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DOMENICO VARIPAPA MARCO RIVA
TALENTO
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TALENTO Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-801-5 Copertina: Immagine Shutterstock.com
Prima edizione Ottobre 2014 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
A Federica perchÊ senza di lei nulla di tutto ciò sarebbe possibile
Al Professor Paolo Briganti gentile, disponibile, paziente e sempre prodigo di consigli
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Prefazione
Dal vocabolario Zingarelli della lingua italiana: Talènto (1): /ta’lɛnto/ [vc. dotta, lat. eccl. Talĕntu(m), dal gr. talanton, dalla vc. di origine indeur. tálas, genit. tálantos, ‘sopportazione’] s. m. 1 Unità ponderale greca di 60 o 50 mine e di peso diverso secondo il sistema ponderale in uso nella regione. 2 Moneta anticamente in uso in Grecia e in Palestina. Talènto (2): /ta’lɛnto/ [vc. dotta, lat. eccl. Talĕntu(m), ‘moneta’, nel senso di ‘dono dato da Dio’] s.m. 1 lett. Voglia, desiderio: dintorno mi guardò. Come – / avesse di veder s’altri era meco (dante) | A proprio –, spontaneamente | Andare a –, andare a genio, piacere | † Venire in –, sentire la voglia, il desiderio | raro Con mal –, con malanimo, avversione, odio o sdegno. 2 Ingegno, capacità, inclinazione. || -accio, pegg. (V.) | -ino, dim. | -one, accr. (V.). † Talentóso /talen’toso/ [da talento (2)] agg. 1 Voglioso, desiderso. 2 raro Dotato di grande ingegno. Dal vocabolario degli accademici della Crusca: Talento: 1) Voglia, disiderio, volontà. Lat. voluntas, cupiditas.
6 <[Giovanni] Boccaccio Novella 7, numero 10> <Decamerone di M. Gio. Boccacci corretto dal Cavalier Lionardo Salviati, stampato in Firenze: citasi a numero delle novelle, contando da una infino a cento. I numeri son posti di dieci in dieci versi, cominciando da ogni novella, e da ogni altra parte principale di quell'opera, come dal proemio, dall'introduzione, da' principi, da' fini delle giornate, e dalla conclusione> Bocc. nov. 7. 10. Primasso, il quale aveva talento di mangiare. [Riferimento all'opera precedente] E nov. 92. 8. Niuno altro talento ho maggiore, che di mangiare. <Dante nell'Inferno, canto 2> <Poema, o vero la divina Commedia di Dante Alighieri, corretto dagli Accademici della Crusca. Stamp. in Firenze in Ottavo. Citansi i Capitoli di ciascheduna Cantica> Dan. Inf. 2. Più non t' è uopo aprirmi il suo talento. [Riferimento all'opera precedente] E cant. 5. Enno dannati i peccator carnali, Che la ragion sommettono al talento. <Tesoro di Ser Brunetto libro 5. Capitolo 6.> <Volgarizzamento del Tesoro di Ser Brunetto Latini fatto da Bono Giamboni. Stampato in ottavo. Citasi a libri, e capitoli> Tes. Br. 5. 6. Quello serpente, quando egli ha talento di lussuria, mette il capo nella bocca della femmina, ond' ella l' uccide. [Riferimento all'opera precedente] E cap. 41. Quando egli è più crucciato contro all' huomo, e più d' ira pieno, e di mal talento contro a lui, allora gli perdona più tosto, se egli si getta a terra, e fa atto di domandargli mercede. <[Giovanni] Boccaccio Novella 39, numero 6> <Decamerone di M. Gio. Boccacci corretto dal Cavalier Lionardo Salviati, stampato in Firenze: citasi a numero delle novelle, contando da una infino a cento. I numeri son posti di dieci in dieci versi, cominciando da ogni novella, e da ogni altra parte principale di
7 quell'opera, come dal proemio, dall'introduzione, da' principi, da' fini delle giornate, e dalla conclusione> Bocc. nov. 39. 6. Fellone, e pieno di mal talento, con una lancia soprammano gli uscì addosso gridando. 2) Per grazia, e dono. Lat. gratia, donum. Esposizione de' Vangeli, Esposizione de' Vangeli di Fra Simon da Cascia. Scritto a penna. Di Giansimon Tornabuoni nostro Accademico. Espos. Vang. E non è niuno, che possa dire con verità, io non ho ricevuto da Dio verun talento. Che cosa è il talento? È una domanda recente. Chi dice di avere già ampiamente considerato questo interrogativo e di aver da sempre tentato di darvi risposta probabilmente non la conta giusta. Il talento è un’unità di peso; il talento è una moneta da spendere. Il talento può essere cupidigia. Oggi il talento forse è solo considerato come una dote. Si è naturalmente provvisti di talento. Forse esistono persino loci genici sulla doppia elica di DNA che stabiliscono i nostri talenti. Pare abbastanza diffusa l’idea che alla mancanza di talento non si possa sopperire con la pratica e lo studio; il talento non s’impara. Questo perlomeno è quanto è largamente reputato corretto dalla maggior parte delle persone. E forse adesso, come mai prima di adesso, ognuno riconosce in se stesso un talento. E se non è facile riconoscere il proprio talento si vedono esistenze spendersi appresso all’indagine: “Qual è il mio talento? Dovrò pure averne uno”. Sembra che vivere un’esistenza senza una riserva sicura di talento alla quale poter attingere sia troppo difficile. Meglio stare immobili a quel punto; apparentemente immobili, internamente tesi alla ricerca delle doti più sfavillanti di quelle che già abbiamo ma che non ci soddisfano perché non sono abbastanza
8 coreografiche. Il talento d’altronde non è una dote qualsiasi; è più profonda e radicata di una qualsiasi altra capacità, di un qualsiasi altro sentimento o di una predilezione basti che sia. È più del nostro volto, più delle nostre impronte digitali, più del nostro odore o delle nostre maniere; chi ha talento esiste in funzione di quello. Chi non ha talento forse non dovrebbe nemmeno esistere. Il talento è tutto e si spiega da sé; il talento è il dio del ventunesimo secolo. Poco importa se nell’etimo della parola stessa sta sottointeso che questa stoffa tutta particolare sottintenda responsabilità e oculati investimenti, senza i quali equivarrebbe a un aeroplano a reazione con un ala fallata. La responsabilità spaventa ed è dura prenderla in considerazione; fa venire l’ansia, costringe a prendere medicinali, fa piangere e urlare. L’uomo, che da animale quale è tende all’autoconservazione, se appena può schiverà la responsabilità come schiverebbe una sassaiola in piena faccia. Per fortuna oggi ci sono gli osservatori, i talent scout. Loro la sanno lunga su com’è fatto il talento e su come si deve fare per farlo crescere bene. Diciamo grazie che ci sono loro, perché sennò noi talentuosi rischieremmo troppo. Se tutti rischiassimo troppo poi andrebbe senz’altro a finire che tanti talentuosi come noi si brucerebbero. Ma i talent scout vengono in nostro soccorso; ci salvano dai flutti del nostro talento che s’incontra con quello degli altri, che pure non è mai all’altezza del nostro; eh no! Se uno dice di avere il nostro stesso talento lui talento non ne ha; se è bravo a fare altre cose, se ha un altro tipo di talento… ma sì, in linea di massima, volendo essere generosi, potremmo anche definirlo talento. Certo che il nostro però è su un altro livello. Insomma, non tutti i talenti sono uguali agli occhi dei talentuosi. Talentuosi e talenti. I secondi fanno dei primi ciò che sono e li
9 nutrono; e i primi (i talentuosi, s’intende) stando ad affidabili enti di ricerca, campionatura e statistica, sono in esponenziale aumento negli ultimi sette minuti. Ancora pochi giorni, qualche settimana al massimo, e tutti saremmo talentuosi. E questa sì che una buona notizia! Sapendo poi che ci sono gli scout, i giudici delle trasmissioni, i pontefici del talento, i sacerdoti senza talento (qualcuno deve pur rimanerne privo) pronti a darci un appoggio, siamo tutti più sereni. Adesso però andiamo ad accendere la televisione; un po’ di talento lì ci passa a ogni ora e ogni giorno. È pur sempre bello vedere il talento che sgorga e fluisce fino a noi; e com’è bello correggere a penna rossa, nella nostra mente, tutte le sbavature e i piccoli errori che tradiscono quei falsi talentuosi, posticci. Perché, che ci si creda o no, nonostante ci siano i sacerdoti che controllano (e loro lo capiscono al volo se qualcuno bara) c’è ancora qualche d’uno che prova a spacciare il suo banalissimo impegno per talento. Ma impegno e talento non hanno nulla da spartire. L’impegno deve per forza appoggiarsi su un talento. Sennò che qualcuno spieghi, se è capace, come possa tornare utile l’impegno.
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Capitolo I
Pensava appoggiato a un paracarro, avvolto nel proprio fumo: “Finisco de pippà sta sigherétta eppoi salgo. Me tocca levarme la sete cor preciutto a dar retta a quer boccio fregnacciaro; come se sto ciappotto già non bastasse.” E continuò a pensare che era tutta una gran brutta storia. Inaspettatamente il rimuginare cambiò di forma, per adottarne una più corretta, fatta di un italiano pulito da qualsiasi inflessione romanesca. Quasi senza dubbio ciò era dovuto al fatto che, nonostante la mestizia che era naturale in una simile situazione, per tutto quel tempo rimase sufficientemente distante dagli accadimenti. La Monroe, Tenco, la Joplin; tutte vittime e precursori illustri rispetto a ‘sto pischello dell’ultim’ora. Franco, il giovane pubblicista che si portava appresso, usciva in quel momento dal bar. Fece schioccare la lingua contro il palato perché il sapore del caffè appena bevuto risuonasse meglio. «Annamo dottò?» «‘Nnamo. È il palazzo pitturato de rosa che sta all’angolo.» «Me sto a fumà addosso però… posso pijiarle ‘na sigaretta?» «Pijia, pijia. Ne fumo n’artra anch’io. Vienime cor foco, Fra’.» I due diedero una boccata all’unisono e poi percorsero in silenzio i duecento metri che li separavano dal portone dello stabile. Il più giovane reggeva in una mano la borsa per la cinepresa, mentre quello che pareva essere il suo mentore lo precedeva di due passi,
12 ingobbito dal peso dell’inchiostro, dentro a un trench color nocciola di buona sartoria. Si fermarono davanti a una moltitudine di campanelli e l’aio incanutito, dopo averlo cercato descrivendo circoli nell’aria con l’indice, premette sicuro un bottone. Si annunciò e il sibilo dell’apriporta stette a significare che stavano per essere ricevuti. «Adesso Franco lascia parlare a me; sto tale è ‘na falloppa. Vedi di fare il tuo compito senza sforare.» «Stia tranquillo dottore. Appiccio la telecamera e me ne sto muto.» «Bravo, Fra’.» Disse così e scompigliò i capelli irsuti al giovane. Salirono dodici piani in ascensore e quando le porte scorrevoli si aprirono i due si ritrovarono in un locale openspace, luminoso e arredato con gusto e sobrietà. Seduto dietro a una scrivania, in quel grande ufficio alla periferia della città, stava un personaggio grasso, insaccato in un abito scuro che portava senza cravatta. La sua testa calva e lucida rimandava la luce del pomeriggio; sul viso aveva un sorriso pingue e tirato esattamente com’era lui. A fatica si alzò e andò incontro ai due; tese la mano al più vecchio e poi lo salutò abbracciandolo, ignorando completamente il giovane operatore: «Ciao Tomei… ciao, ciao» gli disse - persino con un certo affetto, almeno a vedersi - battendogli una mano amichevolmente sulla spalla «mi devi raccontare un sacco di cose. Cosa saranno? Due anni che non ci si parla guardandoci negli occhi? Mi devi dire chi è rimasto della vecchia redazione; se c’è ancora Chicco…» Tomei sorrise annuendo con la testa, tenendo lo sguardo basso.
13 «Ti racconto tutto quello vuoi. Però Giuliano mi devi far contento; lo sai che vengo da Roma per quello. Ne avevamo parlato al telefono e te l’avevo anche detto: non sono in vacanza purtroppo, non sto facendo un viaggio di piacere. Qualche domanda te la devi pur lasciar fare. Poi se vuoi ce ne andiamo a mangiare qualcosa. Va bene? Oppure se ti va a bere un bicchiere… eh? Oppure quello che te pare…» L’omone pelato si strofinò la grossa faccia arrostita dall’abbronzatura da salone di bellezza; poi respirò forte, come a confermare al giornalista romano che proprio non ne aveva voglia di rispondere alle sue domandine. In ultimo parve farsi forza; fece accomodare gli ospiti su due poltroncine e lui tornò a sedersi sul suo trono a rotelle. Si scambiarono affettate gentilezze ancora, che non riuscirono né a coprire l’odore solforoso che cominciava a ristagnare nella stanza né a nascondere le scintille che iniziavano a sibilare sul fondo della coscienza di chi una coscienza, seppur non linda e pinta, ancora l’aveva. Finalmente una cupa ma familiare diffidenza reciproca si inchiodò negli occhi di Tomei e dell’uomo grasso; così i due ex colleghi si specchiavano l’uno nel brusco cipiglio dell’altro. Mentre l’anfitrione si preparava per quella che prevedeva essere una fastidiosa inquisizione, l’elzevirista della televisione di stato prendeva dalla tracolla di pelle un taccuino e una penna d’argento. Fece scattare la punta come fosse una lama e in un corsivo stretto e nero vergò sul vertice alto di una pagina la data. Sotto scrisse: “intervista all’editore milanese Giuliano Colombo”. Il giovane Franco, che fino a quel momento non aveva aperto bocca se non per salutare cortesemente l’ospite, si armò di telecamera, premette qualche tasto prima di aprire lo schermo
14 LCD e poi mise a fuoco l’immagine. Alla fine fu pronto anche lui. «Sto registrando dottò.» Ancora un attimo di pausa e poi la macchina da presa divenne l’occhio impietoso su quell’atelier metropolitano, la cui raffinatezza faceva a botte con la tracotanza del suo occupante. «Innanzi tutto un bentrovato al dottor Giuliano Colombo.» «Saluto Tomei e auguro un buon pomeriggio a tutti.» «Se il dottor Colombo è d’accordo io comincerei senza troppe esitazioni, senza inutili preamboli; d’altronde da quanto tempo ci conosciamo noi due…?» Colombo sorrise in maniera posticcia verso l’obiettivo della telecamera. Poi Tomei continuò: «Farei allora una brevissima introduzione, per chi non conosce bene Giuliano Colombo; la facciamo?» Colombo fece un bonario cenno d’assenso «dopo la formazione e i primi impieghi come critico letterario e brillante recensore della radio-televisione di Stato, il dottor Colombo è divenuto, negli ultimi anni, uno degli editori più affermati e più in vista di tutt’Italia…» L’interrogato non fece nemmeno finire la frase all’uomo che gli sedeva a disagio davanti. «Ti ringrazio Tomei per il tuo sunto; breve, ma lusinghiero e promettente.» I due uomini di lettere continuavano a sorridere ma avrebbero voluto mostrarsi i denti come cani per poi azzuffarsi, lì, sulla moquette. Il romano sentiva di avere dalla sua tutta la ragione e il buon senso di questo mondo. Il corpulento uomo lombardo si sentiva invece minacciato da quella sua vecchia conoscenza, accolta come un fastidioso spino nel sedere. Aveva passato una
15 vita tentando di affrancarsi dai suoi natali provinciali; un’esistenza trascorsa per conquistarsi quell’elegante tana alle porte della capitale sforzesca. E ora l’insignificante giornalista, forse nato solo per vivere e invecchiare come reporter dappoco e destinato a morire tale, con una penna in mano e un registratore in tasca, si aggiungeva al lungo elenco di coloro i quali volevano la sua testa. Pensare a tutto quello che aveva fatto! Solo negli ultimi mesi aveva salvato il premio “Orazio Stoppa” da una morte per inedia; poi aveva messo anima e corpo nel talent. Ne era stato fautore convinto, e ora doveva scornarsi con una realtà che mai nessuno avrebbe previsto. E se anche lui, Colombo, forse qualcosa poteva aver annusato nell’aria viziata dentro a quel fetente stivale che chiamiamo casa, mai si sarebbe aspettato una tale strumentalizzazione mediatica. Era strumentalizzazione poi? Non si pose più di tanto il problema. Negli ultimi quindici anni si era abituato a pensare che se qualcuno attaccava le sue posizioni fosse per fini di strumentalizzazione. Faticava a pensare qualcosa di diverso. Anche lui era stato giornalista e sapeva che razza di iene fossero i giornalisti. «Veniamo a noi Giuliano.» Il sorriso scomparve dal volto dell’editore corpulento; prese a ostentare un gestualità di totale disponibilità, se non fosse stato per le gambe accavallate strette. «In tutta franchezza, Colombo, ti aspettavi che sarebbe finita così?» L’obiettivo della telecamera zoomò ronzando a indicare che Franco stava stringendo l’inquadratura sul viso teso dell’editor. «Mah, cosa vuoi che ti risponda Tomei? Ovvio che no. Non mi aspettavo nulla di simile. Sai quanto i gesti violenti come questi mi abbiano sempre lasciato scosso e, aggiungerei in questo caso,
16 pure molto commosso e turbato al contempo. Non so che dirti di più. Ho perfino un sentore di ripugnanza…» “Ma te possino! Caro Pinocchio, girate da n’artra parte che me stai a cecà…” «Siamo tutti distrutti. Io e gli altri giudici; i suoi compagni di avventura, di percorso. Non voglio pensare alla madre. Povera signora.» “Prova invece un po’ a pensarce. Due minuti, ma due d’orologio, Giulià!” «D’altro canto non credo che si possa fare una colpa a noi giudici per quanto è successo. Abbiamo sempre agito con grande onestà intellettuale e trasparenza. Io credo che il ragazzo non abbia sopportato il peso della competizione. Il peso d’altronde è sempre più difficile da portare sulle spalle, se qualcuno sa di essere destinato a realizzare grandi progetti. L’unica cosa che mi rimprovero, e che d’altro canto rimprovero a tutta la produzione, è una negligenza, una carenza nella verifica delle attitudini psicologiche ed emotive dei concorrenti. Forse in quel momento l’entusiasmo verso quella grande novità ha distolto l’attenzione degli autori del programma da alcune verifiche che erano dovute. C’erano tutte le premesse; e un bel gruppo di persone coese e capaci che avrebbero senz’altro fatto del bene alla letteratura italiana, da un po’ di tempo letargica o che in alternativa ammicca al demenziale. E il ragazzo, devo dire in tutta onestà, l’ho sempre visto a suo agio, persino durante le fasi eliminatorie nella “spelonca della penna”.» Tomei ritrasse a forza un riso amaro ma esplosivo simulando un violento accesso di tosse. «Giuliano, a questo punto ti pregherei di spiegarmi cosa sia la “spelonca della penna”. A me e a coloro che pur non seguendo il
17 talent si sono ritrovati sulle pagine dei giornali una simile notizia. Una notizia violenta.» E ancora Tomei faticava a soffocare il riso che la “spelonca della penna” gli aveva mosso sin dal basso delle viscere. «Era un momento della trasmissione. Una fase eliminatoria strutturata in modo particolare, al termine della quale, anziché essere eliminato solo uno scrittore come alla fine delle altre puntate, lasciavano il talent addirittura due ragazzi contemporaneamente. I due peggiori della serata. La prova da sostenere non era semplice! Ognuno dei concorrenti aveva mezz’ora per compilare un testo che colpisse la giuria a partire da una parola suggerita dalla stessa.» «L’ultima parola che avete suggerito…?» «Se non ricordo male è stata “modculture”.» Tomei stavolta sbarrò gli occhi e quasi parve essersi alterato. «Ma… non è nemmeno una parola italiana. E nulla ha a che vedere con la storia del nostro paese.» «La sfida era proprio questa Tomei: verificare come i giovani scrittori riuscissero a plasmare addosso a uno scheletro estraneo un nuovo sistema vascolare, fatto però di frasi e inchiostro. Eravamo curiosi di vedere come avrebbero cinto quelle ossa scabre e forestiere di fibra e impressioni che la grande tradizione italiana ha sempre portato con sé. Partendo ad esempio dalla conoscenza, superficiale ma che pur tutti abbiamo, dei temi di “Quadrophenia”» Colombo sorrise; vedeva che il suo interlocutore si stava arrabbiando e ciò non poteva che arrecargli un po’ di piacere. Tomei, nell’intimo della sua testa, sbavava come un sorcio con la rabbia. «A questo punto, Giuliano, proseguirei.»
18 «Ovvio.» «Dopo quello che è successo credi ancora che questo tipo di format possa avere un futuro e far bene alle nostre lettere?» «Guarda Tomei, sei un uomo di una certa intelligenza, e a te parlo francamente. Non credo che un avvenimento isolato come questo possa minare un modello che, grazie al genio italiano, sta raccogliendo accoliti ed estimatori ovunque, da tutta Europa al Nordamerica. È successa una disgrazia ma la storia è piena di simili eventi, anche più tragici. Il libro di Cremaschi si vende come il pane, e i suoi compagni, che si sono classificati subito dopo di lui nel concorso, dovrebbero essergli riconoscenti. I loro erano due romanzetti da nulla e oggi vanno via dagli scaffali delle librerie come fossero grandi best-sellers. Insomma, anche noi dobbiamo pure mangiare! E pure gli altri concorrenti…» «E vedo che l’appetito t’è rimasto. Quanto mangi Giuliano?» Sorrise amaramente Tomei; lo stesso Colombo dapprima fu serio ma poi rispose ammiccando in maniera sorniona. «Sai che di fame si muore anche oggi. E non pensare che la crisi non l’abbia sentita anch’io. Madonnina se l’ho sentita!» Seguì un silenzio imbarazzato. L’astio e l’insofferenza tornarono a farsi percepibili. «Ah… e ti prego di omettere l’ultima parte della registrazione.» «Mi preghi o me lo intimi?» «E dai, non impelaghiamoci nelle definizioni proprio qua, e ora. Siamo amici da tanto…» «Ritocchiamo tutto in fase di montaggio, tranquillo.» “Amici ‘n paio de palle. Usciti di qua me stai a’n parmo dar culo per artri du' anni almeno e tornato a Roma te faccio vedè io come ritocco tutto in fase de montaggio.”
19 «Ora Colombo, ti chiedo molto semplicemente e ti prego di rispondere senza filtri: come ti senti dopo l’accaduto?» «Più o meno già l’ho detto. Sono molto scosso e, ti dirò, le due notti che sono seguite al fattaccio non ho chiuso occhio.» “Oh, povero martire!” «Ma per chi è vivo la vita va avanti. È difficile pensare che tra qualche mese saremo nuovamente tutti in pista per organizzare la seconda edizione.» «Quindi nonostante tutto il network ha previsto una nuova stagione?» «Ma sì Tomei! Di che ti stupisci? La rete ha già messo in fase di realizzazione altre due stagioni e io ho intenzione di onorare il mio contratto. Come puoi ben immaginare il dolore è grosso. Certi eventi ti prostrano ma si deve avere la forza per rimettersi in piedi, tener fede agli impegni. E innanzi a certi impegni, certi vincoli e obblighi, non si può far altro che ripulirsi le ginocchia, raccogliere tutto ciò che riesci e andare avanti.» «Permettimi: gli obblighi verso chi senti di averli?» «Naturalmente verso chi ha investito nel progetto, verso gli spettatori che hanno seguito l’evoluzione e la crescita dei nostri giovani scrittori, che si sono emozionati assieme a tutta la penisola e che si sono rinnamorati della buona scrittura. Insomma, da quanto tempo la letteratura non era così vicina a tutti? Il progetto è vincente, Tomei. Sempre più persone si entusiasmano e si turbano (cedi l’accezione più positiva che riesci a questo termine) con le parole, le risa, i pianti e le penne dei nostri giovani talenti. Non vedo davvero come un incidente di percorso possa rallentare più di tanto lo svolgimento di quella che pare essere una nuova era per la scrittura e le grandi lettere
20 italiane. E anche io e te, in epoca di studi, lamentavamo una produzione insufficiente.» Il corrispondente dalla capitale si sforzò di non alzare la voce. «Forse tu ti lamentavi. Mi vengono in mente alcune delle mie letture preferite: Pasolini, Calvino, Gadda, Pavese, Bene, Bertolucci. Forse a te non bastavano, ma io tuttora mi sento in colpa perché non sono mai riuscito a leggerli tutti come avrei voluto.» “N’artra domandina e abbiamo finito, Deo Gratias” pensò Tomei, agognando di riguadagnare l’aria aperta e accendersi una sigaretta. «Giuliano Colombo; grande editore, come abbiamo già detto in precedenza, che però vanta un’età che di molto si avvicina alla mia…» “Ma che stiamo a fa? Billi e Romigioli? Emmò basta anche a leccargli er culo, però!” «…il che significa che terminate le prossime due edizioni del talent letterario potrà forse sentirsi autorizzato a lasciare l’estenuante lavoro che oggi svolge per godersi il meritato riposo. Insomma, Giulià, quanno ce mannano in pensione a noi vecchioni?» E Tomei parlò con un tono di voce autentico, come si parla a un vecchio amico, non riuscendo a soffocare un qualche influsso dialettale che s’era trascinato appresso dall’Urbe. Il panciuto sacco di boria, per contro, ostentò un accento fastidiosamente milanese nel rispondere alla domanda: «Non so te Attilio, ma io ne ho ancora di voglia di fare. Il mio lavoro mi piace, mi diverte. Finché sarò in grado di svolgerlo con coscienza, determinazione e umanità io non mi stancherò di fare ciò che faccio.»
21 Colombo sorrise. Tomei ringhiò trai denti mandandolo a fare in culo; poi disse a Franco, il giovane operatore, di spegnere la telecamera. “Per oggi sta farsa è finita.” La telecamera si spense; il dottor Attilio Tomei e il giovane Franco Conte fecero armi e bagagli, salutarono frettolosamente e scesero nuovamente in strada. L’aria lì era meno viziata da falsità, cattiverie e villanie petulanti. La città non si intuiva nemmeno più; la nebbia era scesa a coprire tutto. E mentre il freddo entrava da sotto alle giacche e nelle scarpe dei due giornalisti, i malcapitati erano rimasti soli in quello squarcio di squallore invernale. Tomei decise di chiamare un taxi che li portasse in Piazza Duca d’Aosta. L’imponente stazione di edilizia fascista, sebbene riportasse alla mente il nostro personale Medioevo contemporaneo, faceva sempre una certa impressione; era monumentale e metteva soggezione. Spiaceva ammetterlo, ma era bella. Arrivarono di corsa, che già l’intercity 35455 per Genova era fermo al binario. Il vagone di prima classe dove dovevano salire era praticamente vuoto. Si sedettero in uno scompartimento a caso, senza controllare il biglietto e sia Franco che l’anziano cronista si abbandonarono esausti su due dei seggiolini. Sedevano uno di rimpetto all’altro. Si scambiarono qualche impressione su Colombo, e Conte non fece altro che confermare, seppur con tatto e pervaso dalla paura di dir qualcosa fuori luogo, ciò che pensava anche il suo precettore, ormai canuto e privo di qualsiasi illusione. Poi vi fu silenzio; Tomei tornò a pensare, sebbene la stanchezza lo tenesse lontano da qualsiasi riflessione profonda.
22 “Certo che le persone cambiano; e più passano gli anni e più cambiano. Giuliano è cambiato parecchio… non foss’artro che è diventato sempre più guitto e ora pare solo un quartarolo de merda che cola.” Il treno si mosse e nuove flebili illuminazioni, che giusto lo tenevano desto dal sonno, divennero pesanti come la nebbia e misero radici nella testa del dottor Tomei. “M’avevano pure detto che s’era fatto ‘n po’ stronzo, ma non me immaginavo una cosa così. Come se fa a restà tanto impassibile quando te casca dalle dita un regazzo, così, per sto vèrzo? È teribbile. E quella perzica durace che me viene a dì: Attilio so’ cose che succedono… so’ disgrazie… ma te possino! Colombo nun m’è mai stato molto simpatico; ma s’è lavorato pure piuttosto bene assieme… venti, trent’anni fa. E mo’ me si inchioda ner cervello st’idea der cazzo, che popò non la voglio. Eppure oggi l’avrei mannato tanto volentieri a fa ingrassà le cucuzzòle. Siamo sempre stati tanto diversi. Io pensavo a fare il mio lavoro meglio che potevo e poi non vedevo l’ora, la sera, de tornarmene a casa, infilarme le papusse e buttarmi da parte, sulla portrona, a leggè qualcosa de bello, a guardarme qualcosa de poco conto alla televisione. E se vedevo il mio nome in fondo allo schermo, prima der servizio cambiavo canale. Giugliano, era diverso. Questo l’ho sempre saputo. Poi che è successo? Io so invecchiato scontento e lui è invecchiato sciapo e cojone. Io continuo a scrivere e a fare interviste e lui fa i reality show, i talent scout… bella roba. A ognuno il suo d’altronde. Ma come se fa a tenerse in testa i contratti da onorare e ‘la nuova buona scrittura’… la buona scrittura de le mie palle stracche. Adesso ho solo una voglia: de arrivà a Genova, de farmi ‘na gran
23 magnata de pesce e pijiarme ‘na tropea solenne. Poi, come diceva Rossella, domani è n’artro giorno e se vedrà.” Tomei e Franco s’addormentarono finché l’altoparlante gracchiante annunciò la stazione di Genova Principe. Tomei non disattese i suoi programmi; quella sera mangiò cicale di mare e morone crudi, un abbondante piatto di corzetti al sugo di pesce, mezzo San Pietro accompagnato da una dose abbondante di patate arrosto. Per innaffiare il tutto, una bottiglia di vermentino, e senza che il povero Franco potesse assaggiarne una goccia. Il pubblicista si chiese dove il suo Virgilio al vetriolo potesse mettere tutta quella roba, poiché non era uomo di mole imponente. Prima di congedarsi il giovane operatore di ripresa dovette pure aiutarlo a trovare la camera d’albergo e a slacciarsi le scarpe. Rimasto solo nella sua camera, al buio della sera, senza nessuno che lo importunasse più, smise tutti i suoi soliti epiteti. Dottò, professò (e professore non l’era mai stato) signor Tomei, era tornato a essere solamente Attilio, come da ragazzo. Si distese vestito sul letto e l’ultimo suo pensiero prima d’addormentarsi gli sussurrò all’orecchio che una volta i libri si leggevano, mica si guardavano alla televisione. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD