusso, prendendosi la giornata precedente come cuscinetto per ammortizzare la notizia. Ma, Luca lo sapeva, era una possibilità come un’altra, a ben vedere l’unica delle due veramente possibili. Si prese la testa tra le mani massaggiandosi piano le tempie. Da dodici ore stava vivendo in una dimensione parallela, insicuro persino della consistenza delle sue dita. Si sentiva lontanissimo da quel mondo che aveva abitato fino al giorno prima, lontano dai suoi amici, da quello stupido fine settimana a Monaco che, più di ogni altra cosa, gli sembrava una barzelletta. Alice era stata irremovibile, ma che senso aveva andare? Per salvare qualche inutile apparenza, quando Marco sapeva tutto e immaginava che anche Stefano avesse capito che qualcosa non andava. Tutto questo perché quei coglioni dei genitori di Alice potessero dormire sonni tranquilli. Luca adorava la sua ragazza ma era stata partorita da una coppia di stronzi di prima categoria. Nemmeno lei ne faceva segreto ed era stato chiaro fin dal loro primo incontro. Lui e Alice si erano conosciuti qualche anno prima, in uno sperduto corridoio della facoltà di lettere. Entrambi dovevano sostenere un esame, non ricordava se Archivistica o Statistica, comunque un tipico tappabuchi come definivano gli esami più facili. La vide per la prima volta davanti all’aula mentre entrambi aspettavano impazienti il loro turno. Un po’ per allontanare la tensione, un po’ per far passare il tempo, avevano attaccato bottone con grande naturalezza. Avevano parlato dei loro esami, dei buffi tic del professore in questio-
ne, si erano fatti un paio di domande per vedere se sapevano almeno le basi. Poi, dopo aver sostenuto l’esame, avevano preso un caffè al bar della facoltà per festeggiare l’esito positivo. Era la prima volta che Luca conosceva una ragazza in questo modo e mai l’università gli era sembrata una scelta più azzeccata. Nel salutarsi si era fatto coraggio e le aveva chiesto se le andava, una sera di quelle, di bere qualcosa insieme. Alice, con un bel sorriso, aveva detto che ne sarebbe stata molto felice. E il cielo si era aperto. Luca era tornato a casa quasi volando, chiamando subito Stefano per metterlo al corrente della sua conquista, sentendosi come in un sogno di quelli belli. E quello che era accaduto nelle settimane successive non aveva fatto niente per svegliarlo. Lui e Alice avevano cominciato a frequentarsi, sempre più spesso, e a Luca sembrava di innamorarsi sempre più, come se potesse non esserci un limite. Quando, poco tempo dopo, fecero l’amore per la prima volta lottò contro l’istinto per non dire parole di cui si sarebbe pentito. Perché avrebbe voluto chiederle di sposarlo, senza mezzi termini. Luca, che era vissuto fino ad allora in un’eterna adolescenza, sentì il prepotente bisogno di crescere a patto che lei fosse stata con lui. Senza dare tempo al tempo, né valutare le cose con la giusta misura, solo inseguendo l’istinto perché, per la prima volta, sentiva di provare qualcosa da cui valeva la pena lasciarsi bruciare. Sapeva che quella ragazza era entrata nel suo mondo quasi in punta di piedi ma l’aveva colonizzato in pochissimo tempo con la sua adorabile presenza. La amava. Allo stesso tempo aveva iniziato a capire una cosa importante di Alice. Era una ragazza molto forte che aveva i suoi tempi e le sue dinamiche e che probabilmente non avrebbe concesso sconti in proposito. Anche lei era innamorata, ma Luca sentiva che l’avrebbe preso per matto se le avesse confessato i suoi folli desideri matrimoniali. Si trovò a chiedersi se non stesse correndo troppo, se non fosse il caso di prendere la cosa in maniera più moderata. Le battute di Stefano, pur nella loro idiozia, coglievano il centro. «Ti stai comportando come una ragazzina innamorata, manca solo che le scrivi Alice tvbctimc.» Pensava di essere nella più classica delle cotte, di quelle che fanno fare le peggiori cazzate prima di svanire come un sogno alle prime luci dell’alba. Il punto è che non riusciva a svegliarsi. Conobbe infine il lato oscuro di Alice, ma nemmeno questo smorzò il suo amore: la sua famiglia.
52 Durante il primo mese della loro relazione lei non ne parlò mai se non con qualche breve accenno. La prima volta che affrontarono l’argomento, Luca rimase a bocca aperta. Venne fuori che non aveva ancora detto loro niente riguardo a lui, nemmeno che lo aveva conosciuto, e che quando stavano insieme lei inventava bugie su bugie. Luca all’inizio si era arrabbiato vedendo ciò come un’offesa o una dimostrazione di scarso interesse, ma la storia era più complessa. Quella di Alice era una famiglia che definire conservatrice era un eufemismo. Entrambi ferventi attivisti di destra, politicamente e ideologicamente, i suoi genitori tenevano salda la bandiera famiglia/fede, legando in maniera indissolubile questi due concetti. Fin da piccola avevano riempito la testa di Alice di belle storie sul socialismo, la religione e, ovviamente, i tabù sul sesso. Lei stessa ammetteva di essersi salvata da tutto ciò solo grazie all’insistenza con cui i suoi battevano su tali argomenti. Per il sano rigetto che un figlio sente verso i principi dei genitori. Nel suo caso una convinta fede di bieco conservatorismo a tratti militante aveva partorito una piccola ribelle che metteva la maglia del Che sotto la camicia preferita di sua madre. Luca aveva appreso con stupore della guerra che Alice aveva dovuto fare per poter scegliere un percorso di studi umanistico, per dedicarsi alla lettura e allo studio dei classici, da lei sempre amati, contro le speranze imprenditoriali del padre. Si sentì un po’ in colpa se pensava al vago disinteresse con cui lui frequentava l’università vivendola quasi come un momentaneo passatempo. Ne conseguiva che per essere introdotto nella sua famiglia ci sarebbe voluta molta pazienza e circospezione. Ne conseguiva che l’avrebbe fatto solo se quella storia avesse preso una certa piega, vista la fatica che richiedeva. Ne conseguiva, soprattutto, che ai loro occhi Alice era vergine, e lo sarebbe stata fino al matrimonio. Luca aveva riso per diversi minuti a questa affermazione per poi rendersi conto che lei non scherzava affatto, e lì erano cominciati i veri problemi. Perché una cosa era chiedere a una ragazza di sposarla perché sentiva di amarla, un’altra era farlo per legalizzare il sesso agli occhi di due vecchi fascisti. Avevano deciso di vivere la loro storia mantenendo un profilo basso, senza fare, per il momento, troppi progetti e vedere dove li avrebbe portati il loro amore. In seguito avrebbe potuto conoscere i due mostri, e la cosa non gli era par-
sa nemmeno tanto traumatica. In quel preciso momento, però, riusciva, almeno in parte, a capire i problemi di Alice. La paura di affrontare una situazione più grande di lei a cui si sommava l’obbligo di mantenere un’assoluta segretezza. Luca si appoggiò allo schienale della sedia sospirando. L’alternativa era un matrimonio riparatore, oppure sarebbero potuti fuggire in qualche sperduto paese sudamericano. Sorrise immaginandosi con un poppante tra le braccia, magari a Cuba o in Brasile, e un brivido piacevole gli corse sulla schiena: era una bella immagine. Non aveva mai pensato di essere padre o cosa avrebbe provato o sentito. Se essere responsabile di un figlio avrebbe portato solo responsabilità, se l’avrebbe fatto sentire in qualche modo arrivato. Finora la cose più grandi che aveva costruito erano la storia con Alice e l’amicizia con Stefano. Entrambe frutto di compromessi e piccoli sacrifici, ma che avevano portato nella sua vita più gioia di quanto avrebbe mai pensato. C’era stata poi una carriera calcistica brillante, interrotta prima di cominciare davvero, ma credeva che quella non contasse. E se ora fosse diventato un genitore? Ne avrebbero discusso, forse non subito, magari appena tornati da Monaco, e avrebbero deciso che piega dare a quella storia. Alla loro intera vita. Si sentì un po’ meglio, non molto, ma per la prima volta dal giorno precedente ebbe l’impressione che quella situazione potesse avere un lieto fine. «Luca, mi porti una tazza di latte?» La voce assonnata di Alice lo fece voltare verso il letto. Le ragazza era ancora tra le coperte e si muoveva piano per trovare di nuovo contatto con la realtà. Chiuse subito la pagina di Wikipedia come fosse stato un sito porno. Era contento che lei non si fosse accorta di ciò che stava leggendo. Spense il portatile e si avvicinò al letto, carezzandole piano la fronte. Alice sfiorò la sua mano e la baciò tenendo gli occhi chiusi. «Colazione a letto allora!» esclamò avviandosi verso i fornelli, per mettere il latte sul fuoco. Alice rimaneva spesso a dormire da lui, ultimamente. Non era una cosa scontata, vista la loro situazione, ma sembrava che negli ultimi mesi anche i suoi genitori si fossero un po’ ammorbiditi. C’entrava senza dubbio il fatto di averlo conosciuto e la buona impressione che era certo di aver fatto loro. Per questo la novità delle ultime ore ribaltava tutto il loro mondo. Ammettere l’accaduto era quasi riconoscere che i divieti da loro imposti fossero sempre stati corretti. Non ne avevano parlato chiaramente ma era sicuro che fosse questa la cosa che più urtava Alice.
54 L’ultima cosa che avrebbe voluto fare. Luca annuì soddisfatto dalla conclusione cui era approdato e si concentrò sul latte. Alice guardava la schiena del suo ragazzo col volto seminascosto dal lenzuolo. In verità era sveglia da diversi minuti, ma aveva preso tempo per affrontare la giornata, ed era un tempo nel quale non voleva coinvolgere Luca. Aveva tra le labbra un sapore schifoso ma ignorava se fosse nausea o vergogna. O forse entrambe. Nausea per quella situazione, per l’ennesimo capitolo della sua vita nel quale fingeva di essere una persona che non era, troppo preoccupata dello sguardo altrui per fregarsene. Vergogna per l’immenso amore che Luca le donava ogni giorno della sua vita, un amore che, ormai da molti mesi, non riusciva più a ricambiare. Era questa la grande vergogna di Alice, l’ironia di una situazione che, letta in un libro, avrebbe quasi fatto sorridere. E che le impediva di alzarsi dal letto. Aveva scoperto da due giorni di essere incinta, ma una decina di ore prima di fare il test aveva tutt’altro in testa. Stava pensando a un modo per far capire a Luca che tra loro era finita. Tre giorni prima Alice stava per lasciare Luca. Un rapporto che era stato più importante di quanto forse riuscisse a comprendere, ma che, semplicemente, si era andato esaurendo in quelle cose che lo rendevano speciale. E Alice aveva bisogno di cose speciali, perché di banalità nella sua vita ce n’era fin troppa. Tutto era accaduto nella maniera in cui succedono le cose peggiori: senza alcun clamore. La loro era una storia perfetta, nata tra i banchi dell’università, scivolata liscia verso un abbraccio di conoscenza e comprensione reciproca, proiettata al futuro. Luca aveva accettato il suo carattere, cosa non facile, e lei gli aveva permesso di affacciarsi nel suo mondo. Ed era un mondo molto diverso da quello che la copertina suggeriva, fatto di insicurezze, paure, scatti d’ira e lunaticità, un mondo certo viziato dalla sua famiglia che le aveva regalato anni di disillusione. Alice non credeva in molto, in generale, con pochissime sfumature. Non credeva nel matrimonio, punto primo e incontestabile. Quell’unione falsa, ipocrita e bigotta che sottoponeva due individui a un rito quasi pagano che costava migliaia di euro. Non credeva che un vincolo sancito da un terzo potesse coprire e proteg-
gere la complessità di due persone con le loro infinite sfumature, né che nessuno avesse il diritto di farlo. Non credeva che l’amore fosse il motore che gira il sole e le altre stelle, era una favola che si raccontava per far finta di essere delle brave persone. L’uomo era opportunista fino a prova contraria e gli sforzi che faceva per mascherare tale natura ne erano la prova. Non credeva nella famiglia, non nella sua almeno, un concentrato di merda in un frullatore senza coperchio. Erano anni che schizzava letame ovunque e quei coglioni dei suoi genitori si accanivano con le loro idee, bastardi senza spina dorsale. Da piccola era sicura che li avrebbe uccisi, prima o poi. Non l’aveva mai detto a nessuno, neppure a Luca, ma talvolta, nel profondo della notte, andava in cucina e afferrava il coltello più grosso che c’era, poi si sedeva davanti alla porta della camera dei suoi e aspettava. Durava non più di dieci minuti poi tornava a letto come se niente fosse. Ripeteva questo rito ogni volta che, con qualche assurda regola o divieto, minavano la sua libertà di espressione in nome di una fede che non avrebbe accettato per principio. A ben vedere non era una questione di destra o sinistra, né di religione o ateismo, a ben vedere avrebbe rifiutato il comunismo con la stessa forza o un’impostazione laica con la medesima rabbia. Quello che Alice odiava era il modo con cui i suoi genitori le imponevano la loro vita, le loro idee, i loro trascorsi e le loro conquiste. Come se volessero fare di lei una fotocopia a colori della loro epoca storica. Queste erano le ombre del mondo di Alice, privo di uno stregatto che le indicasse la strada. E Luca era stato capace di venirne a patti. Dandole una spalla su cui piangere quando lo stress era eccessivo, spronandola a lottare quando alzava bandiera bianca. Amandola. Perciò si sentiva una stronza immensa perché l’amore che Luca meritava era quasi obbligato. Era stata una delle poche persone della sua vita a incrinare la scorza di cinismo che indossava, a mostrarle un modo di vivere che non includeva necessariamente lo scontro. Alice gli era grata e aveva rivestito questa gratitudine di sincero amore ma da un po’ di tempo qualcosa aveva smesso di funzionare. L’ultima vacanza fatta insieme era stato un cerotto ipocrita su un senso di disagio crescente, il sesso il triste tentativo di amare voltandosi dall’altra parte. Si era interrogata per capire i motivi di questo problema. Una parte di lei aveva creduto che si trattasse del suo solito “andar con-
56 tro”. Come se quella situazione quasi perfetta fosse diventata così dovuta da risultarle intollerabile. Era folle, lo sapeva, ma Alice sospettava da un bel po’ di esserlo pure lei. Un’altra parte non concepiva la possibilità di abbandonare un ragazzo come Luca per una semplice sensazione. Ripensava ai momenti trascorsi insieme e sempre, sempre, erano state maggiori le gioie dei dolori. E allora come mai? Come mai sentiva questo bisogno di allontanarsi? Questa voglia di lasciarsi alle spalle quel rapporto ideale, adulto, fatto di compromessi ma anche di tante piccole conquiste? Non aveva avuto tempo di trovare una risposta. Perché pochi giorni dopo aver cominciato a pensarci, quando ormai stava selezionando le parole giuste da dire, le frasi che avrebbero ferito meno, allora aveva scoperto di essere incinta. Che quella storia improvvisamente non riguardava più solo loro due. Che tutto si era complicato e non sarebbe più bastata una malinconica fine da romanzo adolescenziale. Alice si era sentita due volte stupida, due volte ipocrita e irresponsabile. La cosa peggiore era che i suoi veri sentimenti sarebbero rimasti nascosti, sepolti in lei perché non avrebbe potuto parlarne a nessuno. Non a Luca, non adesso, sarebbe stato un sadico tentativo di peggiorare le cose. Non di certo ai suoi genitori, ma quello era scontato. A nessuno perché parlare, pronunciare quella verità sentendo il suono delle sue parole sarebbe stato come ammetterla a se stessa e Alice si cullava ancora nel lusso di una finta debolezza. Non sapeva quanto sarebbe potuto durare ma ora andava bene così. «Attenta che brucia, mi sono già scottato io per entrambi!» Luca le porse il vassoio con la tazza fumante e un paio di biscotti accanto. Le sorrise passandole una mano tra i capelli, le scostò le coperte per aiutarla a mettersi seduta, la coccolò. Alice rispose al sorriso, ma non seppe aggiungere altro. Non in quella mattinata che virava prematuramente verso la fine. Non in quello strano giorno di partenza, buffo e triste al contempo. Non in quella vita. «Come ti senti, oggi?» le chiese Luca, sedendosi accanto a lei. Lanciò uno sguardo alle sigarette, ma sapeva che Alice non avrebbe gradito, perciò resistette all’impulso. «Abbastanza bene, ora dobbiamo solo incollarci un sorriso idiota e tenerlo su per due giorni.» «Be’, non eravamo costretti a partire, sei stata tu a insistere.»
«Lo so. Lo so, davvero.» Alice sospirò mandando giù il latte. «Hai pensato al da farsi?» Luca rimase stupito da questa domanda a bruciapelo, come se la ragazza avesse esplicato una questione che ormai era diventata quasi un tabù. «Tu sì?» «No. O meglio, è qualcosa da decidere in due, però... Boh, dico solo di prendere in considerazione tutte le possibilità.» Luca si grattò il mento riflettendo sul significato delle sue parole. Per come la vedeva era un chiaro segnale che lei gli stava mandando, un’allusione a far nascere quel bambino e provare a diventare adulti insieme. «Non sono mica giunto a nessuna conclusione! Stai alludendo a qualcosa?» ribatté lui mettendosi sulla difensiva. Alice lo guardò senza capire. Non era nelle sue intenzioni dire una cosa del genere; anzi, la sua idea era praticamente agli antipodi. Decise di essere più chiara. «Mi riferisco all’aborto, Luca. Potrebbe essere una strada come un’altra.» Nel dirlo lo guardò fisso negli occhi, con fare deciso, per sottolineare il concetto. Luca aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito. Improvvisamente si sentì colpevole senza sapere bene per cosa né nei confronti di chi. E gli fece male non vedere la stessa traccia di colpevolezza negli occhi di Alice. Lo fece sentire stranamente solo. «A te non dispiacerebbe?» chiese alla ragazza passandosi la mano tra i capelli, come per arruffarseli. Alice posò la tazza, ormai vuota, e si mise composta. «Non è qualcosa che si può definire bella o brutta né buona o cattiva. Non so neppure cosa mi farà provare, se tristezza o rabbia, se sollievo... oppure nulla.» «Appena me l’hai detto, ieri a telefono, è stato come sprofondare all’inferno» disse Luca voltandosi verso di lei «come se questa cosa, in qualche modo, scombinasse i piani di un’intera vita. In quel momento se avessi potuto premere un bottone e porre fine a tutto, be’, l’avrei fatto senza esitazione. Poi ci ho riflettuto, mi sono preso il tempo e la calma necessaria per farlo ed è strano come le cose possano sembrare diverse quando le affronti direttamente. Mi sono guardato, anzi, ho guardato noi due, come coppia, e mi sono reso conto che non avevamo chissà quali progetti in ponte o altro, nessuna grande opera a metà che questo arrivo in
58 qualche modo avrebbe scombinato. Perciò... bada, non è una conclusione, però, sì, stavo prendendo in considerazione di tenerlo.» Alice lo guardò sorpresa. A ben vedere questa era una tipica frase alla Luca, ma si stupì ugualmente. Si era dimostrato molto più adulto di lei in questo frangente, se non altro perché aveva riflettuto e non solo parlato. «Tenerlo?» sbottò lei senza riuscire a contenersi «ti senti quando parli, Luca? Hai pensato per un attimo alle conseguenze? La mia famiglia, come minimo mi butta fuori di casa.» «E chi se ne frega, cazzo! Mi sono rotto di sentirti tirare fuori i tuoi genitori! Se ti buttano fuori, andremo a stare insieme da qualche parte. Cristo! La pianti di farti condizionare la vita in questo...» «Vuoi dirmi anche tu come devo vivere? Cosa devo fare e come devo comportarmi? Ma davvero sei pronto a crescere un bambino? Con tutto quello che comporta!» «Cazzo Ali! Ci riescono tutti, sarà mica una cosa da laureati! E poi scusa, stiamo insieme da anni, le cose funzionano, mi vuoi spiegare dove sono tutti questi problemi?» Alice a questo non rispose. Perché farlo avrebbe voluto dire mettere tutte le carte in tavola. Allora il gioco sarebbe inevitabilmente finito. Era quello il problema, gli avrebbe detto, non la mia famiglia, né le responsabilità, cavolo, a ben vedere neppure il bambino. Il punto è che non credo di amarti. Non credo di amarti più, Luca. Ma tali parole veleggiarono invisibili sulle labbra della ragazza senza spiccare il volo. Come una pistola che spara a salve. E Luca la guardò, incerto su come interpretare il suo silenzio. Ebbe paura, molta paura, perché per la seconda volta si sentì solo. Non volle parlarne per timore di peggiorare le cose e si alzò dal letto portando la tazza in cucina. Alice lo guardò provando a formulare una frase, una qualsiasi, ma inutilmente. Quel fine settimana stava cominciando nella peggiore maniera possibile e credeva potesse soltanto peggiorare. Aveva ragione.
*** «Sei sicura che la tua amica non si arrabbia?» Stefano lo chiese mentre goffamente si stava sfilando i jeans, avendo cura di tirare via anche il calzino. Aveva sempre trovato ridicoli gli uomini senza pantaloni ma con le calze. Jennifer parve sorridere per le preoccupazioni del ragazzo. Si limitò ad annuire togliendosi a sua volta la t-shirt viola. Stefano lanciò un’occhiata all’orologio. Mancavano pochi minuti alle sette, tra poco più di un’ora il loro treno sarebbe partito. Avrebbero viaggiato di notte per arrivare a Monaco la mattina dopo verso le nove, era la soluzione migliore per avere due serate piene e quasi tre giorni a disposizione. Poi guardò il corpo dell’americana. Jennifer era rimasta solo con il reggiseno e le mutandine, entrambi neri, che risaltavano contro quel corpo chiaro, quasi latteo. Era un corpo da urlo. A differenza di altre americane che aveva conosciuto non aveva un filo di cellulite, era slanciato, con le curve al posto giusto, e un paio di tette gloriose. Jennifer si accorse dei muti complimenti che quegli occhi le mandavano e sorrise con malizia. Si abbracciarono baciandosi e si avvicinarono al letto mentre le mano di Stefano armeggiavano col reggiseno. Sarebbe stata la classica scopata dell’ultim’ora, bella quanto inattesa. Il gruppo aveva deciso di trovarsi alla stazione di Santa Maria Novella alle sette e quaranta per individuare il treno con un po’ di anticipo e caricare gli zaini. Stefano aveva agito d’anticipo. Aveva tempestato Jennifer di messaggi per tutto il giorno chiedendole di incontrarsi con lui prima della partenza, per un gelato, un caffè, o... O. Le mutandine furono l’ultima cosa che volò via. Stefano sentì il calore proveniente dal basso ventre e con la mano sfiorò il sesso della ragazza. Completamente depilato. La sera precedente si erano lasciati dopo una furiosa pomiciata, interrotti dal ritorno di Dahlia e Yuri, e la sensazione di non aver concluso era stata opprimente. Stefano non era il tipo che lasciava le cose a metà e di certo non sarebbe passato da italiano sfigato. Se quella tipa si era divertita a provocarlo avrebbe avuto quello che chiedeva. E lo avrebbe avuto subito.
60 Le sue dita sfiorarono le labbra di Jennifer, dentro e fuori, mentre i due corpi si sfregavano all’unisono. I seni si muovevano come fossero stati vivi con quei capezzoli perfetti imperlati di sudore. Non era mai stato così fottutamente eccitato. Alla fine Jennifer si era arresa e lo aveva invitato da loro col pretesto di aiutarla a fare le valigie. E lui sapeva che sarebbe finita così. Non per supponenza o alta opinione di sé, solo perché conosceva la verità più vecchia del mondo. Il sesso piace ai ragazzi come alle ragazze, nessuna distinzione, solo che le seconde tendono a sovrapporvi una serie di cazzate quali la prudenza, la morale o le responsabilità. Jennifer non era così, perlomeno non lo era in Italia. Che facesse pure la suora nel nuovo mondo, l’importante era che non venisse a raccontare stronzate nel vecchio stivale. Poi lei pronunciò le tre parole magiche, quelle che portano un uomo a credere nell’esistenza di Dio. «Prendo la pillola.» Stefano avrebbe riso se non fosse stato eccitato come una scimmia. La strinse a sé con forza, modellando quel corpo che sembrava fatto per il sesso, sfiorando quel sedere sodo e rotondo. E la penetrò. Sentendo una fitta immediata di piacere che si aggiunse alla serie di conferme che ultimamente era la sua vita. Che gli gridavano di essere sulla strada dannatamente giusta, ovunque stesse andando. Entrando nel piccolo appartamento aveva salutato Dahlia con un po’ di imbarazzo. Aveva capito fin da subito che l’amica era del tutto diversa da lei e aveva immaginato che assistesse a spettacoli come quello con una certa frequenza. Un po’ gli dispiaceva soprattutto perché la vita poteva essere molto più facile di così. Bastava rendersene conto. Sia lei che quel coglione di Yuri avrebbero potuto divertirsi senza farsi tanti problemi. Tra l’altro era chiara l’attrazione che c’era, quindi perché esitare tanto? Non lo capiva, non l’avrebbe mai capito e non aveva interesse a capirlo. Stefano viveva in quel modo, col vento tra i capelli e senza voltarsi indietro, macinando i giorni della sua vita senza concedersi rimpianti né annose riflessioni. Certo di non far del male a nessuno e stando attento che nessuno lo facesse a lui. Che il resto del mondo andasse a fare in culo. Il sospiro di Jennifer si trasformò in un gemito, prolungato e acuto, che salì di intensità. Stefano la sentì prossima all’orgasmo e allora aumentò la forza delle sue spinte incalzandola in un movimento che non lasciava scampo. E quando l’americana strinse le dita sulle sue spalle, così forte da
far quasi male, Stefano si sentì da dio. «Benvenuta in Italia» le sussurrò pochi secondi dopo, facendola ridere. Dahlia era rimasta gran parte del tempo davanti allo specchio. In un bizzarro faccia a faccia con se stessa. Con la porta chiusa per non sentire le molle del letto. All’inizio aveva deciso di uscire per lasciarli soli, ma si era resa conto che sarebbe stata una fuga. Se avesse dovuto andarsene ogni volta che Jennifer scopava con qualcuno avrebbe fatto prima a prendere una stanza per conto suo. Poi era una questione di principio. La seconda cosa che aveva avuto voglia di fare era stato chiamare Yuri, invitarlo da lei e farlo sul pavimento della sala, quasi una gara a chi gridava più forte. Non l’aveva fatto ovviamente, perché anche qui credeva, anzi ne era certa, che ci fosse una seconda via oltre a quella di Jennifer. Che si potesse amare e divertirsi anche in un altro modo, che la sua fosse solo un’opzione tra le tante. Pregava Dio che così fosse. Si era alzata facendo una linguaccia alla sua immagine riflessa ed era tornata in cucina. Si era fatta un caffè lanciando un’occhiata alle valigie, tutto era pronto alla partenza, in quanto a efficienza doveva ammettere che se la cavavano piuttosto bene. Mentre beveva il liquido scuro ripensò a cosa l’attendeva a casa. Pochi mesi di college e poi la vita si sarebbe ripiegata su se stessa mostrando inquietanti angoli bui. Dahlia non aveva la minima idea di cosa fare, se continuare gli studi, magari provando la difficile strada del dottorato, oppure lasciare l’ambito scolastico per trovare un lavoro. Entrambe le opzioni la spaventavano, ognuna per precisi motivi. Era una ragazza intelligente, ma non era mai stata la migliore. C’era sempre qualcuno davanti a lei, in ogni materia o frangente, e non sempre conquistava il secondo posto. Niente di male in fondo, nessuno le chiedeva di eccellere, ma questo le provocava un vago sconforto, la brutta sensazione che non vi fossero strade perfette per lei, ma solo una serie di possibilità di scorta. Non si sentiva brava abbastanza per un dottorato, con le responsabilità che avrebbe portato, quindi la strada lavorativa sembrava la scelta giusta. Ma non c’erano lavori per cui si sentisse davvero portata, solo semplici impieghi che le avrebbero permesso di arrivare a fine mese, era questa la sua idea del futuro. Le mancava l’entusiasmo, la voglia di osare, e talvolta era certa che l’ombra proiettata da Jennifer non aiutasse in tal senso. Durante gli anni degli studi aveva fatto diversi lavori part-time: la barista,
62 aveva lavorato in un market, da Mac Donald, un’estate aveva provato a fare anche l’animatrice turistica, ma non era mai scattato un vero amore. E così sospettava che sarebbe stato anche in seguito, sperando intimamente che tanta disillusione fosse destinata a essere, a sua volta, disillusa. Immersa nei suoi pensieri non si accorse della presenza di Stefano nella stanza fino a che non le rivolse la parola. «Allora è tutto pronto?» Lo guardò provando un forte déjà vu. Per un attimo, uno solo, fu sul punto di gettargli la tazzina contro. Poi sospirò e sorrise. Un sorriso senza malizia, lontano anni luce da quelli della sua amica. «Direi di sì» rispose nel suo italiano migliore «viaggiamo sempre abbastanza leggere in modo da facilitarci le partenze e gli arrivi.» Stefano annuì guardando i pochi bagagli a terra. Dahlia lo scrutò attentamente alla ricerca di quella vaga espressione post orgasmica. Sapeva che ci doveva essere, era un film visto un sacco di volte. Stefano si accorse di essere osservato e si voltò verso di lei, con un po’ di imbarazzo. Si sorrisero. «Scusa per prima» disse in tono di giustificazione «sono entrato in casa vostra e sono scomparso in camera... un po’ da maleducato.» Dahlia agitò la mano davanti a sé come a dire di non preoccuparsi, ma fu felice di quella premura. «Siamo adulte e vaccinate. Per queste cose ci copriamo a vicenda» gli disse facendogli l’occhiolino. Stefano sorrise ma si capiva benissimo che aveva intuito la verità. Che era sempre Dahlia a coprire l’amica e assai di rado il contrario, lui lo sapeva, e lei ne fu consapevole. Dahlia rimase un attimo con la tazzina in mano, incerta sul da farsi. Poi, sospirando, si lasciò cadere sulla sedia. «Merda» disse in inglese, certa che comunque il messaggio sarebbe stato recepito. Stefano si sedette a sua volta, braccia conserte, fissandola a labbra strette. «Ti rompe questa situazione, vero?» Lo chiese in maniera diretta, senza preamboli. Quella frase fu una naturale propaggine del sospiro della ragazza. «Jenny è fatta così, e io sono io. Mi dà fastidio quanto può darmelo il fatto che ho i capelli neri. È il mio carattere, e sono contenta di essere come sono. Voglio bene a Jenny, davvero tanto, ma non per questo deve essere il mio modello di vita.» «Nessuno dice che debba esserlo» annuì Stefano «sei molto simile a Yuri, la sua versione femminile direi!»
E rise tamburellando le dita sul tavolo. Dahlia esitò un attimo, non sapendo come prendere quell’affermazione. Tra l’altro sentir nominare Yuri in quel momento le diede un piccolo brivido. Stefano corresse subito il tiro per timore di essere frainteso. «Yuri è uno dei miei migliori amici, intendiamoci, io e lui siamo molto diversi, ma credo di capire cosa gli frulla in quella testa bacata. Certe dinamiche, be’, potrebbero valere al contrario.» Indicò la porta della camera da letto e aspettò che Dahlia annuisse. «Non sono uno psicologo o cose così, se ho capito che qualcosa non andava è per questo motivo.» Dahlia fu contenta di aver sentito queste parole. A volte, immersa nelle sue paranoie, credeva che la testa le sarebbe scoppiata. Sentire che il mondo era simile a lei, sotto certi aspetti, la rinfrancò. «Grazie» gli disse con un sorriso sincero «ma non esiste un vero problema. In fin dei conti credo sia solo un modo diverso di prendere la vita. Il mondo di Jennifer ha la musica a tutto volume praticamente dalla mattina alla sera. E questo mi piace, davvero, solo che in quel frastuono alla lunga non riesco più a sentire la mia.» «Ti piace Yuri?» chiese Stefano senza esitazione, facendola sobbalzare per la seconda volta. Si sfregò il nasino sorridendo. «È un ragazzo particolare, credo. Diciamo che ha saputo stupirmi ieri e per me questa è una cosa molto importante.» «Vecchio bastardo!» esclamò Stefano con forza. Le sue erano parole sincere prive di qualsiasi malizia. «Credo che con te si stia giocando le sue carte migliori! Se riesci a non spezzargli il cuore in mille pezzi te ne sarei grato!» Dahlia rise, senza sapere bene cosa rispondere. Non era una domanda, in effetti, ma era certa che Stefano le avesse comunicato un messaggio ben preciso. Un messaggio di solidarietà. Si chiese se Jennifer avrebbe fatto la stessa cosa per lei. In quel momento l’amica uscì dalla stanza. Indossava una tuta e aveva l’asciugamano arrotolato sulla testa. Si doveva essere fatta una doccia rinfrescante. Guardò i due seduti al tavolo e si mise le mani sui fianchi. «Pronti per il weekend più pazzo della nostra vita?» chiese in un modo che non permetteva dissensi. Stefano si alzò e la cinse con le mani da dietro. Le baciò il collo sorridendo e provocandole una risatina squillante. Poi si rivolse a Dahlia alzando la mano e simulando un brindisi. «Puoi scommetterci che lo siamo!»
64 Dahlia guardò Jennifer per un lungo momento. Senza dire niente, nulla di udibile almeno. Jennifer rispose allo sguardo, ma senza comprenderlo appieno. Lei è lei e io sono io, non c’è un vero problema in fondo. L’aveva detto decine di volte, l’aveva ripetuto anche a Stefano, perché se lui non ci credeva non avrebbe mai potuto farlo lei. In fin dei conti è solo un modo diverso di prendere la vita. Ma non era solo questo, non lo era mai stato. E ora che qualcun altro se n’era accorto, non lo sarebbe stato più. Questo le disse.
*** Fine anteprima CONTINUA…