Storia di una ragazza sulla linea Gustav, Rosa Nardone

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ROSA NARDONE

STORIA DI UNA RAGAZZA SULLA LINEA GUSTAV

ZeroUnoUndici Edizioni


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STORIA DI UNA RAGAZZA SULLA LINEA GUSTAV Copyright © 2020 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-438-0 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Gennaio 2021


A Enzo, il fratello andato via troppo presto A mia madre A mio padre



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CAPITOLO 1

Ormai aveva deciso: a scuola non ci sarebbe andata più. Si vergognava

con

le

sue

compagne

che

chiedevano,

sghignazzando o con falsi sorrisini, perché non andava anche lei il pomeriggio a fare ginnastica e a marciare. Tanto ormai sapeva leggere e scrivere, e anche fare bene i conti. Confondeva solo la d con la t e sbagliava le doppie, ma tanto chi se ne sarebbe accorto; molti dei suoi parenti e vicini erano anche più ignoranti di lei che era piccola. Aveva chiesto due volte alla matrea se poteva farle cucire la divisa da piccola italiana, ed entrambe le volte le aveva risposto di no, perché non avevano soldi per quelle cose. La seconda volta c’era anche suo padre, fumava il sigaro e guardava le fiamme del camino, ma era rimasto in silenzio. Allora Antonia aveva urlato che non ci sarebbe più andata a scuola, che non voleva essere considerata una poveraccia.


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Aveva sbattuto la porta ed era rimasta fuori nei campi, verso la selva, per tutto il pomeriggio fino a che non era scesa la nebbia e le era venuto freddo. Preferiva non vederle piÚ le sue compagne, piuttosto che sopportare quella vergogna. Le aveva guardate da lontano marciare con la camicia bianca e la gonna nera, ed erano bellissime quando tutte insieme alzavano il braccio destro e cantavano. Ma lei no, lei non poteva, e non capiva perchÊ. Non erano cosÏ poveri da non poter comprare la stoffa e pagare una sarta. Suo padre aveva tanta terra, anche oltre la strada e fino alla collina, la gente veniva a comprare da loro polli, maiali, mele e vino; inoltre, anni prima, suo padre era stato in America, e qualche soldo da parte doveva pur avercelo. Avevano anche ingrandito la casa e adesso avevano oltre alla cucina, anche la sala da pranzo e due camere al piano di sopra, quindi non erano poveri. I poveri vivevano sotto canali e in un’unica stanza con il pavimento di terra. Appeso a una parete della sala avevano persino un bellissimo orologio a cucÚ di legno, che sembrava una casetta. Antonia se


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ne vantava molto con le compagne che non ne avevano mai visto uno. Non vedeva ragioni logiche in quel rifiuto. Allora era solo perché era cattiva, non le voleva bene la matrea, perché non era sua figlia, e lei nemmeno gliene voleva perché non era sua madre. Come aveva fatto suo padre a mettersi in casa una così? Neanche lui però aveva parlato e non capiva perché, o forse lo capiva fin troppo bene. Se ci fosse stata sua madre glielo avrebbe fatto il vestito, magari glielo avrebbe cucito lei stessa. Ma lei non aveva una madre, non l’aveva mai vista, perché era morta di parto quando era nata lei. Lei era nata e sua madre era morta, dieci anni prima. Suo padre non aveva parlato e lei non aveva chiesto ulteriori spiegazioni. In certi momenti avrebbe voluto sparire dalla faccia della Terra, pur di non correre il rischio di sentirsi dire da suo padre: «Tua madre è morta quando sei nata tu, per colpa tua.»


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Solo una volta le aveva detto cosĂŹ, un giorno che si era molto arrabbiato con lei proprio per il fatto della scuola e Antonia, che aveva sempre la risposta pronta per tutto, si era sentita gelare ed era scappata nei campi. Ma la sera suo padre le aveva accarezzato i capelli, aveva insistito perchĂŠ mangiasse qualcosa e le aveva sbucciato una mela. Antonia sapeva di non avere colpe, non aveva deciso lei di nascere, nĂŠ tanto meno aveva desiderato la morte di sua madre, ma si sentiva sempre in debito con suo padre come se gli avesse fatto un torto, anche se gli voleva un gran bene. Le avevano raccontato che la mamma era morta per colpa di quelle cose che succedono ogni tanto alle donne quando partoriscono, e che lei era stata portata subito da una balia, una commare che aveva avuto un bambino da poco e che aveva anche tanto latte. Abitava nelle campagne di Pontecorvo la commare, e papĂ Arcangelo andava a trovarla con il carrozzino una volta la settimana, di domenica.


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Un sabato, che si trovava da quelle parti per comprare dei maiali,

si

presentò

all’improvviso

e

trovò

Antonia,

abbandonata in casa dentro un cofano, sopra una lurida coperta, che urlava come un’ossessa, forse per la fame ma anche perché era sporca di cacca e chissà da quanto tempo. La commare, che era tranquillamente nei campi a lavorare, si precipitò verso la casa, appena vide il carrozzino cercò di dire qualcosa per scusarsi ma papà Arcangelo fu irremovibile e disse: «Da questo momento non siamo più commare e compare.» Prese Antonia in braccio, l’avvolse nella coperta e cosi, sporca com’era, la riportò a casa. Da quel momento ruppe ogni rapporto con quella famiglia, anche perché aveva sentito dire su di loro delle cose che non gli erano piaciute affatto. Si vantavano di fare una grande produzione di vino per la vendita. Conoscenti comuni, però, gli avevano detto in gran segreto che mettevano catene di ferro e serpenti neri, vivi, nella pigiatura dell’uva, dopo averla allungata con l’acqua. Questo strano trattamento rendeva il vino più forte e nero, perché la catena rilasciava sostanze


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ferrose e le serpi, sbattendosi nella pigiatura prima di morire soffocate e intossicate, aumentavano la fermentazione. Nessuno si accorgeva che il vino era stato annacquato. A quanto pare questa era un’usanza non tanto rara tra alcuni contadini disonesti. Fortunatamente al loro paese, nelle vicinanze di casa, aveva partorito da poco una brava donna che aveva latte in abbondanza, e acconsentì a nutrire anche Antonia che, in quell’occasione, fu battezzata “Ntunettella”. La balia, verso cui Antonia nutrì per sempre un grande affetto, fu chiamata da lei “Mamma Francesca”, e in più si ritrovò anche un fratello di latte con cui giocare ogni tanto negli anni dell’infanzia. Antonia, che cresceva senza conoscere la dolcezza di una vera madre, era aspra e forte e la grande voglia di tenerezza l’aveva nascosta nel cuore molto in fondo, per paura che quel lago straripasse e travolgesse le dighe e gli argini che lei aveva costruito.


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CAPITOLO 2

La bella Giulia, quelle poche volte che Antonia aveva sentito parlare di lei, le dicevano: «Eh, era bella tua madre» oppure: «Come le somigli, hai gli stessi occhi verdi e gli stessi capelli.» Aveva cercato di scorgere quella bellezza nell’unica foto stinta e consumata che aveva trovato in un cassetto, ma era presa da lontano con un gruppo di persone, e quel volto non le diceva nulla. Quando si sentiva struggere dalla nostalgia di quel tempo mai vissuto, si rifugiava nella camera matrimoniale che il padre divideva ora con la nuova moglie. Quei mobili di legno scuro e quel corredo che odorava ancora di elicriso e lavanda, erano stati la dote di sua madre. Sulle lenzuola e sugli asciugamani di lino e di cotone, erano ricamate con fili rosso e blu due lettere quasi intrecciate GM


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Giulia Manetti, sua madre. Dunque era esistita ed era stata in quella stanza. La immaginava allo specchio del comò raccogliersi i lunghi capelli castani e appoggiarsi uno scialle sulle spalle. Aveva cominciato a farlo anche lei, nella penombra delle imposte socchiuse, e così facendo le sembrava che sua madre prendesse vita in quella stanza. Ma con l’udito era attenta come un gatto a tutti i rumori della casa, e appena sentiva salire qualcuno, scappava nella stanza accanto per non farsi vedere; si sarebbe vergognata e sicuramente l’avrebbero presa per pazza. Lei una madre non ce l’aveva ma se si comportava bene la matrea non la trattava male; alla fine non era sempre così cattiva come lo era stata con la storia della divisa. Le piaceva pensarlo per potersi sentire perseguitata e avere la scusa per non ubbidire. In famiglia c’erano, oltre a suo padre, altre persone che le volevano bene: la sorella Elisa, il fratello Benedetto – che tutti chiamavano Pittuccio – e la piccola Maria Grazia.


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Fino all’anno prima viveva con loro anche l’altra sorella Assunta, la più buona e la più tranquilla di casa, poi si era sposata con un giovanotto di un paese vicino che faceva il muratore a Roma, e lì si erano trasferiti. Elisa aveva vent’anni e un figlio, il piccolo Pietro, di pochi mesi. Era tornata a vivere con loro prima della nascita del bambino, quando il marito era partito come militare per la Libia. Da lì non era più tornato. Un telegramma di poche e scarne parole aveva avvertito la famiglia che era morto “nel compimento del proprio dovere”. Non seppero mai la ragione precisa della sua morte, se era avvenuta durante uno scontro con le popolazioni locali, o per qualche altro motivo. Antonia non ci aveva capito granché, anche perché nessuno si era preoccupato di dare qualche spiegazione a lei che era una bambina. Di questa vicenda non si era parlato molto in famiglia, forse per non addolorare ancora di più la sorella Elisa, che nei primi tempi stava sempre a piangere e a disperarsi. Smetteva solo quando doveva allattare il pupetto che tra tutti


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questi pianti non cresceva molto, era piccolo e mingherlino ma con occhi neri e vispi. Benedetto, unico figlio maschio, aiutava il padre nei lavori piÚ pesanti anche se non aveva nessuna intenzione di fare il contadino a vita, era un musicante o meglio un suonatore di fisarmonica, ed era anche bravissimo a correre in bicicletta. Aveva studiato fino a tredici anni a Montecassino, e sperava di trovare un impiego. Aveva fatto varie domande anche per entrare in qualche corpo militare. Intelligente com’era, aveva fatto tesoro di tutto quello che gli avevano insegnato. Era molto piÚ istruito ed educato di tanti suoi coetanei, infatti frequentava quelli che studiavano, come Alfredo, studente di medicina, con cui spesso scorazzava per le strade della vallata in bicicletta. In estate, sul far della sera, Pittuccio prendeva la sua fisarmonica e girava tutte le aie del paese, dove si spogliava il granturco, e intratteneva con la musica i lavoranti, giovani, vecchi e bambini. A volte portava Antonia con sÊ.


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Suo fratello aveva i lineamenti e i modi delicati, era più garbato degli altri giovanotti. Le ragazze gli facevano il filo, spesso gli tiravano addosso le spighe del granturco per attirare la sua attenzione, ma lui continuava a suonare facendo finta di non vederle. Quando quel gioco andava troppo avanti, qualche fidanzato presente cominciava ad arrabbiarsi minacciava di picchiarlo. Pittuccio,che non era certo un attaccabrighe, capiva quando era il momento di tagliare la corda. Così si avviavano nella notte buia, verso casa, per le strade illuminate solo dalle “lucicantelle” e dal fanale della bicicletta. La maggior parte delle volte, però, quelle serate finivano con grandi balli sull’aia e bicchieri di vino fino a tarda notte. Ballavano tutti dopo aver finito il lavoro, padri e madri, nonni e nonne, giovanotti, fanciulle e bambini. Maria Grazia, la piccola, era la figlia della matrea e di suo padre. Antonia non avrebbe voluto volerle così bene ma la piccoletta le si attaccava dietro e la seguiva in ogni cosa che


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faceva, anche quando saliva sugli alberi o camminava nell’acqua bassa del torrente. Maria Grazia restava tranquilla, seduta per terra o sulla riva tra l’erba umida e le canne, ad aspettarla. Antonia, per farla divertire, la prendeva in braccio e la sollevava verso i rami più bassi per farle toccare le foglie, o le faceva bagnare i piedi nell’acqua. *** Un altro ramo della famiglia viveva a breve distanza dalla sua casa, in una piccola abitazione a piano terra che volgeva le spalle alla via provinciale. Le sue porte si aprivano verso la collina, sotto una fitta pergola di viti e di glicini che copriva la cementata davanti all’ingresso, ed era quello spazio il cuore della casa. In quell’accogliente e linda casetta viveva Francesco, con sua moglie Immacolata e le loro tre figlie Carmela, Giulietta e Mariangela. Francesco, ormai trentenne e orfano sin da bambino di entrambi genitori, era stato cresciuto dai genitori di


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Antonia in cambio di un piccolo assegno di mantenimento dato dal governo. Poi, una volta cresciuto, era rimasto nella casa che lo aveva accolto. Era successo anche in altre famiglie. Quando per Francesco giunse il momento di sposarsi, Arcangelo gli assegnò un pezzo di terra e lo aiutò a costruire la casa. Antonia era molto legata a tutti loro, specialmente a Giulietta, chiamata cosi in memoria di sua madre. Antonia e Giulietta avevano pochi anni di differenza, ed erano “uno sang” come spesso dicevano entrambe, a voler rimarcare la loro grande intesa e il loro affetto reciproco, che aveva lo stesso valore dei legami di sangue e anche di più. Avevano anche attraversato insieme, a piedi scalzi sulle pietre appuntite, le fredde acque della sorgente della Madonna di Canneto ed erano diventate così anche “commarelle di Canneto”. In questa grande famiglia la madre di Antonia non era l’unica che era venuta a mancare, c’era stata un’altra Maria Grazia nella loro casa, la prima dei cinque figli di Giulia e Arcangelo, ma era morta quando Antonia era molto piccola. Lei non la


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ricordava ma aveva sentito parlare di questa storia: era morta bruciata per colpa delle salsicce. *** Delle faccende domestiche, dopo la morte della madre, si occupava Maria Grazia, perché era la più grande e inoltre le piaceva. La casa era sempre piena di roba, non si potevano certo lamentare, avevano sempre di che mangiare e ne avanzava anche da poterlo vendere. Quando era tempo, a dicembre o gennaio, uccidevano due o tre maiali, uno per la loro famiglia e gli altri per venderli a qualche paesano che non aveva il posto per allevarli. Dell’uccisione se ne occupavano gli uomini, aiutati dai vari vicini e compari a cui però, se necessario, andava restituito il favore: la “scagnopera “. Alle donne di casa spettava il compito di non far mancare mai l’acqua bollente, necessaria per pelare il maiale, e preparare nel frattempo un lauto pranzo, perché dopo una simile faticaccia,


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era proprio quello che ci voleva per ritemprare il corpo e lo spirito, insieme a qualche fiasco di vino rosso, quello più buono. Mentre gli uomini si trattenevano in chiacchiere, anche per effetto di qualche bicchiere in più, le donne più anziane, senza indugiare troppo perché faceva buio presto, andavano a lavare le budella nel torrente lì vicino. In quel luogo si svolgeva il grosso del lavoro, quello più schifoso e puzzolente, che consisteva nello svuotare le budella dal loro contenuto, che non odorava propriamente di rose. Dopo un numero infinito di lavaggi, si finiva poi con gli ultimi risciacqui con l’acqua pulita del pozzo, profumata con minuscoli pezzetti di limone e di cedrangoli. La mattina dopo, prima del sorgere del sole, si sezionava il maiale e questo era compito degli uomini. Subito dopo, e per i successivi due o tre giorni, c’era per tutti un gran da fare in casa. Le donne soprattutto erano impegnate a tagliare in minuscoli pezzi la carne, con cui riempivano le budella, dopo averla salata e insaporita con pepe e finocchietto.


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Si salavano prosciutti e capicolli, si faceva la polenta con il sangue e infine la sugna, che utilizzavano per cucinare tutto l’anno al posto dell’olio, ed era utile anche per conservare per qualche tempo, in un vaso di coccio, le costate del maiale fritte. Si faceva anche il sanguinaccio, una specie di dolce fatto con il sangue del maiale, uva passa e cacao. Ad Antonia quel dolce faceva ribrezzo, come del resto tutte quelle terribili operazioni che portavano all’uccisione del maiale e al suo squartamento. Lei si otturava le orecchie quando lo sentiva strillare e si rifugiava in casa per non vedere, ma ciononostante doveva comunque aiutare e fare la sua parte. La sensibilità non era tollerata a quei tempi, veniva considerata debolezza e incapacità. Quando le salsicce erano ben legate e scolate si appendevano in cucina, con in mezzo rami e foglie di lauro per profumare la carne e per non farle attaccare le une alle altre, mentre con il tempo, il fumo e un poco di vento si seccavano. Quello che successe quell’anno, Antonia lo sentì raccontare perché lei era molto piccola e non ricordava nulla, e i suoi


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avevano solo potuto immaginare l’accaduto perché nessuno era presente al momento della disgrazia. Le salsicce erano pronte ormai per essere posate, la carne era rossa e profumata, la giornata era serena con un poco di vento, proprio il tempo adatto. Maria Grazia era sola quella mattina, non c’era nessun altro in casa e nemmeno fuori, aveva detto a tutti che non aveva bisogno di aiuto e ognuno se n’era andato per le proprie faccende. Dopo aver tirato giù le salsicce con un uncino, aveva iniziato a togliere i rami secchi del lauro e a buttarli, man mano, nel fuoco acceso, ma qualcuno era caduto fuori dal camino, molti altri si erano accumulati senza bruciare e cominciavano a fare fumo nella stanza. Lei raccolse da terra i rami caduti e si avvicinò al camino per buttarli nel fuoco e ravvivarlo ma in quell’attimo le fiamme, alimentate all’improvviso anche dal vento che entrava dalla finestra spalancata, si alzarono altissime prendendola in pieno. Presero fuoco i rami che portava in braccio, così come i suoi capelli e la sua larga


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sottana. Lei urlò e si dimenò ma nessuno la sentì e nessuno la aiutò. Proprio suo padre, quando ritornò per pranzo, la trovò ormai in fin di vita sulla porta di casa, dove era riuscita a trascinarsi. Dopo una straziante agonia di qualche giorno, Maria Grazia morì. Fu un giorno buio e triste per quella casa, proprio come il giorno in cui Antonia era nata e sua madre era morta. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

CAPITOLO 1 ..............................................................5 CAPITOLO 2 ............................................................11 CAPITOLO 3 ............................................................23 CAPITOLO 4 ............................................................26 CAPITOLO 5 ............................................................32 CAPITOLO 6 ............................................................41 CAPITOLO 7 ............................................................51 CAPITOLO 8 ............................................................60 CAPITOLO 9 ............................................................71 CAPITOLO 10 ..........................................................76


CAPITOLO 11 ..........................................................81 CAPITOLO 12 ..........................................................90 CAPITOLO 13 ..........................................................99


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Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2021) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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