Sull'orlo dell'abisso, Stefano Chinaglia

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In uscita il 24/12/2021 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine dicembre 2021 e inizio gennaio 2022 ( ,99 euro)

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STEFANO CHINAGLIA

SULL’ORLO DELL’ABISSO

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ SULL’ORLO DELL’ABISSO Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-515-8 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Dicembre 2021


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PROLOGO Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Inferno III, 1-3

Finalmente, al termine di un turno massacrante di diciotto ore ininterrotte, il comandante Jacopo Ravennate varcò la soglia della sua cabina. Per tutto il giorno e parte della notte aveva dovuto pilotare di persona la sua Virgilio attraverso il settore di Avles, sconvolto dall’esplosione di una supernova e dalla conseguente formazione di una nebulosa rovente. La prudenza avrebbe consigliato di cambiare rotta, ma i margini per la consegna del carico, un carico che doveva arrivare sulla Terra al più presto, non gli avevano lasciato scelta: aveva dovuto tagliare in pieno la nube, evitandone le sacche più pericolose e destreggiandosi in mulinelli gassosi che la fluidodinamica e la teoria del caos si erano divertite a creare. Uscire da quell’inferno a base d’idrogeno, ma con la complicità di mezza tavola periodica, era stata una delle più grandi gioie che avesse provato da cinque anni almeno a quella parte. Certo, in realtà non proprio tutto il lavoro era finito: restavano ancora le ultime propaggini della nube, con le loro zone oscure ai sensori, ma il più era comunque fatto. Si trattava di regioni lontane dal centro, fredde e poco dense. Insomma, niente più di quanto la normale navigazione spaziale non mettesse in conto. La sua prima reazione, una volta uscito dalla polvere e tornato a rivedere le stelle, era stata accasciarsi sulla poltrona del pilota. Di norma era il suo vice a sedervisi, ma la sua minore esperienza l’aveva destinato a un ruolo di supporto e di controllo dei dati. Anch’egli aveva tuttavia partecipato alla gioia generale, quando le sfumature rosse e violacee della nube avevano ceduto il posto, sulla vetrata anteriore, al nero puntinato di bianco e giallo dello spazio esterno.


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Applausi, congratulazioni, abbracci e pacche sulle spalle erano stati spontanei e inarrestabili. Qualcuno aveva persino proposto di festeggiare, drenando la cambusa di tutti quei liquori che, teoricamente proibiti, in realtà a bordo non mancavano mai. Certo avrebbe incontrato il consenso generale, se non fosse che, dopo diciotto ore di tensione, tutti gli otto membri dell’equipaggio erano sfiniti e desiderosi soltanto di una buona dormita: la nave si era comportata bene, ma li aveva portati quasi al limite della sopportazione umana. Il più distrutto, com’è facile immaginare, era il comandante: non solo perché aveva passato quelle diciotto ore tra continue valutazioni di pericolo e correzioni di rotta, destreggiandosi come un salmone tra le rapide e gli orsi, ma soprattutto perché ogni responsabilità era ricaduta, in definitiva, sulle sue spalle. Bisognava aumentare la potenza dei motori? La scelta era sua. Era necessario redistribuire il carico, per migliorare l’assetto, o ridurre l’energia ai sistemi di sostentamento, per aumentare la precisione dei sensori? Non poteva decidere un altro. Ogni scelta presentava vantaggi e svantaggi e, sebbene i suoi ufficiali si prodigassero nell’esporne rischi e benefici, consigliando talvolta come agire, il peso della responsabilità e la conseguente tensione erano una spada gravante unicamente sul suo capo. «Ci vediamo domattina», aveva salutato i suoi uomini lasciando la sala di controllo e barcollando appena verso il corridoio. Aveva persino dovuto concentrarsi mentre scendeva la scaletta a pioli verso il ponte mediano, dove erano collocate le cabine: di solito, su quella scaletta, la sua unica cura era assicurarsi che nessuno stesse per scendere quando doveva salire. Anche questi pensieri svanirono in fretta, tuttavia, quando la porta automatica scivolò silenziosa dietro di lui, lasciandolo libero di accasciarsi nei dieci metri quadrati che la compagnia gli metteva generosamente a disposizione per riposare e per svolgere tutte quelle funzioni amministrative che non richiedevano una presenza fisica sul ponte o alla stiva di carico. Senza pensarci due volte, arrancando in mezzo alla cabina, si abbandonò sulla cuccetta. Il materasso non era dei più comodi, e a casa sua non l’avrebbe tollerato, ma in quel momento gli sembrò l’anticamera del paradiso: un veloce intorpidimento dei sensi e quindi il sonno. Il privilegio di essere il comandante gli avrebbe consentito di svegliarsi anche a mezzogiorno, se lo avesse voluto, e, pur non credendo di restare


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addormentato così a lungo, era bello sapere che nessuna sveglia lo avrebbe costretto a lasciare quel luogo di piacere, a imbottirsi di caffè per non crollare e affrontare una nuova, lunga giornata di navigazione. Inspirò ed espirò più volte, con calma e regolarità, lasciando che le palpebre cedessero alle lusinghe e alle suppliche del suo corpo spossato. Per qualche momento oscillarono tra il desiderio di chiudersi e la volontà di rimanere aperte, ma quella resistenza era poco più che formale e cedettero volentieri dopo poche schermaglie, trasformando la penombra della cabina nel buio completo. Libera dalle forme della realtà, la sua mente vagò a quel punto lambendo appena la superficie della coscienza e posandosi or qua or là, senza connessioni causali, sui ricordi più recenti: la navigazione nella nebulosa, le delicate operazioni di carico e il carico stesso, fino alla sua casa presso San Miniato al Monte, dove lo attendevano sua moglie e i suoi figli. Tutto questo si mescolò in forma confusa, costituendo forse le premesse per un sogno, riducendosi a un’eco sfumata e lontana, mentre intorno dominava il buio. Stava già dormendo, o era comunque in procinto di farlo, quando il cicalio acuto del sistema di comunicazione lo riportò di colpo alla realtà. In un primo tempo cercò d’ignorarlo, sperando che fosse solo parte di un suo incubo. Ma gli istanti passavano e quel trillo monocorde continuava a perforare l’aria e le sue orecchie, infilzandogli il cervello fino a farlo sanguinare. Alla fine, non sopportando più il rumore, né riuscendo a riprendere il sonno, si girò sulla branda, cercando a tentoni l’interruttore della lampada notturna. Subito una luce debole e bluastra inondò il buio quasi totale della cabina, proiettando una luminosità incerta sulla scrivania, sullo stipo, sull’armadietto dei documenti; e infine anche sul terminale del calcolatore di bordo, incassato nella parete vicino alla porta, dove una spia rossa e lampeggiante lo incalzava ad alzarsi e a rispondere. Il comandante fu costretto a rimettersi in piedi, gli occhi che lottavano per non chiudersi ancora e le gambe incerte nel mettere un passo avanti all’altro. Dentro di sé, ancora confuso e per metà rimasto a letto, si ripromise di mandare all’inferno chiunque lo disturbasse, esigendo al contempo valide spiegazioni. Fu dunque con umore a dir poco ferino che premette il pulsante d’accensione del terminale, subito poi aggredendo i suoi disturbatori, senza dar loro il tempo di giustificarsi:


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«Sapete che ora è?» ruggì, scaricando in quelle parole tutta la sua rabbia. Se avesse avuto l’interlocutore di fronte agli occhi, invece che al di là di un interfono, non era sicuro che l’aggressione sarebbe stata soltanto verbale. «Mi rendo conto che è tardi, comandante, ma sarebbe meglio se venisse sul ponte», replicò la voce calma, un po’ imbarazzata e sulla difensiva, del suo secondo. «Abbiamo già dovuto operare una correzione di rotta e…» «Una correzione di rotta?» l’interruppe Ravennate. «E perché?» «Si è resa necessaria, signore», si giustificò l’ufficiale, a giudicare dal tono forse stringendosi nelle spalle. «Abbiamo delle letture anomale sui sensori e…» Stanchezza e rabbia, a quelle parole, si dissolsero in un attimo; o, se non altro, furono accantonate: una correzione di rotta e rilevamenti strani potevano forse attendere l’indomani, se presi separatamente, ma insieme caldeggiavano un’azione immediata. Tanto più che il loro carico non ammetteva imprudenze e che l’ufficiale responsabile, designato dagli spedizionieri, a fine missione avrebbe dovuto presentare un rapporto sull’efficienza di nave ed equipaggio. «D’accordo, sto arrivando», decise infine; quindi, chiusa la comunicazione, si preoccupò solo di rassettare appena la camicia, tutta stropicciata per le troppe ore dacché l’indossava. Fatto questo, fece scorrere sul lato la porta della cabina e uscì. Fuori, nel corridoio del ponte mediano, la luce era fredda e bianca come sempre e i suoi occhi faticarono un po’ ad abituarvisi. Dopo aver sbattuto più volte le palpebre, tuttavia, e prima ancora di aver risalito la scaletta per il ponte superiore, l’acclimatamento ebbe termine, così che poté dirigersi a passo spedito verso la plancia. Vent’anni di navigazione spaziale erano pure serviti a qualcosa e, sebbene non vedesse l’ora dell’avanzamento di carriera che gli avrebbe permesso di restare a terra, a bordo di un mercantile si sentiva perfettamente a suo agio. Quando varcò il portello del centro di comando, nessuno avrebbe potuto dire che si fosse appena svegliato. La plancia era situata nell’estremità anteriore del ponte. In essa si trovavano non solo la sezione di comando e il controllo del timone, ma anche la postazione radio e i terminali degli apparati sensori: telemetro, telecamere, infrarossi, radiometro eccetera. Una nave di ricerca o una


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nave militare disponevano, ovviamente, di strumenti più evoluti, ma anche le attrezzature di un mercantile, se conformi alla legge e, prima ancora, al buon senso, potevano comunque essere di tutto rispetto. C’erano tre persone, in plancia, all’ingresso di Ravennate: il copilota Vittoria Della Scala era prevista dal ruolino di servizio, il vicecomandante Antonio Rivolta era forse presente in virtù dei rilevamenti, ma il comandante ebbe difficoltà, in un primo tempo, a decifrare la presenza anche dell’ufficiale di carico; solo la tazza di caffè che stringeva in mano, particolare che notò in un secondo tempo, gliene suggerì maliziosamente il motivo. «Ancora in piedi, signor Brunner?» chiese in tono cordiale, concentrandosi per un istante su quella presenza non necessaria. «Il caffè giù in sala non è dei migliori», si limitò a rispondere l’altro, con il suo aspro e inconfondibile accento pusterese: del resto, un nome come “Michele Brunner” non denotava certo origini partenopee. «Qui, la macchinetta lo fa meglio.» «Certo», assentì Ravennate, increspando un angolo della bocca; a quel punto volse la sua attenzione sul vicecomandante e sul motivo per cui l’aveva buttato giù dal letto. «Ebbene? Posso sapere, ora, perché mi ha svegliato con tanta urgenza?» «Senz’altro», confermò Rivolta, annuendo. Mosse quindi verso le postazioni anteriori, dove il pilota e il copilota dirigevano la rotta della nave. Gli strumenti indicavano che tutto era tranquillo e anche lo spazio, al di fuori della grande vetrata anteriore, non presentava alcuna minaccia visibile. L’unica nota stonata in quell’armonia dai tratti corelliani era lo schermo del diario di rotta: alle due e trentacinque e poi di nuovo alle due e cinquantotto, il copilota aveva effettuato due correzioni non previste; né, almeno in apparenza, giustificate. «Eravamo fuori rotta», considerò infine il comandante, il tono piatto per la sorpresa: sapeva che la nave aveva bisogno di una revisione, ma fino a quel momento si era comportata più che egregiamente. «Di almeno due gradi», confermò il copilota, annuendo; in quel movimento, la frangia di capelli nerissimi che le copriva la fronte le diede un’aria sensuale che era impossibile, persino desiderandolo, ignorare. «La prima volta era solo di pochi decimi, così non vi ho dato peso e ho affidato la correzione al calcolatore. Ma la seconda volta ho dovuto ignorare il pilota automatico e correggere la rotta manualmente.»


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«Azione insolita, non c’è che dire», ammise Ravennate. «Sui sensori non c’è nulla?» «È questo il problema», intervenne ancora Rivolta, indicando i pannelli degli apparati esterni. «Non hanno rilevato nulla, eccetto la normale radiazione di fondo. Soltanto qui, ecco… sulla sinistra, alle due e trentatré, un picco anomalo di neutrini.» Il comandante, che aveva già lasciato la postazione di pilotaggio, con una piroetta e un passo fu di fronte agli schermi in questione: il rilevatore di neutrini indicava in effetti un incremento insolito, rispetto all’irraggiamento ordinario, ma non doveva dimenticare che stavano uscendo da una regione di spazio profondamente sconvolta. Poteva essere un effetto della supernova, una fluttuazione naturale sul valore medio, forse persino la scia dell’Olandese volante… poteva essere fin troppe cose, per quanto lo riguardava. «Va bene, teniamolo d’occhio», decise infine. «Qual è la situazione, al momento?» «Tutto sotto controllo, signore», rispose Rivolta. «Molto bene. Allora restiamo così. Vittoria, corregga la rotta di altri due gradi a dritta, giusto per essere sicuri; e continuiamo a raccogliere dati. Domani voglio esaminare i tracciati, per quanto possibile.» «Sì, signore», assentì il pilota, volgendosi una volta di più ai controlli di navigazione per eseguire gli ordini; anche Rivolta annuì in silenzio, impostando gli strumenti per registrare e scaricare i dati in seguito. «Non dimentichi che il carico deve arrivare sulla Terra al più presto», interloquì, da dietro, la voce di Brunner. «Non che io voglia intromettermi nella conduzione della nave, ma la magnetite nera è un materiale molto delicato e sarebbe disdicevole se…» «Non si preoccupi, Brunner», l’interruppe Ravennate, sfoderando la propria espressione più diplomatica e rassicurante. «Tagliando per il sistema di Avles abbiamo risparmiato più di due giorni sulla tabella di marcia. Questa correzione ci farà perdere solo qualche ora, niente di più.» L’ufficiale di carico parve soddisfatto dalla risposta: annuendo con fare cortese, controllò se nel bicchiere di plastica fosse rimasto ancora un fondo di caffè, che agitò un poco e tracannò d’un fiato. Quindi, non avendo più nulla da fare sul ponte e avendo ricevuto assicurazione che il carico sarebbe arrivato in tempo a destinazione, augurò la buonanotte a


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tutti e tornò verso la cabina che condivideva con il medico. Il comandante lo osservò per qualche istante, meditando su quanto fosse buffo il suo accento, prima di rivolgersi ancora al suo secondo. «Bene, credo di non aver più nulla da fare», cominciò, in tono conclusivo. «Nota per il giornale di bordo: ordinata correzione di rotta alle…» e qui scostò la manica della camicia per controllare l’ora, «tre e trentacinque dell’otto aprile. Posizione e velocità stimate, come da strumenti.» «Annotato, signore», confermò Rivolta, finendo di segnare l’appunto. «Già che c’è, vuole ordinare la colazione per domani?» «Cornetti e caffè», rispose il comandante, stando al gioco. «Cornetti alla crema e caffè nero.» «Ho segnato il suo ordine, signore. Resterà soddisfatto del servizio, non dubiti.» «Scherzi a parte, fate buona guardia», si raccomandò il comandante. «Vittoria, lei finisce il turno alle…» «Alle cinque, comandante», rispose il copilota, inarcando con malizia le labbra disegnate in un sorrisetto civettuolo e divertito. Non avrebbe dovuto prestarci attenzione, considerando il proprio stato civile e il fatto che con Della Scala aveva solo un rapporto di lavoro, ancorché ottimo; ma in fondo anche per lui era impossibile non notarne ogni espressione e ogni gesto. «Alle cinque…» ripeté Ravennate. «Allora si prenda la mattinata libera: siamo tutti un po’ stanchi, abbiamo bisogno di riposo.» «Grazie, signore», replicò il pilota, increspando ancor di più le labbra; adesso c’erano due fossette, sulle sue guance, e il comandante considerò tra sé che le donavano. «Lei, Rivolta, fino alle cinque è libero», aggiunse il comandante. «Cerchi di riposarsi: ne abbiamo tutti bisogno.» «Cercherò, signore», assicurò Rivolta, ma con un tono velato e ambiguo che il capitano non riuscì a decifrare. Se fosse stato meno stanco, avrebbe notato lo sguardo d’intesa tra il vicecomandante e il copilota, di come gli occhi neri di lui, per un attimo, avessero brillato e di come il petto di lei, per un attimo, avesse sussultato. Invece, del tutto neutrale nelle faccende private dei suoi uomini, si limitò ad abbracciare il ponte con un’ultima occhiata, voltandosi e tornando al suo alloggio: ora che


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tutto si era risolto, la tensione non poteva vantare più alcun diritto sul suo stato e la stanchezza aveva di nuovo preso il sopravvento. La luce azzurra della lampada lo accolse dolcemente, rispetto a quella bianca e tagliente del corridoio. Anche il letto, sulla paratia opposta, prometteva il piacere del sonno, un sonno tanto più meritato, poiché interrotto dalla necessità. Forse era il caso di rimanere a lungo in cabina, l’indomani: del resto, il privilegio di un comandante… di certo non avrebbe lasciato la stanza, senza prima essersi riposato. In fondo, riteneva di averne ogni diritto. Richiusa la porta dietro di sé, tornò verso il letto, ma questa volta non ci si abbandonò, cadendovi come un morto: tolse le scarpe e le calze e sbottonò anche una buona metà della camicia. Non era il caso di mettersi in pigiama, ma il maggior grado di veglia, rispetto a quando era rientrato la prima volta, gli consentì una miglior cura anche verso quei dettagli. Solo allora, sentendo gli abiti più comodi e fluttuanti intorno a sé, si girò su sé stesso e posò il capo sul cuscino; quindi, volta la mano a spegnere l’interruttore e ripiombata la stanza nel buio, si preparò a dormire. Impiegò qualche tempo a prender sonno. In quel mentre, come già in precedenza, la sua mente restò a fluttuare a mezza via per l’incoscienza, iniziando un pensiero per poi perdersi in un altro e via di seguito: si ritrovò così a chiedersi la causa di quelle anomalie, per poi baloccarsi con il ritorno a casa ormai prossimo, come la promozione; immaginando il cataclisma cosmico della supernova di Avles, tornò con il pensiero a casa, chiedendosi come apparisse il cielo primaverile e se ci fossero ancora, una volta al mese, le visite gratuite agli Uffizi. Ogni immagine e ogni pensiero si confusero con i precedenti e tutti, lentamente e dolcemente, lo cullarono verso quel temporaneo oblio, che, precorrendo anzitempo la morte, apre la porta ai mondi più incredibili e fantastici. E, qualche volta, ai più terrificanti.


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PRIMA ORBITA Guai a voi, anime prave! Non isperate mai veder lo cielo! I’ vegno per menarvi a l’altra riva, ne le tenebre etterne, ’n caldo e ’n gelo! Inferno III, 84-87

Non fu un’orchestra sinfonica, a svegliarlo. Solo un istante prima stava sognando di essere al festival neo-verdiano, uno degli appuntamenti preferiti di sua moglie e dei bambini, o almeno della più piccola; ma a un certo punto, nel sogno, gli archi si erano fatti stridenti, allungando le note in risate di streghe, e i corni che accompagnavano la Grand Marche del Salomone, in un incedere confuso avevano ceduto il passo a ululati e gemiti, simili al vento che fischia, urlando, tra gli alberi di un veliero al largo dell’Antartide. Nel sogno sentì crescere in sé la paura, mentre il teatro intorno scompariva, la gente del pubblico si allungava in forme contorte e nodose e il palco sprofondava in una voragine d’un arancione acceso e un rosso cupo, pulsando ritmicamente in una calma minacciosa. Sentì il cuore accelerare il battito, mentre il gorgo si faceva più vicino, sempre più vicino… avrebbe voluto gridare e fuggire, ma i muscoli gli si erano mutati in pietra e non rispondevano più ai comandi del cervello. Avrebbe voluto almeno chiudere gli occhi per allontanare da sé quella visione, ma anche il suo sguardo era incapace di voltarsi. Alla fine, più che il dormir poté il terrore: spalancò gli occhi all’improvviso, balzando a sedere nel letto. Il respiro era corto e affannato e non tardò a scoprire di essere madido di sudore: per quanto spaventoso, per quanto reale sembrasse, il suo era stato solo un incubo. Ma quell’incubo, ora che era di nuovo sveglio, l’aveva comunque portato con sé. Non appena si fu ripreso abbastanza da comprendere ciò che aveva intorno e distinguere ogni parte da un tutto confuso, capì che lo stridio dell’orchestra del suo sogno e il pulsare rosso e cupo del palco


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non erano un parto della sua mente stanca malata. Sopra la porta della cabina, la luce d’emergenza lampeggiava, alternando all’oscurità i suoi dardi cupi e sanguigni; accanto a essa, gracchiando un poco, gli altoparlanti laceravano l’aria con gli stridii della sirena d’allarme, incuranti di ogni resistenza. Per un istante, Ravennate non poté far altro che fissare quella luce e ascoltare quel suono, ipnotizzato e incredulo. Che mai era accaduto? Secondo i sensori, tutto era sotto controllo, la nave funzionava ottimamente e la rotta era chiara e ben tracciata… per un istante sentì il tempo dilatarsi e quell’istante, in lui, durò una vita intera. In realtà, bastarono pochi secondi perché tutto finisse e la sorpresa lasciasse il posto all’azione. Conscio del proprio dovere e delle responsabilità, balzò giù dal letto per raggiungere l’interfono, incurante di essere scalzo e con la camicia in totale disordine. Nella luce incerta dell’allarme e nello stordimento complessivo, ebbe un attimo di tentennamento, ma subito riuscì ad aprire il collegamento diretto con la sala controllo: certo dovevano saperne più di lui. «Plancia», cominciò, il tono saturo d’urgenza. «Che sta succedendo?» Attese un attimo che qualcuno parlasse, ma non ebbe risposta. La grata sottile di plastica dell’interfono rimase stolida e muta, inerte e indifferente. «Plancia!» esclamò di nuovo. «Rapporto! Mi sentite, plancia?» Ancora una volta, niente: la grata di plastica si rifiutò di sollevargli il cuore. Ravennate tornò a chiedersi che fosse successo: forse il sistema era saltato, forse in plancia non lo sentivano, forse era il suo terminale a non funzionare… una mezza dozzina di possibili spiegazioni si affollarono alla sua mente, compresa l’unica che non avrebbe mai voluto pensare. Forse, in plancia, non c’era nessuno. Nessuno ancora vivo, perlomeno. Premette il pulsante d’accensione una volta di più e, una volta di più, cercò di aprire la comunicazione. Una volta di più, però, non ottenne risposta. A quel punto, esitare ancora sarebbe stato un atto irresponsabile che non poteva permettersi. Incurante del proprio aspetto e della propria condizione, azionò con forza il comando d’apertura della porta e, senza nemmeno attendere che si aprisse del tutto, si precipitò all’esterno. In cabina, il pavimento era


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rivestito di una moquette di gomma e il contatto dei suoi piedi nudi con il freddo metallo del corridoio non fu dei più piacevoli, ma solo un angolo della sua mente restò impigliato in quel pensiero. Il resto era troppo coinvolto nell’emergenza, per spendersi in un così piccolo dettaglio. «Comandante!» lo chiamò d’improvviso una voce, mentre già aveva raggiunto la scaletta di collegamento. Con la mano aveva afferrato un piolo e stava per sollevare il proprio corpo sul sostegno del piede più in basso, quando, a quella voce, Ravennate si voltò di scatto; e sebbene anche il corridoio fosse pugnalato dalle luci e dalle sirene degli allarmi, riconobbe il profilo di Piero Franceschi, il tecnico radiofonista. Come lui, anch’egli era stato sorpreso nel pieno del sonno e, come lui, non aveva avuto modo e tempo di aggiustarsi gli abiti: era infatti a torso nudo e sulle gambe, invece dei pantaloni dell’uniforme regolamentare, portava un paio di calzoni corti alle ginocchia, certo indossati alla bell’e meglio per non giungere in plancia in mutande. La situazione non permetteva però di badare ai dettagli più formali e infatti il comandante non passò più di un secondo a valutare l’aspetto del suo ufficiale. Questi, nel frattempo, si era fatto più vicino, giungendo a sua volta alla giunzione della scaletta. La cabina che condivideva con i due motoristi si trovava in fondo al corridoio opposto, vicina alla piccola infermeria di bordo e al magazzino, e aveva fatto di corsa quel pur breve tratto; più che la corsa, però, era la preoccupazione a regnare nei suoi occhi. «Che succede, signore?» chiese il tecnico, fissando Ravennate con uno sguardo carico d’ansia e d’interrogativi. «L’allarme…» «Ne parliamo dopo, Franceschi», l’interruppe l’altro, con tono autoritario; poi, senza attendere risposta, volse di nuovo lo sguardo e si arrampicò su per la scaletta: in quel momento, la cosa più importante era tornare in plancia. In pochi movimenti, issandosi di piolo in piolo, Ravennate giunse al livello superiore. Posando i piedi sulla giunzione, per un attimo si sentì barcollare, al punto da essere costretto a sorreggersi alla parete: gravità artificiale o no, questo significava che la nave era in rapida accelerazione, comunque fuori controllo. Recuperando l’equilibrio, ma tenendo una mano appoggiata alla paratia per sicurezza, si lanciò in avanti, fino all’ultimo portello; e quando anche


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questo scivolò di lato, per un nuovo istante restò immobile per la sorpresa. In plancia non c’era nessuno: le postazioni del timone, del vicecomandante e del pilota, l’alcova del terminale radio, i pannelli dei sensori, la stessa poltrona di comando… tutto vuoto. Riuscì a distinguere, nel lampeggiare della luce inclemente, che il pannello di navigazione era attivo e il pilota automatico era inserito; ma di Rivolta o di Della Scala, nessuna traccia. «Non c’è nessuno, signore!» esclamò Franceschi, sottolineando l’ovvio con la sorpresa; ma, con la sua minore esperienza, non era da escludere che non si fosse ancora riavuto del trauma dell’allarme. Forse non si era nemmeno accorto di ciò che aveva detto. «Questo lo vedo», replicò Ravennate, precipitandosi al timone: la prima cosa da fare era triangolare la posizione, quindi recuperare il controllo e porsi di nuovo su una rotta stabile… poi avrebbero discusso anche del resto. Abbracciò l’intero pannello con uno sguardo d’insieme: gli strumenti sembravano impazziti. Il telemetro e l’accelerometro fornivano dati in continuo mutamento, mentre il giroscopio era in rapida rotazione. Cercò di rilevare la posizione delle stelle di riferimento, per dedurre il moto relativo della Virgilio, ma i sensori di navigazione non riuscivano a stabilire un aggancio. Tentò anche di guardare fuori dalla vetrata anteriore, per stabilire almeno approssimativamente la situazione locale, ma non riuscì a veder nulla di chiaro: solo un insieme confuso di luci bluastre e allungate, segno incomprensibile di qualcosa che fuggiva davanti a loro. «Controlli i sensori, Franceschi!» sbottò infine, senza distogliere lo sguardo dagli strumenti. «Che sta succedendo?» Il tecnico radio, ancora avvinto in uno stolido silenzio, si riscosse d’un tratto, precipitandosi verso i pannelli sul lato di dritta. Non era un esperto, altrimenti non sarebbe stato addetto alle segnalazioni radio, ma ne sapeva abbastanza per capire se fosse o no tutto normale… e ciò che si trovò dinanzi, di normale aveva poco o nulla. Telemetro, magnetometro, radiometro, termorilevatore… tutto sembrava in preda al delirio. Numeri e quadranti scorrevano davanti ai suoi occhi alternando cifre rosse e arancioni, mentre un mare di spie segnalava l’arrivo continuo di nuovi dati. Solo uno schermo sembrava fornire un


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dato comprensibile, per quanto lontanissimo dalla navigazione in uno spazio normale. «C’è un flusso di particelle ad alta energia, signore», annunciò il tecnico. «È sul lato di dritta… più o meno. La direzione è confusa…» «Non è la direzione a esser confusa, è il nostro moto», replicò il comandante, gli occhi fissi sul proprio pannello. «Siamo su una traiettoria irregolare. Che altro?» «Non lo so, signore. Io…» rispose Franceschi, scuotendo il capo: come poteva orientarsi, in quell’inferno ribollente di dati, di spie, di tracciati? Prima che potesse aggiungere qualcosa, tuttavia, fu interrotto dal cicalio della sua postazione: un cicalio insistente, simile allo squillo di un telefono, che già nel tono indicava una nozione d’urgenza. Senza attendere, Franceschi attraversò diagonalmente la plancia, sistemandosi presso il suo terminale. La comunicazione era su una linea interna e, nonostante fosse anche una linea ordinaria, non era il caso d’ignorarla a lungo. «Sala macchine, signore», annunciò. Poi, come da prassi, inserì la comunicazione. «Plancia, qui sala macchine», esordì la voce del capo motorista, ben chiara nonostante la distorsione degli altoparlanti. «Che sta succedendo?» «Vorrei saperlo, Franchini», rispose Ravennate, lo sguardo sempre fisso sugli strumenti; finora, infatti, i suoi sforzi non sembravano aver dato alcun frutto. «Sembra che siamo incappati in un flusso di particelle e abbiamo perso il controllo. Qual è la situazione in sala macchine?» «Ancora incerta, signore», rispose il motorista. «Marcello e io stiamo controllando, ma abbiamo alcuni apparati fuori uso. C’è una perdita dal sistema di raffreddamento e…» «Cerchi di contenere i danni», l’interruppe il comandante, sentendo già le prime gocce di sudore imperlargli la fronte. «Ho bisogno di tutta la potenza e la manovrabilità dei motori, per governare la nave.» «Farò il possibile, signore», rispose Franchini. «Sala macchine, chiudo.» La voce dell’ingegnere si perse in un ronzio sordo, prima di svanire del tutto. Il comandante si augurò che la situazione fosse meno grave di quanto sembrava e che riuscissero a tenerla sotto controllo. Certo, i due motoristi Marco Franchini e Marcello Ferrari erano tecnici validi e l’avevano dimostrato in più occasioni, soprattutto nella recente


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navigazione ad Avles, ma in quella situazione d’emergenza non potevano permettersi errori: perché ogni errore può essere fatale di fronte all’ignoto. Per parte sua, doveva solo portare la nave su una rotta stabile. Ma non era un compito facile: gli strumenti erano come impazziti ed era impossibile anche solo comprendere il moto relativo. I sensori continuavano a non agganciarsi alle stelle fisse, forse nemmeno a rilevarle, e il comandante era costretto ad apportare continue correzioni alla cieca. Anche guardar fuori dalla vetrata di prua non era d’aiuto, perché intorno a sé vedeva solo quella nube maledetta… e, intanto, la nave continuava a vorticare nel suo folle volo. Aveva bisogno di qualcuno al suo fianco. Non riusciva a tenere sotto controllo tutti gli strumenti e tutti i comandi del timone e usare il pilota automatico era fuori questione. Ma perché Rivolta e Della Scala non erano in plancia? «Franceschi, tutti ai loro posti», ordinò infine, sperando che bastasse, per riaverli indietro. «E tolga questi maledetti lampeggianti, dannazione!» Il tecnico annuì e provvide, ma Ravennate non si volse certo a guardarlo: la sua attenzione continuava a essere assorbita dagli strumenti impazziti, nel tentativo di ottenere delle letture coerenti. Ma perché i suoi ufficiali tardavano? Dov’erano andati? «Franceschi, torni ai sensori», ordinò d’un tratto, intravedendo forse una speranza. «Deve darmi l’esatta direzione e intensità del flusso di particelle, mi ha capito? Direzione e intensità, non pensi ad altro!» «Ma, signore…» «Lo faccia e basta!» Davanti a un ordine così perentorio, gridato senza lasciare possibilità di replica, il tecnico si guardò bene dal ribattere. Lasciò la propria postazione radio per tornare di nuovo ai pannelli dei sensori, fissando la propria attenzione sui rilevatori di particelle; se non altro, non si trattava di un compito difficile. «L’intensità del flusso è costante a forza sette, signore», rispose. «Piccole oscillazioni tra sei virgola nove e sette virgola due. Ci ha presi sul lato di dritta, ma l’angolo è in rapida fluttuazione. L’assetto verticale è stabile intorno a ventidue gradi.»


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«Mi aggiorni sugli angoli ogni cinque secondi», ordinò ancora il comandante, concentrandosi invece sulla sua parte. «Se tutto va bene, riusciremo a cavalcare le rapide.» Non poteva essere certo infinito, quel flusso di particelle: navigando seguendone la corrente, assecondandola invece di contrastarla, forse avrebbe potuto portare la nave al sicuro, al di là della tempesta. Per prima cosa occorreva però stabilizzarsi e, quindi, gettarsi nel mezzo del fiume; ciò fatto, allora… «Comandante! Si può sapere cosa…» La voce dell’ufficiale di carico ruppe all’improvviso il clima della sala controllo, introducendo un elemento estraneo alle necessità della situazione: Brunner si era appena presentato sulla porta, in camicia da notte, il volto disfatto e i capelli in disordine, l’espressione a mezza via tra l’urgenza dell’allarme e lo stordimento del sonno interrotto. Ma quell’uomo, pur indispensabile durante le operazioni di carico e scarico e sempre bene accetto durante la navigazione tranquilla, in quel momento non era che una fastidiosa interferenza. «Non ora, Brunner!» esclamò Ravennate di rimando. «Abbiamo cose più urgenti. Franceschi, l’angolo?» «Ma, comandante…» «Non ora, ho detto!» urlò il capitano, voltandosi, la voce più prossima a un ringhio ferino che ai toni civili di un uomo. Certo, un simile scatto di collera era inopportuno, ma perché tutti si sentivano in diritto di contestare i suoi ordini? Per un istante, nonostante l’emergenza, sulla plancia calò il silenzio. Franceschi, che fino a quel momento aveva prestato poca attenzione all’ospite indesiderato, si volse di scatto sul comandante, incredulo che un simile tono fosse uscito dalle sue labbra. Anche il diretto interessato dovette però sorprendersene, scrutando i volti di pietra dei suoi due ufficiali. «Siamo in emergenza», proseguì infine Ravennate; era più calmo, ma sempre con una forte tensione nella voce. «Parleremo dopo. Ora, se vuole rendersi utile, vada piuttosto a rintracciare Rivolta e Della Scala.» Forse fu l’accenno a un compito, forse fu il cambio di tono, ma le membra contratte di Brunner si sciolsero e l’ufficiale riprese probabilmente anche a respirare. Il ricordo della collera e il ringhio rabbioso di poco prima, tuttavia, echeggiavano ancora nella sua


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memoria, così che non osò ribattere: volte le spalle, uscì dalla plancia e svanì nel corridoio. Sentendo il cuore rallentare i battiti, Ravennate dovette tuttavia combattere con le mani tremanti: l’attacco d’ira era passato, ma la tensione che scemava nel suo corpo esigeva adesso il suo prezzo. No, disse a sé stesso, non poteva permetterlo: doveva rimanere lucido, ma non poteva permettersi il lusso di rilassarsi! «Continuiamo», decise infine, mormorando la parola tra sé, nei denti. «Franceschi, gli angoli?» «Trentotto e ventidue gradi, signore», rispose il tecnico, scandendo ad alta voce il dato dei sensori; dentro di sé, tuttavia, non poté fare a meno di tirare un sospiro di sollievo. «Trentacinque e ventuno… quarantadue e diciannove… trentasette e venti… trentatré e diciotto…» Ogni volta che il primo dei numeri letti era più grande del precedente, il comandante aumentava i reattori di manovra di sinistra, correggendo la rotta avanti o indietro secondo la necessità; similmente agiva per il secondo numero, intervenendo sui propulsori ventrali e dorsali. Anche quando il numero calava, programmava la correzione di rotta, ma più docilmente, per evitare che la nave, andando del tutto fuori controllo, entrasse in rotazione. D’altro canto, sebbene ci fosse una diminuzione progressiva dell’angolo del flusso, questo restava elevato e molto variabile, segno di una condizione ancora troppo instabile. Alla fine, però, i dati di Franceschi cominciarono a farsi rassicuranti: venti e cinque… ventidue e cinque… ventitré e quattro… ventuno e cinque… di nuovo venti e cinque… e poi ventuno e quattro, diciannove e due, venti e tre, diciotto e zero. L’assetto verticale era recuperato e ora la nave procedeva sempre più parallela al flusso. Non dovevano demordere, ora che erano infine sulla strada giusta, e recuperare anche la stabilità orizzontale. Certo, a tratti la misura cresceva troppo e allora Ravennate doveva spingere i propulsori al massimo, ma riuscì infine ad aggiustare correttamente l’assetto della nave. Il primo effetto, subito percepibile, fu la stabilizzazione della gravità artificiale. Il sistema non era perfetto e, sottoponendo il velivolo a forti tensioni, anche la gravità ne risentiva, risultando alterata e instabile. Durante tutta la navigazione, cercando di governare quella corrente impetuosa, Ravennate aveva chiaramente sentito la trazione verso l’una o l’altra direzione, le spinte in avanti, trattenute solo dall’imbracatura del


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sedile, o quelle all’indietro, a volte così forti da fargli quasi perdere conoscenza. Ora, però, era tutto più facile e, sebbene l’assetto non fosse ancora buono, gli sbalzi nella gravità interna si erano fatti perlomeno tollerabili. «Tre gradi, signore», annunciò infine Franceschi, al termine di un’ultima, lunga serie di numeri. «Anche l’assetto orizzontale si mantiene stabile. Oscillazioni tra due e cinque gradi.» Quelle parole furono come un balsamo, per Ravennate: sentì le membra sciogliersi, la tensione allentare la presa e i muscoli della schiena adagiarsi sull’imbottitura della poltrona. Erano ben lungi dall’essere fuori pericolo, ma almeno era riuscito a stabilizzare la nave nel flusso. «Ce l’ha fatta, signore», lo riscosse la voce del radiofonista; probabilmente, parlando, non aveva lasciato alcuna interruzione, ma il comandante non vi aveva fatto caso. «Non cantiamo vittoria troppo presto», lo ammonì severamente questi, tornando a riscuotersi: quell’ammonimento, infatti, valeva anche per lui. «Questa è solo la prima parte, ora dobbiamo uscire dal flusso. Gli strumenti possono valutarne l’estensione?» «Non in queste condizioni, signore», negò il radiofonista. «Ci sono troppe interferenze.» Va bene, pensò Ravennate: allora avrebbe dovuto andare alla cieca e sperare che la nave fosse ancora in grado di reggere; e avrebbe dovuto farlo da solo, non avendo più ragione di credere che il vicecomandante e il copilota sarebbero tornati all’improvviso. «Continui a tener d’occhio l’angolo orizzontale, Franceschi», ordinò. «Mi avverta, non appena salisse oltre i dieci gradi.» «Sì, signore», assentì l’altro. E ora partiamo, pensò il comandante. La seconda parte dell’impresa non era infatti meno difficile di quanto già fatto: se all’inizio aveva dovuto riportare la nave in assetto, adesso doveva mantenere quell’equilibrio precario, finché non fossero usciti dal flusso. Ricordava ancora come croce e delizia quando, da bambino, lo avevano portato sulle rapide in qualche luogo sulle Alpi: qui sarebbe stato lo stesso, solo che la croce era già dieci volte più pesante e la delizia assente. «Ora!» esclamò, più che altro per sé stesso; e, pronunciando quella parola, diede un rapido colpo sui propulsori anteriori a sinistra e posteriori a destra, mettendo di nuovo la nave in rotazione: solo di pochi


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gradi. Quindi, di nuovo, azionò i propulsori, ma al contrario: destra a prua, sinistra a poppa. Se tutto fosse andato bene, avrebbero guadagnato un buon tratto orizzontale, senza perdere la stabilità. «Franceschi, l’angolo?» «Restiamo a quattro gradi, signore.» Quattro gradi, ottimo: dunque restavano stabili. Ora non si trattava che di ripetere l’operazione più e più volte, finché non fossero usciti. Non sarebbe stato facile e i pericoli erano ancora molti, ma ogni passaggio avrebbe facilitato le cose, poiché la densità del flusso sarebbe ragionevolmente diminuita. «Ora!» esclamò di nuovo, ripetendo la manovra: propulsori di sinistra a prua e di destra a poppa. Li tenne attivi solo per un istante, il tempo appena di una fiammata, lasciando poi per uno o due secondi che l’inerzia facesse il resto. Quindi, di nuovo, attivò i propulsori opposti per virare. Aveva appena completato la manovra e stava per chiedere al radiofonista l’angolo, quando questi, precedendolo, gli annunciò quello che non voleva sentire. «Perdiamo l’assetto, signore!» esclamò Franceschi, la voce tremante. «Abbiamo il flusso nella sezione ventrale.» La sezione ventrale! Ravennate ebbe un tuffo al cuore, perché questo significava che l’assetto verticale era in pericolo; il che poteva persino essere più grave di quello orizzontale. Sentendo la mano che tremava per la tensione, programmò una nuova correzione di rotta: propulsore dorsale di poppa, intensità minima. Nello stesso tempo doveva però controllare anche i propulsori laterali e mantenere stabili entrambi gli assetti… era un’operazione dannatamente difficile, da condurre da solo. Ma dove diavolo erano Rivolta e Della Scala? Recriminare, tuttavia, non serviva a nulla. Tornò invece a correggere la rotta secondo i dettami di Franceschi, dovendo ora lottare non contro uno, ma contro due angoli recalcitranti. Sembrava di essere ancora in balia di un torrente violento e impetuoso. Il sistema di gravità artificiale compensava gran parte delle deviazioni, ma era comunque possibile avvertire una spinta ora a destra, ora a sinistra, avanti, indietro, in alto o in basso. Soprattutto per Franceschi, in piedi davanti ai pannelli dei terminali, restare in equilibrio era una sfida continua.


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Ravennate, dal canto suo, non intendeva cedere. Pur avendo la fronte imperlata di sudore e pur essendo costretto, a tratti, a passarsi una mano sugli occhi per scacciare quelle goccioline che calavano ostinate, riuscì a mantenere tutto il suo sangue freddo e a operare, di volta in volta, la correzione di rotta più opportuna. Istante dopo istante, correzione dopo correzione, gli scossoni diminuirono e la situazione ritornò tranquilla. Anche i numeri in questo gli furono di conforto e quando infine Franceschi annunciò: «Sette e due, signore», non mancò sospirare di sollievo: l’allineamento al flusso non era ancora perfetto, ma poteva andare. Restava, però, il problema principale: dovevano pur sempre uscire dalla corrente e sarebbe bastata una mossa sbagliata per perdere tutto una seconda volta… senza contare che non sapeva quanto ancora la nave avrebbe resistito. Aveva due possibilità per uscire: continuare con piccole virate, o giocarsi il tutto per tutto. La prudenza avrebbe suggerito la prima strada e infatti, all’inizio, la seconda non l’aveva neanche presa in considerazione. Ma adesso le cose erano diverse e non era detto che non fosse il caso di modificare la propria strategia. «Franceschi, mi dia la sala macchine», ordinò infine, la voce esausta e il respiro pesante. Il tecnico non se lo fece ripetere due volte, ben felice di lasciare la postazione dei sensori, per lui così innaturale, e tornare invece al suo lavoro alla radio. Attraversata la plancia, con due semplici comandi attivò l’interfono. «Sala macchine», rispose, sempre gracchiando un poco, la voce del motorista in seconda; a giudicare dal tono, le cose non andavano troppo bene. «Qui plancia», cominciò Ravennate. «Qual è la situazione?» «Abbiamo danni ai motori, non sappiamo quanto gravi», rispose Ferrari. «La rete di comunicazione interna è parzialmente fuori uso e ci sono problemi con i servizi generali: sembra che metà delle porte non si apra. Potrebbero esserci danni allo scafo, ma è presto per dirlo. Abbiamo un bel daffare, in questo momento.» L’ultima frase era un invito, in verità non troppo velato, a sbrigarsi e a non perdere tempo con domande oziose. Ravennate non se lo fece ripetere e venne subito al sodo.


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«Qual è lo stato dello scafo?» Per un istante, dall’altra parte della linea vi fu silenzio. Probabilmente Ferrari stava pensando alla risposta da dare, o aveva dovuto rivolgere la sua attenzione al suo capo; poteva persino avergli chiesto lumi. Si riprese tuttavia subito dopo, fornendo al comandante il suo verdetto. «Se continuiamo a prendere questi scossoni, è prognosi infausta», rispose. «C’è già un indebolimento moderato in più punti e la tensione rischia di darci ancora problemi. Qualunque cosa stia succedendo, è bene che finisca in fretta.» «Ho capito», replicò il comandante. «Qui plancia, chiudo.» Quella risposta non lasciava altra scelta: potevano permettersi un solo tentativo e questo significava rinunciare alla prudenza. Giocare il proverbiale tutto per tutto era un azzardo, ma l’alternativa era non riuscire a gestire la virata e vedere la nave andare in pezzi. Si volse di scatto, abbracciando con lo sguardo tutti gli schermi dei sensori. Avrebbe dovuto avvicinarsi, per distinguerne i dettagli, ma anche così poté capire che non gli erano d’aiuto, incapaci di rivelargli l’estensione della tempesta. C’era solo un dato che poteva servire allo scopo: l’intensità del flusso. Si volse di nuovo, aprendo una nuova schermata sul pannello di navigazione. Il valore dell’intensità era diminuito, rispetto alla prima misurazione di Franceschi: ciò significava che si erano portati verso l’esterno del flusso. Assumendo, per la densità, un profilo gaussiano e supponendo, nell’ipotesi peggiore, di essere finiti inizialmente al centro… confrontando i dati, il calcolatore gli fornì il diametro presunto del flusso: non più di venti chilometri e si trovavano a forse cinque dal confine della regione di pericolo. Quando ne fossero stati fuori, avrebbero ripreso il controllo e, con esso, avrebbero potuto valutare la situazione. Trenta gradi potevano bastare. Trenta gradi sulla dritta, sperando che l’assetto verticale rimanesse stabile. D’altro canto, non poteva fare nient’altro: avrebbe dovuto tener duro e mantenere la rotta, lasciando perdere le piccole correzioni. Il rischio era che tutto andasse rapidamente a rotoli, ma quel rischio doveva ormai accettare di correrlo. «Torni ai sensori, Franceschi», ordinò, le dita che già sfioravano i comandi sul pannello; tremavano anche un po’, consce, come ogni fibra


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del suo corpo, del rischio che stavano per correre. «E mi tenga aggiornato sugli angoli.» Respirò profondamente, chiuse gli occhi e respirò di nuovo: ormai aveva deciso e bisognava andare. «Ora!» gridò, nel momento stesso in cui impartiva i comandi ai motori. Il primo impatto fu particolarmente violento. Ravennate si sentì schiacciare contro il sedile, mentre davanti a lui, oltre la vetrata principale, la nube bluastra turbinava impazzita. Il forte gradiente di pressione colpì anche il sangue nel suo cervello, tanto che per un attimo perse la vista. Lottò con tutta la propria forza per non perdere anche i sensi e, infine, riuscì a rimanere cosciente. «Trentuno e cinque, signore», annunciò intanto la voce del tecnico, impacciata da una paura che sempre meno riusciva a dominare. «Signore, io…» «Gli angoli, Franceschi!» l’interruppe il comandante, senza prestargli altra attenzione: era già tutta rivolta alla rotta e al timone. Cominciò ad avvertire una vibrazione, simile a quella di un terremoto: la nave stava forse per sfasciarsi? Certo doveva sopportare una tensione indicibile e, avendo un’alternativa, mai avrebbe rischiato. Ma doveva restare calmo, calmo e lucido, e sperare che questo bastasse a tenere la Virgilio tutta d’un pezzo. La successione degli angoli, intanto, continuava: l’assetto verticale si teneva stabile e così quello orizzontale, a circa trenta gradi come l’aveva orientato. Se tutto fosse andato bene… Stava formulando quell’esatto pensiero, quando uno scossone lo spinse violentemente in avanti e, nonostante le cinghie dell’imbracatura, poco mancò che non sbattesse contro il pannello di navigazione. Riprese subito il controllo, ma non impiegò molto ad accorgersi che gli scossoni continuavano e che, con ogni probabilità, l’assetto era perduto. «Franceschi, gli angoli?» gridò senza voltarsi, troppo impegnato a controllare gli strumenti di navigazione; ma quando non giunse alcuna risposta fu costretto a volgere il capo e a scoprire il radiofonista accasciato a terra, una mano fissa sulla tempia insanguinata e l’altra che tentava di mantenere la stabilità, se non l’equilibrio, della posizione. In quel momento, da lui non poteva pretendere più nulla. Ormai navigava alla cieca. Senza più informazioni sull’angolo del flusso, poteva solo sperare che questo fosse meno esteso dei danni allo scafo.


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Tutto ciò che poteva fare era correggere la rotta a occhio, sperando che bastasse. Ma la sua volontà era ancora forte e quella volontà era l’arma più potente che potesse mettere in campo. Non seppe mai con precisione quanto durò quella fase. Minuti, certamente. A un tratto gli parve però che il cielo blu e viola oltre la vetrata si facesse più scuro, virando verso i toni cupi del blu di Prussia e del porpora araldico. Addirittura gli sembrò d’individuare qualche traccia di nero. Ci siamo, pensò, doveva solo resistere… Proprio in quel mentre, un nuovo scossone, più forte dei precedenti, lo costrinse a ricredersi. Dietro di sé, alla propria postazione, sentì l’allarme d’integrità lacerare l’aria: la tensione sullo scafo doveva essere a livelli critici, almeno in qualche suo punto. Poteva saltare da un momento all’altro. Non c’è più nulla da perdere, si disse: con una brusca virata a dritta puntò là dove la nube gli sembrava più scura, spingendo i propulsori al massimo. Per lunghi, interminabili secondi fu incapace di respirare, nell’attesa di scoprire se avesse fatto la scelta giusta o se avesse soltanto corso un nuovo rischio inutile. Quando lo scoprì, riprese a respirare. Di fronte a lui, quasi d’un tratto, si aprì una distesa scura, nera come la pece e puntinata qua e là da piccole stelle lontane. Il suono degli allarmi, nelle postazioni dietro di lui, cessò come d’incanto, gli scossoni terminarono e la gravità artificiale riprese un controllo totale. I sensori di navigazione funzionavano ora perfettamente e fu subito in grado di stabilire posizione e velocità relativa, abbastanza da poter chiudere gli occhi e riprendere lentamente fiato. Certo, c’erano ancora delle cose da sistemare e l’emergenza era tutt’altro che finita, ma il più almeno era fatto. Respirando ancora in affanno, abbandonandosi sulla poltrona, controllò l’ora: le cinque e quarantanove. L’intera emergenza, da quando aveva lasciato il suo alloggio, era durata non più di mezz’ora.


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SECONDA ORBITA I’ venni ’n loco d’ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta se da contrari venti è combattuto. Inferno V, 28-30

La prima azione di Ravennate, una volta constatato che non correvano pericoli immediati, fu prestare soccorso a Franceschi: in quello scossone aveva battuto la testa ed era ancora intontito, ma non aveva perso conoscenza. Il guaio peggiore era una vistosa ferita alla tempia, che gli aveva trasformato il viso in una maschera di sangue: nulla di più perfetto, per interpretare un qualsiasi fantasma shakespeariano. D’altra parte, la ferita era superficiale e anche l’emorragia ormai si era arrestata, così che non doveva temere per le sorti dell’ufficiale. «Poteva andarle peggio», considerò, tamponandogli la ferita con un po’ di cotone imbevuto di disinfettante, gentile omaggio della cassetta del pronto soccorso. «Se l’è cavata con una botta e un bel taglio. Credo che non ci sia niente di rotto, però.» «Credo… credo anch’io, signore», replicò il tecnico, biascicando le parole insieme a un sorriso mezzo intontito; solo che, coperto com’era di sangue, quel sorriso somigliava fin troppo al ghigno malevolo di un Malacoda. «Va bene, più di così non posso fare», concluse il comandante, premendo un’ultima volta il tampone sulla ferita. «Scenda in infermeria e veda cosa può fare il dottor Gianciotti. Qui vedrò di cavarmela io.» «È sicuro, signore?» tentò, più che altro per dovere, di replicare il tecnico. «Io…» Indicò la radio, come per dire che sarebbe stato più utile alla sua postazione, ma Ravennate lo ignorò: bastò ordinargli, pur con un tono scherzoso, di presentarsi in infermeria, per vincere ogni resistenza.


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E ora pensiamo alla nave, rifletté il comandante, mentre Franceschi si allontanava barcollando verso l’uscita. Non aveva però ancora raggiunto il portello, che questo scivolò di lato; e anche nella fioca luce della sala controllo, le due figure che si stagliarono sullo sfondo nero del corridoio non potevano lasciar dubbi sulla loro identità. Vedendoli, Ravennate avrebbe voluto esplodere in un "Voi!", ma la rabbia che sentì crescere dentro di sé fu tale che non riuscì a pronunciare nemmeno quell’unica sillaba. Le sue labbra tremarono, insieme ai muscoli delle guance e della gola, e le dita si contrassero a pugno con una forza che, se avesse portato le unghie un po’ più lunghe, queste gli avrebbero lacerato la pelle delle palme. In quel momento, tale era la collera e tanto improvvisa nel suo cuore, si sarebbe volentieri scagliato contro i suoi due ufficiali per sbranarli vivi. «Felice di rivedervi», disse infine, in un sibilo. Avrebbe anche voluto aggiungere un “Dov’eravate?”, ma la sua parte cosciente fu occupata a mantenere un respiro calmo e regolare. Sul profilo dell’ingresso, con gli occhi vergognosi e bassi, Rivolta e Della Scala mossero svogliatamente all’interno della plancia, silenziosi nella consapevolezza della colpa. Certo, non conoscevano i dettagli di quanto era successo, ma il semplice fatto che fosse successo li marchiava con il ferro rovente della responsabilità. Avevano mancato al loro dovere e, a causa di questo, l’intera nave si era trovata in emergenza e aveva rischiato di andare distrutta: dettagli o no, era già abbastanza. Mentre entravano, ponendosi sotto la luce delle lampade, Ravennate poté osservarli meglio, scoprendo allora il perché della vergogna e della colpa; e questo non fece che peggiorare le cose. Entrambi avevano un aspetto scomposto, ma non perché l’emergenza li avesse colti all’improvviso, come per lui o per Franceschi. Rivolta indossava appena un paio di pantaloni, corti al ginocchio, e aveva la camicia aperta, le maniche arrotolate, e i capelli in disordine. In quanto al copilota, Della Scala sul petto portava solo il reggiseno, sistemato alla bell’e meglio con una spallina abbattuta sul braccio, e un paio di calzoni corti; anche i suoi capelli erano in disordine, sistemati in una coda improvvisata, ma, più di tutto, indizio rivelatore era il suo trucco: l’ombretto era calato giù dalle palpebre verso gli zigomi e, dalle labbra, il rossetto disegnava sbavature rossastre verso entrambe le guance.


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Davanti a un simile spettacolo, aggiungere che i due condividevano la stessa cabina era del tutto superfluo. Ravennate, dentro di sé, sentì la collera montare anche più di prima: Achille non doveva aver subito di meno, dopo lo sgarbo del re di Micene. Cosa facessero Rivolta e Della Scala nelle ore di riposo, non gli interessava, non era compito suo giudicare nel privato i membri del suo equipaggio; ma quando il privato interferiva con i loro doveri di ufficiali in navigazione, questo non poteva più tollerarlo. «Spero che siate comodi», commentò ancora, non riuscendo a trovare altro di meno offensivo. I due si posero l’uno accanto all’altra, il capo chino e le mani dietro la schiena, come colti in flagrante a rubare la marmellata o a rompere la vasca dei pesci. L’atteggiamento umile e sottomesso non bastò tuttavia a placare il comandante, che per dieci secondi buoni si limitò a guardarli con occhi di bragia, senza dire nulla; e quel silenzio era ben più pesante che un duro rimprovero. «Comandante, noi…» cominciò infine il secondo, la voce ridotta a un sussurro, senza però osare di sollevare lo sguardo. «Non una parola, Rivolta!» urlò Ravennate, lasciando esplodere quella rabbia che covava dentro. «Si può sapere che cosa le è preso?» Le mani, sbiancate del sangue, gli tremavano. Avrebbe voluto afferrare l’uomo per la gola e sbatterlo contro la paratia, inveire contro di lui, ma ben sapeva di non poterlo aggredire. Di sicuro avrebbe aggiunto sul suo diario fiele e veleno, ma sarebbe spettato poi alla compagnia prendere i provvedimenti del caso. Rivolta, dal canto suo, tacque, non sapendo se obbedire all’ordine di non parlare o provare a spiegare il suo punto. Certo erano colpevoli, ma non come forse il comandante credeva: le circostanze attenuanti c’erano e non prive di spessore. Ci pensò il copilota a trarlo d’impaccio: «Abbiamo tentato di tornare in plancia, quando ci siamo accorti dell’allarme», disse; anche la sua voce era alterata dalla consapevolezza di ciò che aveva fatto, ma non allo stesso punto di quella di Rivolta. «Ma siamo rimasti bloccati. Ci sono voluti dieci minuti almeno, per aprire la porta. Lo chieda a Brunner, lui…» «Dieci minuti», l’interruppe Ravennate, sarcastico. Quindi, incrociando le braccia: «E, sentiamo un po’: quando sarebbe scattato l’allarme?»


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I due accusati tacquero ancora, senz’altro in imbarazzo per la sola risposta che potevano offrire: la verità. Mentire non sarebbe servito a nulla, perché, anche se avessero ingannato il comandante, avrebbero poi dovuto fare i conti con l’inchiesta; e allora, nonostante la vergogna, tanto valeva uscire allo scoperto. «Avevamo isolato la cabina», spiegò Rivolta, biascicando le parole. «Noi… ecco, volevamo passare un po’ di tempo insieme, da soli. Io stesso ho escluso il circuito di comunicazione. Non ci siamo accorti dell’allarme, se non quando la gravità artificiale…» «Basta così», l’interruppe bruscamente il comandante; certo, la collera più subitanea era svanita, ma restava la traccia di una rabbia fredda e livida, come la scia di una fregata nell’oceano antartico. «Quello che avete fatto non ha bisogno di commenti. Non m’interessa ciò che fate fuori servizio, ma…» S’interruppe, rendendosi conto dell’inutilità di quella paternale: non erano ragazzini, non erano i suoi figli e, comunque, il danno ormai era fatto. Una volta rientrati alla base, avrebbe consegnato tutti i rapporti e tutti i documenti e la direzione avrebbe deciso come muoversi. In quel momento doveva essere pragmatico e, per quanto volesse sbattere ai ferri ambedue i disobbedienti, aveva bisogno di loro. «Dobbiamo rimettere la nave su una rotta stabile, inventariare i danni e tutto il resto», riprese infine, la voce ora piatta e calma. «Avremo tempo, dopo, per discutere. Ai vostri posti.» «Sì, signore», risposero prontamente i colpevoli, avvolti in una sensazione strana: da un lato, sollievo per la punizione evitata; dall’altro, vergogna per la coscienza della colpa. Ravennate non dedicò attenzione agli ufficiali che tornavano ai loro posti. Mentre anche le ultime scaglie di rabbia sbollivano, lasciandogli addosso solo la stanchezza e la debolezza che segnano il passaggio dell’adrenalina, si portò alla postazione radio. Franceschi era la persona più indicata per gestire tutti i contatti, ma anch’egli sapeva destreggiarvisi, almeno finché le cose erano semplici; e chiamare la sala macchine non era un’operazione granché complicata. «Qui sala macchine», rispose la voce, stanca ma tranquilla, di Franchini: già questo era un buon segno. «Sala macchine, qui plancia», rispose a sua volta il comandante. «Per il momento, la situazione è sotto controllo. Potete fare un rapporto danni?»


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«Un rapporto completo no, signore», rispose l’ingegnere. «Dovremo ispezionare tutta la nave. Ma ho una lista parziale. La sto inviando in questo momento ai terminali di plancia.» «Ottimo», commentò Ravennate. «Di che si tratta?» «Abbiamo subito un colpo piuttosto forte al propulsore di dritta», cominciò il motorista. «Al momento, ha una potenza ridotta al cinquanta percento. Anche il generatore principale è danneggiato: posso fornirle solo il settantacinque percento dell’energia, ma conto di ripararlo in fretta. Abbiamo qualche noia con il gruppo sensori principale, ma non so fino a che punto sia esteso il problema. Confermo inoltre i danni ai servizi di base e alle comunicazioni interne.» «E quelle esterne?» «L’antenna è fuori linea, ma non credo abbia subito grossi danni», spiegò l’altro. «Franceschi saprà dirle meglio di me, ma temo che dovremo riallineare tutti i trasmettitori.» «Ci sono cose più urgenti», decretò il comandante, in verità più che altro a sé stesso. «C’è altro?» «So per certo che abbiamo danni alle paratie», confermò Franchini. «Ma occorre un’ispezione accurata dello scafo, per questo.» «Suggerisce un’attività extraveicolare?» «Sarebbe l’ideale.» «Preferirei attendere», negò Ravennate, corrugando la fronte; gli venne istintivo al pensiero di mandar fuori qualcuno, nonostante Franchini non potesse vederlo. «In queste condizioni, meglio essere prudenti. Un’ispezione interna?» «Meglio di niente, signore. Ho già mandato Ferrari a prua, sul ponte mediano.» «Ha fatto bene», confermò il comandante. «Quando avrà finito, lo mandi alla stiva. Tra un momento, le manderò anche Brunner e Rivolta.» «In tre per la stiva, signore?» «È l’ambiente più grande e delicato. Voglio accertarmi che sia tutto a posto.» «Come preferisce», si limitò a rispondere Franchini, certo scrollando le spalle: la decisione e la conseguente responsabilità, anche davanti ai vertici della compagnia e agli spedizionieri, in fondo non erano sue. «Altri ordini, signore?»


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«Continui con le riparazioni. La priorità è ai motori, poi il generatore, quindi gli altri sistemi.» «Sì, signore. Prima i motori.» «Ottimo. Qui plancia, chiudo.» Interrompendo la comunicazione, il comandante si alzò e piegò la testa di lato, ora a destra, ora a sinistra, per sciogliere i muscoli del collo: il poco sonno e la tensione avevano esatto un prezzo abbastanza alto dal suo fisico non più giovanissimo. Purtroppo non poteva ancora adagiarsi sul letto, rilassarsi e magari dormire. «Ha sentito, Rivolta?» chiese infine, fissando lo sguardo in avanti, ma senza dirigerlo verso la postazione del pilota. «Trovi Brunner e…» «Credo che sia già alla stiva, signore», rispose il vicecomandante, con aria ancora afflitta e persino vagamente ossequiosa. «Quando l’abbiamo incrociato, prima…» «Tanto meglio», l’interruppe Ravennate. «Può andare.» Avrebbe voluto anche aggiungere un più sarcastico “Non abbiamo bisogno di lei, per ora” o un “Tanto non c’è fretta, giusto?”, ma pensò che sarebbe stato troppo in contraddizione con quanto aveva affermato poco prima. Si limitò dunque a osservare il secondo che si allontanava dalla postazione, salutandolo con un cenno del capo per poi uscire dalla plancia. Se non altro avrebbe evitato l’impulso residuo di strangolarlo, disse a sé stesso. Quando Rivolta fu uscito, per la prima volta in quella notte sedette alla propria poltrona, quasi al centro esatto della stanza. Di fronte a sé, sulla propria postazione, poteva ricevere un rapido consuntivo di tutti i sistemi di bordo e poté farsi un quadro della situazione. Su un piccolo schermo riepilogativo, alcune parti di uno schema della nave lampeggiavano in rosso, segno che i sensori le percepivano come aree danneggiate. Un pannello accanto presentava una lista di sistemi e di percentuali, aggiornata di continuo dalla sala macchine e dalle stime del calcolatore, identificativa dei danni. Infine, dall’altra parte della postazione, alcuni strumenti indicavano posizione e velocità stimate, senza bisogno di continui aggiornamenti dal timone. Fu proprio quest’ultimo pannello ad attirare il suo interesse. Anche se non aveva il quadro completo, mancandogli tutti i dati di rotta, ebbe l’impressione che la nave non fosse in moto libero nello spazio interstellare. La logica suggeriva che fosse normale, visto che il getto di


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particelle doveva pur avere una sorgente, ma i sensori non sembravano rilevare alcunché. «Siamo su un’orbita chiusa, credo», affermò a un tratto: quel “credo” dubitativo aveva un’intenzione diplomatica, ma il dubbio era quanto mai necessario. «L’ho notato, signore», confermò il copilota, in quel momento unica responsabile della navigazione. «Ho già dovuto correggere la rotta. Dev’esserci una sorgente gravitazionale nelle vicinanze, ma sui sensori di navigazione non rilevo nulla.» «Nulla?» «I rilevatori passivi fluttuano tutti intorno allo zero», confermò l’ufficiale. «Quelli attivi ricevono ancora troppe interferenze.» «Controllo il gruppo sensori principale.» Con queste parole, di nuovo Ravennate si alzò dalla sua poltrona, pochi minuti appena dopo esservisi seduto, per tornare alla postazione dei sensori. Un paio di schermi facevano neve, segno evidente di un guasto agli apparati: in fondo Franchini non gli aveva riferito anche quello? Per il resto, funzionavano abbastanza bene. Studiandone i responsi, comprese che, almeno secondo i sensori, là fuori non c’era nulla, nemmeno il getto in cui erano incappati: solo un fondo caotico di radiazioni e particelle vaganti, non diverso da quanto si potesse incontrare più o meno ovunque, nello spazio. E dunque, delle due l’una: o i sensori erano danneggiati più di quanto credessero, o qualcosa impediva loro di funzionare correttamente. «Ancora nulla?» «Nulla nelle vicinanze, signore», confermò il copilota. «Ma ho pieno controllo sui riferimenti stellari; posso calcolare posizione e velocità.» «Allora le tenga d’occhio», decise Ravennate. «Mi avverta di ogni correzione di rotta e, se può, calcoli i parametri dell’orbita.» «Sì, signore», assentì Della Scala, sollevata di aver ricevuto un ordine preciso, un ordine che l’avrebbe tenuta impegnata: le avrebbe impedito infatti di pensare. Il comandante, al contrario, non poteva permettersi un simile lusso: sebbene la fase di emergenza fosse passata, le cose da fare erano ancora molte. Soprattutto c’era quell’oggetto misterioso sotto di loro che li attirava nella sua orbita, senza che però potessero vederlo. Con gli strumenti ciechi e la nave danneggiata, non poteva fare a meno di


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provare una certa inquietudine, un timore strisciante che lo avvolgeva lentamente nelle sue spire; ed egli, impotente, poteva soltanto guardare e temere, mentre il gorgo lo fagocitava. Ravennate non era il solo a temere, in quell’ora così difficile. Muovendosi verso la stiva lungo il corridoio del ponte superiore, Rivolta avrebbe voluto prendersi a pugni, sbattere il capo contro le paratie, procurarsi dolore e non pensare. Forse alla fine ne sarebbero usciti, e anzi era persino probabile, ma non poteva dimenticare che tutto era successo perché era stato debole. Vittoria… Vittoria l’aveva lusingato, l’aveva tentato, l’aveva convinto a lasciare le sue responsabilità. Avrebbe dovuto rimanere in plancia e controllare la rotta, come il comandante gli aveva ordinato; e invece aveva ascoltato le parole di lei, lasciando che come miele gli colassero nelle orecchie, e quel miele gli era sembrato bello e desiderabile. Allora, senza pensare ad altro che a quella mela dorata, l’aveva seguita in cabina: tanto, che poteva succedere? Sì, che poteva succedere? Adesso dentro di sé sentiva la rabbia. Non perché provasse rimorso per ciò che aveva fatto, ma per quando l’aveva fatto. Sarebbe bastato attendere così poco e allora… Fu con questi pensieri che giunse al portellone della stiva. L’ambiente si sviluppava anche sul ponte mediano e, essendo strutturato in scomparti, su entrambi i ponti erano presenti degli accessi. Rivolta digitò il proprio codice personale sul tastierino identificativo a lato del portello, ottenendo subito dopo la luce verde d’accesso: il sistema riconosceva il suo diritto a entrare. I portelloni scivolarono lentamente ai lati, non senza un cigolio metallico, permettendogli di accedere al locale più vasto di tutta la nave. Lo spettacolo della stiva era piuttosto impressionante: davanti a lui si stendeva un lunghissimo corridoio, pavimentato a grate, ai lati del quale erano stivate le grandi casse del materiale. A tratti si aprivano dei brevi corridoi laterali, lungo tutta la larghezza dello scafo, per permettere un miglior controllo e stivaggio del carico stesso. La scena, illuminata da una luce bianca e fredda, poteva persino avere un che di spettrale e, se non avesse avuto altri pensieri per la testa, Rivolta avrebbe senz’altro provato un brivido. «Rivolta, è lei?» chiese una voce dall’accento inconfondibile, dal ponte di sotto; abbassando lo sguardo, il vicecomandante poté vedere, tra le grate, la sagoma di Brunner.


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«Ferrari è già arrivato?» chiese l’ufficiale, evitando risposte inutili. «Ferrari?» chiese ancora Brunner, di rimando. «Non l’ho visto. Aspetti, la raggiungo.» «No, scendo io», replicò Rivolta, fermandolo con un gesto. «Ferrari sarà sul ponte mediano, tanto vale cominciare da lì.» Brunner annuì, quindi Rivolta rivolse la propria attenzione al corridoio: in tre punti, nella stiva, scalette di collegamento permettevano di cambiare livello e la più vicina era ormai quella centrale. Mosse dunque ancora alcuni passi, finché non trovò davanti a sé, d’improvviso, un lungo tratto aperto, non meno di cinque metri in lunghezza: in quel punto, infatti, sorgevano i portelloni esterni della stiva, oltre a una piccola postazione per il controllo manuale, e lo spazio libero era dunque fondamentale per movimentare le casse. In quella zona, il corridoio centrale si trasformava in una specie di ponte sospeso, ma un graticcio laterale permetteva comunque di raggiungere la paratia e la scaletta per il ponte mediano. Brunner era già di sotto, l’espressione non poco preoccupata. Visto che la sua unica visita in plancia, dall’inizio dell’emergenza, era stata a dir poco infruttuosa, a bordo era la persona meno informata su quanto era successo: sapeva solo che era cosa grave e che poteva rivelarsi pericoloso per le due cose che più gli stavano a cuore, la pelle e il carico; e non necessariamente in quest’ordine. Fine anteprima. Continua...


INDICE

PROLOGO ......................................................................................... 3 PRIMA ORBITA ............................................................................... 11 SECONDA ORBITA .......................................................................... 25 TERZA ORBITA ............................................................................... 43 QUARTA ORBITA ............................................................................ 57 QUINTA ORBITA ............................................................................. 74 SESTA ORBITA ................................................................................ 88 SETTIMA ORBITA .......................................................................... 106 OTTAVA ORBITA .......................................................................... 125 NONA ORBITA .............................................................................. 138 EPILOGO ...................................................................................... 157



AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quarta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2021) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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