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MARCO MARINONI
STAGIONE DI CACCIA
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni
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STAGIONE DI CACCIA
Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-167-9 Copertina: immagine Shutterstock
Prima edizione Gennaio 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria [Dante, Inferno, Canto V]
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PROLOGO. GIOVEDÌ 19 OTTOBRE
La donna è curva sulle piante di pomodoro e regge tra le mani una canna di plastica. Dalla canna sgorga un getto discreto, che si riversa sul terreno attorno alle piante, alte e rigogliose. A intervalli di tempo regolari sposta il getto, in modo da coprire il terreno in modo uniforme. Sa che tra due mesi saranno tutte morte e ci tiene all’ultimo raccolto della stagione. Il suo corpo è snello, slanciato ma solido, frutto del tempo trascorso nei campi. Indossa dei jeans da lavoro stinti e sfilacciati, scarpe da corsa lise e una camicia con le maniche arrotolate fin sopra al gomito. Ha trentanove anni, la pelle abbronzata e i capelli castani legati in un crocchio sulla nuca. Tiene uno straccio, o forse è un fazzoletto, infilato nell’orlo dei jeans, da un lato. Alle mani ha dei guanti da giardinaggio arricciati sui bordi, probabilmente per il numero di volte che sono stati lavati. Accanto a lei, un tavolino rotondo di metallo con sopra una bottiglia d’acqua priva di etichetta, piena a metà, uno smartphone e vari prodotti per l’orto: zolfo, rame caffaro, una minuscola boccetta con disegnato un teschio – è il Decis Jet, l’antiparassitario da diluire assieme al rame e allo zolfo – e un sacchetto di palline rosa, ovvero la nitro-fosca, il concime che ha appena terminato di spargere. A terra, vicino al tavolino, un paio di cesoie e alcuni altri piccoli attrezzi per la manutenzione. Dietro di lei, i filari di pomodori disposti sui terrazzamenti del terreno. Oltre, le altre coltivazioni, di cui si occuperà più tardi. Il sentiero che collega le fasce alla casa corre lungo un lato delle coltivazioni, sale ripido, il fondo coperto da ghiaia e terra rossa. Sull’altro lato c’è la strada. La casa non si vede, da lì. Sta più in alto, quasi sulla sommità della collina, che è quella che circonda Calvisio e scende fino al letto dello Sciusa. Lo Sciusa è il torrente che dà il nome alla valle. Sia il paese odierno che il suo nucleo originario, costruito sulle rovine di un vicus romano che fu dato alle fiamme durante le invasioni dei barbari, si trovano sulle pendici del Monte Tolla, la montagna che in quel momento prolunga la sua ombra nella valle fino a includere la donna e parte delle fasce. Non appena il sole sparisce, la donna si raddrizza e prende fiato, passandosi il fazzoletto sulla fronte e asciugandosi il viso. Guarda i riflessi scomparire nel giro di pochi secondi tra i rami dei lecci che circondano le fasce, quindi torna alla sua occupazione.
6 Finisce di innaffiare i pomodori e abbandona la canna in uno degli avvallamenti tra i filari, dopodiché torna verso il sentiero e si china per chiudere il rubinetto dell’acqua. Un complicato sistema di turbine pompa l’acqua direttamente dal torrente, quando ce n’è. In caso contrario, i tubi attingono alla normale fornitura idrica comunale, come avviene quel giorno. Da quasi tre mesi, lo Sciusa è in secca, e anche i tre serbatoi di acqua piovana accanto alla casa sono vuoti. L’estate è stata particolarmente calda quell’anno, una delle più calde che la donna ricordi, e le piante ne hanno sofferto. Il rumore di un motorino si fa sentire dalla strada. La donna lo riconosce e si volta aspettando che l’amica rallenti per salutarla o decida di fermarsi per fare due chiacchiere. In tal caso, percorrerà la fascia fino all’estremità opposta e dedicherà qualche minuto ai pettegolezzi, sebbene in quel periodo non abbia piacere di parlare con la gente. Si sforza, sa che non è giusto chiudersi in se stessi, ma ugualmente non le viene più naturale. Non è mai stata brava a fingere per convenienza sociale. Il motorino rallenta ma non si ferma, il casco si gira verso di lei e una mano si solleva per salutarla. Lei risponde agitando la sua e tentando di sorridere. Il motore risale di giri e il motorino scompare. In una certa misura, la donna è felice che l’amica non si sia fermata, ma prova anche un senso acuto di malinconia. Sta così da gennaio, e sa che durerà molto tempo ancora. Si passa le mani sui jeans, che hanno dei segni all’altezza delle cosce, dove ha l’abitudine di pulirsi. Estrae il fazzoletto e inizia a ripiegarlo, lo infila in tasca e prende a risalire il sentiero verso le altre coltivazioni. Si blocca, ha dimenticato il cellulare sul tavolino, assieme agli attrezzi da lavoro. Sta tornando sui suoi passi, quando sente abbaiare il cane. Anche quel suono le è familiare. Significa che suo marito sta tornando da caccia. Troppo presto, pensa. Non ha preso niente e si è stancato. Il cane abbaia ancora, più vicino. Dopo qualche secondo, lei lo vede. Lo springer spaniel corre verso la donna, che pensa ancora: Non dovrebbe arrivare da lì. Il cane, infatti, è sbucato dalla direzione della boscaglia, invece che da quella della casa. Lei si prepara ad accogliere le feste che l’animale le riserva sempre dopo un giorno passato a caccia. Invece il cane si ferma a una decina di metri di distanza, punta le zampe e abbaia, fissandola, quindi si volta e corre indietro per alcuni metri. Lei lo chiama, alzando la voce per farsi sentire: «Alì!». Il cane torna verso di lei ma di nuovo si ferma, abbaia, si volta, corre via e si ferma ancora voltandosi a guardarla un’ultima volta. «Vuole che vada con lui? Ma dove?» si domanda a voce alta. E poi, ancora: «Che diavolo succede?».
7 Si muove verso l’animale, dimenticandosi del telefono e del resto. Il cane inizia a battere la coda contro il terreno e continua a fare avanti e indietro, guadagnando qualche metro ogni volta, man mano che lei lo segue. Quando escono dalla proprietà, lo springer prende un sentiero che punta verso il bosco, sulle pendici della montagna. Appare e scompare, e quando compare a volte lancia un’abbaiata e torna a sparire tra gli arbusti. La donna arranca. Il sentiero è scosceso, e non le è facile seguirlo, anche se è abituata a camminare sul brullo. In breve sono nel fitto del bosco e seguono una delle piste dei cacciatori. Tra gli alti carpini e lecci fa fresco ma lei suda per riuscire a stare dietro al cane, respira affannosamente e ogni tanto si ferma per riposarsi. A un certo punto il cane lascia il sentiero e si addentra nel fitto del bosco. Lei lo segue come può. Oltrepassano un cartello sul quale si legge a malapena “Strada per La Ruggetta”, sopra ai due pallini rossi ormai quasi dello stesso colore del legno. Proseguono nel sottobosco fino a quando non incrociano un altro sentiero, molto meno riconoscibile del primo, poco più di una traccia sul terreno. Si tratta di una “pista”, di quelle che usano gli animali per spostarsi nel bosco. La donna è nata lì, e sa riconoscere un sentiero da una pista. Il cane si ferma e l’aspetta. La pista è fiancheggiata da un dirupo. A terra c’è il Perennia SV10 del marito. Lo springer sta sul bordo del dirupo. Ci sono orme e terra smossa, in prossimità di una fossetta nel terreno. Lei si sporge sul dirupo e lo vede. Suo marito si trova quattro metri più in basso. Ha sangue sulla faccia e una gamba messa in malo modo. Solleva la testa e cerca di parlare. O Gesù, pensa lei. Si guarda intorno, cerca un punto da cui scendere. Non ne vede, quindi pronuncia il nome del cane e gli indica il marito: «Alì! Vai, su!». Il cane muove senza alcuna esitazione, scompare lungo la pista per poi ricomparire di sotto, accanto all’uomo. Lei si muove nella stessa direzione, percorre una decina di metri e trova il punto in cui la pista si biforca. Uno dei due rami scende. Lei lo prende, e poco dopo arriva al fondo del dirupo. Il marito è cosciente, la chiama per nome e le chiede aiuto. Cerca di sorridere, ma il sangue trasforma la sua espressione in una maschera grottesca. In un attimo, lei ricostruisce i fatti: l’uomo ha infilato il piede nella fossetta, perdendo l’equilibrio; forse stava mettendo il fucile in mira, si è sbilanciato ed è caduto, fratturandosi la caviglia rimasta imprigionata. Mentre cadeva
8 ha avuto l’accortezza di gettare via l’arma, mettendo la sicura, in modo da non peggiorare la situazione con colpi accidentali. Sul fondo del dirupo ha battuto la testa e ora è lì davanti a lei in stato confusionale. Il cane si accoccola accanto all’uomo e gli lecca una mano. Lei si accuccia a sua volta e guarda il marito negli occhi. Sono annebbiati, l’uomo è allo stremo delle forze. Il cellulare dell’uomo è poco distante. Lei lo raccoglie. È acceso, funziona, ma non c’è campo. Intorno a loro soltanto i lecci e i cespugli di ginepro, il sottobosco fitto di erica e rampicanti e le ombre sempre più scure. Sia il cane sia l’uomo la fissano. Negli occhi di entrambi, la stessa disperata richiesta di aiuto. Poi, accade tutto in un attimo. Lei ispeziona il terreno, prende una pietra aguzza e sufficientemente pesante, la solleva e la cala con forza sulla nuca del cane, che ha un tremito, lancia un guaito e si accascia a terra, tremando. Quindi solleva ancora il sasso e lo cala di nuovo. Una, due, tre volte. Il cane smette di tremare. Un rivolo scuro si dirama dalla sua testa fracassata. Un’espressione di orrore si fa strada sul volto dell’uomo, che tenta di parlare. «Non ti sforzare, tesoro. Non serve» gli dice lei con voce incolore. Dopodiché si alza e risale il dirupo.
PARTE PRIMA da domenica 22 a martedĂŹ 24 ottobre
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CAPITOLO 1. DOMENICA 22 OTTOBRE.
Uscendo dalla Chiesa Nuova dei SS. Cornelio e Cipriano, Michele si fermò sui gradini a osservare la fauna che era accorsa al funerale di Riccardo Venturino. C’era praticamente l’intera popolazione di Calvisio, e molte persone venute da Finale, Calice e Feglino, tutti compassati, silenziosi, vestiti con sobrietà. In quel momento, il sindaco stava facendo le condoglianze alla vedova di Riccardo, proprio davanti all’alto portale di legno scuro da cui defluiva la gente. Un po’ di visibilità non fa mai male, pensò Michele con un pizzico di malevolenza e ricordò che i due erano parenti; lei era sua cugina. Era stata Alessandra a parlargliene, quando Francesca aveva avuto l’avvicinamento di cattedra da Arenzano a Finale. Allora erano circolate voci attorno a quel trasferimento e ai legami della giovane insegnante neo-diplomata con quello che ai tempi era un influente membro della giunta. Poco male, pensò. Se è stata aiutata, meglio per lei. Una persona deve saper sfruttare le carte che riceve all’inizio della mano. Da pokerista, Michele sapeva quanto la spregiudicatezza e la capacità di improvvisare potessero fare la differenza tra un buon giocatore e un vincente: il vincente era quello che sapeva volgere a suo favore le risorse dell’ambiente, le risorse del branco. Nella caccia, quando un animale si staccava dal branco, invariabilmente finiva male. Michele non si riteneva un cinico, ma aver fatto il poliziotto per quasi quattro decadi l’aveva reso impermeabile a certe ipocrisie. “Aiutati che il ciel t’aiuta”, era uno dei suoi motti preferiti, come anche: “Dio odia i vigliacchi”. Non si era mai fatto corrompere nelle quasi quattro decadi di servizio nella Polizia di Stato ma riconosceva che, in determinate occasioni, un compromesso può essere accettato. Comunque sia, è un’ottima insegnante, pensò ancora osservandola abbracciare il suo insigne parente. Serena la adorava. Parlava soltanto di lei, quando tornava da scuola. Serena era sua figlia – di Michele, e di Alessandra. Pensare al tempo in cui Serena abitava ancora con loro gli provocò una fitta di dolore allo stomaco, quindi tornò a concentrarsi su Francesca. Elegante, in un semplice abito nero, i capelli legati sulla nuca, occhiali scuri a proteggersi dal bianco accecante del cielo. I suoi movimenti erano ordinati e
12 misurati, l’espressione del viso austera. Riceveva abbracci e strette di mano, parole di condoglianza e promesse di vicinanza con sobria moderazione e un senso innato dello stile. Avrebbe meritato quel posto in ogni caso, concluse. Inutile recriminare. Certo, Alessandra aveva perso il suo, di posto, quando Francesca aveva ottenuto lo spostamento di sede e questo, a Michele, aveva dato parecchio fastidio. Alessandra aveva quasi vent’anni in più di Francesca e un’anzianità di servizio ben maggiore rispetto a quella della collega. Non era entrata nelle graduatorie nazionali, a differenza dell’altra, che vi aveva avuto accesso sin dal primo anno d’insegnamento. Per fortuna, quando la scuola elementare di Calvisio aveva chiuso, il numero di bambini nell’istituto Aycardi-Ghiglieri di Finale era lievitato al punto da rendere necessaria l’apertura di un’altra cattedra. Così Francesca e Alessandra alla fine si erano ritrovate colleghe, ed erano subito diventate amiche, malgrado la differenza d’età e di esperienza. Non c’era mai stata ruggine tra loro. Avevano lavorato fianco a fianco per otto anni, poi Alessandra aveva avuto l’incidente e aveva deciso di lasciare l’insegnamento, con ventotto anni di anzianità di servizio sulle spalle. Era stata riconosciuta invalida al 75% e le era stata assegnata la pensione. Malgrado le fosse stato proposto il part-time per aiutarla con la riabilitazione neuromotoria, non se l’era sentita di continuare. Alessandra era una da “o tutto o niente”. Michele, però, sospettava che la sua decisione fosse dovuta soprattutto ai dolori persistenti con cui doveva lottare un giorno sì e l’altro anche. La lesione alla spina dorsale non l’aveva resa del tutto immobile, nei giorni buoni riusciva a camminare per brevi tratti, ma ce n’erano altri in cui il dolore era intollerabile, e odiava dover assumere farmaci che la intontissero. La condizione di Alessandra era anche il motivo per cui non era insieme a lui, quel giorno, al funerale di Riccardo. Sollevando lo sguardo, Michele si accorse che Francesca aveva terminato i convenevoli con il primo cittadino e stava guardando nella sua direzione con un’espressione indecifrabile. Quando i loro occhi si incrociarono, lei accennò ad andargli incontro ma Michele la precedette. La abbracciò con tenerezza e le diede un bacio sulla guancia. Lei rimase rigida. «Di nuovo, le mie condoglianze, Francesca». Il telefono di Michele era stato il primo a squillare quando, giovedì sera, Francesca aveva chiesto aiuto, non vedendo il marito rientrare per cena. Michele aveva organizzato le ricerche quella notte assieme al viceispettore Andrea Bonora. Ricerche che erano terminate le prime ore del mattino di venerdì con il ritrovamento del cadavere di Riccardo nei boschi dietro Calvisio Vecchia, in fondo a un dirupo non distante dal sentiero per la Ruggetta. «Ti ringrazio».
13 La faccia della donna era sbattuta, come se non avesse dormito. Aveva segni scuri sotto agli occhi e i capelli emanavano un profumo sottile, tenace, speziato e avvolgente. La pelle bruciata dal sole e le mani rovinate dal lavoro nell’orto non riuscivano a diminuire la sua bellezza; al contrario, la rendevano più vera. «Che modo stupido di perdere il proprio uomo, eh?» cercò di sorridere lei. «Non c’è molta furbizia nella morte. Porta soltanto dolore». «Dolore» ripeté lei. Rimase in silenzio alcuni secondi poi aggiunse: «Blake lo paragonò a un albero avvelenato». La passione di Francesca per William Blake. «Un albero i cui frutti luccicanti invogliano il tuo nemico a impossessarsene e, una volta caduti nelle sue mani, lo uccidono con il loro veleno» continuò. Michele le strinse le spalle, tenendosi lievemente sulla destra – l’orecchio sinistro era quello che funzionava ancora bene. «Non fare che il tuo cuore diventi quell’albero, Francesca. Riccardo non c’è più ma tu sei viva, bella, forte e ancora giovane. Ti siamo vicini. Anche da parte di Alessandra». Lei sembrò commuoversi. «Che belle parole. Grazie». Di sicuro ci voleva forza di carattere per non cadere a pezzi dopo un aborto spontaneo e, nove mesi più tardi, la morte del marito. Nove mesi. Una nascita al contrario, considerò Michele in maniera un po’ folle, e sperò sinceramente che lei ce la facesse, che superasse il lutto, la depressione, e trovasse finalmente la sua strada. «Passa da me, più tardi, se ti fa piacere». «Certo. Lo farò». «Dillo anche ad Alessandra». «Sicuro. Però non credo che…». «Lo so che ha male alla schiena. Ci parliamo, anche se in questo periodo meno di prima. Sai, dopo che ho perso il…». «Chiaro, non preoccuparti. Comunque, sì. È per questo che non c’è. Avrebbe voluto, ha tentato di mettersi su quella sedia, ma oggi proprio…». Nessuno dei due concludeva le frasi, si interrompevano a vicenda. C’era imbarazzo tra loro. Quando conosci una persona da tanto tempo, non c’è mai, pensò Michele. Francesca però gli instillava un senso di colpevole, illogico dejà vu che nasceva dal quel profumo in grado di evocare in lui immagini di petali viola, carnosi, vellutati. Si strofinò il polso sinistro con le dita della destra. Era un gesto automatico. Lo faceva sempre quando si sentiva in difficoltà; non ricordava neppure più quando avesse preso quell’abitudine. «… è uno dei giorni difficili, anche per lei» concluse. Dopo che Francesca fu andata a ricevere le condoglianze dagli altri, Michele sedette sul muretto di pietra che cingeva il piccolo piazzale della chiesa e si
14 girò una sigaretta, osservando sfilare le persone. Da lì poteva vedere la sua jeep parcheggiata a lato di via Calvisio. Non l’aveva chiusa, e la chiave era nel cruscotto – chi mai gli avrebbe rubato quel rudere? A Calvisio si conoscevano praticamente tutti e lui, per loro, era ancora un ufficiale della Polizia di Stato. Per passare il tempo fece un rapido inventario degli altri veicoli, una vecchia abitudine dura a morire. Nel parcheggio immediatamente adiacente alla chiesa c’erano la Mazda del sindaco, il pickup bianco di Francesca, il Ducato di Stefano Gatti, l’autopattuglia del viceispettore Bonora, una Panda 750 azzurra cosparsa di macchie scure di ruggine, e altri tre veicoli che appartenevano ad altrettanti parenti di Riccardo. Le altre macchine, tra cui la sua, erano parcheggiate lungo la strada, da entrambi i lati, alcune pericolosamente inclinate dalla parte in cui le ruote scendevano verso il fossato che costeggiava la carreggiata. Tra una macchina e l’altra spuntavano disordinatamente i motorini degli studenti della classe di Francesca, parcheggiati alla bell’e meglio. Ogni tanto qualcuno gli rivolgeva un cenno con il capo o con la mano, e un paio di persone gli si avvicinarono per scambiare qualche parola. A un tratto una voce maschile risuonò dietro di lui, dalla parte dove ci sentiva meno. «Ehi, capo». Si voltò. Era Bonora. Non lo aveva visto avvicinarsi. Michele era stato il suo superiore diretto negli ultimi undici anni di servizio presso la Sezione Anticrimine della Questura di Savona e Bonora, ai tempi sovrintendente e ora viceispettore della Squadra Mobile, Fascia C, continuava a chiamarlo capo. «Viceispettore». «Allora, che pensi di questa faccenda?». Michele si strinse nelle spalle, voltandosi per averlo dalla parte dell’orecchio sinistro. «Che è una disgrazia». «Una in più». Proprio in quel periodo si erano verificati altri due eventi infausti nella zona: dieci giorni prima, a Pietra Ligure, un ventunenne aveva accoltellato la sua fidanzata, prima di costituirsi; la settimana precedente, a Orco, un giovane si era tolto la vita sparandosi in faccia con la doppietta che usava per andare a caccia, tra lo sconcerto dei suoi genitori e dei suoi amici che avevano messaggiato con lui su Whatsapp fino a pochi secondi prima. In entrambi i casi, gli eventi si erano presentati come fulmini a ciel sereno, completamente inattesi. In apparenza, almeno. Un evento ha sempre una causa scatenante, pensò. Annuì. «E per lei, oltretutto» rincarò l’altro. «Dopo l’aborto».
15 «Già». Buttò fuori l’aria. Bonora gli stava simpatico ed era un buon poliziotto, ma ora Michele non aveva voglia di parlare. «Vado a porgere le condoglianze» si defilò Bonora, che aveva capito l’antifona. «D’accordo. Ci sentiamo». «A presto, capo». Quando era andato in pensione, a cinquantotto anni, Michele aveva preso in considerazione l’idea di aprire un’attività, magari un negozio di articoli da caccia, o una ferramenta come quella di Riccardo, magari addirittura entrare in società con lui, ma l’idea non si era concretizzata. Con la pensione d’invalidità di Alessandra, il suo assegno mensile e i risparmi messi da parte da entrambi, potevano vivere dignitosamente. Non avevano mutui sulla casa né debiti, e non coltivavano abitudini particolarmente dispendiose. Inoltre, il nuovo lavoro di Alessandra, che si era reinventata web designer e lavorava da casa, stava decollando e iniziava a dare i primi frutti anche sul versante economico. La loro vita andava bene così. Si volevano bene, si sopportavano a vicenda, e Michele era sicuro di amarla ancora come quando si erano conosciuti. È già tanto, pensò. Un sacco di gente sta insieme per inerzia, o per codardia. Per fortuna non era quello il suo caso, tuttavia conosceva almeno una decina di coppie che vivevano assieme senza realmente parlarsi. Alcuni lo facevano per la serenità dei figli, lodevole intento ma… … ma Dio non ama i vigliacchi. Notò che c’era un’altra persona, che si teneva in disparte. Si trattava di una donna sul metro e sessanta, robusta, di età indefinibile, con i capelli corti e ricci che parevano appiccicati al cranio e due occhiali neri dietro ai quali pareva scomparire. L’immagine si sdoppiò. Michele strizzò gli occhi un paio di volte, attese qualche secondo a occhi chiusi, respirando a fondo, quindi li riaprì e la figura tornò a fuoco. Era uno scherzetto che la vista gli giocava sempre più spesso, e non sarebbe migliorato. Strinse i pugni. Osservò la sigaretta che non avrebbe acceso. La strinse tra pollice e indice, rigirandola. Tieni duro. Non lasciare che ti freghi. Era ancora in grado di gestire la situazione. Estrasse il cellulare e controllò se c’erano messaggi da Alessandra. Ce n’era uno in cui gli domandava se avesse espresso le sue condoglianze a Francesca, spiegandole il motivo della sua assenza. La rassicurò: “Francesca ti ringrazia e ci invita a passare da lei, più tardi. Se stai meglio, ci andiamo assieme, altrimenti fa niente. Tra meno di un’ora dovrei essere a casa”.
16 Niente smancerie, bacini, faccine, “tvb”. Non avevano bisogno di quella roba da Generazione Y, non alla loro età. Non dopo quello che avevano passato insieme. Fu la volta di Stefano, che si avvicinò a Michele e senza dire nulla sedette sul muretto di fianco a lui. Stefano Gatti era il terzo elemento del loro piccolo gruppo di amici con in comune la passione per la caccia che aveva recentemente perso un affiliato. «Continuo a pensarci» esordì Stefano, con un fremito dei baffi sottili e neri che spiccavano come un bassorilievo sulla carnagione lattea del volto. «A che cosa?». «Al fatto che avremmo dovuto essere con lui, giovedì. Non sarebbe successo, se fossimo andati tutti e tre». «Col senno di poi…» mormorò Michele, sempre rigirandosi a sigaretta spenta tra le dita e fissando la donna corpulenta. «Lo avremmo tirato fuori da là sotto». «Ci puoi giurare». «Magari ci saremmo bevuti un paio di birre di troppo e ci saremmo fatti una dormita nel capannino, e nessuno si sarebbe fatto male». I “capannini” erano quella specie di trincea che i cacciatori si fabbricano, spesso in corrispondenza di cespugli di erica, usando felci e rami di alberi con foglie larghe come il castagno, il leccio, carpo o il frassino, tenuta assieme da pali anch'essi ottenuti da rami, questi privati delle foglie e limati. Nei capannini, gli appostamenti possono durare ore e, mentre si aspetta il passaggio degli “sciammi”, si parla e si beve e, se si beve troppo, a volte si dorme. In quei casi, la cacciatora resta vuota. «Saremmo tornati a casa tutti e tre, e oggi non saremmo a un funerale» aggiunse Stefano. «Vero». Michele iniziava a stancarsi di quella conversazione. Si riscosse e si voltò verso l’altro: «Chi è?» domandò, indicando con un cenno la donna solitaria dall’altra parte del piazzale. «Eh?». «Quella tipa tracagnotta che se ne sta da sola, laggiù». Stefano la individuò. «Ah, quella. È la sorella di Riccardo. Credo si chiami Elena». «Non sapevo avesse una sorella». «Vive in Piemonte, ho sentito dire. Commessa in una farmacia o simile. Non si parlavano, lei e Riccardo, intendo. Ha fatto un intervento, prima, in chiesa». Si voltò verso di lui, come per rimproverarlo: “non eri attento alla funzione?”. «Sì, giusto» rispose lui seccamente. Non aveva ascoltato granché gli interventi in chiesa. Il microfono gracchiava e l’impianto di diffusione era pessimo. Oltretutto, lui non ci sentiva più bene da una parte e il riverbero
17 della chiesa completava l’opera. Provò a richiamare alla mente le parole pronunciate dalla donna, senza riuscirci. Comunque ricordava che erano state soltanto frasi di circostanza. In chiesa non aveva parlato con trasporto, e neppure con l’affetto che si ritiene possa legare due fratelli e adesso stava sulle sue e scriveva sul cellulare. Pareva aspettare con indifferenza la fine delle esequie. Le persone presenti, d’altra parte, non la cercavano, evitando di avvicinarsi e di rivolgerle la parola. Questo senza dubbio perché molti di loro, come Michele, non l’avevano mai vista prima… anzi, no. Osservandola Meglio, Michele ricordò di averla già vista una volta, al matrimonio di Riccardo e Francesca. Sedeva al tavolo vicino a quello degli sposi, silenziosa. Che persona strana, pensò. Certo che, se qualcuno avesse guardato dalla sua parte, avrebbe visto un sessantatreenne, alto e magro, il volto squadrato con un accenno di barba grigia e i capelli radi tirati indietro, seduto sul muretto, con una sigaretta spenta in mano e lo sguardo perso nel vuoto. Chi è più strano, ora? Almeno lei smanetta sul telefono. E ha gli occhialoni neri. Il feretro uscì dalla chiesa. Michele si infilò in bocca la sigaretta spenta e raggiunse gli altri, imitato da Stefano. Assieme lo trasportarono fino al carro funebre, che aspettava sulla strada. Una volta caricato il feretro sul carro, la processione si formò e partì, lenta. Percorsero Via Calvisio per una cinquantina di metri, quindi imboccarono Via Bedina e iniziarono a salire verso il cimitero di Calvisio. Mentre seguiva il cammino della processione, tenendosi alle spalle di Francesca, Michele considerò che c’era un altro particolare che gli dava da pensare. Riccardo, come lui e tutti i cacciatori in genere, aveva un cane che portava con sé quando usciva a caccia, uno springer spaniel bianco e marrone, stessa cucciolata del suo. Alì, si chiamava. Sia Alì sia Hugo, lo springer di Michele, erano degli ottimi cani da cerca. Il cane “da cerca” differisce da quello “da ferma” perché quando incontra il selvatico non si ferma, non aspetta l’ordine del padrone per far volare la selvaggina: si abbassa come per attaccare, intensifica il movimento della coda, guarda il padrone come per dirgli che ha un’orma valida e, quando è a una ventina di metri dalla preda, parte a razzo. Non ha paura di buttarsi nei rovi o nell’acqua, ha olfatto finissimo e in casa è docile e affettuoso con i bambini. Giovedì, Riccardo era a caccia con Alì. Come gli aveva ricordato Stefano poco prima, entrambi avrebbero dovuto unirsi alla battuta ma lui aveva preferito rimanere con Alessandra, che stava male. L’intensità dei dolori alla
18 schiena seguiva un ciclo, con picchi e valli. Quando arrivavano, c’era una fase di due o tre giorni in cui crescevano d’intensità, uno o due giorni di picco e una fase di rilascio simile alla prima, per durata. Nel giorno di massima intensità, spesso era costretta a prendere antidolorifici: giovedì era stato uno di quei giorni. Inoltre, quel pomeriggio Michele aveva un impegno importante. Un appuntamento “non più procrastinabile”, per usare le parole dello specialista che lo aveva visitato. Deglutì e il senso di pressione alla gola aumentò. Il giovedì precedente avrebbe potuto vedere la loro riunione dopo il periodo difficile in cui Riccardo si era progressivamente chiuso in se stesso, nei mesi successivi all’aborto di Francesca, invece anche Stefano quel giorno aveva impegni e alla fine Riccardo era uscito a caccia da solo. O meglio, con Alì. Che non era più rientrato. Questo faceva riflettere Michele. Gli springer spaniel sono cani affettuosi, che si legano al padrone per la vita. Sono anche molto legati tra loro, in particolare due cani della stessa cucciolata. Si annusano a centinaia di metri di distanza. La notte tra giovedì e venerdì Michele e Stefano erano presenti sul luogo quando era stato ritrovato il cadavere. Non c’era traccia di Alì, e il cane non era tornato a casa neppure nei due giorni seguenti. Francesca non ne aveva fatto parola con nessuno, ma il recinto con la cuccia era vuoto. Alì pareva semplicemente scomparso e questo, per Michele, era incomprensibile. Osservando Francesca che procedeva pochi metri davanti a lui, il capo chino e il passo misurato, avrebbe voluto chiederle notizie di Alì, domandarle perché non fosse stata piuttosto lei a interrogarsi su che cosa potesse essere accaduto al cane, e magari confidare i propri timori con lui o con Stefano. Si accorse di avere ancora in bocca la sigaretta spenta. La gettò a terra e la schiacciò.
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CAPITOLO 2.
Quando Michele rientrò, trovò Alessandra sdraiata sulla sedia anatomica, che era stata studiata per minimizzare la pressione tra i dischi spinali e favorire la circolazione. «Va meglio» lo anticipò. «Per cena sono operativa». Lui le sorrise. «Ottimo». «Sta finendo, anche questa volta». «Se Dio vuole». «Com’era il funerale?». «Spassoso. Gente che ballava con i mojito in mano, luci e musica techno, le rumene al palo, vassoi d’argento con la droga e ragazzini da fare a pezzi nella stanza degli snuff. Tutto come sempre». Lei rise di gusto e Michele si rasserenò. Riusciva ancora a farla ridere, malgrado fossero sposati da trent’anni. Buon segno. Il mondo poteva proseguire lungo la strada del nonsenso fino al capolinea; se avesse avuto vicino sua moglie e sua figlia avrebbe affrontato pure quello senza fiatare. Alessandra e Serena erano le due donne per cui avrebbe sacrificato il mondo, diceva sempre. Peccato che Serena sia lontana qualche centinaio di chilometri, o forse su Marte, e abbia smesso di comunicare con te, gli ricordò una voce maligna nella sua testa. Alessandra lo strappò a quei pensieri. «Dai, seriamente». «E che, scherzavo?». Lei tacque, aspettando pazientemente. Dopo qualche secondo Michele corresse il tiro: «Gente che diceva cose prevedibili, in chiesa impassibili e austeri, fuori abbracciavano Francesca e le facevamo le condoglianze, lei vestita di scuro, composta…». «C’era Serravalle?» lo interruppe lei. Serravalle era il sindaco. «Secondo te?». «Con tutta la giunta. Giusto così». «Ci sta. Sono parenti. E Riccardo era una brava persona». «Ora sei tu a fare discorsi da bar». I “discorsi da bar” erano le constatazioni ovvie o di senso comune, che Michele detestava. «C’era anche sua sorella» aggiunse lui. «Sorella… di Francesca?».
20 «Ma no. Di Riccardo». Sgranò gli occhi. «Esiste?». «Elena». «Da dove sbuca?». «Piemonte. Stefano mi ha detto che non si parlavano più, lei e Riccardo». «Di sicuro, lei non l’ha mai nominata». «Perché avrebbe dovuto? Credo avessero litigato. Stefano, questo, non lo sa». Alessandra si tirò su, verificando l’effetto che le faceva spostare la schiena. Niente smorfie Stava davvero passando. «Che tipo è?». «Bassetta. Grassottella. Capelli corti. Viso tondo». «Uno scaldabagno». Lui rise. «In miniatura. Pare fossero gemelli». «Difficile che i gemelli smettano di parlarsi. Più facile che muoiano a breve distanza l’uno dall’altro». «Wang e Cheng». «Chang ed Eng, capra. Ma quelli erano gemelli siamesi. Aiutami». Lei cercò di mettersi in piedi, e una smorfia la fece questa volta. Michele le passò un braccio dietro alla schiena e la sorresse mentre compiva il percorso fino alla sedia. Sedette, sbuffando, rossa in volto. «Portami fuori». «Balliamo?» «Sempre» disse lei fissandolo negli occhi. «Sulla tomba di chi ci vuole male». Allungò le braccia verso di lui, che la prese per la vita, la sollevò e la baciò, tenendola stretta. Per un attimo, Michele fu di nuovo ventitreenne all’Università di Genova, innamorato della matricola al primo anno di Giurisprudenza che aveva adocchiato alla consulta degli studenti, dei suoi occhi verdi, dei capelli biondo scuro simili a una zazzera disordinata attorno al volto. In seguito aveva conosciuto quella matricola, e quando lei aveva lasciato la facoltà per laurearsi in Pedagogia (disciplina che negli anni Novanta sarebbe stata sostituita da Scienze dell’Educazione e della Formazione), non aveva lasciato lui. Michele era perfettamente conscio di che cosa avesse significato per Alessandra essere la moglie di un poliziotto brontolone e silenzioso. La adagiò sulla carrozzina elettrica e la seguì lungo il corridoio che metteva in comunicazione il salotto con la cucina, fino a uscire sulle piastrelle di cotto del portico. «Che beviamo?». «Aranciata. Devi essere lucido, da Francesca». «Ma hai detto che non vieni». «Questo non significa che tu non ci vada».
21 Michele esitò. «Da solo?». Lei si voltò e lo fissò. «Sei maggiorenne». Senza dubbio, pensò lui. Non sapeva che cosa lo rendesse così inquieto all’idea di andare a trovare Francesca Venturino. Forse l’assenza di Riccardo – c’era sempre stato, quando andava da loro, con o senza Alessandra. O magari era perché da alcuni mesi i rapporti tra loro si erano raffreddati, dopo l’aborto di Francesca. Era praticamente dal gennaio precedente che Michele non metteva piede in casa Venturino. Prima della tragedia che aveva colpito Francesca l’inverno precedente, si vedevano spesso la sera, per cenare assieme o anche soltanto per bere qualche bicchiere del vino che Riccardo imbottigliava. A volte facevano conversazione fino a tardi con una bottiglia di whiskey e qualche dolcino, davanti al fuoco se era inverno, o sotto al porticato se era estate, tra i filari della vite, ascoltando il frusciare delle foglie dei pomodori. Quella sarebbe stata la prima volta che Michele andava a trovare lei. Si rese conto di sapere pochissimo su Francesca. Era una donna gentile, educata, competente nel suo lavoro ma… non sapeva chi fosse davvero. Riccardo non parlava spesso di lei, in sua assenza. Come si fossero conosciuti Francesca e Riccardo, per esempio, Michele lo ignorava. Inoltre, Francesca riusciva a farlo sentire a disagio. Era una sensazione cui non sapeva dare una spiegazione, che lui collegava misteriosamente (che aspetti?) all’immagine di petali viola, gonfi, convessi, a proteggere lunghi stami dalle antere aranciate. E all’odore insidioso, penetrante… La voce di sua moglie: «Dove sei?». Alessandra si divertiva a sanzionarlo nelle peggiori maniere quando si perdeva altrove, a volte facendolo saltare sulla sedia, altre semplicemente passandogli una mano davanti agli occhi, o richiamando la sua attenzione. «Ero via?» sorrise lui. «È la dementia praecox. Arriva, inesorabile. Che devo fare?». «Dai, scemo. Che pensavi?». Bella domanda. Circumnavigavo l’improcrastinabilità dell’inesorabile. Lui scosse la testa. «Mah, niente». “Il cuore di un uomo è fatto di un terreno più duro”, gli diceva spesso suo nonno, Luigi Carraro. E una volta aveva aggiunto: “Non puoi sapere quali piante vi attecchiscono spontaneamente, e quali invece muoiano, anche se provi a coltivarle e non commetti errori. Interri correttamente la semente, dai l’acqua, spargi il concime, e quando la piantina spunta le dai subito il rame sulle foglie… tuttavia non attecchisce. Al contrario, altre piante attecchiscono spontaneamente anche sulla roccia”.
22 Al centro del cuore di Michele c’era un albero dal tronco solido, dalla corteccia sana e dalle ampie fronde: sua moglie. Alessandra interruppe di nuovo i suoi pensieri. «C’è qualcosa che ti gira per la testa e c’entra Francesca Venturino. Sbaglio?». Sì!, avrebbe voluto rispondere lui. Non c’entra Francesca, in sé, ma il suo cane. O meglio, il cane di Riccardo. Perché quel dannato springer non è più tornato a casa?! Tuttavia non voleva crearle stress, preoccupazioni e brutti pensieri, ora che il male alla schiena le stava passando. «L’idea di andare a casa loro senza Riccardo mi mette a disagio» si limitò a dire. Alessandra lo guardò senza parlare. Non l’aveva bevuta. Aprì la bottiglia di aranciata e se ne versò un bicchiere. «Ne vuoi?». Lui scosse la testa. Deglutire liquidi freddi peggiorava il senso di oppressione alla gola. Nel recinto, Hugo lanciò un’abbaiata. Probabilmente aveva visto qualche tordo volare tra gli alberi. Avrebbe voluto puntarlo e permettergli di abbatterlo. Come faceva quando erano nei boschi. L'esplosione del colpo, l'impatto lontano, attutito, percepito in ritardo a causa della strada che doveva percorrere il suono, la preda che cadeva roteando fino a scomparire tra i rami, poi il frullare concitato delle zampe del cane che scattava a recuperare la selvaggina tra i rovi, nell'erba alta o nel sottobosco: quella era la rappresentazione che ogni cacciatore imparava ad amare. E ogni cane ben addestrato sapeva come renderla vera, facendo sì che la morte della preda non fosse futile, o sprecata. La morte non è mai un gioco, pensò lui. E il cane lo sa. Cani come Hugo, o Alì, lo sapevano. Espirò. La luce era scesa. Se voleva andare da Francesca ed essere di ritorno per cena, doveva muoversi. «Vado. Te la cavi?». Lei lo guardò. «Secondo te?». «Per le otto sono indietro». «Non ti ubriacare se ti offre dei bicchierini» lo ammonì lei, con il labbro inferiore in fuori. «E salutamela, che stia su. Andrà meglio. Noi ci siamo, per lei». «Lo sa». La casa dei Venturino era un cascinale ristrutturato, costruito in pietra del Finale, con alte finestre protette da imposte di legno dipinte di verde e un portico che girava attorno a metà della pianta quadrata dell’edificio. L’ingresso principale si affacciava su via Lamboglia, quello posteriore dava sul porticato dal quale si scendeva alle fasce passando per il cortile, dove si
23 trovava il box di Alì, ora deserto. Oltre, i boschi che si inerpicavano sulle pendici del monte Tolla. Quando Michele suonò il campanello, il cielo era arancione. Un vento tiepido scuoteva le cime degli alberi che fiancheggiavano la strada. Scirocco, pensò. Porta nuvole e sabbia. Tordi e beccacce in volo verso l’Africa. La porta si aprì. «Michele». «Francesca». «Sei passato». Si mise una mano nei capelli, come per verificare che fossero in ordine. «Hai fatto bene. Alessandra?». «Non è ancora in forma». Un bacio leggero sulla guancia. Insinuante, confusivo profumo di fiori e acqua marina e cielo, e in fondo, una nota persistente, boscosa, come di resina. «Entra». Una volta nel salotto, lei lo invitò ad accomodarsi sul divano, vicino alla stufa, spenta. La temperatura esterna di giorno ancora toccava i 20°, a Finalmarina almeno. A Calvisio, saranno stati 17°: ancora era presto per accendere la stufa di giorno, i muri delle case serbavano il caldo dell’estate e avrebbero continuato a restituirlo all’ambiente per almeno tre settimane ancora. La sera era un altro paio di maniche. Michele scelse la poltrona a destra del divano. In quel modo, avrebbe avuto Francesca sulla sinistra. «Grazie per essere passato. Che cosa bevi?». Lui esitò. «Non credo sia una buona idea» disse, incerto. C’era stato un periodo in cui Michele era un forte bevitore, oltre che un appassionato fumatore. Non un alcolizzato – non era arrivato a quel punto – ma ci era andato vicino, mettendo a rischio il suo lavoro e il rapporto con la sua famiglia. Al tempo, Michele e Alessandra erano sposati da dieci anni, e Serena andava per i tre. Michele ne era uscito soltanto dopo un ricovero in clinica, a cui aveva fatto seguito una completa disintossicazione. Dopo una decade in cui non aveva toccato alcol, quindi, aveva progressivamente reinserito il vino nella sua dieta e ora era un bevitore normale che si concedeva uno o due bicchieri la sera con la moglie, un liquore o un bianchino quando era al bar ma niente di più. Era come per le sigarette e Michele lo sapeva: non ne esci mai completamente, la scimmia è sempre dietro l’angolo, pronta a balzarti di nuovo sulla schiena. Con la differenza che ora, la scimmia, me la porto dentro, rifletté con amaro sarcasmo.
24 Si disse che commiserarsi non sarebbe servito a nulla. «Non sei più in servizio, no?» scherzò lei, con sul viso un’espressione indecifrabile. Michele annuì, pensieroso. «Da un bel po’». «Vedi? Che ti do? Un limoncello fatto in casa?». «Mah… prima di cena... non… lo fate ancora il vino?». La domanda giusta sarebbe stata se Riccardo ancora imbottigliava il vino, ma quel giorno era fuori luogo. «C’è quello dell’anno scorso. Quello nuovo, Riccardo lo avrebbe imbottigliato a novembre. Vedo se è rimasta qualche bottiglia, in cantina. Aspetta». Uscì. Michele sentì la porta che dalla cucina scendeva alla cantina aprirsi, quindi i passi di lei che scendevano la scala, poi silenzio. Lasciò vagare lo sguardo sui mobili di legno scuro, le tende color ocra attraverso le quali filtrava la luce del tardo pomeriggio (la casa di Francesca si trovava più in alto della loro e ancora il sole faceva capolino dal fianco della montagna), il tavolo rettangolare, la libreria sulla parete in fondo, lo spesso tagliere in legno incurvato con disegnati motivi floreali che campeggiava al centro del tavolo, le ante di vetro con i bicchieri, il lampadario tondo che un tempo aveva ospitato candele e ora alloggiava lampadine a basso consumo, il pianoforte verticale Petrof, nero, con il coperchio della tastiera alzato e uno spartito appoggiato sul leggio. L’ambiente era vivo, respirava. Tuttavia non c’erano foto, né alle pareti, né sui ripiani dei mobili. Soltanto alcuni quadri con dei paesaggi agresti. Nessuna foto di Francesca o di Riccardo. E nessuna abbaiata di Alì dal cortile. Da lì Michele poteva vedere l’interno del portico. La zanzariera era tirata e si distinguevano sulla superficie numerose minuscole macchie scure, in corrispondenza degli insetti che erano rimasti intrappolati nel meccanismo di avvolgimento. Che sorpresa dev’essere stata la morte, per loro, pensò con un moto di tristezza, invidiandoli un po’. Passarono un paio di minuti, quindi Francesca rientrò con una bottiglia di bianco senza etichetta. Gliela mostrò quindi sparì nuovamente in cucina e tornò con la bottiglia aperta e due bicchieri, di quelli bassi da osteria. «Ho finito il novello… che non sarebbe stato più novello, in ogni caso. Ho trovato del vermentino». Posò il tutto su un tavolino tra il divano e le poltrone. Quando si chinò, la camicia rivelò una porzione del suo seno e Michele distolse lo sguardo. «Ho dei crostini, aspetta». Lui avrebbe voluto dirle che andava bene così, ma era già sparita.
25 Prese la bottiglia e versò il vino. Era di colore ambrato, quasi arancio. Vermentino fermentato due volte, la prima in serbatoio di vinificazione di acciaio inox, e la seconda in botte. Riccardo non perdeva mai occasione per raccontare a Michele e a Stefano tutti i particolari del processo di vinificazione, fiero dei risultati. Francesca ricomparve con un vassoio di dolci, che posò vicino al resto. «Hai già versato. Bravo». «Salute. Al tuo uomo, che era un bravo cristo». Sollevarono i bicchieri, li toccarono e bevvero. La luce rossastra entrava dalla finestra e disegnava ombre sul volto di Francesca. Michele guardò di nuovo il pianoforte, e poi le mani di lei, segnate dal lavoro nelle fasce eppure delicate, con le dita corte e magre. «Suoni ancora?». «Meno di quanto vorrei. Ma avrò tempo per quello, in futuro. Sono sola, ora». «Non sei sola» ribatté lui. «Noi ci siamo». «Sai cosa voglio dire». Michele lo sapeva. «Hai la casa, le fasce, la terra…». Lei sorrise, amara. «Il negozio…». «Dovrò riprendere l’insegnamento a tempo pieno…». «Ma adesso, sei in aspettativa?». «Sì. Di nuovo». Aveva già usufruito dell’aspettativa nel periodo successivo all’aborto. Prima quello, ora la morte di Riccardo. «Prenditi il tempo necessario per sistemare tutto. Il lavoro non scappa». Lei lo fissò. Sistemare tutto. Nessuno parlò per qualche minuto. Alla fine lei ruppe il silenzio. «Perché non eravate con lui?». «Be’…». Michele avrebbe voluto risponderle che Riccardo non era più stato lo stesso, che sia lui sia Stefano avevano provato più volte a coinvolgerlo ma si erano scontrati con un muro di educato diniego e avevano deciso di aspettare che gli fosse passata. Entrambi sapevano che aveva a che fare con l’aborto di lei, e che non sarebbe passata tanto facilmente. Alcune cose, poi, non passano proprio. Dopo la mattina in Piemonte in cui era crollato, Riccardo non aveva più voluto affrontare l’argomento. Decise di farla breve. «Alessandra non stava bene e io avevo un impegno, nel pomeriggio». Non procrastinabile, fu tentato di aggiungere, rendendosi conto di quanto le sue parole fossero uno strumento spuntato, incapace di comunicare a Francesca quello che si agitava dentro di lui.
26 «Andavate sempre in tre». Michele si fece forza. «Sì, lo so, se ci fossimo stati sarebbe andata diversamente. Anche Stefano non si dà pace». «Non ve ne sto facendo una colpa, però… che sfortuna. Riccardo va a caccia da solo, mette il piede nel posto sbagliato e ci resta secco». Non c’era niente da dire. Era stata davvero sfortuna. Lei bevve un sorso. Indossava uno scialle grigio di lana a maglie larghe, che le scendeva lungo un fianco. «Sto pensando di dare via le sue cose. Sai, le cose della caccia». Michele annuì. «Credo che dovresti averle tu. Fucile, giubbotto, cartucce, tutto…». «Va bene» disse lui, che aveva preso in considerazione la possibilità di ereditare l’attrezzatura dell’amico. «Dovrai avvertire la Questura, che le ha già in consegna. Poi, andiamo là assieme a fare la dichiarazione». In genere la dichiarazione andava fatta nelle prime ventiquattr’ore dopo la morte del proprietario ma, considerando come era andata, Michele ritenne che i colleghi – ex colleghi, anzi – avrebbero chiuso un occhio. Altro silenzio, con i bicchieri che si svuotavano. «Non ha sparato» disse lei mettendo giù il suo. Lui la guardò. Un paio di riccioli castani erano sfuggiti al crocchio e le scendevano sugli occhi. «C’erano ancora le due cartucce…». «Pallini» disse lui senza pensare. «Munizione spezzata». Lei annuì. «Sì, quelle. Erano ancora nel fucile. E non aveva nulla nella cacciatora. Le munizioni c’erano ancora tutte». «Non aveva catturato niente». Il che non significava che non avesse sparato. Michele stava iniziando a farsi una sua idea in merito. Lei sollevò le sopracciglia. «Possibile?». «Possibile avesse ricaricato, in previsione di esplodere altri colpi. Quando passano gli sciammi, non si può sapere» spiegò lui in modo un po’ contorto. Gli “sciammi” sono gli stormi di tordi o beccacce, che migrano a fine ottobre. «Può essere che ne abbia visto uno mentre rientrava, abbia messo in mira di fretta, per non perderlo, e un piede gli sia scivolato in una fossetta del terreno». Lei fece un movimento con la mano come a dire: “ci avevo già pensato”. «Bonora ha formulato la stessa ipotesi». Dopo essersi fatto le ossa come sovrintendente nella squadra comandata da Michele, Andrea Bonora adesso era il braccio destro del commissario Acciai, all’Anticrimine di Savona. Con tutta probabilità, quando questi fosse andato in pensione, Bonora avrebbe preso il suo posto. Non era successo, quando ci era andato lui, perché allora Bonora non aveva ancora terminato gli studi di Giurisprudenza.
27 «Così è andata». Lui finì il suo bicchiere, deglutendo il liquido a fatica. Nessuno dei due aveva toccato i biscotti. «Poteva andare meglio». «Non c’è dubbio» mormorò lui, a disagio. «Un sacco di cose sarebbero dovute andare diversamente. Quei boschi devono avere addosso una maledizione». Lo guardò negli occhi mentre pronunciava quelle parole e Michele si sentì ancora più a disagio. Lo stava incolpando per non essere uscito a caccia con il marito? O si riferiva al figlio perso? In tal caso, i boschi, che c’entravano? Il vino gli aveva trasmesso un senso di calore, alleviando momentaneamente la pressione che sentiva in gola e che gli risaliva simile a fiammate lungo il palato fino al setto nasale. «Francesca, dimmi un po’» azzardò. Lei, che aveva distolto lo sguardo, sollevò la testa e lo fissò di nuovo. «Alì… ma dov’è?». Lei scosse la testa, senza distogliere gli occhi dai suoi. Lui aggiunse: «Nel senso: non è più tornato?». Francesca inspirò e buttò fuori l’aria. «Da quella mattina, non si è più visto». Possibile? La domanda che si era posta Francesca adesso riecheggiò nella mente di Michele. «Se n’è andato assieme a Riccardo» continuò lei a voce bassa. «È brutto non sentirlo più abbaiare, non averlo più intorno, la sera. Almeno lui mi avrebbe tenuto compagnia, ora che…» la voce le si ruppe, le spuntarono delle lacrime dagli occhi rossi. Vedendola piangere, Michele ripensò a una brutta litigata con sua figlia, pochi giorni prima che lei se ne andasse di casa. Un giorno era rientrato dal servizio in anticipo e aveva trovato Serena con un ragazzo più grande di lei. Stavano sul divano di casa sua e si baciavano. Lui teneva la mano sul seno di sua figlia e lo accarezzava. Niente di male, tra ragazzi, certo, ma allora aveva sbottato e aveva cacciato in malo modo il ragazzo, minacciandolo di querela se lo avesse beccato a ronzare ancora attorno a sua figlia; forse gli aveva addirittura citato l’articolo del codice penale che riguardava lo stalking. Non ci aveva visto più. Serena lo aveva fissato a bocca aperta, con tanto d’occhi, convinta di trovarsi al tempo dell’Inquisizione. Aveva ragione, ma lui aveva agito in buona fede, per proteggerla. Lei era minorenne, allora, doveva compiere i diciotto e il ragazzo ne aveva almeno venti, forse di più. Serena era scoppiata a piangere ed era corsa nella sua stanza. Quella era stata l’ultima volta che aveva visto sua figlia piangere. No, in realtà, quella era stata l’ultima volta che aveva visto sua figlia. Serena se
28 n’era andata di casa due mesi dopo, non appena divenuta maggiorenne, e non si era più fatta sentire. Niente da fare, sua figlia era sempre stata ribelle. «Michele? Ci sei?». Lui sorrise riconoscendo una delle domande con cui amava apostrofarlo sua moglie, quando lo vedeva perso in qualche elucubrazione o ricordo. «Non mangi i dolcini? Li ho fatti io».
29
CAPITOLO 3.
Michele affrettò il passo e quando imboccò il vialetto che attraversava il cortile di casa, aveva il respiro corto e il cuore che galoppava. Si trovò a lottare contro un offuscamento della vista e la testa che girava, considerando come ciò fosse accaduto sempre più spesso, nell’ultimo periodo. Con “ultimo periodo”, Michele intendeva la porzione di vita a partire dal giorno del suo pensionamento; la transizione dalla fase “attiva” a quella condizione di tempo sospeso aveva avuto l’effetto di un tornado sui suoi ritmi, per quanto lui come sempre avesse cercato di lasciar trasparire il meno possibile. All’interno di questo scenario si inscriveva l’altro grande spartiacque, ovvero l’incidente in cui Alessandra aveva rischiato di perdere completamente la mobilità agli arti inferiori. Era stato un brutto colpo, ma ne erano usciti, ed erano ancora insieme. Per trovare ulteriori esperienze alle quali avessero fatto seguito cambiamenti rilevanti bella vita di Michele, bisognava risalire nel passato sino alla morte dei suoi genitori, avvenuta a pochi mesi l’uno dall’altra, quando lui aveva trent’anni, alla nascita di sua figlia Serena, oggi ventiduenne, al suo matrimonio e, ancora prima, al suo ingresso in Polizia, avvenuto durante il terzo anno dei suoi studi universitari. Considerando la serie temporale di questi avvenimenti, Michele si riferiva spesso al presente come alla sua “settima età”. Mentre camminava, recuperando fiato e aggirando l’edificio per raggiungere il box con la cuccia di Hugo, visualizzò la sua vita come un ampio fiume dal corso regolare, con solamente un paio di rapide (il periodo della sua dipendenza dall’alcol e i mesi immediatamente successivi alla morte dei suoi genitori), una cascata (manco a farlo apposta, l’incidente d’auto), poche anse e una curva a gomito (il passaggio dal lavoro alla pensione, di cui si diceva più su); due differenti sorgenti, un unico grande affluente, e un emissario dal corso accidentato e tortuoso. Serena. Avremmo fatto meglio a chiamarla Diana, pensò. Diana, come la dea ribelle e selvaggia dei boschi, protettrice degli animali selvatici, irascibile, vendicativa, amante della solitudine e nemica di banchetti e luoghi affollati. Diana era praticamente il ritratto di sua figlia, negli aspetti più burrascosi e difficili da gestire. Ma Diana era anche portatrice di luce, secondo la
30 tradizione più antica. E Serena, per quanto difficile potesse essere il suo carattere, aveva portato la luce nella loro vita. Il raspare delle zampe di Hugo contro la rete si fece sentire, assieme agli uggiolii dell’animale che era rimasto rinchiuso tutto il giorno e non vedeva l’ora di ricevere qualche attenzione. In genere Michele portava il cane a camminare almeno un’ora, quando non era stagione di caccia. Quel giorno, con il funerale di Riccardo e la sua visita a Francesca, lo aveva trascurato; quando comparve davanti alla cuccia, Hugo si issò sulle zampe posteriori, appoggiando quelle anteriori al reticolato, con la lingua di fuori e la coda impazzita. Michele si infilò all’interno del box di rete metallica, facendo attenzione a che il cane non uscisse. Hugo gli salì subito sulle ginocchia. Michele gli porse il palmo e Hugo lo leccò. Lui gli scompigliò il pelo e lo grattò dietro alle orecchie. Lo springer reagì con una serie di uggiolii di gradimento. Michele sapeva che cosa gli stava chiedendo Hugo, ovvero di poter entrare in casa e dormire al caldo ma era impossibile: se il cane si fosse abituato al caldo, non avrebbe sviluppato il pelo invernale. Hugo era uno springer spaniel di taglia media, con la coda tagliata a 20 cm. Agli springer, la coda viene tagliata quando sono piccoli; con quella che gli restava era più che in grado di comunicare il suo apprezzamento, anche in termini sonori, sbattendola ripetutamente a terra, come in quel momento. «Devo andare dalla mamma, Hugo. Cerca di capire. Domani ti porto a camminare, promesso» gli disse, accarezzandolo e tenendogli il muso tra le mani. Se mi accadesse un incidente lungo i sentieri, che faresti? gli domandò mentalmente, conoscendo perfettamente la risposta: Hugo sarebbe tornato a casa e avrebbe attirato l’attenzione di qualcuno fino a che non si fosse deciso a seguirlo, quindi lo avrebbe condotto al luogo dove si trovava il suo padrone. «Torneresti qui, vero? Abbaieresti fino a far uscire di casa la mamma, o finché qualcuno non si accorgerebbe di te. Non ti perderesti mai nei boschi». Per tutta risposta, Hugo gli leccò la mano senza smettere di battere la coda a terra. Ricordò le parole di suo padre: “Uno springer è in grado di seguire un’orma a distanza di giorni. E torna sempre a casa”. Si alzò, lasciando il cane, che subito mugolò, lamentandosi. Sapeva che il padrone se ne stava andando, e che non lo avrebbe rivisto sino alla mattina seguente. «Se alle otto non sono a tavola, la mamma si arrabbia» spiegò. «È una femmina, Hugo. Dobbiamo portare pazienza» aggiunse subito dopo in tono di complicità. Michele non si vergognava di parlare a Hugo come se fosse
31 una persona; al contrario, era convinto che il cane, pur non comprendendo il senso delle sue parole, fosse in grado di identificare i suoi stati d’animo. Mentre usciva dal box, Hugo rimase a fissare a muso basso la porta che si richiuse. Michele sospirò e il suo stomaco brontolò, ricordandogli che non aveva mangiato praticamente nulla, a parte i dolcini di Francesca. In quel momento si fece sentire alta e squillante la voce di sua moglie che lo richiamava all’ordine, dando per scontato che fosse tornato e si trovasse in cortile. Più probabilmente, lo aveva intercettato da una delle finestre. «Arrivo!» le rispose. Malgrado le limitazioni di movimento, Alessandra non aveva rinunciato alla sua passione per la cucina. Dopo l’incidente si era reinventata come web designer, seguendo corsi online, studiando linguaggi di programmazione Java e HTML su manuali che pesavano quanto una carrettata di mattoni pieni, e aveva iniziato a lavorare da casa, su commissione. Quando tuttavia lasciava il computer e si spostava al tavolo della cucina, diventava un’altra persona. Un momento scriveva in Java un’animazione web da inserire in un sito di phishing, il momento seguente maneggiava la mezzaluna sminuzzando le cipolle genovesi per creare un delicato soffritto nel quale depositare i pezzi di guanciale sfiammati al vino bianco. Cosa che aveva fatto anche quella sera. «Ciao, poliziotto» lo accolse lei sorridendo. Non era sulla carrozzina, buon segno. Sedeva al tavolo, sul quale facevano bella mostra i bucatini fumanti, un piatto di affettati e uno di pomodori in insalata, una bottiglia di rossese e acqua microfiltrata. I pomodori provenivano dalle loro piante, che Michele coltivava facendosi aiutare da un agricoltore anziano ed esperto che veniva due o tre volte alla settimana per fare le dosi di concime, dare il rame e l’antiparassitario quando serviva. «Ciao, bionda». Si chinò a baciarle una guancia. «Stai meglio». Non era stata una domanda. Lei annuì. «Ancora viva». «Ci manca!». «Come va il tuo orecchio?». «Ancora svogliato». Qualcos’altro invece lavora senza sosta, amore. Il Vero e Unico Stacanovista della Morte Programmata. Michele sedette di fronte a lei e attaccò i bucatini, ignorando il senso di oppressione alla gola che gli inviava fitte nella testa fino agli occhi. «Buonissimi». Lei aggrottò le sopracciglia, sorridendo di sbieco. «Deduco che la vedova ti abbia tenuto a stecchetto».
32 «Mi ha offerto dei dolcini. Ne ho mangiati un paio, per educazione». «Immagino». Mangiarono in silenzio, senza che tra loro ci fosse imbarazzo, ciascuno assorto nei propri pensieri. Fuori, Hugo abbaiò un paio di volte alle macchine che passavano. «Sarà il caso di accendere?» Michele si riferiva alla stufa a legna. Lei si versò un bicchiere di vino e riempì anche quello di lui. «Raccontami, prima». «Che cosa?». «Francesca. Come sta?». «Ha accusato il colpo». «I colpi» lo corresse lei. «Già». «Prima l’aborto, poi Riccardo». Michele sospirò. «Ti ha detto quali sono le sue intenzioni?». «Non ha ancora deciso. Non ha l’indole per stare al banco della ferramenta, però». «Anche secondo me. Venderà». «Probabile. Mi ha offerto di prendere le cose di Riccardo. La sua attrezzatura per la caccia, intendo». «Tu la useresti, no?». «Certo». «Dovrete fare delle scartoffie, allora…». «La dichiarazione delle armi dai Carabinieri, o in Questura, andava fatta prima ma…». … ma il cane… dov’è il cane? Non finì la frase. Rimase in silenzio fino a che lei non lo riscosse dai suoi pensieri. «Amore, che c’è che non quadra?». «Eh?». «Non mi racconti tutto». Michele sospirò di nuovo. Scosse la testa. «No». Lei sollevò le sopracciglia, incassando la testa tra le spalle. «Quindi?». Lui si alzò e prese a camminare nella stanza. Raggiunse la stufa, aprì il cassetto della cenere e svuotò il contenitore nel raccoglitore da buttare nella compostiera quindi prese una manciata di legnetti da accensione ricavati da cassette sfasciate, li gettò nella stufa, aggiunse dei pezzi di cartone e accese. Il fuoco ci mise qualche secondo ad attecchire. «Allora…» disse lei spazientita. «Al freddo non si ragiona bene».
33 Attese che le fiamme divampassero, buttò ancora due pezzi di castagno, chiuse, ridusse l’afflusso di aria e tornò al tavolo. Ingollò un generoso sorso di rossese che si alleò con il vermentino bevuto da Francesca, aumentando il senso di ottundimento e l’illusione di distanza delle pulsazioni dolorose. «Il cane» disse cincischiando il bicchiere. «Quale cane?». «Alì». «Che ha?». «Non è più tornato». Alessandra inarcò le sopracciglia. «In che senso?». Lui posò il bicchiere mettendoci troppa forza. Controllò che non se ne fosse versato sulla tovaglia e parlò: «Nel senso che è sparito. Non è più tornato a casa, dopo quel pomeriggio». «Te lo ha detto lei?» domandò. Quindi aggiunse distrattamente, lanciando un’occhiata al bicchiere: «Fai piano, Mic». Lui spinse automaticamente il bicchiere di qualche centimetro verso il centro del tavolo. «No, già durante le ricerche era saltato fuori che il cane mancava. Non si era fatto vedere a casa, e non era nel bosco. Almeno, noi non lo abbiamo visto. Alì e Hugo sono usciti dalla stessa cucciolata. Così è uno, allo stesso modo è l’altro. Secondo te, se mi succedesse un incidente nei sentieri, Hugo che cosa farebbe?». Alessandra capì. «Tornerebbe qui». Michele batté una mano sul tavolo. «Certo che lo farebbe!». Quindi rincarò: «E anche Alì. Tuttavia, Alì non lo ha fatto». «Magari ha avuto un incidente anche lui». «Guarda, ti spiego: adesso è perfetto per la caccia di migratoria; la luna è stata piena ed è calante da una manciata di giorni. Gli uccelli ci vedono perfettamente di notte, e c’è anche tramontana: tordi e colombi arrivano e aspettano soltanto che gli spariamo. Le prime beccacce, anche. Giovedì scorso non era ancora così. Mettiamo ipotesi che Riccardo abbia avuto l’incidente di pomeriggio, dopo ore passate senza prendere niente. Se, mentre stava tornando a casa, incazzato e triste, avesse visto improvvisamente uno “sciammo” di tordi, o simile… potrebbe starci che, nella foga di mettere in mira il fucile e non farseli scappare, abbia infilato il piede in una fossetta e abbia perso l’equilibrio, no?». Alessandra annuì. «Immaginiamo che in quel momento avesse la doppietta in mano. Quale sarebbe il comportamento di un cacciatore esperto, in una situazione di quel tipo?». «Buttare via il fucile?» suggerì lei.
34 «Precisa. Infatti il fucile stava sopra al dirupo, sul sentiero, con tutti e due i colpi ancora in canna e la sicura inserita». «Mentre cadeva, ha inserito d’istinto la sicura, che si trova sul calcio, per non farsi scoppiare una gamba». «Esatto, poi è caduto, rotolando giù per il dirupo e ha battuto la testa». «E il cane lo ha seguito…». «Nel senso che è rimasto vicino a lui? Può essere. Ma… Hugo non avrebbe agito in quel modo se fossi stato io ad avere un incidente. Cioè, in un primo momento, sì. Poi… lo hai detto tu stessa: a un certo punto, vedendomi ferito, magari privo di sensi, sarebbe tornato a casa ad avvertirti. Avrebbe fatto in modo di attirare la tua attenzione o quella di qualcun altro, e non avrebbe smesso finché non fosse riuscito a portare qualcuno sul luogo». Lei inarcò di nuovo le sopracciglia. «È così che si comportano i cani?». «È così che si comporterebbe Hugo, e Alì è il suo fratellino». Lei sembrò impressionata dalle sue parole. «Credi che sia successo questo? Che Alì sia tornato a casa e abbia tentato di avvertire Francesca, non trovandola?». «Ecco… non so. Non quadra. Uno springer può avvertire l’orma di una selvaggina a chilometri di distanza, e seguirla anche molte ore dopo il passaggio. Difficile che non trovi il padrone. Ma il punto non è questo, ti ripeto: il cane è scomparso, da quel pomeriggio nessuno l’ha più visto». «Potrebbe essere stato attaccato da uno o più animali selvatici…» azzardò lei. «Sì, questo è possibile». Restarono in silenzio qualche minuto. La legna scoppiettava e nella stanza si andava diffondendo un piacevole tepore. Fuori, il vento di tramontana si incuneava nella valle. Michele ripensò alle sere in cui Serena era ancora adolescente. A volte passavano la serata a guardare la tv, altre volte Alessandra leggeva ad alta voce per lei e anche lui la ascoltava con piacere, oppure giocavano a carte o a qualche gioco da tavolo come Risiko o Monopoli. Grazie a Dio, sua figlia non era mai stata una fanatica del computer e dei giochi virtuali. Quella era stata una delle paure che Michele e Alessandra avevano condiviso nel periodo a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio, quando tutti i ragazzini parevano voler trascorrere la vita ipnotizzati davanti a una playstation, o gamepad o come diavolo si chiamavano quegli aggeggi. Loro due avevano fatto il possibile per insegnare a Serena ad amare i giochi all’aperto, la lettura, il cinema e la musica (tutte cose che Michele catalogava sotto all’etichetta di “vita reale”), ed era stato un sollievo vedere come i loro sforzi non fossero stati vanificati dal bombardamento mediatico cui la cosiddetta Generazione Y veniva sottoposta ventiquattr’ore al giorno. Questo, però, accadeva prima che lei iniziasse a isolarsi.
35 Prima delle bugie, delle sere in cui usciva di nascosto, di abbandonare il pianoforte in favore delle sigarette e delle notti in discoteca con i ragazzi più grandi… prima che Serena cambiasse. «Sai che cosa credo?» lo riscosse Alessandra, che nel frattempo si era sdoppiata. Lui strinse i pugni e si concentrò fino a che non riuscì a mettere a fuoco l’immagine della moglie, dall’altra parte del tavolo. Da due, le Alessandra tornarono una. «No. Scusa, dimmi. Pensavo a… ». A nostra figlia, che non sarebbe tornata a casa mercoledì, in occasione del compleanno di sua madre. Non lo disse. E a come da qualche tempo i miei occhi si divertano a sperimentare il miracolo dei pani e dei pesci su tutto quello che ho intorno, aggiunse mentalmente. «Pensavo che se un cane come Hugo può seguire l’orma di una lepre o di un cinghiale, può anche seguire l’orma di un altro cane. Sbaglio?». La lampadina si accese nella testa di Michele. «Assolutamente no. Non sbagli». Specialmente se i due animali sono fratellini di cucciolata e hanno cacciato insieme sin da piccoli. «Potresti provare a far seguire a Hugo l’orma di Alì, partendo dall’ultimo posto in cui è stato». «Il luogo dell’incidente di Riccardo». «Certo». Michele rifletté qualche istante. «Dovrei avere con me qualche oggetto di Alì». «Be’, io ti ho dato l’idea. Ora è il turno della bassa manovalanza» scherzò lei, liquidandolo con un gesto della mano. Lui non diede cenno di aver inteso lo scherzo. Le rotelline avevano iniziato a girare. Non posso andare da Francesca a ritirare le cose di Alì, considerò lui. Se è in qualche modo coinvolta nella morte di suo marito, quello sarebbe stato il modo migliore per metterla sul chi va là. Del resto, se stava dando via l’attrezzatura di Riccardo, presto avrebbe fatto lo stesso con gli oggetti del cane. Improvvisamente gli tornarono in mente le parole di lei al funerale. La poesia di Blake. Decise di domandare lumi a sua moglie. «Senti, al funerale Francesca ha citato dei versi di Blake che riguardavano un albero, e un frutto avvelenato…» «The poison tree, senza dubbio. È una delle sue preferite». «Ti ricordi mica come fa?». Alessandra indicò il computer, appoggiato sul mobile che ospitava anche la TV e il decoder di Sky. Era acceso, con lo schermo semi-abbassato. «Me lo passi, per piacere?».
36 Michele lo fece. Lei smanettò sui tasti quindi lo girò verso di lui. Sullo schermo c’era la poesia in questione, in inglese. Michele tentò di mettere a fuoco le parole ma quelle presero a girare e a ballare. «Puoi tradurla? Ho gli occhi stanchi». Lei lo fece, paziente, leggendo qua e là. Ricordava la poesia a memoria. «“Ero arrabbiato con il mio amico, gli raccontai la mia rabbia e questa si placò; ero arrabbiato con il mio nemico, me la tenni per me e la rabbia crebbe. L’ho innaffiata con la paura, giorno e notte con le mie lacrime e le ho dato il sole dei sorrisi e delle dolci, ingannevoli menzogne. Ed è cresciuta, giorno e notte, fino a generare una mela scintillante; il mio nemico la vide risplendere e seppe che era la mia. Si insinuò nel mio giardino dopo che la notte si era stesa nel cielo; nel mattino ora vedo con gioia il mio nemico steso morto sotto all’albero”». «Hmm. Una mela avvelenata. Come in Biancaneve. Ma più cattivella, direi» mormorò Michele. «Blake non usava mezzi termini. Un po’ come te». Alessandra rise. «Non è vero! So essere diplomatico, quando è il caso». «Ora non lo è» lo provocò lei con voce suadente. Lui la sollevò con delicatezza e la portò fino al letto, dove fecero l’amore. Dopo che Alessandra si fu addormentata, Michele restò sveglio qualche minuto a riordinare le idee, prima di lasciarsi scivolare nel sonno a sua volta: adesso sapeva come procedere.
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CAPITOLO 4. LUNEDÌ 23 OTTOBRE.
Se c’era una cosa che Michele non aveva dimenticato era come si fa un appostamento. Poliziotto una volta, poliziotto tutta la vita. Così si usava dire nell’ambiente. Lasciò la jeep lungo Vico Costa, un paio di centinaia di metri più in basso rispetto alla casa, in modo che la macchia di lecci e castagni tra l’edificio e la strada agisse da schermo, rendendola invisibile, una volta che fosse sorto il sole. Una sterrata collegava la strada alla casa passando per gli alberi. Proseguendo, ci si veniva a trovare su via Lamboglia, che metteva in comunicazione via Bedina con la Località Costa, dalla quale si dipartivano il sentiero Costa-Lacrêma e la Strada Costa-S. Bernardino; entrambi si addentravano nella vallata, il primo confluendo nella Strada per la Ruggetta all’altezza della Chiesa dei SS. Cornelio e Cipriano, la seconda immettendosi nella Strada per San Bernardino. Poco più in su si trovava la Fonte della Ruggetta, località frequentata dai cacciatori in quanto punto di transito per gli uccelli che migravano verso sud in autunno o che scendevano a fondo valle dalle zone di pastura per la notte. Tutto attorno c’erano i boschi dell’Appennino Ligure, impervi e impenetrabili, abbarbicati sul fianco della montagna con la cocciutaggine e la determinazione proprie delle creature che venivano al mondo in terra di Liguria. Il cielo era ancora buio, fatta eccezione per una tenue luminescenza rosata proveniente da sud-est, dove si trovava il mare. L’oriente vero e proprio era coperto dall’altro lato della vallata, che correva lungo la sinistra idrografica dello Sciusa. Michele percorse la sterrata nella quasi totale oscurità, senza aiutarsi con la torcia dello smartphone. Quello era un percorso che conosceva come le sue tasche; giocava in quei boschi fin da quando era bambino. Quando uscì allo scoperto, la facciata posteriore della casa, coperta dai ghirigori della vite canadese, emerse davanti a lui. Normalmente, Alì avrebbe percepito il suo avvicinarsi e si sarebbe rizzato contro il reticolo del box, con la lingua fuori e la coda in gran movimento, esattamente come aveva fatto Hugo il pomeriggio precedente. Ora invece il box era deserto e si confondeva tra le ombre. Si concentrò sulla casa.
38 Tutte le imposte erano chiuse. La tramontana muoveva piano le foglie, e il canto dei grilli era una tessitura assordante. D’inverno si sarebbe sentito il gorgogliare quieto delle acque dello Sciusa, che adesso era in secca. Trovò un punto, sul limitare della boscaglia, dal quale gli era possibile tenere d’occhio sia l’entrata della casa sia il cortile, quindi individuò un cespuglio di erica sufficientemente grande in prossimità di un tronco d’albero caduto, si rimboccò le maniche e si mise al lavoro. L’erica, o “brugo” nella parlata locale, si prestava ad accogliere nel suo intreccio rami di leccio, carpo o frassino, tutti alberi dalle foglie larghe, in grado di coprire e nascondere il cacciatore durante gli appostamenti. Michele si era portato da casa una cesoia e tagliò alcuni rami dai lecci, quindi li infilò nell’erica. Una volta che il rudimentale “capannino” fu pronto, sedette sul tronco caduto e si dispose ad aspettare. A ogni respiro, la tramontana fredda gli bruciava in gola, sul palato, nelle narici e dentro, nell’alveo segreto dove si consumava la battaglia con lo Stacanovista. Michele si sforzò di trarre respiri corti, regolari, misurati. Respirare troppo a fondo quell’aria avrebbe trasformato la sua gola in una sacca di chiodi arrugginiti. Attese, senza mai perdere d’occhio le finestre. Lentamente, il cielo, percorso da poche nubi simili a vascelli, rischiarò. La tramontana calò d’intensità e il sole iniziò a riscaldare l’aria, pur restando celato dietro alla montagna. Ogni tanto Michele individuava una pernice o una beccaccia e la seguiva prima con lo sguardo, quindi mettendo alla prova i propri sensi per vedere dopo quanto tempo non fosse stato più in grado di percepire la presenza dell’animale che si allontanava. Le sue orecchie e i suoi occhi non erano quelli di un cane da cerca ma erano allenati a riconoscere i movimenti della selvaggina tra gli alberi. Ciò che gli faceva drammaticamente difetto era l’olfatto di Hugo o di Alì, per non parlare dell’ipoacusia monolaterale che aveva aggredito il suo orecchio destro e che lo stava guidando verso una Sindrome da Sordità Unilaterale. Ma forse a tanto non sarebbe arrivato. Lo Stacanovista della Morte Programmata avrebbe portato a termine la sua opera prima che ciò accadesse. Il freddo gli stava penetrando nelle ossa. Michele si acquattò ancora di più al riparo del “capannino”. Quando andavano a caccia, capitava che lui, Riccardo e Stefano trascorressero ore nascosti dietro a una simile postazione, in attesa di vedere uno “sciammo” di tordi o beccacce. La maggior parte del tempo la passavano in silenzio, per non attirare l’attenzione della selvaggina, aspettando che i cani fiutassero un’orma. Altre volte, invece, prendevano a discutere di politica o attualità; più raramente, si scambiavano confidenze sulle questioni più personali.
39 La mattina in cui Riccardo aveva raccontato loro – a Michele e a Stefano – dell’aborto di Francesca si trovavano nei boschi vicino a Osiglia, a metà strada tra Liguria e Piemonte. Erano gli ultimi giorni di gennaio, la stagione stava per chiudersi, si trovavano in postazione da più di un’ora, faceva molto freddo (i Giorni della Merla erano dietro l’angolo) e niente si muoveva. La notte precedente, il terreno era ghiacciato e il fiato si condensava in nuvole grigie. Avevano già attinto alle fiaschette più volte, soprattutto Riccardo, che in quel periodo beveva parecchio. Avevano scelto quell’appostamento sperando che il freddo facesse scendere a valle qualche cinghiale in cerca di cibo, cosa che fino a quel momento non era accaduta. La caccia ai cinghiali ricadeva sotto norme estremamente rigorose, e in teoria in quel periodo sarebbe stata vietata, ma la Provincia aveva emesso un’ordinanza di proroga motivata dal fatto che durante il tempo regolamentare erano stati abbattuti molti meno capi rispetto a quelli previsti. Così loro tre avevano deciso di approfittarne, malgrado la temperatura. Nella caccia al cinghiale si esce in squadra e ogni squadra è identificata in base all’appartenenza territoriale e composta da una ventina di cacciatori, a ciascuno dei quali viene assegnato un capannino, che in questo caso si chiama “posta”. Le poste si trovano in genere nella parte alta della collina, vicino ai sentieri usati dagli animali per procacciarsi cibo o per spostarsi all’interno del bosco (le cosiddette “piste”), e sono a loro volta numerate o identificate da nomi. Prima della battuta, la squadra si divide in due: metà sta nelle poste e metà a fondovalle, con i cani, assieme al capocaccia. La comunicazione avviene via radio. Quando tutti sono posizionati, il capocaccia dà ordine di liberare i cani e questi spingono la selvaggina verso i cacciatori nelle poste. Alla fine della giornata ogni squadra denuncia all'Ambito Territoriale di Caccia (ATC) il numero dei capi uccisi. Quella mattina, Stefano, Riccardo e Michele si trovavano nella stessa posta, la prima che avevano raggiunto delle tre a loro assegnate. Avevano l’abitudine di fermarsi a condividere un sorso di grappa prima di raggiungere ciascuno la propria posizione e si stavano dedicando a quel rituale quando, a un tratto, Riccardo, che aveva già attinto dalla fiaschetta più volte, aveva esordito dicendo: «Voi che cosa fareste, se vostro figlio morisse prima di venire al mondo?». Michele si era voltato verso di lui, non sicuro di avere sentito bene. «Eh?!». «Se vostro figlio morisse mentre è ancora nella pancia di vostra moglie. Se non venisse mai al mondo! E se voi ne foste responsabili…». Entrambi si erano trovati imbarazzati, di fronte a quella domanda. Che diavolo dovrebbe fare una persona in quelle situazioni? E perché Riccardo
40 ne stava parlando proprio a loro? Fu Stefano a intuire la verità, per primo. Gli posò una mano sulla spalla e gli domandò con voce pacata se fosse accaduto una simile sventura a Francesca. Riccardo allora aveva raccontato del malore che aveva provocato l’interruzione di gravidanza di Francesca, due settimane prima, una sera in cui lui era fuori Finale. Aveva parlato e pianto insieme, e bevuto grappa fino a ubriacarsi. Loro avevano cercato di consolarlo, di spiegargli come non fosse responsabile dell’accaduto, ma di fronte al suo dolore, cieco, rabbioso e motivato da un senso di colpa così oscuro, incomprensibile e definitivo, non c’era molto da dire. Avevano spento le radio ricetrasmittenti, e atteso la fine della battuta senza sparare a niente quindi erano rientrati, Riccardo un peso morto sul sedile del furgone. La stagione si era chiusa pochi giorni più tardi (come anche la proroga per la caccia ai cinghiali) e quella era stata una delle ultime volte che erano usciti in battuta tutti e tre assieme. Durante la primavera e l’estate si erano visti sempre meno e, quando la stagione si era riaperta, l’ultima settimana di settembre, Stefano e Michele avevano provato a coinvolgere Riccardo nelle prime battute, ma l’uomo si era tenuto sul vago, svicolando senza mai prendere impegni. Alla fine avevano smesso di chiamarlo. La passione per la caccia non ti era passata, però, se hai deciso di uscire in battuta da solo, considerò ora Michele. Forse il problema eravamo noi. Ti vergognavi delle confidenze di cui ci avevi messo a parte? Quale che fosse stato il motivo, uscire da solo non era stata una buona idea. Non lo era mai. Una delle ragioni per cui si esce sempre in gruppo è che se ti succede un inconveniente, gli altri accorrono in tuo aiuto. Gli animali che abbandonano il branco, o perché sono anziani o perché ripudiati, invariabilmente finiscono per soccombere. Il box di Alì era sempre vuoto, nel suo angolo del cortile. La luce del giorno delineò i contorni degli oggetti che conteneva: la cuccia con la tettoia in alto a proteggerla dalla pioggia, le due ciotole – quella del cibo e quella dell’acqua –, le scarpe vecchie di Riccardo con cui Alì giocava da piccolo, lo straccio di pile a quadretti che un tempo doveva essere stato rosso e blu con il quale Riccardo asciugava il cane di ritorno dalla caccia. Lo straccio era il suo obiettivo. Aveva addosso l’odore del cane più di tutti gli altri oggetti che si trovavano nel box. Si voltò verso la casa. Qualcuno stava canticchiando. Una voce di donna. Una finestra al primo piano aveva le imposte aperte. Incorniciata dalle persiane, Francesca sbatteva dei tappeti, intonando un motivetto. La sua voce arrivava cristallina e sottile; sotto si percepiva l’accompagnamento di
41 una batteria e altri strumenti. La musica proveniva dallo stereo acceso a basso volume all’interno della stanza. Michele poté vedere le nuvolette di polvere irradiarsi dal tessuto ogni volta che lei sbatteva i tappeti, sempre meno intense man mano che questi rilasciavano nell’aria tersa il loro contenuto, accumulatosi negli ultimi giorni in cui nessuno aveva badato alla casa. La figura scomparve nuovamente. La musica continuò a uscire. Michele si acquattò, aspettando che lei ricomparisse. Non accadde. Qualche minuto dopo, le imposte si richiusero e la musica cessò. Che fare? Forse lei sarebbe scesa a fare colazione e per un’ora non sarebbe accaduto nulla, o magari si sarebbe diretta verso le fasce e lui si sarebbe venuto a trovare nel bel mezzo del percorso, costretto a una ritirata rapida e maldestra. Che cosa le avrebbe detto? Passavo di qua, e ho pensato di infrattarmi tra gli arbusti attorno a casa tua? L’istinto gli suggerì di rimanere in postazione. Se ieri stava inscatolando le cose di Riccardo, oggi magari si occuperà di quelle del cane. Troppo facile. Tutto lineare, prevedibile, razionale. Ma Francesca era una persona lineare, prevedibile, razionale. Salvo che potrebbe aver ucciso suo marito. Come, non era dato sapere, dato che la morte di Riccardo era stata per tutti un incidente. Il movente era l’elemento chiave di ogni indagine per omicidio. Oltre alle evidenze sulla vittima, ovviamente. Qui mancavano entrambe le cose. Michele ricordò suo nonno, Luigi Carraro, argomentare con voce rotta dalle sigarette: “Se il cuore di un uomo è fatto di un terreno roccioso, quello di una donna è attraversato dalle sabbie mobili. Ti ci perdi dentro, finisci sotto prima ancora di essertene reso conto”. Dietro alla voce, l’immagine sfocata di un promontorio (ma forse non era un promontorio, bensì una radura tra gli alberi – Michele non lo sapeva), e colori: il cielo blu dell’estate, il rosso del sangue, il grigio della pietra; un’altra voce, diversa da quella di suo nonno, che sussurrava, istigava, sfidava… e di nuovo la consistenza carnosa di petali viola, assieme a un profumo avvolgente, armonioso e ricco, con una nota di testa acquatica, un cuore floreale e un fondo di resina – un profumo che nella sua mente associava a Francesca Venturino. Allucinazioni? Ricordi? Forse le prime. Le allucinazioni percettive e le sensazioni di jamais vu fanno parte del pacchetto... La porta che dava sul portico si aprì. La zanzariera scivolò sul meccanismo di avvolgimento e si fermò a fine corsa con uno schiocco netto per poi
42 richiudersi quando Francesca ne fu uscita, con addosso un giubbetto marrone di pelle sopra a una casacca leggera azzurra e un paio di jeans, blu scuro. Non era abbigliamento da fasce né da casa. Avrebbe preso il pick-up e sarebbe scesa a Finale. Se così fosse stato, sarebbe dovuto tornare rapidamente alla jeep in modo da precederla e, una volta raggiunto il centro abitato, lasciarsi superare e seguirla. Provò l’impulso, sotto forma di scossa alle gambe e aumento dei battiti cardiaci, di muoversi ma, ancora una volta, fu la voce del vecchio Carraro Senior, come lo chiamava suo padre, a bloccarlo: “Dai tempo al tempo, ragazzo: non affrettare le tue azioni. Se ci sarà bisogno di fare una corsa, lo saprai un attimo prima di quando sarà tardi”. Osservò Francesca girare attorno alla casa, ricomparire con qualcosa di nero in mano e dirigersi verso il cortile. L’oggetto era simile a una coperta, si muoveva nel vento, oscillando e cambiando forma fin quasi a toccare i piedi di lei che camminava. Qualcos’altro che aveva in mano, invece, scintillava. La figura si stagliò più netta quando arrivò a metà del cortile, all’altezza del box del cane, e Michele vide ciò che teneva in mano: dei sacchi neri, di quelli che si usavano per i rifiuti. Si era portata i sacchi per raccogliere le cose di Alì, e buttarle via. E una cesoia, per fare a pezzi il reticolato. Esultò silenziosamente. Ci aveva azzeccato. Infatti, la donna entrò nel box, infilò nei sacchi le ciotole, la palla, le scarpe, i pupazzetti di gomma, quindi smontò la cuccia, che era un modello prefabbricato, e infilò le parti separate in altrettanti sacchi, quindi raccolse gli stracci con i quali il marito asciugava il cane, gettò anche quelli in un sacco, e portò fuori il tutto, depositandolo sulla ghiaia del cortile. Raccolse la cesoia e si dispose pazientemente a tagliare il reticolo in quadrati che avrebbero potuto essere piegati, legati e infilati a loro volta dentro a dei sacchi. Le ci volle un po’ per svellere e tagliare tutto il reticolo. Nel frattempo, il sole aveva guadagnato il centro dell’orizzonte, mantenendosi su un asse inclinato che era quello tipico di fine ottobre. Un sole già lontano, considerò Michele. Ma il cielo era di un azzurro che sconfinava nel blu, una treccia di nubi scivolava verso le montagne, e la temperatura si stava alzando. Francesca, che si era liberata del giubbotto, si interruppe più volte per asciugarsi il sudore con il braccio prima e poi con un fazzoletto che teneva nell’orlo dei jeans. A Michele parve di sentire l’odore floreale e speziato di lei, anche a venti metri di distanza. Ovviamente era un’illusione percettiva della sua mente. E poi, il vento soffiava dalla parte opposta.
43 Tuttavia, lui continuò a sentire quell’odore, in qualche parte della sua testa, e vi si perse. (di nuovo) … attraversato dalle sabbie mobili… (che aspetti?!) Quando lei ebbe finito di tagliare il reticolo, infilò i guanti da giardinaggio che aveva tenuto in una delle tasche dei jeans, e iniziò ad arrotolare i quadrati, legandoli poi con qualcosa che assomigliava a nylon, o fil di ferro. Michele era troppo lontano per riuscire a vedere con chiarezza. Un decennio fa avevi undici decimi, considerò. Si immaginò con dei pesanti occhiali da lettura poggiati sul naso, leggere un libro davanti al fuoco, con occhiaie profonde e i capelli ancora più bianchi e radi di quanto già non fossero. La sua “ottava età”. Sai bene che non accadrà. Poi si disse: Que sera, sera. Una delle sue canzoni preferite. Doris Day in quel film di Hitchcock. Il teatro, il bimbo prigioniero e il suo canto che veniva coperto dal fischio di lui, e tutto finiva bene. Michele amava gli happy end nel cinema classico, l’Hitchcock degli anni Cinquanta – non quello cupo e violento di Psyco, Gli uccelli, Frenzy – su tutti. La vita era un altro paio di maniche. Proprio per questo, amava il cinema. Quando Francesca iniziò a caricare i sacchi sul pick-up, si mosse per tornare alla jeep. Un attimo prima di quando sarà tardi. ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD