In uscita il 29/1/2016 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine febbraio e inizio marzo 2016 ( ,99 euro)
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ROBERTA MANZONI
STORIA DELLE 3 A
AMICIZIA, AFFETTO E AMORE (FORSE)
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STORIA DELLE 3 A Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-951-7 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Gennaio 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Anche se ogni riferimento a cose, luoghi e persone è puramente casuale e frutto della mia fantasia, chiedo venia per alcune battute e considerazioni che sono state “trafugate” a persone speciali e meravigliose, incontrate nel corso degli anni. Senza i bellissimi momenti trascorsi con loro, nessuna ispirazione avrebbe riempito queste pagine. Spero mi perdonino per questa “rapina a tasto armato”, ma ringrazio tutti di cuore. Un grazie speciale alla mia twin.
Ti indicherò un filtro amoroso senza veleni. Senza erbe, senza formule magiche: se vuoi essere amato, ama. Seneca
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PROLOGO Un diplomatico è una persona che si ricorda sempre del compleanno di una donna, ma non si ricorda mai della sua età. Robert Lee Frost
GABRIELE “Ho lo stomaco sottosopra, le mani umidicce, il cuore a mille e mi sento un pirla. La chiamo o non la chiamo? Ma sì, dai, la chiamo. La scusa per sentirla è buona o quantomeno credibile. Intanto sondo com’è la situazione e se capisco che non va, batto in ritirata… ma spero proprio di no…”. *** Avverto una vibrazione all’altezza della costola destra e dopo qualche secondo riconosco la suoneria del mio cellulare. Lo cerco trafelata: «Dove sei? Un momento, arrivo! Che palle, non lo trovo…». Quale donna non ha mai pronunciato queste frasi quando sente suonare il cellulare nella borsa e lo cerca in una corsa contro il tempo per recuperarlo prima che smetta di angosciarti? Qualche volta arriviamo ad afferrarlo troppo tardi, oppure lo spegniamo mentre tastiamo alla cieca tra mille altre cose: portafoglio, portadocumenti, portamonete, portasigarette, pochette dei trucchi, chiavi di casa, chiavi della macchina, chewing gum in scatola, caramelle, fazzoletti, penne, vecchi scontrini e un minuscolo vasetto di Nutella (non si sa mai che ci venga un calo di zuccheri o qualche altra voglia da soddisfare). Trovo finalmente il cellulare e lo tengo in mano come fosse un cristallo di Lalique, per paura di schiacciare il tasto sbagliato, ma avendo il sole alle spalle non riesco a leggere il display. «Ti offendi se ti faccio gli auguri per il tuo compleanno?» mi chiede una voce che fatico a riconoscere perché sto camminando in una strada molto trafficata. «Chi parla?» «Ciao, scusa, sono Gabriele». «Ciao, ma che sorpresa. È successo qualcosa a scuola?»
8 «No, no. Ti avevo detto che avrei usato il tuo numero di telefono solo per validi motivi, e oggi è un motivo validissimo direi». Dal tono di voce, capisco che sta sorridendo. «L’altro giorno, nella pausa del Consiglio di classe, tu e la Chiusi parlavate di compleanni: lei li ha compiuti da poco, la Zampelotti il 7, la Pirelli il 9, la Bianchi l’11 e tu hai detto che li avresti compiuti il 16, quindi eccomi qui con gli auguri». «È vero! Stavamo facendo caso al fatto che era un Consiglio di classe sotto il segno del Capricorno. Ricordo che abbiamo chiesto a tutti le date di nascita e, adesso che ci penso, anche tu li compi a Gennaio… il 18, vero?» «Sì, dopodomani, ma alla cena che avete organizzato io non vengo: siete tutte donne». «Ma dai vieni, ti divertirai. Immagini che spasso? Saresti il più coccolato». «Vedremo…». E dopo un attimo di esitazione aggiunge: «Ok, ti lascio alle tue cose. Ancora tanti auguri. Ci vediamo a scuola, ciao». Lo saluto e mi rendo conto che sto sorridendo. “Oddio, che figata, mi ha chiamata!”. Mi ha davvero fatto piacere ricevere la sua telefonata, non me l’aspettavo, ma sotto sotto ci speravo tanto. “Magari ha fatto gli auguri anche alle altre colleghe come gesto di cortesia” penso tra me e me, rattristandomi un po’. Gabriele e Don Franco sono gli unici uomini del nostro corso: più o meno stessa stazza, ma lui molto più attraente del professore di religione. Questo succedeva il 16 gennaio di quattro anni fa.
PARTE PRIMA
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CAPITOLO UNO A te che cambi tutti i giorni e resti sempre la stessa… A te – Jovanotti
Ma andiamo per ordine. Mi chiamo Paola, ho quarantadue anni, occhi verde scuro che si schiariscono con la luce del sole, capelli color cenere al chiaro di luna, setosi, lisci e lunghi fino alle spalle, un metro e ottantadue d’altezza per cinquantasei chili ben distribuiti (tranne sul décolleté, ma meno male che esistono i push-up). Nel fisico assomiglio a Uma Thurman, con lunghe gambe proporzionate al tronco e, nonostante l’altezza ci porti ad avere un corpo vagamente androgino, a tratti spigoloso, riusciamo a essere comunque sexy e sensuali. Lei molto più di me, lo ammetto, ed è per questo motivo che rispondo: «La Uma dei poveri» a chi mi dice che la ricordo. Sono single, ma ho un matrimonio fallito alle spalle. Avevo ventun anni e Bruno ventidue: è stato un errore di gioventù. Ci siamo sposati contro il parere dei genitori, ma eravamo indipendenti perché entrambi lavoravamo per mantenerci all’università e, soprattutto, eravamo innamorati e pazzi come puoi esserlo solo a quell’età, quando credi di essere invincibile e sei convinto che tutto andrà per il meglio. Invece dopo due anni di liti, tradimenti e pianti (si è divertito molto con le sue compagne di università) ho detto basta. Ho raccolto i cocci del mio cuore infranto, l’ho cacciato di casa e mi sono detta: “Basta soffrire per un uomo”. Gli avvocati hanno solo messo un punto legale a un matrimonio terminato già da un po’. Per fortuna non avevamo figli. A dire il vero, ero rimasta incinta quando già le cose tra me e lui non andavano tanto bene, e ho perso il bambino alla dodicesima settimana. Ho sofferto molto perché desideravo costruire una famiglia, ma lui non era della stessa idea: ha cercato in tutti i modi di convincermi ad abortire, adducendo il fatto che eravamo troppo giovani, non ancora laureati, e un figlio avrebbe ritardato tutti i nostri progetti. Quando l’ho perso per cause naturali non era dispiaciuto quanto me, anzi, è andato a festeggiare con una sua compagna di corso.
12 Con il tempo ho capito che è stato meglio così. Colpa mia? Colpa sua? La colpa sta sempre nel mezzo. Forse eravamo troppo giovani, ingenui e immaturi. È stata comunque una lezione di vita che mi ha insegnato ad andare con i piedi di piombo con gli uomini: mantenere le distanze, mettere i paletti nelle relazioni, concedersi ma mai del tutto. Insomma diventare un uomo mentalmente. Dall’anno scorso sono di ruolo, finalmente, nella Scuola Media di un rione vicino a casa e amo il mio lavoro. *** A settembre di quattro anni fa, al primo collegio docenti, quello dove gli insegnanti devono essere tutti presenti, cercai un angolo appartato dell’aula magna, perché da lì potevo osservare i nuovi colleghi sorniona come un gatto. Sono fatta così: non mi butto subito con le persone, prima osservo e poi, come dicono le mie amiche, eventualmente mi concedo agli altri. La prima impressione che do è di una persona schiva, altezzosa, severa, e il mio comportamento risulta un po’ snob, ma non è così. Non esamino né giudico nessuno e, al di là delle apparenze, sono timida all’inizio di ogni rapporto. Poi con il tempo mi lascio andare e risulto una persona simpatica e aperta (almeno così si dice). Dunque, mi ero seduta nella mia posizione strategica e avevo iniziato a osservare la platea. Molti hanno scritto in fronte la materia che insegnano, altri invece traggono in inganno. Le colleghe di lettere, in genere hanno un’agenda aperta sulle gambe per prendere appunti con una calligrafia ordinata; le colleghe di matematica di solito sono quelle che hanno lo sguardo perso, non perché non ascoltino, ma perché mentalmente sono già avanti; gli insegnanti di musica, invece, ascoltano il discorso del Preside segnando il ritmo con il piede, o tamburellando la penna sulla gamba; le colleghe di artistica in genere stanno attente all’accostamento dei colori dell’abbigliamento e disegnano la caricatura del vicino; gli insegnanti di educazione fisica di solito indossano la tuta, e infine ci siamo noi di lingue. Chi insegna francese ha una postura più eretta ed è ricercata nel vestire; chi insegna tedesco ha uno sguardo severo; chi insegna inglese, in genere, è anglosassone anche nel modo di porsi: sorridente e un po’ scazzato. Io, avendo insegnato sia inglese sia francese, sono una via di mezzo: nel vestirmi sono attenta al particolare, ma mi capita di sedermi con la gamba ripiegata sotto di me anche in un collegio docenti.
13 Questa è, a mio avviso, più o meno la tipologia degli insegnanti, e quindi anche quattro anni fa, dopo averli osservati con attenzione, li avevo già individuati quasi tutti. A un certo punto mi accorsi che, dalla parte opposta alla mia dell’Aula Magna, c’era un tizio in jeans e camicia seduto con il busto in avanti, i gomiti appoggiati alle ginocchia. Mentre si mangiava le unghie faceva il lavoro che facevo io: osservava e mi osservava. Non riuscivo a inquadrarlo, ad appioppargli una materia, ma pensai potesse essere un insegnante di sostegno o di tecnologia (sono quelli che spesso mi traggono in inganno). In tutti i casi, il Preside presentò i nuovi insegnanti dei vari corsi, tra cui me nel corso M, e anche lui, il professor Pollini, docente supplente della professoressa Dragoni, a casa per congedo di maternità. Ci spiegò perché avrebbe avuto la cattedra solo per nove ore, ma non lo ascoltavo più: ero rimasta scioccata dal fatto che fosse insegnante di educazione fisica. Non l’avrei mai detto: sulla quarantina, alto all’incirca un metro e novanta (essendo alta anch’io, noto senza grosse difficoltà le persone di una certa altezza anche da sedute), fisico non troppo asciutto (si intravedeva un po’ di pancetta sotto la camicia, anche se rimborsata), una bella faccia piena, la mascella importante, la barba fresca di barbiere, capelli neri rasati sulla nuca e lasciati più lunghi sul capo con un ciuffo ribelle sulla fronte, sguardo severo, attento, supportato da occhi marrone scuro che sembrarono trafiggermi quando si posarono su di me. Nell’insieme un bel tipo, ma non il mio tipo, soprattutto perché, come avrei scoperto in seguito, era sposato. Finito il collegio docenti, il Preside invitò gli insegnanti di ogni corso a fare una riunione, in modo che tutti si potessero conoscere meglio, ma soprattutto perché ogni coordinatrice avrebbe esposto brevemente i casi più gravi. Mi ritrovai seduta vicino a lui, forse perché eravamo gli unici insegnanti nuovi del corso M. Dopo le presentazioni di rito, la coordinatrice ci passò un foglio su cui scrivere il numero di cellulare, per poter essere contattati subito in caso di necessità. Mi sentivo osservata mentre scrivevo il mio numero sul foglio di fianco al mio nome, e con la coda dell’occhio mi accorsi che lui stava fissando la mia mano che scriveva. Nel passargli il foglio, sorrisi e gli dissi: «Speriamo non capiti nelle mani dei ragazzi, altrimenti è la fine. Comincerebbero a tartassarci di sms». E sottovoce aggiunsi: «Non mi piace dare in giro il mio numero». Lui, sfiorandomi le dita nel prendere il foglio, mi si avvicinò e a bassa voce disse, in tono un po’ scontroso: «Tranquilla, lo userò solo per validi motivi». Più che le sue parole sentii il suo profumo: sapeva di ammorbidente, di una
14 marca che non conoscevo, sapeva di buono, di pulito, di borotalco, e notai la sua camicia stirata alla perfezione: sembrava appena uscita dalla lavanderia. «Come mai fai solo nove ore?» gli chiesi allontanandomi per distogliere l’olfatto. «Insegnare educazione fisica è il mio secondo lavoro. Ho uno studio in centro: sono architetto. Mi sono dovuto laureare in Architettura obbligato da mio padre, da cui ho ereditato lo studio, ma la mia passione è sempre stata l’Isef, e appena ho terminato la prima laurea ho preso la seconda: studiavo e lavoravo. Non è stato facile, ma ce l’ho fatta. Quindi accetto solo incarichi nelle scuole che hanno gli spezzoni. Non mi va sempre bene, ma quest’anno le nove ore sono perfette perché mi occupano solo due mattine e un pomeriggio, così riesco a organizzarmi con lo studio. E tu, insegni francese o inglese?» Mentre mi raccontava di sé, notai che aveva il vizio di toccarsi la nuca rasata con la mano sinistra, e così capii dalla fede che era sposato. «Quest’anno insegno inglese e ne sono contenta, ma ammetto che preferisco insegnare francese. A dire la verità, non importa la materia, l’importante è insegnare, mi piace regalare qualcosa del mio sapere. Lo reputo un cadeau che faccio ai ragazzi, così come considero un regalo ciò che ho imparato a mia volta quando andavo a scuola». «Interessante il tuo pensiero, spiegamelo bene…» mi disse, ma non feci in tempo a rispondergli perché la coordinatrice ci richiamò al silenzio, quasi fossimo due alunni un po’ indisciplinati. Mentre uscivamo da scuola mi chiese se potevo spiegargli la teoria del cadeau davanti a un caffè. Non avevo niente di particolare da fare e accettai. Andammo in un bar vicino alla scuola, un locale molto piccolo ma pulito, con un solo tavolino e due sedie in un angolo un po’ ristretto e iniziai a raccontargli di me. Lo stupii dicendo che avevo studiato in un collegio svizzero gestito da suore. Il collegio si trovava a Losanna, la Perla del lago di Ginevra: posto incantevole, emozionante dal punto di vista paesaggistico, ma io l’avevo vissuto come una prigione. Ho apprezzato quello che ho imparato a scuola solo con il tempo, perché gli anni trascorsi in quel collegio, obbligata dai miei genitori che rivedevo solo durante le vacanze di Natale e quelle estive, per me erano stati un supplizio, un esilio nel posto più brutto al mondo. Ma studiare in Svizzera era una tradizione di famiglia da parte di mia madre, e io, povera tapina, avevo dovuto piegarmi al suo volere. È stato difficile per una ragazza un po’ ribelle come me accettare la rigida disciplina imposta dal regolamento inflessibile, che mi faceva sentire diversa dalle amiche che avevo lasciato in Italia, con le quali avevo lunghi scambi
15 epistolari e che studiavano nelle scuole pubbliche. Mi raccontavano le loro esperienze di classi miste, di scioperi, di professori che entravano in classe con il giornale sotto al braccio e, dopo aver spiegato la lezione per dieci minuti, si mettevano comodi, a leggere nella più totale anarchia. Nei miei lunghi anni al collegio ho invidiato la loro vita così diversa dalla mia, ma con il tempo ho capito che forse, proprio per il rigore che veniva chiesto persino agli insegnanti, tutti eravamo spronati a dare il massimo. Devo ringraziare suor AnnaMaria, una donna meravigliosa che quando parlava incantava, catturando l’attenzione anche delle ragazze più svogliate. Quando spiegava un autore era come se ci portasse a casa sua, nel suo mondo, e vivevamo con lui la sua vita e la sua storia. Beaudelaire ed Eliott erano i nostri amici di ventura nei momenti tristi e desolati; Jean Jacques Rousseau era divenuto nostro padre per i suoi precetti; Antoine de Saint Exupéry l’uomo con cui sposarsi, perché un uomo che scrive un libro come Il Piccolo Principe si può solo sposare. Oppure ci trovavamo ai banchetti pantagruelici con Gargantua, o sulla nave con il capitano Achab in attesa di avvistare Moby Dick, o eravamo tutte Giuliette e soffrivamo le pene per un amore impossibile. Suor AnnaMaria amava citare una poesia di Wordsworth, in cui il poeta esorta il lettore a diventare anime viventi per poter vedere dentro la vita delle cose. Il desiderio di Suor Anna era farci diventare anime che riuscissero ad andare al di là delle apparenze, anime che fossero in grado di percepire l’essenza delle cose, la loro vita più intima, il loro mistero. Ci insegnava ad ascoltare non solo con le orecchie, ma soprattutto con il cuore; desiderava che stessimo attente alle sfumature del significato delle parole, che ci lasciassimo trasportare dalle sensazioni che provavamo, qualunque esse fossero, senza reprimerle di fronte ad argomenti che potevano non interessarci. Ci preparava a non chiudere mai la mente in seno ai problemi che avremmo incontrato nei nostri studi e nella vita. Aveva una capacità di espressione e una dialettica uniche, ma soprattutto metteva passione in quello che faceva e iniziava sempre una nuova lezione dicendo: «Siete pronte ragazze? Oggi si va a bere un caffè con…» e pronunciava, come se fosse un suo caro amico, il nome dell’autore che ci avrebbe spiegato. Gabriele mi lasciò parlare senza interrompermi, senza porre domande. Mi ascoltava attento, ogni tanto sorrideva delle mie parole, poi tornava serio. Mi fissava il viso, poi portava lo sguardo sulle mie mani che giocavano con un pezzo di carta, e poi di nuovo puntava i suoi occhi nei miei. «Sembra una frase fatta, ma è la passione che metti in ciò che fai che ti permette di trasmettere il tuo entusiasmo, e anche se ci sono giorni in cui sei
16 stanco, stufo, scoraggiato e non vedi via d’uscita, non devi mollare. I ragazzi sentono se ci sai fare, e sono spietati perché ti mettono alla prova... sei sempre sotto esame con loro». Stava per dire qualcosa, ma gli suonò il cellulare e, mentre rispondeva, guardai l’orologio: era passata un’ora e mezza da quando eravamo entrati nel bar e non mi ero accorta di quanto si fosse fatto tardi, non tanto per me quanto per lui. Capii che a chiamarlo era la moglie quando disse: «Torno a casa tra un’ora. A dopo, ciao». «Scusa, mi sono dilungata troppo» gli dissi sorridendo, perché mi sentivo davvero in colpa per averlo trattenuto così tanto a parlare di me. «Non c’è problema Paola, il tempo è volato, mi piace ascoltarti mentre parli. La tua suora ti ha regalato non solo il suo sapere, ma anche la sua oratoria. Sei brava, anche tu incanti; mi hai portato con te nel tuo collegio svizzero a bere il caffè» mi sorrise abbassando lo sguardo e toccandosi la nuca. «Sono contento di averti conosciuto e di averti come collega. Nella scuola dove insegnavo l’anno scorso non ho legato con nessuno. Più che buongiorno e buonasera non dicevo: io non sono un chiacchierone estroverso, non mi metto a parlare con tutti, anzi, in genere tengo le persone a distanza. Ma la teoria del regalo che fai ai tuoi alunni mi ha colpito molto. C’è sempre da imparare dagli altri, e quest’anno proverò ad applicare le tue parole nelle mie ore. Dopo averti ascoltato, mi rendo conto che i piccoli problemi che ho incontrato con alcuni ragazzi forse quest’anno non li avrò». Si alzò a fatica perché aveva le lunghe gambe incastrate tra la sedia e il tavolo e, ancora mezzo piegato, mise le sue grosse dita nel taschino più piccolo dei jeans, alla ricerca della moneta per pagare i caffè, ma gli presi il polso e dissi: «No, tocca me, sono io che ti ho portato a bere il caffè nel mio collegio svizzero. Quando sarai tu a raccontare qualcosa di te, pagherai tu, va bene?» Eravamo in piedi uno di fronte all’altra, la mia mano appoggiata ancora sul suo polso: due giganti in un bar piccolissimo e stretto, due Gulliver a Lilliput che si sfioravano per la prima volta. Fu un attimo, ma notai che mi osservava le labbra, quasi volesse baciarle. Mi lasciò pagare il caffè dopo parecchie rimostranze, e quando uscimmo mi augurò una buona serata, ci demmo appuntamento per il primo giorno di scuola e ci avviammo ognuno verso casa.
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CAPITOLO DUE Che si tratti di una casa, delle stelle, del deserto, quello che fa la loro bellezza è invisibile agli occhi. Il Piccolo Principe – Antoine de Saint Exupéry
Vivo da sola in un appartamento mansardato all’ultimo piano di una palazzina un po’ retrò, ristrutturata da una decina d’anni in zona Navigli. Adoro il mio appartamento. L’ho comprato cinque anni fa da un’amica che l’ha lasciato libero dopo essersi sposata, e io ho colto l’occasione al balzo. Si entra scendendo tre gradoni rivestiti di parquet chiaro, e a sinistra c’è subito la sala. È una stanza grande, arredata con mobili moderni. Alla destra dei gradoni, c’è il mio angolo worrel (parola coniata da me, tra work e relax): una lunga scrivania che un tempo era stato il tavolo di lavoro di un falegname. È un’asse di due metri di lunghezza e larga uno e venti, in faggio e rovere, sorretta da tre cavalletti. È la classica scrivania di una donna un po’ disordinata, carica di cose: il computer portatile, che però rimane fisso lì, la stampante, quaderni per appunti, riviste aperte, cornici con le foto delle mie nipoti scattate durante le nostre tante vacanze insieme, un portacd, una marea di libri e una lampada a forma di farfalla stile Tiffany. I colori delle ali sono caldi, solari e ben si sposano con il mio arredamento. È un regalo molto prezioso, e l’ho appoggiata sulla scrivania per rendere la mia zona lavoro più intima. Per la camera ho comprato un letto matrimoniale king size in pelle rosso. Sopra la testata è appesa una gigantografia ottenuta da una foto in bianco e nero scattata a Plaza de Callao a Madrid, con il grande edificio Carrion in stile Art Deco, sulla cui cima spicca il neon luminoso della Schweppes. Ma ciò che mi piace di più, è l’insegna del cinema Callao e un maxi poster con il volto meraviglioso di Audrey Hepburn, mentre guarda l’obiettivo con il mento appoggiato alle mani in una posa naturalmente chic, tratto forse dal film Vacanze Romane, che mi mette di buon umore ogni volta che la guardo. Infine, c’è una stanza poco più grande di uno sgabuzzino, con un letto a castello. Serve per le mie nipoti, Silvia e Laura, quando hanno voglia di “fuggire” da casa loro per venire a rilassarsi dalla zia. Sono due adolescenti splendide e scatenate, simpatiche e arrabbiate con il mondo, ma soprattutto
18 con i loro genitori. Sono le figlie di mio fratello, che adoro come fossero mie. Tutte le estati le porto a fare un viaggetto di una settimana e partiamo all’avventura solo noi tre, divertendoci un mondo. *** Quando rientrai a casa dopo aver bevuto il caffè in compagnia di Gabriele, mi ritrovai a pensare a lui: la sua attenzione alle mie parole mi aveva colpita. In genere non racconto la mia teoria del cadeau per non sembrare presuntuosa, e invece con lui non avevo avuto tentennamenti, le parole mi erano scivolate fuori senza problemi. C’era qualcosa nel suo modo di guardarmi che mi metteva a mio agio. Ripensando alla descrizione che aveva dato di sé, in effetti avevo notato che quel giorno aveva parlato solo con me; gli altri colleghi li aveva appena salutati, con cortesia ma in modo distaccato. Sorrisi al ricordo di noi due incastrati fra tavolo e sedie, per via della nostra altezza: eravamo un po’ goffi e teneramente impacciati, come possono esserlo due persone che non hanno molta confidenza. Mi soffermai ad analizzare il suo sguardo, ma soprattutto le sue mani. Quando conosco qualcuno, per educazione lo guardo negli occhi, ma non mi soffermo, non focalizzo i particolari del suo volto e aspetto il momento in cui le sue mani entreranno nel mio campo visivo per iniziare a giocare con il pensiero. Durante il collegio docenti mi ero accorta che si mangiava le unghie; quando poi me lo ero ritrovato accanto nella riunione con la coordinatrice, avevo già passato le sue mani ai raggi X. Grandi, come quelle di tutti gli uomini di una certa altezza, ben curate, le lunghe dita leggermente nodose da farle apparire grosse, i mignoli spesso piegati, le unghie ridotte all’essenziale, il palmo chiaro così come il dorso poco peloso. Erano mani gentili, ben proporzionate, ma ciò che più mi aveva colpito erano le vene in rilievo: mi avevano dato una sensazione di forza non solo fisica. Oggi posso affermare senza ombra di dubbio di essermi innamorata prima delle sue mani e poi di lui. Ma quel giorno ancora non lo sapevo. Mentre ero persa nei miei pensieri, suonò il cellulare: era Claudia, amica di vecchia data, compagna di università e di tante avventure, che mi chiedeva se avevo voglia di un piatto di spaghetti alla carbonara e di un film a casa sua. Le risposi che l’avrei raggiunta nel giro di un’ora. Tre mesi prima era stata lasciata dal suo uomo per una ragazza più giovane, e tutti i mercoledì mi invitava da lei perché non amava stare da sola. Erano i nostri “mercoledì da leonesse stanche”, occasioni che ci eravamo ritagliate
19 per trascorrere serate tranquille. Avrei voluto mettermi alla scrivania per preparare dei piani di lavoro, ma facendo un rapido calcolo, se non fossi uscita nel giro di mezz’ora non sarei arrivata a casa di Claudia in tempo. Andai quindi a fare la doccia, indossai una comoda tuta, regalo di Massimo, un giocatore di pallacanestro che era entrato nella mia vita sei estati prima. Con lui avevo vissuto una bella storia d’amore, travolgente, appassionante, molto fisica, ma con l’inizio della nuova stagione il suo procuratore gli aveva fatto firmare un contratto biennale con una squadra in Sicilia, ed era finita così, senza pianti o musi lunghi, ma lasciando a entrambi tanta tenerezza e bei ricordi. Raccolsi i capelli in un rapido chignon, presi una bottiglia di prosecco dalla mia dispensa e m’incamminai verso casa di Claudia, che distava solo due isolati dalla mia. E non pensai più a Gabriele. GABRIELE “Quanto siamo stupidi noi uomini? Troviamo una donna che attira la nostra attenzione e subito pensiamo a come sarà a letto. Ma lei mi prende, ed è stato così fin dal primo momento: c’è qualcosa in lei che mi affascina. Sarà il suo modo di parlare che mi ha incantato e ha portato la mia mente dove voleva lei? O quei bei capelli biondi che avrei voluto accarezzare? Sarà la “scossa” che ho provato quando le nostre dita si sono toccate? O sarà perché mi ha detto che il suo numero di telefono non lo dà tanto facilmente ma io sono riuscito a memorizzarlo e a salvarlo sul mio cellulare senza che lei se ne accorgesse? Cacchio, avrei proprio voluto baciarla!”
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CAPITOLO TRE Un film è come un sogno, è come musica. Nessuna espressione artistica travolge la nostra coscienza allo stesso livello del film, perché giunge direttamente ai nostri sentimenti, alle camere oscure della nostra anima. Ingrid Bergman
«Ciao Paola, hai portato il vinello?» mi chiese Claudia mentre chiudevo la porta di casa. «Sì, non ti preoccupare, ho portato quello che non ci piace per niente» le strizzai l’occhio. «Che film vediamo?» «Mi sembra s’intitoli Serendipity. È una bella storia d’amore come piace a noi, che si svolge a New York». «Se dobbiamo piangere, il vinello ci aiuterà a rilassarci più in fretta» la baciai sulla guancia mentre appoggiavo la bottiglia sul tavolo. «Che profumino di pancetta, mmmh che buono, ho una fame che non ci vedo più. Come va? Tutto a posto?» Grugnì un sì e si girò per scolare la pasta. Da quando era stata mollata dal suo fidanzato, era nostra consuetudine guardarci un film romantico almeno una volta a settimana. Avevamo già visto C’è posta per te, Pane e tulipani, Partnerperfetto.com, Le fate ignoranti, I perfetti innamorati, Notting Hill e I ponti di Madison County, quest’ultimo noleggiato dopo aver divorato il libro. Non tutti hanno il lieto fine, ma che pianti meravigliosi senza vergogna ci siamo fatte. Piangere, anche se solo per un film, non è una cosa che si fa davanti a tutti, di solito si cerca di camuffare le lacrime con grossi respiri o delle gran soffiate di naso. Ci si riesce solo se c’è grande complicità con la persona che hai accanto, se sei in grado di buttare la maschera e far vedere come sei veramente. Claudia è una donna fantastica, brillante, intelligente, spiritosa, bellissima, ricca. Eppure è stata lasciata per una ragazza, non solo più giovane, ma anche molto più insignificante. Forse per Luca – così si chiama il suo ex compagno – era troppo perfetta o forse agli uomini le donne come Claudia fanno un po’ paura: hanno bisogno di sentirsi sempre al centro
21 dell’attenzione, e quando capiscono che di fianco a una donna così non lo saranno mai, preferiscono cercarsi lidi meno impegnativi. Gli uomini non capiscono un accidente, sono solo dei grandi egoisti e narcisisti. Se Luca non si fosse messo in competizione con Claudia, le cose sarebbero andate benissimo. Invece, quando è finita la botta d’ormone che è durata più o meno un anno, è finita anche la loro storia. Presi la custodia del dvd che era appoggiato sul tavolo, e guardai la copertina che ritraeva John Cusack e Kate Beckinsale. «Serendipity – Quando l’amore è magia» lessi il titolo ad alta voce. «Senti senti… serendipità esiste anche in italiano: significa trovare una cosa non cercata, mentre si sta cercando qualcos’altro. Mi intriga, brava Claudia, hai scelto bene». «Non lo so Paola, mi sembra di essere una deficiente che si perde dietro a storielle irreali come quelle dei film che vediamo, per convincermi che il lieto fine esiste, ma per me non è stato così. Dai, versami un goccio di vino e facciamo un brindisi a noi due, che ci vogliamo bene da più di vent’anni e non ci siamo mai tradite, non siamo mai state gelose l’una dell’altra e ridiamo, scherziamo e piangiamo senza vergogna. Se fossi un uomo, mi innamorerei di te, giuro». Poi, scrutandomi con uno sguardo buffo che la faceva sembrare ancora più bella, aggiunse: «Tu però fai l’uomo. Sei troppo alta per essere la donna nella nostra relazione». In effetti Claudia arriva a fatica al metro e sessanta, e quando esce con me, per non sembrare una “nana da giardino” (come le piace definirsi) mette dei tacchi vertiginosi, sui quali si muove come se avesse i piedi nudi, con una disinvoltura degna della migliore indossatrice professionista. «Finiscila di dire stupidate e di piangerti addosso» dissi ridendo, mentre le lanciavo sulla faccia il tovagliolo. «Troverai qualcuno che ti vorrà bene per come sei, ne sono sicura. E se non lo trovi, fai come me: sto bene con tutti e con nessuno. Basta non crearsi troppe aspettative e prendere solo ciò e chi ci piace». Giocando con il tovagliolo, mi guardò di sottecchi e mi chiese a filo di voce: «Ma tu pensi che Luca mi abbia mai amata?» Bevvi un sorso di vino, sospirai a fondo e con una pazienza infinita feci: «Oh Claudia, mia piccola Claudia…». «Non importa, non dirmi cosa pensi. Ormai sono diventata una di quelle donnette patetiche e noiose che ho sempre preso in giro» si alzò di scatto per andare al lavello. «Se devo essere sincera, Luca non mi è mai piaciuto molto». La raggiunsi e l’abbracciai. «Troppo pieno di sé. Non sembrava mai sincero fino in fondo. Mi dava l’impressione che camuffasse una gentilezza che non gli
22 apparteneva solo per fare colpo sugli altri, anche su di me. Sai che mio malgrado studio sempre le persone quando le conosco. Be’, lui non mi convinceva del tutto». «Perché non mi hai detto prima tutte queste cose? Perché non mi hai aperto gli occhi?» mi guardò con un’aria triste. «Perché eri follemente innamorata di lui e non avresti mai accettato alcuna critica. Non avevate molto in comune, ma non spettava a me fartelo notare e poi, tesoro, all’amore non si comanda». Le sorrisi e le scompigliai i capelli: «La settimana scorsa abbiamo visto Vi presento Joe Black, e se la tipa si è innamorata della Morte e nemmeno suo padre è riuscito a farle cambiare idea con quel discorso strappalacrime, cosa potevo fare io contro il tuo amore per Luca?» le chiesi mentre l’aiutavo a sparecchiare. «Sì, ma la Morte era interpretata da Brad Pitt. Nemmeno tu avresti resistito al suo fascino» mi rispose ammiccando. «Ancora lo sogno quel film, ma quanto è stato bello, eh?» e poi prendendola per mano aggiunsi: «Dai tesoro, adesso che abbiamo finito quest’ottima carbonara, che ne dici di finire la bottiglia di vino guardando il film?». «Devo ammettere» dissi mentre cercavo di trovare una posizione comoda sul divano in pelle che profumava di Chanel n° 5, il preferito di Claudia dai tempi dell’università, «che più che Brad Pitt, a me è piaciuto Anthony Hopkins. È superlativo sempre, qualunque parte interpreti, non trovi?» «Hai ragione, ti ricordi Viaggio in Inghilterra? Quante lacrime abbiamo versato come due cretine quando lui dice: il dolore di oggi fa parte della felicità di ieri» e recitammo insieme la frase che ci aveva toccato nel profondo. Poi, mentre mi porgeva un bicchiere con un goccio di vino, aggiunse: «E cosa mi dici di Vento di passioni? D’accordo, c’è sempre l’amico Brad che è un figo spaziale, ma anche Anthony non scherza. Nemmeno quando ha la bocca storta!» rise come una bambina e sapevo che il momento di tristezza era svanito. «Dai, finiscila di prendere in giro il mio mito e fai partire il dvd. L’ultimo goccio di vino lo beve chi piange per prima stasera, ok?» Come risposta puntò il telecomando verso il lettore e mi fece un sorriso a trentadue denti. La serata trascorse bene, tra risate e lacrime finali per il lieto fine. La bottiglia di vino era già finita da un pezzo. «Che figo John Cusack» dissi mentre allungavo le gambe per sgranchirle. «Mi piace sempre molto. Assomiglia a qualcuno… ». Lei aveva la testa appoggiata sulla mia pancia, si stiracchiò come un gatto e mi fece un sorriso stanco.
23 «Grazie per la bella serata tesoro» dissi alzandomi. «Adesso però vado a casa perché non mi reggo più in piedi, e non so se è colpa del vino che ci siamo scolate o perché è già l’una passata». Mentre mi infilavo la felpa aggiunsi: «La prossima volta però ci guardiamo un film demenziale, così ridiamo come delle pazze e piangeremo dal ridere». «Ok bambola, tutto quello che vuoi, e grazie a te per la compagnia». Ci abbracciammo forte e me ne andai. Ero quasi arrivata a casa quando il volto di Gabriele si sovrappose a quello di John Cusack: ecco chi mi ricordava.
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CAPITOLO QUATTRO Si decide in fretta di essere amici, ma l’amicizia è un frutto che matura lentamente. Aristotele
Ero appena entrata in casa quando sentii la voce calda di Barry White in Never never give you up provenire dalla borsa: era la suoneria che avevo scelto per avvisarmi dell’arrivo di un sms. Mi piace usare canzoni lunghe piuttosto che semplici bip, soprattutto perché così sono obbligata ad accorgermi quando mi arriva un messaggio. Sembro tanto una leonessa… in realtà sono solo una gazzella che fugge per dimenticare il più in fretta possibile… meno male ho te… notte. Era Claudia. Mi mandava sempre un sms prima di addormentarsi: mi aveva spiegato che così le sembrava di avere qualcuno vicino prima di chiudere gli occhi. Come biasimarla? TVB… dormi bene… fu la mia risposta sincera. “Si riprenderà presto. Le basterà trovare un uomo che le voglia bene per come è ” pensai. L’ho sempre considerata una donna con gli attributi, una mente eccelsa in un corpo meraviglioso: due ingredienti esplosivi. Dopo la laurea in Lingue si era iscritta a Ingegneria e si era laureata, perfettamente in corso, in Bioingegneria, meritandosi il massimo dei voti e il bacio in fronte del Magnifico Rettore (e di tutti i docenti uomini della commissione). Con una testa come la sua non ha scelto la scuola, ma dopo aver seguito un master in Ingegneria clinica, ha esercitato la sua professione presso le maggiori strutture ospedaliere di Milano, tenendo sotto controllo e risolvendo qualsiasi problema connesso alla sicurezza e alla verifica degli apparati strumentali e impiantistici. Mi addormentai sul divano, davanti alla televisione, che rimase accesa fino all’alba, quando mi svegliai perché sentivo uno strano suono. Ero in stato
25 comatoso e realizzai che era il mio cellulare quando riconobbi la voce di Cristina D’avena che cantava: “È un po’ magia per Terry e Maggie”, la canzone che avevo associato agli sms in arrivo da Angelita, la mia amica di Modena. Anzi, a dirla tutta è la mia anima gemella al femminile, la mia oasi felice, la mia twin che si teletrasporta ogni volta che ho bisogno di lei, come nel cartone animato che vedevamo quando eravamo piccole. Nel guardarmi indietro, lei c’è sempre stata. Ci siamo incontrate per caso un’estate al mare. Di solito andava in Sardegna con i suoi genitori nel mese di agosto, ma dopo che i medici le avevano diagnosticato, oltre alla celiachia, molte altre allergie al cibo (praticamente poteva mangiare solo prosciutto crudo, carne di maiale e poco altro), i suoi genitori avevano deciso di farle trascorrere tre mesi al mare e avevano affittato una casa di fianco alla nostra a Cervia. Avevamo quattro anni e da allora abbiamo sempre trascorso il mese di luglio vivendo come sorelle, come gemelle inseparabili. La nostra vacanza era lì, qualunque altro posto andava bene solo se prima c’era stato il nostro mese di luglio. Come vere gemelle, avevamo un nostro linguaggio segreto, e sentivamo i dispiaceri e le gioie dell’altra, anche a distanza. Avevamo persino coniato nomi diversi per ciascuna di noi: io ero Robby perché, essendo alta già allora, le ricordavo un robot nei miei movimenti un po’ maldestri, e con due “b” perché in Emilia lo pronunciano così. Lei era Ginny perché faceva ginnastica artistica, e quando mi mostrava le sue prodezze sembrava una libellula che si librava nell’aria. Eravamo due gemelle, splendide sorelle Robby e Ginny, magic girls che con la fantasia sapevano teletrasportarsi sempre qua e là. Ti ricordo che domani sera ti aspetto da me per festeggiare il mio compleanno, che è anche un po’ il tuo… je t’adore my twin… Erano le sei e la immaginavo già in piedi con lo spazzolone e lo straccio in mano (odia usare il mocio perché preferisce sporcarsi le mani) o a stirare una montagna di roba, dopo essersi bevuta un caffè rigorosamente senza zucchero nella sua tazzona rosa che, pur essendo tutta scheggiata e logorata dall’uso, continua a usare perché gliel’avevo regalata quando era nata la sua bimba: dieci anni prima. È sempre stata maniacale nelle sue cose. Lei si definisce, ridendo, un po’ autistica, e se ripenso a come era da piccola, questo aspetto era già molto accentuato in lei. Credo sia stato il rigore con cui è dovuta crescere per via del suo problema di allergie a renderla così determinata e instancabile.
26 Quando mi mostrava quello che era capace di fare, ripeteva lo stesso esercizio dieci volte prima di passare al successivo, e io da brava spettatrice aspettavo che il suo show finisse, applaudivo estasiata ma poi la portavo a fare sport da maschi: giocare a calcio o a pallacanestro nel campetto vicino a casa, o a bocce sulla riva. Ogni estate, durante le nostre passeggiate sulla battigia, cercavo conchiglie strane e gliele regalavo, dopo averle lavate e impacchettate come fossero oggetti preziosi. Era diventato un rito, e lei aspettava quel momento con l’agitazione e l’eccitazione che l’ha sempre contraddistinta: la sua espressione davanti a un regalo, che fosse un fermaglio per capelli, una conchiglia o un anello di fidanzamento, era sempre di felicità. Era il gesto, l’attenzione nei suoi confronti che la rendevano felice, e la incantano ancora oggi. Pur sapendo cosa conteneva, scartava il pacchetto stando attenta a non rovinare né il nastro né la carta, e correva in camera sua a sistemare le conchiglie sul comodino; poi ogni cinque minuti si assentava e la ritrovavo davanti al mobile, assorta mentre cercava di capire la giusta posizione di ognuna. Mi ha detto che le conserva ancora tutte in una vecchia scatola di cartone ma non osa riaprirla per il disordine che vi troverebbe. Così come conserva tutti i bigliettini che le scrivevo per accompagnare i regali. Prima che la vacanza terminasse, ci sedevamo all’ombra del pino nel giardino di casa mia, ci mettevamo schiena contro schiena e ci passavamo i regali, così, senza guardarci in viso. Era un momento molto particolare, sapevamo che ci saremmo lasciate per un intero anno e non volevamo vedere le facce tristi che avevamo, ma riuscivamo a sentire la scossa emotiva attraverso la pelle della schiena. I primi anni, apriva in silenzio il pacchetto che le avevo dato e poi mi allungava il biglietto, perché voleva glielo leggessi io: chiudeva gli occhi e ascoltava le mie parole attraverso la mia voce e le vibrazioni della schiena; io sentivo la sua commozione e piangevo con lei. Divenute più grandi, li leggeva da sola, sottovoce, e io la sentivo sorridere e sospirare, sempre schiena contro schiena. Lei, come dicevo, c’è sempre stata. Era con me a Losanna: mi ha mandato una lettera ogni settimana dei cinque anni che ho trascorso lì. Era con me quando mi sono sposata (anche se Bruno non l’aveva convinta al cento per cento, così mi disse un mese prima del matrimonio). È venuta a casa mia quando ho perso il bambino, ha pianto con me e ha raccolto le mie lacrime quando mi sono separata. È l’unica persona che mi ha sempre detto la verità, non importa quanto brutale fosse, con garbo e delicatezza, e so che lo farà sempre.
27 È una donna che piace a tutti, femmine e maschi, perché è estroversa, acuta, intelligente, elegante. È una grande amica che sa ascoltare e ha sempre la parola giusta da dire nel momento giusto. È l’unica che sappia rimettermi insieme quando vado a pezzi; è il mio rifugio, la mia oasi di sicurezza ed equilibrio, la mia terraferma dopo aver trascorso giornate di burrasca su una barca che lotta contro le onde. È felicemente sposata con Gianni, l’unico uomo che abbia mai avuto. Me lo presentò quando aveva quindici anni e da allora vivono la loro vita di coppia come fosse il primo anno di matrimonio. Nonostante tutte le perplessità derivate dalla sua malattia, ha due figli splendidi, che mi chiamano zia Robby e che stanno bene. Mi hai svegliata, rompipalle! Credi che mi possa dimenticare che giorno è domani? Non potrei farlo nemmeno volendo: sono 15 giorni che all’alba mi mandi un sms per ricordarmelo!!! Buongiorno anche a te magic girl! La immaginai sorridere alla mia risposta. Mi alzai dal divano, andai in bagno, feci una doccia per svegliarmi completamente e mi preparai il caffè. Ormai ero sveglia e così decisi di mettermi al lavoro, dato che avrei trascorso il fine settimana da Ginny. Dovevo preparare le lezioni del primo mese di scuola, cercare materiale di approfondimento delle unità didattiche, ma soprattutto i testi di alcune canzoni che avrei usato in terza. Avevo notato che questo tipo di lezione piaceva molto, perché spesso i ragazzi conoscono le canzoni ma non ne capiscono tutto il significato, e a un grosso lavoro lessicale unisco quello grammaticale. «Devi sapere la grammatica e le tabelline, cantando» diceva sempre mia nonna. Be’, a scuola i miei ragazzi lo avrebbero fatto. Cercai i testi di Yesterday, All you need is love e Let it be dei Beatles, più Imagine di John Lennon, perché erano abbastanza semplici, sia a livello grammaticale sia di comprensione. Poi durante l’anno avrei scelto testi proposti dai ragazzi, che di sicuro sarebbero stati più moderni dei miei, ma anche più difficili.
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CAPITOLO CINQUE We are the world we are the children we are the ones who make a brighter day… Michael Jackson – We Are The World – USA for Africa
Il suono della campanella della prima ora del primo giorno di scuola mi provoca sempre una forte emozione. Nell’aria si respira eccitazione, euforia, e la domanda che ci si pone tutti, insegnanti e alunni, è sempre la stessa: come andrà quest’anno? Anche quattro anni fa, mentre in piedi sulla soglia chiamavo la prima M, osservai i ragazzi in cerca di indizi che mi dicessero qualcosa sul nostro futuro scolastico. Salimmo al primo piano, dove si trovava la nostra aula vicino ai laboratori di lingua, accompagnati dal vocio e dalle risate dei ragazzi. Li guardai accaparrarsi i posti, con interesse misto a curiosità: i più spavaldi corsero subito a occupare i banchi in fondo, e tutti gli altri entrarono chi timoroso, chi timido, chi serio e chi sorridente. L’ultimo fu un ragazzino moro, con una bella faccia simpatica e un problema di deambulazione. Guardandomi dritta negli occhi, si sedette nel banco di fronte alla cattedra, l’unico libero, e mi salutò: «Buongiorno prof, sono Mirko Adami, il primo nome dell’elenco». Ricambiai il saluto con un sorriso e pensai: “Questo è un tipo tosto” e poi mi ricordai che era uno dei casi trattati durante la riunione pochi giorni prima. Era stato segnalato dalle maestre delle scuole elementari come un ragazzino intelligente ma con qualche problema caratteriale (scoppi d’ira e parolacce), forse dovuto al suo handicap: a quanto sembrava non accettava la gamba più corta e faceva di tutto per evitare che si notasse l’andatura claudicante, ma siccome a questa età i ragazzi possono essere cattivi, se a qualcuno scappava una battuta o lo guardava in un certo modo, faceva scenate degne del film L’Esorcista. Dopo l’appello, mi presentai in inglese e cercai di capire cosa avevano appreso alla scuola elementare facendoli parlare liberamente. I più timidi risposero a monosillabi, i più spavaldi usarono “l’inglese fai da te”,
29 riscuotendo risate da parte di tutti; qualcuno non riuscì a spiccicare nemmeno una parola, mentre Mirko mi sembrò subito un ragazzo attento e interessato. Comunque, nell’insieme, da quella prima occhiata, la classe mi sembrò buona. Ma il primo giorno sono sempre tutti bravi. In corridoio, al cambio dell’ora, incrociai Gabriele che stava entrando in terza: indossava una tuta blu e una polo bianca, con una mano reggeva il registro, l’altra invece la teneva in tasca come se portasse un paio di pantaloni con le pences, e pensai che le ragazzine sarebbero state pazze di lui. Era proprio un bel tipo, con quello sguardo un po’ ombroso e misterioso, ma io lo preferivo in jeans e camicia: era più charmant. Mi salutò con un sorriso, sparì nella sua aula e io entrai in seconda, una classe alquanto rumorosa. Dopo l’appello e le presentazioni, cercai di informarmi sul lavoro svolto l’anno precedente. Illustrai a grandi linee il programma che avrei svolto, ma li stupii quando affermai che con me avrebbero parlato sempre in inglese, e avrebbero dovuto farlo anche fra di loro, anteponendo al nome della compagna la parola miss, e al nome dei compagni la parola mister. Conquistai le ragazze, mentre i ragazzi non furono molto felici dell’iniziativa, ma già alla fine dell’ora qualcuno si sforzava di eseguire l’esercizio. Sforzarsi di parlare in una lingua straniera è un punto di partenza, ma la paura di sbagliare, di fare una figuraccia di fronte ai compagni, di mostrare le proprie lacune non è incoraggiante, soprattutto alla loro età. Ma sapevo che con un po’ di costanza e tanta pazienza, alla fine tutti sarebbero riusciti a formulare frasi semplici in modo abbastanza corretto. «Ragazzi, viviamo a Milano, una città dove è facile incontrare degli stranieri che possono fermarci e chiedere indicazioni, quindi forza e coraggio, sforzatevi di parlare inglese con me». Glielo dissi in inglese e dovetti ripetere più volte la frase per farla capire a tutti, ma alla fine avevo ottenuto la loro attenzione e questo era già un passo avanti. Come compito per la volta dopo chiesi una descrizione orale di se stessi, che doveva essere il più accurata possibile. Brontolarono in italiano e insegnai loro a farlo in inglese: si divertirono a ripetere le frasi che avevo scritto alla lavagna e mentre uscivo dall’aula, finita l’ora, li sentii chiamarsi con miss e mister anteposto al nome. Non pensai che mi stessero prendendo in giro, ma sapevo che scimmiottandomi avrebbero imparato a fare ciò che avevo chiesto. Scesi in aula professori perché avevo l’ora buca. Avevo voglia di un caffè, così andai alla macchinetta dove trovai la collega di francese che sembrava una top model: un metro e ottanta di altezza (finalmente potevo parlare con una donna senza guardarla dall’alto in basso), abitino di Dolce e Gabbana
30 nero su un corpo statuario e abbronzato (con tette abbondanti e rifatte, come seppi qualche mese dopo durante una cena in cui eravamo un po’ brille), capelli neri, lunghi, leggermente ondulati e freschi di parrucchiera, e un viso dall’espressione simpatica. Ci scambiammo le impressioni di quelle prime due ore raccontandoci aneddoti divertenti. Mi disse che la terza era una classe tosta dal punto di vista disciplinare, a causa di due bulli che fomentavano risse e facevano di tutto per disturbare la lezione. «È l’età più brutta. Pensano di essere grandi perché sono all’ultimo anno, e quindi si sentono autorizzati a fare ciò che vogliono, ma basta dargli qualcosa da fare che si ridimensionano subito. Ho tre figli e ne so qualcosa» si strinse nelle spalle sorseggiando il caffè. Mi raccontò anche che si era separata due anni prima e che adesso stava un po’ meglio, ma era stata dura. Mi sorprendono sempre le persone che ti raccontano particolari così intimi della loro vita anche se ci si è conosciuti da poco. Negli anni a seguire la mia separazione, mi guardavo bene dal dire che ero una single di secondo pelo (così definivo le separate, me compresa). Ma ero giovane e forse volevo solo dimenticare quel pezzetto della mia vita. Eppure, ricordo che due mesi dopo aver cacciato di casa Bruno, feci un viaggio-studio a New York, e durante il volo, la signora seduta di fianco a me, mi disse che aveva una paura folle di volare e mi chiese se poteva stringermi la mano durante il decollo. Era una bella donna sui cinquant’anni, con il viso regolare incorniciato da capelli sale e pepe cortissimi, un sorriso meraviglioso, di quelli che scaldano il cuore, e gli occhi verdi con sfumature tendenti al grigio che mi pregavano di dire di sì. Le presi la mano e alla sua domanda: «Come mai vai a New York?» le parole decollarono insieme all’aereo, e le raccontai la mia storia nei minimi particolari, come non avevo fatto nemmeno con mia madre. Otto ore dopo, sapeva tutto di me. Di lei mi disse che si chiamava Cinzia e andava a New York per la nascita del suo primo nipote, ma soprattutto per ritrovare un uomo che aveva amato tanti anni prima; essendo però sposata aveva dovuto rinunciare a seguirlo perché aveva dei figli e delle responsabilità alle quali non poteva sottrarsi. Ora era separata e poteva finalmente coronare la sua storia d’amore. Quando atterrammo era lei che teneva la mia mano, me l’accarezzava come se fossi stata una bambina che era caduta e aveva bisogno di essere consolata per una brutta sbucciatura. Non ricordo che frammenti del suo volto, ma delle mani ricordo tutto: piccole con dita affusolate e unghie dipinte di un rosa trasparente, la pelle del palmo un po’ rugosa con qualche piccolo callo alla base delle dita e le linee ben marcate, il dorso abbronzato. La pelle non era più elastica, ma erano mani gentili alle quali mi ero aggrappata per ritrovare un po’ di me stessa.
31 E quindi cos’è che ci fa aprire il cuore con qualcuno e con qualcun altro no? È un atteggiamento che captiamo? È qualcosa nello sguardo? È chimica? È empatia? Forse è un po’ di tutti gli ingredienti messi insieme. Mentre ascoltavo Veronica parlare, davo le spalle alla segreteria e sentii solo una voce che diceva: «Ciao Paola, tutto bene?» Mi girai e vidi Gabriele che si avvicinava a noi. Aveva le scarpe da ginnastica dell’Adidas, bianche con le strisce rosse e blu ai lati, e una camminata che mi fece pensare a un leone stanco che si muove lento, in cerca di un posto per riposarsi al riparo dal sole. «Ciao, ti ricordi la collega di francese? Stavamo scambiando due chiacchiere e mi parlava della terza, che è una classe un po’ agitata». Dall’occhiata che le diede mi resi conto che se la ricordava bene, ma come poteva essere altrimenti? Allungò la mano per salutare Veronica, ma poi fissò i suoi occhi nei miei. «Effettivamente alcuni elementi in terza sembrano dei puledri selvaggi, ma riusciremo a domarli, ne sono certo. Tu non li hai ancora avuti?» mi chiese, mentre stringeva al petto il registro continuando a guardarmi come se Veronica non fosse lì con me, il che mi sembrava impossibile. Mi sentivo in imbarazzo ma lo nascosi dicendo tutto d’un fiato: «No, vado da loro adesso. Anzi, scappo perché è quasi ora. Ciao Veronica, ciao Gabriele. Ci vediamo». Salii le scale sentendomi ancora addosso gli occhi di Gabriele. Non capivo il suo comportamento: mi aveva detto che non dava confidenza quasi a nessuno, ma ignorare una gnocca come la Pirelli significava essere un tantino maleducati. Mentre mi domandavo cosa avrebbe potuto pensare Veronica, arrivai davanti alla terza dove c’era l’insegnante di lettere, la prof. Zampelotti, viso regolare, capelli a caschetto neri corvini, occhi scuri molto espressivi, che mi accolse con un bel sorriso. Chiara non era molto alta e aveva tacchi da capogiro e una gonna in jeans con un inserto in pelle sul davanti che formava una V al contrario, molto sexy, portata con disinvoltura. La camicia bianca era aperta fino all’altezza del décolleté, ma una collana molto vistosa copriva gran parte della zona godibile. Ricordo di aver pensato che il corso M aveva delle gran belle insegnanti e che probabilmente alle udienze avremmo visto parecchi papà. «Ciao, se non ricordo male, sei l’insegnate d’inglese, vero?» mi chiese con un tono di voce un po’ rauco. «Fai attenzione, perché ce ne sono un paio che andranno presto in Presidenza». «Ok. Mi hanno già ragguagliato quella di francese e quello di ginnastica.
32 Farò del mio meglio, lo giuro» e mi misi una mano sul petto come un lupetto. Sorrise, si sistemò i capelli dietro l’orecchio, mi strizzò l’occhio e alzando il tono di voce in modo da farsi sentire anche dai ragazzi aggiunse: «Vacci giù duro. Li avevo anche l’anno scorso e pensano di essere autorizzati a renderti le ore impossibili, ma renderemo noi la loro vita un inferno se ci fanno dannare». Le urla di rimando dei ragazzi misero fine alla nostra conversazione, ed entrai in classe chiudendo la porta. Di nuovo mi presentai in inglese e chiesi di fare altrettanto, sia con me sia fra di loro, usando miss e mister. Non lasciai loro il tempo di brontolare. Dopo l’appello consegnai delle fotocopie, chiesi di prendere un quaderno e di ascoltare la canzone che avevo preparato per quel giorno: We Are The World, che Michael Jackson e Lionel Richie avevano scritto negli anni ‘80 per raccogliere fondi per i bambini dell’Africa. Mi accorsi che molti la conoscevano e la canticchiavano. Qualcuno rideva e cercava di attirare l’attenzione degli altri, ma tutto sommato la lezione piacque alla maggior parte della classe, quindi i due elementi di disturbo vennero ignorati, e due occhiate di fuoco che lanciai loro, servirono per farli mettere tranquilli. Mentre stavo uscendo da scuola, Gabriele mi sorpassò di corsa urlandomi che doveva correre perché aveva un appuntamento importante in ufficio. Fui travolta ancora una volta dalla scia del suo profumo, e la cosa non mi piacque affatto. Tornai a casa pensando a cosa mi rendeva così nervosa quando lui era nei paraggi. Era un bell’uomo, anche se non di una bellezza classica: naso abbastanza evidente, denti non perfettamente allineati, viso squadrato, corpo con rotondità evidenti e rughe sulla fronte abbastanza marcate. Eppure c’era qualcosa che mi aveva colpito. Forse il modo che aveva di guardarmi: timido ma deciso, le zampe di gallina attorno agli occhi scuri gli rendevano lo sguardo severo, eppure dolce allo stesso tempo; oppure come inclinava la testa quando parlava o il tono della voce profondo e roco, molto virile, o il suono della risata che avevo sentito quando parlava dei ragazzi di terza, o quel modo che aveva di tenere il mignolo di tutte e due le mani ripiegato. Ma era sposato, e bastò questo pensiero per rendermelo assolutamente impossibile da vivere. ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD