Tra un anno sarò felice

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Disponibile anche: Libro: 13,50 euro (da ottobre 2011) e-book (download): 8,99 euro e-book su CD in libreria: 8,99 euro


ALFREDO TOCCHI

TRA UN ANNO SARÒ FELICE

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TRA UN ANNO SARÒ FELICE Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2011 Alfredo Tocchi

ISBN: 978-88-6307-391-1 In copertina: Immagine proposta dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Ottobre 2011 da Logo srl Borgoricco - Padova


Introduzione

È la storia di un matrimonio che non resiste alla malattia e alla depressione. È storia di un principe che s’innamora di una puttana. È la storia della scomparsa della poesia dal mondo. È la storia dell’impossibilità di credere in qualsiasi cosa. È la storia dell’ineluttabile sconfitta dell’onestà e del buon gusto. È la storia dell’amore tra un padre e sua figlia. È la storia di una crisi di mezza età. È una storia d’amore e di sesso. È la storia di un naufrago alla deriva. L’ho composta con ciò che mi resta dopo il naufragio: ricordi, sms, mail, lettere, frammenti di dialoghi, oggetti, citazioni di libri e di film, canzoni. Ma è soprattutto una storia sul destino: il mio.



PARTE PRIMA



1.1 E subito riprende il viaggio / come dopo un naufragio / un superstite lupo di mare (Giuseppe Ungaretti, “Allegria di Naufragi”). Sottofondo musicale: “The Carpet Crawlers”, Genesis

Finirò male, perché sono un maudit. Ma in fondo, cosa significa? Qualcuno forse finisce bene? Sono sdraiato sopra un materasso dell’IKEA in questa casa che non è la mia: è una casa vuota, in vendita, prestata da un cliente. Me ne sono andato di casa e ho lasciato tutto a mia moglie - sono previdente, avevo poco già prima - eccetto i miei vestiti, la mia scrivania, 4 sedie superleggera di Gio Ponti, due ceramiche di Lucio Fontana e una tela bruciata di Luigi Sonzini. Mi restano anche un divano, una poltrona comoda per leggere, un armadio e una libreria che erano in un deposito e ho creduto che per sopravvivere non mi servisse altro. Se penso a mia figlia, mi viene il magone, ma non piango, non riesco a piangere. Cerco di leggere “Memorie di un Antisemita” di Gregor Von Rezzori, ma non ce la faccio a concentrarmi. Spengo la luce all’una, sapendo che sarà l’ennesima notte insonne. Ho provato tre diversi sonniferi, ma l’unico effetto è stato trovarmi la bocca impastata e cinquanta pulsazioni. Il cuore mi fa male, credo di sentire l’Amplatzer PFO Occluder che mi ci hanno impiantato. In meno di due anni ho perso tutto: salute, lavoro, soldi, famiglia, voglia di vivere. La mia vita è crollata come un castello di sabbia travolto da un’onda. Devo reagire, non so come ma devo reagire. La prima cosa è guarire, domani ho appuntamento all’Humanitas con il cardiologo. Il rumore del traffico di Viale Piceno è insopportabile. Milano è sempre rumorosa e queste case degli anni sessanta non hanno i doppi vetri. Mi rimetto a leggere ma dopo due pagine spengo la luce. Penso a quanto fosse bello addormentarmi abbracciato a mia moglie e di certo, in questo momento, non è un pensiero allegro. Il materasso dell’IKEA è comodo, ma non ho né lenzuolo né coperta. Ho freddo: mi metto la camicia. Nudo per terra ma con una camicia di Turnbull & Asser. Sorrido, mi sono rimasti soltanto i vestiti. 12 invernali, 6 giacche di tweed, 6 estivi, 4 blazer, 72 camicie, 24 paia di scarpe, 6 cappotti, 3 impermeabili, un piumi-


no di Eddie Bauer comprato a Toronto nel 1986… Ecco, pensare a un elenco, devo pensare a un elenco. Come se fosse un mantra, come se contassi le pecore. Forse così potrei addormentarmi. Vado avanti con l’elenco, penso a tutto, ma proprio tutto quello ho salvato dal mio naufragio, riempiendo in fretta le valige, come un ladro in casa propria. Non serve, di nuovo un pensiero negativo. Penso ai miei orologi, la mia passione, il mio hobby, portati in banca, in cassaforte. Ho un’idea migliore, metto il mio Patek Philippe Ref. 3998 in oro giallo sul cuscino accanto all’orecchio. Sto impazzendo, ecco sto impazzendo. Devo dormire, quasi quasi prendo una dose doppia di sonnifero. No, poi mi fa male e devo andare dal cardiologo. Me ne starò qui, senza muovermi, cercando di spegnere il cervello, di non pensare a niente. Se ci riuscissi, sarebbe un po’ come avere una seconda ischemia cerebrale, una delle cause della mia rovina. Sono onesto, una delle cause, non l’unica e forse neppure la più importante. L’ischemia, il coma, il risveglio in terapia intensiva senza più sapere parlare… Strano, è un pensiero dolcissimo: gli infermieri che mi gridano di non addormentarmi, che mi tengono la mano, che piangono insieme a me quando mi si raddrizzano gli occhi, storti dopo l’ischemia. Dormo, sì. Dormo. La mattina mi alzo e vado in studio. L’ultima mail inviata ieri è quella per mia moglie: “Mi verrebbe voglia di scriverti soltanto crepa, dopo che oltre a rimetterti su Facebook con una nuova fotografia ci hai anche scritto ancora prima che fosse vero che ci siamo separati. Ma del resto da te non mi aspettavo più niente di buono. Come ti ho già scritto, prima o poi ti accorgerai di quello che hai fatto, te ne pentirai e io sarò già a cento scopate (vere, non sulle chat) di distanza”. Nessuna risposta. Poi, dopo pranzo, ecco un messaggio: “Ti auguro di fartene mille di scopate per recuperare tutti i diciotto anni di odio che hai avuto per me. Perché mi hai solo odiato e basta, io non mi sono mai sentita amata veramente da te. Hai solo e sempre detto che ero una cretina, offendendo me e la mia famiglia, sempre e solo questo. Io sono sola con un padre morto e una bambina meravigliosa cui far sentire solo amore, tu mi hai lasciato nel momento più brutto della vita, così hai sfogato bene il tuo grande odio. Pensa che mi voglio scopare chiunque, pensa quello che cazzo vuoi, ma io sono sola e tu te ne sei andato. Facebook è solo uno sfogo cretino per dire quattro cazzate ed evadere da questa tortura”.


Leggo il messaggio e mando l’avviso di lettura. Ho offeso lei e la sua famiglia? È vero l’esatto contrario, è lei che ha sempre disprezzato la mia! Dopo un attimo squilla il telefono. È lei, che mi aggredisce rinfacciandomi quello che le avrei fatto passare in diciassette anni di matrimonio. Ricorda quando dieci anni fa le avevo dato uno schiaffo - e la cosa non si era mai più ripetuta, perché mi ero giustamente sentito un verme ricorda quando una volta avevo buttato a terra il piatto appena portato in tavola, come un pazzo - era da mesi che le dicevo che non volevo più mangiare in quei piatti, orrendo regalo di sua madre, quando avevamo altri tre servizi di piatti. Le attacco il telefono in faccia e subito le scrivo accecato dalla rabbia: “Tu mi chiami per rinfacciarmi quello che ti ho fatto dieci anni fa, ma non hai neppure il sospetto che se dieci anni fa ho perso la pazienza la colpa forse era tua. Tu sei così. Te l'ho già detto e scritto. Il tuo egoismo, la tua totale assenza di umanità, il tuo menefreghismo verso i bisogni di tuo marito sono cose che mi lasciano inorridito. Mai un accenno di autocritica, mai un barlume d’intelligenza, che ti consentirebbe di accorgerti quando la misura è colma e anche una persona paziente come me non ce la fa più a sopportarti. Spero che mia figlia cresca diversa da te e diversissima dalla tua famiglia. Sei un mostro e nonostante questo io per diciotto anni ti ho vissuto accanto e ti ho amato. Ora me ne vergogno. Vorrei veramente che tu morissi, perché il mondo sarebbe per gli umani un posto migliore senza di te, e senza quelli come tuo padre che prepotentemente fanno assessori i loro amici e nipoti, evadono il fisco, portano i soldi in Liechtenstein dai loro amati banchieri, trattano a calci in culo tutti coloro che non gli sono utili e strisciano con i potenti. Questa è la mia ultima mail. Addio. NON MI TELEFONARE MAI PIU', NON MI SCRIVERE MAI PIU'. Voglio soltanto lasciarti dietro le mie spalle prima possibile, come una merda che si vuole togliere da sotto le scarpe”. Mi vergogno della cattiveria di questo messaggio. Mi vergogno e ne soffro: non pensavo che un giorno sarei stato capace di scrivere una cosa simile. Mi vergogno anche del contenuto del primo messaggio: tradimento – gelosia – vendetta – allontanamento definitivo, ma è vero che, mentre io convalescente dopo l’operazione al cuore me ne stavo sdraiato sul divano, mia moglie chattava con i suoi vecchi amici palermitani. La tristezza di questa situazione è stata un’altra delle cause della mia rovina: io però stavo male mentre mia moglie no, perché la dipendenza da internet è un vizio, non una malattia. Ma non ne faccio una questione terminologica. Poi mi sarà venuta la depressione, sarà forse così. Di sicuro non mi ha dato una mano il cardiologo - eppure è il cardiologo dei


VIP! - che a ogni nuovo appuntamento, per non dire la semplice verità e cioè che dopo l’intervento ero cardiopatico, preferiva dire a me - mia moglie presente - che ero soltanto depresso. I medici di oggi sono spesso così, perfezione tecnica senza alcuna intelligenza emotiva. Mia moglie mi accusava di essere depresso e chattava e usciva da sola con le amiche. Poi passava settimane via da casa con i fotografi per i suoi servizi. Io credo che si sia immaginata una vita diversa accanto a un fotografo. Magari non hanno scopato, questo non lo so, non posso dirlo. Però ha sognato un uomo diverso al posto di quello, malato o depresso, che si ritrovava in casa. L’illusione di un amore, di essere in due, finalmente in due, può sconvolgere le nostre vite ben più di una scopata. Del resto, io ero lì, sul divano, a leggere per ore e ore, in silenzio, malato (depresso?), emotivamente distrutto. Poi ha preso le parti di suo padre quando ingiustamente mi ha dato del mascalzone. E io me ne sono andato, per sempre. Rileggo la mail a mia moglie e mi viene in mente che se voglio andare a cento scopate di distanza devo darmi da fare. Bisogna cominciare con le cose facili, per non deprimersi. La riconquista è sempre più facile della nuova conquista, quindi bisogna chiamare una ex. Se è vero che la donna sceglie i partner annusandoli, di certo una ex mi avrà già a suo tempo annusato con soddisfazione e non mi respingerà, a meno che con l’età, la malattia o una dieta sbagliata io abbia cambiato del tutto odore. Vorrei incominciare con una riconquista famigliare. Prendo una vecchia fotografia di quando avevo circa sei anni che tengo nel cassetto della scrivania. Ci siamo io e le mie due cugine di terzo grado negli anni sessanta. Piove e siamo in tre sotto un solo ombrello che tengo io, al centro, anche se non sono il più grande. Indosso un cappotto blu, pantaloni di velluto beige e stivali di gomma. Carola, due anni più grande, è alla mia destra e Camilla, un anno più piccola, alla mia sinistra. Siamo davanti alla darsena nella villa al lago dei miei bisnonni. Carola è stata sempre il mio amore, il mio sogno proibito. Poi, l’anno del mio esame di maturità, si è innamorata di un mio compagno di scuola, hanno fatto l’amore, è rimasta incinta e si sono sposati. Ora, ventinove anni più tardi, ha due figlie grandi. Il marito l’ha lasciata circa diciotto anni fa per una poco più che ventenne e da allora non si è più fatto vedere, salvo alla separazione. Siamo usciti il San Valentino dello stesso anno – non ero ancora sposato - e ci siamo baciati, toccati, amati teneramente ma senza scopare. Poi ci siamo rivisti tante volte, mai più da soli e non ne abbiamo mai più parlato. Carola, sei tu la mia prescelta, ti ho sempre voluto bene. La chiamo. È


una telefonata brevissima, mi dice che è al lago. Mi metto a lavorare, a scrivere un parere, partirò nel pomeriggio e in un’ora sarò da lei. L’ultimo tratto di strada è stretto e costeggia il lago. È una calda giornata di fine agosto e mi ricorda le estati di quando ero bambino. Arrivo all’imboccatura della via di casa: a sinistra vi sono i cancelli delle ville dei milanesi. Tutti i giardini arrivano fino alla spiaggia. Gli ultimi sei cancelli sono della mia famiglia. Suono il campanello e subito Carola mi apre e m’invita a entrare. Mi abbraccia. Noto il seno rifatto. Poi mi dice: «Vieni, ti faccio vedere la mia nipotina.» «Nipotina? Come, sei nonna?» «Sì, sono nonna, non lo sapevi?» Non so mai niente, in famiglia nessuno mi dice mai niente. «Com’è possibile? Nonna a cinquant’anni?» «Sì, amore, come sai ho iniziato presto.» Sorride ed è ancora bella. Le dico in fretta che mi sono separato. Mi risponde: «Non ci credo… Però hai resistito tanto con tua moglie.» «Sì, diciotto anni.» Le chiedo se vuole uscire con me a cena. Mi risponde: «Questa sera non posso, mia figlia e il suo compagno escono e devo curare la piccola.» L’idea di stare lì con lei e la bimba non mi sfiora nemmeno: non sono pronto per fare il nonno. La prego di uscire almeno domani e mi fissa di nuovo ridendo: «Sei un pazzo. Mi dispiace per il tuo matrimonio. Tua figlia dov’è?» Abbasso lo sguardo e rispondo che Celeste è a Panarea con sua madre. «Va bene, passa a prendermi alle otto. Prenoto io, ti faccio una sorpresa.» In diciassette anni di matrimonio sarò andato a dormire al lago, nella villa che oggi è penosamente divisa in cinque tra mia madre e i suoi fratelli, non più di dieci volte. La villa è stata costruita nei primi anni del novecento dalla famiglia di mio padre e quindi venduta negli anni settanta a quella di mia madre: le famiglie erano già imparentate e questo mi ha ispirato il motto: “La pigrizia nella ricerca del partner genera mostri”. Ci ho portato mia moglie la nostra prima estate insieme: era la fine di agosto e arrivavamo da Montecarlo. Al lago pioveva e faceva freddo. La sera tardi mia moglie mi domandò di accendere il riscaldamento. Ma il giardiniere era già a letto e io non ero capace di farlo. Passammo la notte sotto due coperte di lana, in agosto, e mia moglie da allora iniziò a odiare il lago. Poi ci tornammo ospiti di mia madre e allora iniziarono le liti tra lei e mia moglie. Diciassette anni di litigi e di dispetti e io mai una volta ho preso le parti di mia madre.


Ora sono al lago e ho ancora un mazzo di chiavi in macchina. Provo ad aprire il cancello e non ci riesco: la serratura è stata cambiata. Scavalcare è troppo pericoloso, non lo sapevo fare neppure da ragazzo. Devo passare dalla spiaggia e scavalcare il cancello a fianco della darsena, proprio quello della fotografia. Sono le sette di sera e il cielo è coperto. In spiaggia non c’è nessuno. Scavalco facilmente e mi ricordo di una notte di trent’anni prima quando, ubriaco, avevo scavalcato il cancello completamente nudo, dopo avere gettato i vestiti al di là del parapetto e mi ero ritrovato faccia a faccia con la guardia notturna che mi puntava la pistola. Avevo appena fatto l’amore con una ragazza tedesca che poi avevo accompagnato - nudo - tenendola per mano fino al sentiero per il paese. Guardo il giardino - circa seimila mq. - verso la villa. Tutto è cambiato: al posto dei pini ci sono piante ornamentali. Troppi fiori, troppe sdraio intorno alla piscina: sembra, o forse è diventato, un giardino condominiale. Penso ai nonni: se fossero vivi, avrebbero sofferto come me per questo scempio. La mia famiglia discende da principi longobardi arrivati in Italia, prima dell’anno Mille, vicino a Siena, dove un castello diroccato reca ancora il nostro nome. Partiti in cerca di fortuna insieme agli Acciajuoli - poi principi di Atene - governarono le isole Ioniche fino al XV° secolo circa. Furono cacciati dopo essersi alleati con i musulmani stringendo un impium foedus (così venivano chiamati gli accordi tra cristiani e musulmani) e da allora vagarono come naufraghi. Il patrimonio è stato perso dal bisnonno - compagno di gioco di Re Faruk - morto suicida: io penso di avere toccato il fondo, lo spero per i miei avi e per mia figlia. Il nostro motto, sopra lo stemma con tre onde azzurre in campo argento tre per Corfù, Cefalonia, e Zacinto - era si qua fata sinant, si compia il destino. Arrivo alla casa e qui, per fortuna, la serratura non è stata cambiata. Salgo le scale - a mia madre è toccato il terzo piano, quello dove un tempo dormivano gli ospiti - e apro la porta. Nulla è più com’era. Della prima ristrutturazione - ancora tollerabile - degli anni settanta rimane ben poco. Mi prende una grande tristezza. Avrei preferito che mia madre vendesse la sua parte di casa, per ricordarla per sempre com’era una volta, quand’ero bambino, ancora fedele al progetto degli anni venti dell’architetto Mario Borgato: un cubo di mattoni con tre ampi terrazzi, uno per piano, gli enormi saloni e i mobili art deco, la sala da biliardo con gli specchi, le pipe del nonno allineate sul camino di marmo accanto al curapipe e agli scovolini colorati, il grande umidificatore con dentro i sigari per gli ospiti e i lunghi fiammiferi per accenderli. Il nonno, leggendaria figura di gentiluomo. Bello, colto e intelligente, scarpe su misu-


ra di D’Agata o Ronchi, abiti di Enrico Livio Colombo, camicie di Siniscalchi, cravatte di Truzzi, Patek Philippe da tasca Ref. 600 in oro rosa, Mercedes 280SE 3,5 guidata dall’autista. Ricordo persino il suo profumo, che metteva sempre sul fazzoletto bianco con l’orlo fatto a mano, prima di uscire da casa: Equipage di Hermès. Innamorato di Cap Ferrat come me - io ho avuto casa a Beaulieu, un po’ meno cara e nel garage ho lasciato a mia moglie, insieme alla casa, 50 mq. non molto, la mia vecchia BMW 320 Cabrio. (Un appello alle mogli: almeno i giocattoli andrebbero restituiti). Nonno, nessun patrimonio poteva resisterti, soprattutto con cinque figli, due cameriere fisse, una cuoca, un autista e un giardiniere. Hai fatto un ottimo matrimonio e hai vissuto da gran signore, testimone di nozze del più famoso figlio del più famoso petroliere italiano, tra feste memorabili e giocate al casino di Montecarlo e di Sanremo. Ma tutto questo non esiste più, è scomparso insieme a te. Mi è rimasto il Patek Philippe Ref. 600 in oro rosa, mia unica eredità - non per niente il motto della Patek Philippe è: “Le cose che si amano non si posseggono mai completamente. Semplicemente, si custodiscono e si tramandano” - ma ora è in banca perché non ho una cassaforte, e neppure una casa, dove riporlo. Ieri sera ho visto la Traviata al Conservatorio - il palco alla Scala è andato - non sum dignus - così come l’enorme appartamento nella villa MI SOL di Sanremo, venduto per mantenere la nonna - e mi sono ricordato di quando la ascoltavo da bambino insieme a te, che fino all’ultimo giorno della tua vita hai studiato musica, chitarra classica. Eppure al tuo funerale non ho pianto. Hai avuto un infarto - il secondo, risolutivo - dopo una cena e una bevuta un po’ troppo abbondanti: i tuoi amici presenti raccontano che sei morto sorridendo. Ero il primo della lunghissima fila di persone che accompagnava la tua bara verso la tomba nel cimitero Monumentale, davanti a mio fratello, ai cugini e agli stendardi - sì, eri sindaco in carica alla tua morte, nonché presidente di un ospedale e di non so quante altre cose e dietro la tua bara sventolavano stendardi come si conviene a un tuo pari. Tenevo in mano una rosa, che ho gettato nella fossa sopra la tua bara. Sono stato bravo, nonno, ero soltanto un ragazzino e sono stato all’altezza, non ho pianto, come non hai pianto tu quando tuo padre si è sparato e ti ha lasciato solo - dopo due mesi è morta anche tua madre di crepacuore - e povero. E da allora non ho pianto mai, salvo all’uscita dal Policlinico. Ora vorrei tanto piangere, nonno, piangere e addormentarmi. Entro in quella che una volta era la mia stanza e ci trovo i giochi delle mie nipoti. No, non posso dormire qui. Vado nella camera di mio fratello


e controllo se il letto è fatto. Non lo è ma chi se ne importa, da giorni dormo sopra un materasso. Decido di dormire qui. Ma prima, ora che so dove dormire, riattraverso il giardino, scavalco di nuovo il cancello, percorro la spiaggia e dal sentiero che avevo percorso nudo trent’anni prima torno alla macchina per andare a mangiare, da solo, nella pizzeria di Luino dove andavo da ragazzino. I proprietari sono sempre gli stessi. Allora mi sembravano già vecchi ma, ora che li rivedo, capisco che erano giovani, molto più giovani di quanto sia io oggi. Strette di mano, saluti e sorrisi, poi mangio una pizza in fretta e me ne torno a casa.


1.2 Il pelo asciuga le lacrime (perché ti sei depilata?). Sottofondo musicale: “Ci sei sempre stata”, Ligabue

Dopo un’ennesima notte insonne e una mattina trascorsa in parte a scrutare i cambiamenti in casa e in giardino e in parte a leggere “Memorie di un borghese” di Sàndor Màrai, vado a mangiare un toast nel vecchio bar del paese, gestito da una ragazzona sui venticinque anni che non conosco. Entro e un grassone calvo seduto al tavolo con altri due che bevono prosecco mi saluta: «Buon giorno avvocato.» Rispondo distrattamente: «Buon giorno.» In paese mi conoscono tutti, anche se non ci vado da anni. La mia famiglia ha dato tre sindaci, tra i quali mio nonno, rimasti in carica in totale per oltre trentacinque anni. «Non mi riconosce? Sono il geometra Rossi.» Certo, ora lo riconosco. È un mio coetaneo con cui qualche volta sono andato a pescare. Gli porgo la mano: «Scusami, Amatore, sono senza occhiali, come stai?» Si guarda intorno con aria compiaciuta e mi dice: «Sono il sindaco. Questo è il mio vice e lui è un assessore. Siediti con noi e, prima di tutto, condoglianze per la scomparsa di tuo suocero.» Strette di mano, mi siedo - anche se ne farei volentieri a meno - e ordino il mio toast e un chinotto. Mi domanda se ho visto la ronda sulla spiaggia. «No, sono appena arrivato». Mi racconta che vuole vietare con un’ordinanza comunale l’acceso alla spiaggia dopo le nove di sera, perché col buio i ragazzini ci vanno a scopare. Mi viene in mente di colpo che trent’anni prima sua sorella mi aveva fatto un pompino in macchina, sulla mia MG B. Non l’avevo scopata perché avrà avuto sì e no sedici anni. Aspetta da parte mia cenni di assenso che non arrivano. Va avanti a parlare, dice che vuole mettere un limite di venti km. orari e dossi di rallentamento in paese, così la gente in macchina passa piano (puntualizza: «Primo risultato») e si accorge di quanto sia bello («Secondo risultato»). Io penso: “Buona idea, se lo faranno tutti i paesi da qui all’autostrada per arrivare in macchina a Milano ci metteremo sei ore, come ai tempi delle carrozze”. Mi racconta che ha regalato al comune il progetto per una fontana con il sole delle Alpi da mettere nei giardini pubblici - pagati di tasca sua da mio nonno, altri tempi… Arriva il mio toast e io mangio in silenzio. Poi mi chiede perché né io né mio fratello


abbiamo fatto politica: «Tuo suocero nel PdL era uno importante e poi siete tanto amici di Gabriele Albertini...» Rispondo, mentendo almeno riguardo a me: «Si vede che abbiamo preso dal papà, non dal nonno. Poi abbiamo già abbastanza problemi con il nostro lavoro.» Non l’avessi mai detto. Mi parla del suo spirito di servizio, del suo senso della collettività. Mi dice che anche lui è oberato di lavoro: «Hai visto le villette a schiera gialle all’ingresso del paese? Le sto costruendo io, è un mio investimento.» Certo, le ho viste. Giallo acido, un colore che non si usa neppure nella Svizzera interna. Una cosa pazzesca, da far star male un daltonico. “Un mio investimento”. Bravo. Peppe Merda non soltanto è sindaco, ma è anche più ricco del Gattopardo. Inizio a essere visibilmente scocciato. Ho finito il mio toast e bevo nervosamente il chinotto. Lui se ne accorge e mi domanda: «Ci vieni domenica prossima alla sagra della polenta? Ti faccio stare al mio tavolo.» Sono un provocatore, lo ammetto, ma questo è troppo. Mi fa stare al suo tavolo. Gli dico serissimo: «No, vedi sono contro le salamelle e le salsicce. Dovresti vietarle con un’ordinanza comunale.» Mi fissa e non sa se ridere o mandarmi a quel paese. Io continuo imperterrito: «Vietate alla gente di scopare in spiaggia - e non darebbero fastidio a nessuno salvo al limite a me che abito sopra la spiaggia e pago una salatissima tassa di concessione - poi lasciate che la gente mangi le salamelle e le salsicce che fanno male alla salute. Si alza il colesterolo, vengono gli infarti e alla fine paga il servizio sanitario nazionale, cioè tutti noi. Poi lo sappiamo benissimo che alla sagra del paese la gente va per ubriacarsi e poi guida fino a casa: altro che dossi di rallentamento.» Mi fissano in cagnesco. Io domando: «Tua sorella come sta?» «Bene, il bar è suo e quella» la ragazzona «è sua figlia.» Pago, anche il loro prosecco, noblesse oblige, e me ne torno a casa. In un attimo sono spariti dal mondo il buon gusto e le libertà individuali. Case giallo acido e niente più scopate sulla spiaggia. E a casa mia non è meglio, anzi, quelle sdraio e quelle piantine ornamentali…. Mi chiudo in camera a leggere: è l’unico rifugio sicuro. I miei mille anni di storia famigliare, le mie due lauree, le mie quattro lingue, i miei modi cortesi e cosmopoliti non servono a nulla se non a fare di me un diverso. Gli uomini detestano i diversi. Cercano i loro simili. I diversi non possono più emergere, occorre avere pregi e difetti popolari. Homo homini lupus ma non di lupi, di charognard si tratta. Finalmente arrivano le otto. Ho scoperto che il nuovo cancello è elettrico e ho trovato un telecomando. Sono contento di non dover più scavalcare il parapetto e passare dalla spiaggia ma con il vecchio cancello se n’è andato un altro ricordo della mia infanzia, quando insieme a mio fratello scendevamo dalla macchina di mio padre o da


quella del nonno guidata dall’autista per aprire il grande cancello verde, che all’epoca non era ancora schermato e lasciava vedere ai passanti il giardino fino al lago. Mi viene in mente una giornata di agosto di tanti anni prima - avrò avuto non più di dieci anni - quando eravamo tutti seduti a tavola in fondo al giardino, con la griglia accesa, e una famiglia tedesca era entrata convinta che fosse un ristorante. Arrivo davanti al cancello della villa di Carola e lei è già in giardino che mi aspetta. Mi spiega la strada e in un attimo siamo arrivati. Il ristorante è nuovo, non l’ho mai visto prima. È proprio sulla spiaggia, sopra una grande pedana di legno. Abituato agli orrendi ristoranti con le sedie leggere di plastica bianca e i menu in italiano e in tedesco che deturpano la sponda lombarda del lago Maggiore, rimango stupito di trovare un posto di buon gusto. Riconosco il proprietario: è un mio coetaneo nato e cresciuto a Luino e da adolescente o poco più vedevo nell’unica discoteca, dove andavamo a ubriacarci e a conoscere le ragazze tedesche o a volte olandesi che poi portavamo a casa mia e, davanti alla piscina illuminata, si lasciavano baciare e, qualche volta, prendere sulle sdraio, sul prato o sul vecchio Riva Florida nella darsena. Ho conservato per anni le cartoline che mi spedivano da Stoccarda, Monaco, Rotterdam e persino Oslo dandomi appuntamento per l’estate successiva. Una sola volta ne ho rivista una: di solito dopo di me uscivano con mio fratello, i miei cugini o mio zio, sì, con mio zio di vent’anni più vecchio! Io le abbordavo e le portavo a casa, gli altri le portavano a letto. Il nonno aveva già previsto tutto: «Tu le porti qui e gli altri ne approfittano, perché tu hai preso da me, sei un romantico.» In realtà, io godevo di una specie di ius primae noctis. Il ristorante è pieno di tedeschi, coppie in vacanza, gruppi di amici. Sulla spiaggia vi è un’enorme catasta di legna, per fare un falò alle undici. Una volta il lago non era così, penso che è migliorato e lo dico a Carola. Lei mi risponde seria che è vero, per i tedeschi è migliorato, ma per noi no. Le dico: «Forse hai ragione, noi eravamo più felici allora.» «Non so se è una questione di felicità. Noi eravamo a casa, nelle nostre ville, sicuri di essere destinati a una vita bellissima. Poi non è stato sempre così, anzi direi mai. Ma credo che sia così per tutti quelli della nostra condizione sociale. Io però ho le mie figlie e mia nipote. Quest’autunno andrò ad abitare in Danimarca - il compagno di mia figlia è danese - ho comprato una casetta vicino alla loro e andrò a fare la nonna.» «E la suocera.» ho aggiunto io, prendendole la mano, senza pensarci. Poi abbiamo cenato, bevuto una bottiglia di Morellino di Scansano e guardato il falò. Verso le undici e mezzo al bar sono arrivate tre ragazze russe, una più bella dell’altra, e io ho domandato al proprietario dove le avesse


trovate: «A Lugano, è pieno di russe. Lavorano a Capo San Martino o al Corona. Io le pago per venire una sera la settimana e quelli della nostra età corrono qui come scemi per vederle, quando con 100 Euro potrebbero andarci a letto.» Gli rispondo: «Ottimo marketing, tu hai capito tutto.» Mi racconta che passa l’inverno in Brasile, che ha una barca con cui porta in gita i turisti. Non riuscirebbe più a passare l’inverno qui al lago. Poi io e Carola lo salutiamo e ce ne andiamo a casa mia, mano nella mano. Attraversiamo il giardino e ci mettiamo sopra due lettini, che ho appena unito, accanto alla piscina. L’abbraccio, mettendo la testa sul suo seno. Carola mi accarezza i capelli e mi domanda: «Davvero sei tanto triste?» «Sì, sono disperato. Mia moglie non mi ama più.» La bacio e nel buio vedo che mi fissa con un sorriso da Gioconda, senza dire una parola. Poi saliamo in casa. Vorrei portarla nel mio letto, ma è un letto singolo e non ci sono le lenzuola. Lei mi dice: «Stiamo fuori in terrazza, è una serata splendida.» E così la abbraccio da dietro, la stringo, la accarezzo e mi slaccio la cintura dei pantaloni. Lei si gira e mi aiuta. Poi come diciotto anni prima ci baciamo ancora, ci tocchiamo, ci stringiamo mezzi nudi e ci amiamo teneramente ma senza scopare. Carola, amore di una vita, primo sogno erotico di un ragazzino solitario e malinconico, ho pensato veramente che abbracciarti mi avrebbe fatto bene. È stata una serata magnifica, abbiamo riso, abbiamo scherzato delle nostre vite, ma poi tu hai pensato a tuo marito e dai tuoi occhi è stato chiaro che lui è stato il tuo unico amore. Io ho pensato a mia moglie, a mia figlia, alla mia malattia e avevo voglia di piangere più che di portarti a casa dei miei. Ci siamo andati comunque, certo, ma è stato un tuo atto di generosità, null’altro. Carola, sei sempre bella e dolcissima e te ne sono grato. Però il seno al silicone e la depilazione totale non si addicono a una nonna. Carola, il pelo asciuga le lacrime. Perché ti sei depilata?


1.3 Politica versus fica Sottofondo musicale: “Don’t look back in anger”, Oasis

In seconda liceo classico ero stato eletto rappresentante d’istituto al Leone XIII°, il collegio dei gesuiti della Milano bene. Prima di me, chi aveva ricoperto quella “prestigiosa” carica aveva avanzato proposte ardite quali fare un ritiro spirituale a Varese o una gita scolastica a Firenze. Io no. Il mio programma politico, il mio patto con i leoniani, era composto da un solo punto: scuola mista. I gesuiti ne erano sconvolti. Ragazze al Leone XIII°? Mai! In realtà, parlando con loro (sì, sono un mediatore nato, da sempre a favore del dialogo) capii che semplicemente si fottevano dalla paura di affrontare l’altro sesso. Alla prima riunione nell’aula magna - una cosa maledettamente seria, almeno fino a quella volta - dal centro del palco dei relatori ho tenuto un discorso conciso, elencando tutti i famosi ex alunni che avevano dimostrato evidenti problemi con l’altro sesso a causa di un’educazione che li portava a vedere nelle donne o il demonio o angeli immacolati. Insomma, le donne andavano conosciute e riconosciute per quello che erano veramente e tredici anni di scuola soltanto maschile non favorivano questa conoscenza. Applausi a scena aperta da parte dei miei elettori. Poi una domanda da parte del padre spirituale, un gesuita geniale, direi quasi diabolico: «E cosa proponi in concreto?» «Di aprire l’istituto alle ragazze.» «Non sarebbe utile iniziare gradatamente, con incontri bimestrali con delegazioni delle Marcelline di Piazza Tommaseo o delle Orsoline di Via Lanzone?» Maledizione, scacco matto. Da futuro avvocato ho subito riconosciuto il colpo vincente, il K.O.: una rivoluzione non si incomincia con incontri bimestrali in cui si prende un the. Tutta la poesia della ribellione contro l’ordine costituito, tutto il romanticismo della conquista del dark side of the moon veniva ridotto a un incontro di delegazioni in cui ragazzini e ragazzine sfigatissimi avrebbero deciso di fare un ritiro spirituale a Varese o una gita scolastica a Firenze.


Dopo qualche giorno eravamo in aula a sonnecchiare durante una lezione di greco quando abbiamo sentito un colpo secco e quindi un secondo rumore, di un vetro andato in frantumi. Il professore ha aperto la porta e di nuovo abbiamo sentito lo stesso rumore, fortissimo. Per fortuna le finestre della nostra aula davano sul cortile. I miei compagni dei primi banchi si sono alzati e sono corsi fuori dall’aula, mentre il professore gridava loro di rientrare. Uno di loro è rientrato con in mano un cubo di porfido - il classico pavé milanese: ci stavano prendendo a sassate le finestre verso la strada. Sono un temerario, lo sono sempre stato, ne ho avuto conferma in due incidenti d’auto, un incendio e nei miei sette ricoveri ospedalieri, e ho gridato ai miei compagni: «Corriamo a tirare giù le tapparelle!» Sono corso in corridoio, facendo appena in tempo a vedere i ragazzi con l’eskimo giù in strada. Poi, mentre abbassavo in fretta la tapparella, ho sentito uno sparo, vicinissimo. Mi sono buttato a terra. Ormai le tapparelle erano tutte giù salvo una, quella della finestra sotto la quale stavo sdraiato. Ho alzato la testa e ho visto P.O. con la pistola in mano. A poco a poco il corridoio si è riempito di gente. Tutti fissavano P.O. mentre diceva, tranquillo: «Ho sparato in aria.» Gli aggressori gridavano, ma non tiravano più nulla. Il professore di greco - che era anche il preside - ha abbassato anche l’ultima tapparella e ha ordinato: «Tutti in aula.» Abbiamo ripreso la lezione come se niente fosse. Alla fine dell’ora di greco, il professore ci ha detto: «Ragazzi, voglio insegnarvi una cosa importante. Qualunque cosa succeda nel corso della vostra vita, non perdete la calma, non lasciatevi sopraffare. Andate avanti per la vostra strada. Ora potete andare in ricreazione.» Al momento non ho dato un grande peso a queste parole, ma se ci ripenso oggi, capisco che il nostro professore ci ha lasciato un grande insegnamento. Uscendo in cortile abbiamo scoperto che i manifestanti avevano preso a sassate anche le nostre moto. Tutti parlavamo di P.O., nessuno sapeva che girasse armato. Due anni prima suo zio era stato rapito, ucciso e dato in pasto ai maiali. Era il periodo dei rapimenti e molti miei compagni avevano paura. Molti di loro andarono via da Milano, di solito a Lugano, i miei cugini prima a Lugano poi a Washington. I giornali parlarono a lungo dell’episodio e, naturalmente, per i giornalisti la cosa ignobile non era stata l’aggressione ma il colpo di pistola sparato in aria da un leoniano fascista. Niente di più stupido e falso: nessuno di noi era fascista, P.O. meno che meno. Era un ragazzo timido e introverso, terrorizzato da quanto capitato a suo zio. Come biasimarlo? Ma la cosa non era finita lì, almeno per me. Qualche giorno più tardi ero al bar con quattro o cinque compagni a comprare le sigarette (sì, allora


fumavo). Sono arrivati un gruppo di ragazzi con gli eskimo. Hanno aspettato che uscissimo e ci hanno circondato. Poi hanno cominciato a picchiarci, prima a pugni e calci, poi con le catene delle moto. Io cercavo di evitare i colpi e, in effetti, presi soltanto un colpo di catena sulla spalla. Ma un mio compagno a terra per un pugno in piena faccia venne colpito da un calcio che gli spaccò due denti. Stava per essere colpito da un secondo calcio quando io riuscii a dare una spinta, non un pugno, proprio una spinta laterale al suo aggressore. Questi si girò, mi fissò e mi disse: «Questa me la paghi.» Il mio non fu un atto di coraggio, fu un riflesso pronto. L’aggressore era piccolo, ben più basso di me. Una settimana più tardi ero da solo, appoggiato alla moto - Sachs british racing green - davanti all’Istituto delle Marcelline. Giacca a vento Henry Lloyd e berretto da velista in lana blu: il casco non era obbligatorio e in quegli anni non l’ho mai messo. Arrivarono di nuovo quelli con gli eskimo e mi circondarono. Il piccolo bastardo mi disse: «Togliti gli occhiali.» Me li tolsi piano e li appoggiai sulla sella della moto. Mi diede un pugno con la mano sinistra - teneva la destra stranamente in tasca. Mi ruppe il labbro. Lo fissai, succhiando il mio sangue che usciva e gli dissi, sfidandolo: «Dammene un altro.» Feci male, molto male. Tolse la mano destra dalla tasca - vidi appena il tirapugni - e mi tirò un gancio. Mi spaccò il sopracciglio e barcollai, ma rimasi in piedi: se fossi caduto, mi avrebbe preso a calci. Perdevo molto sangue. La piazza era piena di gente, ma nessuno intervenne. Salii in moto e andai al pronto soccorso, tamponando il sangue col berretto di lana. A distanza di trent’anni, la frattura è ancora ben visibile nella mia TAC. Dopo qualche giorno sono andato da un grande avvocato penalista, amico di famiglia, per sporgere querela. Mi ha accolto nel suo studio austero, da persona seria, e ha ascoltato il mio racconto. Poi mi ha detto: «Alan, se sporgi querela non otterrai giustizia. In Italia la giustizia non esiste. Le querele per lesioni personali non vengono neppure prese in esame, salvo rarissime eccezioni. Tu non hai testimoni, loro erano in cinque e diranno che sei stato tu - un fascista per il solo fatto di essere il rappresentante d’istituto del Leone XIII° - a iniziare la rissa. Esistono le mafie, le cupole, le logge massoniche, le cricche, le consorterie, le bande, le lobby ma non la giustizia penale. Liberté, egalité, fraternité e justice sono utopie sconfitte. In compenso avrai paura. Tornando a casa una sera troverai qualche altro delinquente con l’eskimo che ti aspetta e te la farà pagare di nuovo. Dovrai girare con la scorta come i tuoi cugini. Lascia perdere.»


Ho seguito il suo consiglio. Oggi penso: «Grazie Collega, è stato un onore incontrarLa. Purtroppo - e oggi sono ventitre anni che faccio la nostra professione - Lei aveva ragione.» Tre anni fa si è sparato in bocca con una 357 magnum alla sua scrivania: era un vero maudit, intelligente, sensibile e inquieto. Oggi il piccolo bastardo è Giudice - e io Giudice lo scrivo sempre con la G maiuscola. Sono certo che i suoi compagni siano stimati presentatori televisivi, direttori di giornali, segretari di politici, amministratori di cooperative. Io sono un anarchico solitario. L’unica mia convinzione politica è stata di essere repubblicano, quando ancora esisteva in Italia uno sparuto gruppo di monarchici – e mio padre ne faceva parte. Papà, ma eri impazzito? Volevi sul trono un re pistolero e…. E un principe cantante e sua moglie al Crazy Horse? Papà, essere repubblicano era un atto di devozione e rispetto verso il nonno, glielo dovevi anche tu. In camera mia non ho mai avuto poster di Che Guevara, più che altro perché mi dava l’idea di essere sporco, ma di James Dean. James, bello e maledetto, con la sigaretta in bocca a passeggio per New York in una giornata piovosa. Non sono fatto per la politica, non posso stare dalla parte dei miei aggressori ma neppure al centro, con i cattolici o a destra con Silvio Berlusconi, i neofascisti, i leghisti e mio suocero. Non sono fatto per le passioni di gruppo, lo sport, il palio di Siena, i social network, i concerti negli stadi (così mi sono perso il concerto di Bruce Springsteen a San Siro, e mi dispiace). Io sono per le passioni individuali. In fondo, la politica è l’arte di amministrare la società ma la fica è l’arte di amministrare la propria vita. Non ho dubbi che per me sia più importante la seconda.


1.4 Mio fratello. Silenzio

Ho avuto un incubo: ero vecchio, calvo, con la barba lunga, gli occhi rossi e camminavo in pigiama, con una stampella, per il corridoio del Policlinico. Bussavo a una porta per farmi visitare. Mi apriva una dottoressa giovane, alta, bella, capelli castani e stetoscopio al collo. La fissavo negli occhi erano verdi - e le dicevo, abbassando lo sguardo: «Mi scusi, ho sbagliato ambulatorio.» Me ne tornavo zoppicando verso il mio letto nello stanzone della terapia intensiva, il primo letto, quello più vicino agli infermieri, quello del malato più grave. Il mio medico era lei, lo sapevo, ma avevo vergogna di farmi visitare, io così vecchio e distrutto, lei così giovane e bella. Ho iniziato a piangere disperato. Poi qualcuno mi ha abbracciato e mi ha accarezzato la testa: era mio fratello, anche lui in pigiama, vecchio come me. Mi sono svegliato in un bagno di sudore, singhiozzando. È stato terribile.


1.5 I bambini no. Sottofondo musicale:“My name is Luca”, Suzanne Vega

Al secondo tentativo ho cercato di sedurre Sandra, la vicina di casa. L’avevo vista per caso, di sfuggita, mentre trascinavo in casa il materasso e lei usciva con i suoi due cani. Mi era sembrata bella - e avevo visto bene. Stavo partendo dal lago quando ho avuto un’idea. Ho colto un mazzo di rose, scegliendo le più belle indipendentemente dal colore e ho scritto sopra un mio biglietto da visita: “Dal vicino di una notte, in segno di scuse se, rientrando tardi, farà abbaiare i cani”. Arrivato a casa, ho suonato il suo campanello e le ho dato il mazzo di rose. Lei mi ha guardato con un’aria sbalordita, ha letto il biglietto e ha sorriso. Non ho perso l’attimo e le ho chiesto se voleva venire a cena con me, quella sera stessa, a Brera a vedere i topi (le cronache di Milano ne parlavano da giorni). Non le ho lasciato il tempo di pensare e lei mi ha risposto: «Sì, è un bellissimo invito, ma devo portare la mia bambina.» Qui sono stato io a essere colto di sorpresa e ho risposto: «Allora dobbiamo andare un po’ presto, va bene se passo a prenderti alle sette e mezzo?» Al suo cenno di assenso ho aggiunto: «Allora faccio abbaiare i cani alle sette e mezzo.» Sono entrato in casa felice. Un uomo che è ancora capace di abbordare una donna non può essere infelice, prima o poi troverà quella giusta. Alle sette e mezzo ho bussato alla sua porta e i cani hanno iniziato ad abbaiare. Lei ha aperto la porta con la sua bambina, una piccola splendida bambina nera, adottata, di quattro anni. Ho cercato di essere disinvolto e di sorridere a entrambe già in ascensore, ma la tensione mi ha paralizzato. Siamo andati a Brera, non abbiamo visto i topi dato che era stato messo veleno dappertutto e poi le ho fatto scegliere un ristorante. Lei si è comportata da persona educata e ne ha scelto uno tra i più economici. Appena seduti, ho aperto il sacchetto che mi ero portato dietro e ho consegnato alla bambina un blocco da disegno e dei pastelli a cera che avevo comprato per lei alla libreria Feltrinelli. Quindi ho regalato un libro alla mamma: La lettera di Somerset Maugham, scelto perché appena pubbli-


cato da Adelphi. Lei era sorpresa, ma non ho notato alcun segno d’interesse per il libro e mi è spiaciuto: chi non ama i libri non è capace di sognare. Poi abbiamo iniziato a raccontare la storia delle nostre separazioni e la sofferenza di entrambi era evidente. Lei mi ha raccontato, mentre la bambina ascoltava, di avere dormito per più di un mese sopra un divano con accanto una mazza da baseball e uno spray anti aggressione perché il marito si rifiutava ostinatamente di andarsene di casa. Io le ho parlato della mia malattia e poi che avevo lasciato mia moglie la sera prima del funerale di suo padre. Ogni tanto guardavo la bambina che disegnava tranquilla e lei mi domandava che colore dovesse usare per colorare Tigro o Winnie Pooh. A poco a poco mi è venuta una tristezza che sarei uscito a piangere, anche se so di non esserne capace. Al ritorno a casa non me la sentivo neppure di guidare e le ho ceduto il volante, io che non faccio provare la mia auto neppure agli amici. Abbiamo mangiato un gelato insieme sotto casa ma avevo fretta di buttarmi sul materasso a leggere. E, in effetti, ho iniziato a leggere, poi le ho scritto un sms: “Sandra, non è stato un corteggiamento, è stata un’aggressione. Ciascuno di noi ha alle spalle storie dolorose e raccontarle all’altro fa soltanto male. Vorrei rivederti. Per ora, scusami. Buona notte.” Dopo un attimo mi ha risposto: “Non doveva essere un corteggiamento. Né tu né io abbiamo bisogno di una relazione in questo momento. Cerca di dormire e stai sereno.” Ho risposto senza troppo pensarci: “Ti sbagli, ne abbiamo un assoluto bisogno. Non puoi stare tutta la vita sul divano con accanto la mazza da baseball e lo spray anti aggressione.” Ho premuto invio e me ne sono immediatamente pentito. Era un messaggio ignobile: le storie degli altri si ascoltano ma non si ripetono. Mi sono sentito veramente in colpa e ho capito subito che la mia avventura con Sandra era finita.


1.6 Einmal ist keinmal. Zweimal ist einmal zu viel (Una volta non conta. Due volte sono una volta di troppo). Sottofondo musicale: “Angie”, The Rolling Stones

Come al solito, la notte non ho dormito. Mi sono addormentato verso le sei del mattino, ma alle otto meno dieci ha suonato la sveglia. Camminando verso lo studio pensavo ancora alla sera prima ed ero arrabbiato con me stesso. Poi a poco a poco mi è sembrato di comprendere una verità assoluta, di avere svelato uno dei segreti più importanti per le mie avventure future: le relazioni tra persone della mia età sono difficili, molto più difficili di quelle tra ragazzini. A diciassette anni, corteggiarsi parlando dei propri problemi crea empatia, perché i problemi sono simili. A quarantotto no, ognuno ha già vissuto buona parte della propria vita e raccontare esperienze di sofferenza spaventa l’altro, crea un disagio profondo e una barriera. D’ora in poi avrei cercato di essere più prudente, più riservato, meno impaziente. Però sarei anche tornato sulla strada della riconquista, perché mi era rimasto il dubbio che forse Sandra mi avesse semplicemente annusato e il mio odore non le fosse piaciuto, altrimenti mi avrebbe perdonato tutto e mi avrebbe amato lo stesso, perché in fondo siamo soltanto animali. E tuttavia non avrei cercato una conquista facile e mi sentivo pronto per una difficile, difficilissima: la riconquista di una ex che mi aveva piantato prima ancora di venire a letto con me, una ex che mi aveva baciato, che era venuta a casa mia ma poi si era tirata indietro. Io avevo insistito, le avevo persino morsicato i collant, ma lei, ridendo, mi aveva respinto. In più, una ex bellissima e famosa, un’attrice nata da madre tedesca e padre italiano. E così ho chiamato un amico e mi sono fatto dare il suo numero di telefono. Non sapendo se era sola o con qualcuno le ho scritto prudentemente un messaggio: “Ciao Lisa, ho lasciato mia moglie, sei tra le prime persone a saperlo. In L’amore ai tempi del colera Florentino Ariza amerà Fermina Daza dopo un’attesa durata cinquantun anni, nove mesi e quattro giorni. Io ho già atteso venticinque anni, chiamami. Alan.”


Dopo qualche minuto mi è arrivata la risposta: “Tesoro, sono lusingata e felice di vederti. Ora sono a Roma, usciamo a pranzo mercoledì. Un bacio. Lisa.” In tutta la mia vita non avevo mai ricevuto un sms più bello. Volevo risponderle, ma non sapevo come. Mi sono ricordato che all’angolo c’era un fioraio e sono sceso a comprare una rosa rossa. Poi ho scattato una fotografia con il telefonino e gliel’ho inviata: un gesto degno di un adolescente innamorato - e sono certo che un’adolescente l’avrebbe compreso e amato. Ho aspettato mercoledì con ansia. Mi sono presentato al nostro appuntamento nel giardino dell’Hotel Diana con dieci minuti di anticipo e sono rimasto ad aspettarla fuori dalla porta girevole, con in mano una rosa rossa e Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry, prova evidente che si possa restare sensibili come bambini anche da adulti. Quando l’ho vista arrivare ho avuto paura di non riuscire a dirle quello che invece dovevo assolutamente dirle. Era un discorso d’amore, un magnifico discorso d’amore senza alcun accenno ai venticinque anni trascorsi. “Le avrei detto che la solitudine mi stava per uccidere, così lei non mi avrebbe cacciato subito” (Fedor Dostoevskij, Le notti bianche). Lei era bellissima, elegantissima, sicura di sé come nei suoi film e mi ha subito abbracciato e preso per mano. Sono entrato nella hall dell’albergo come un maschio alfa, come un vincente. Poi, finalmente seduti nel giardino, a un tavolo appartato, le ho raccontato di tutti i nostri incontri di venticinque anni prima, le ho detto che l’avevo sempre amata e desiderata e che mi sarei iscritto al blog dei suoi fans. L’ho fatta ridere e quando lei mi ha raccontato della sua bambina, avuta da un chirurgo plastico che per due anni non aveva neppure voluto riconoscerla, l’ho perdonata - evidentemente lei non sapeva ancora che certe cose non andavano svelate al primo appuntamento - e le ho stretto forte la mano, sorridendole dolcemente, ma non mi sono abbandonato ai disgraziati racconti della mia vita. Siamo usciti abbracciati dalla porta girevole e l’ho baciata sulla guancia, anche se avrei desiderato ben altro e lei mi ha detto: «Devo tornare dalla mia bambina, ma andiamo venerdì a St. Tropez, c’è la festa di Chicca Brambilla, ci sarà anche tuo fratello.» Immediatamente mi sono svegliato dal sogno romantico e ho capito che mi ero comportato come uno stupido, come chi dovendo cambiare una FIAT va dal concessionario a vedere una Ferrari. Non le avevo detto che avevo lasciato tutto a mia moglie - perché avrei dovuto farlo? - e ora capivo che, esattamente come venticinque anni prima ero stato lasciato per


il rampollo di una delle più note famiglie italiane e che lo sarei stato ancora per qualcun altro se avessi confessato che ero nullatenente. Ma le voci corrono e certe notizie non si possono tenere segrete. Su Facebook mia moglie aveva scritto della nostra separazione e qualche sua amica vi aveva aggiunto che io le avevo lasciato tutto. So da mio fratello, che in effetti è andato a St. Tropez, che Lisa aveva letto lì la notizia. Sabato mattina mi è giunto questo messaggio: “Sei molto caro, ma vorrei che resteremmo amici. Lisa”. Dopo l’sms più bello, quello più brutto. Ho subito risposto: “Lisa, i miei tentativi di sedurti: Einmal ist keinmal. Zweimal ist einmal zu viel. Non posso credere che tu mi abbia scritto il messaggio di ieri sera: l’errore di grammatica, il declassamento da uomo ad amico, intollerabile per chi si senta ancora un uomo. Addio Lisa e scusami.”


1.7 Sono come le case di Milano / fredde e cupe di fuori / ma se apri il portone scopri un giardino / ed è pieno di vita (Alan Tocchi, “Autoritratto”). Sottofondo musicale:“Belle of the boulevard”, Dashboard Confessional

Volevo andare a cento scopate di distanza ma per ora sono fermo a zero. Sul Corriere milanese leggo un articolo sui centri di massaggi orientali che spuntano come funghi. Il giornalista sostiene che si tratti di posti dove oltre ai massaggi si vendono prestazioni sessuali. Nella mia vita sono andato a puttane una sola volta, la notte prima della maturità. Era il 1981, non ero vergine, ma per la puttana, una toscana di quarant’anni, io, diciottenne, dovevo essere una specie di lieto svago. L’avevo caricata sulla BMW 735 targata tedesca con uno dei primi telefoni, in Italia non esistevano ancora, di mio padre - che all’epoca, prima di perdere tutto quanto aveva faticosamente ricostruito, abitava nel castello di Neu Ulm. Ha fatto Milano Neu Ulm tante volte che se al posto di viaggiare con le sue BMW si fosse comprato un camion e avesse trasportato qualcosa, oggi sarebbe ricco. Era allegra mentre io ero ubriaco, rideva e mi sfotteva dicendomi che ero ricco, bello e che ce l’avevo grosso e duro. L’ha preso in bocca, senza preservativo e mi ha detto: «Le tue amichette non le sanno fare queste cose.» Poi mi ha scopato standomi sopra, mi ha scopato lei, è proprio il caso di dirlo, sempre senza preservativo. Io ero terrorizzato dalle malattie e stavo per chiederle di smettere, poi lei ha iniziato a muoversi più veloce, roteando il bacino. Mi girava la testa e lei continuava a muoversi, nella convinzione che sarei venuto subito. Ma non potevo venire, ero troppo preoccupato per le malattie. E francamente una quarantenne grassoccia, con un seno molle che mi sbatteva in faccia, a diciotto anni non era il mio sogno erotico. Mi sembrava una scopata da festa di paese, animalesca. Così, animalesco per animalesco, le ho chiesto di mettersi in ginocchio e l’ho montata per almeno dieci minuti. Finalmente sono venuto e lei mi ha detto: «E se scopi in codesto modo, chissà che esame.»


Le ho risposto, facendola ridere a crepapelle: «Come ha scritto il grande William Shakespeare, l’alcool aumenta il desiderio ma diminuisce la prestazione. Potevo fare meglio.» Poi per trent’anni non ho mai più pagato. Però forse potrei provare questi massaggi orientali. Le orientali mi sono sempre piaciute. Quando studiavo a Edmonton (Siamo venuti inseguendo il sogno americano / ci ha inghiottito un quartiere di periferia / non importa / per tutti Kentucky Fried Chicken - o IKEA, Pizza Hut, luoghi dove sembrano realizzarsi gli ideali di uguaglianza e fratellanza, moderna versione delle cattedrali) avevo avuto una splendida giapponese. Era una mia compagna di università e un giorno mi si era avvicinata domandandomi se la giacca che indossavo l’avevo comprata a Milano. Erano gli anni ottanta e Milano era ancora quella degli stilisti, un mito per le ragazze giapponesi. La giacca era di mio nonno e, in effetti, era un capolavoro di sartoria. Già la sera stessa eravamo andati insieme in un locale - io odio i locali, ma non potevo certo portarla subito a casa - e l’avevo baciata. Poi, dopo un paio di giorni, l’avevo portata veramente a casa, spogliata completamente e fatta venire leccandola tra i peli neri e lisci, due dita a stimolare il rugoso punto G, io completamente vestito, scarpe comprese. Non ho mai capito perché non mi sia spogliato, ma ero fatto così, non volevo spaventarla. Lei non mi ha domandato di spogliarmi né ha fatto nulla e io sono rimasto vestito. È venuta gemendo e bagnandosi tutta e poi, imbarazzata, mi ha accarezzato la testa - ancora in mezzo alle sue cosce - è mi ha detto semplicemente: «It’s finished.» Si è andata a lavare, si è rivestita e poi, prima di farsi riaccompagnare a casa con la mia vecchia Cadillac Fleetwood Brougham (otto cilindri, settemila di cilindrata), comprata usata da un cinese di Hong Kong, ha voluto a tutti i costi lavare i bicchieri sporchi che avevo lasciato nel lavandino. Come scambio, non mi è parso equo, un orgasmo - oggi si direbbe uno squirting - in cambio dei bicchieri puliti. Se non altro ho dato il mio piccolo contributo a tenere alta l’immagine dell’amante italiano all’estero. Purtroppo non è bastato: qualche sera più tardi le ho presentato il mio migliore amico, un ragazzo indonesiano ricchissimo, sempre vestito Armani con una BMW M3 nuova fiammante regalatagli dal padre. Si sono innamorati e mi hanno lasciato solo: una volta soltanto mi hanno invitato a un ristorante giapponese di Toronto per ringraziarmi di averli presentati. Così mi è sempre rimasta la voglia di far l’amore con un’orientale. Trovo due indirizzi di centri massaggi e li scrivo sopra un post it. Telefono al primo: «Pronto, ho visto l’inserzione su Bakeka incontri, fate massaggi romantici completi?»


«Sì.» «Se vengo questa sera alle sette siete aperti?» «Si.» «Bene, ci vediamo alle sette.» Il posto è dopo lo stadio, in fondo, nella zona più periferica di Via Novara. Parcheggio proprio davanti. Tra un bar e una banca ci sono le vetrine schermate fucsia e, sulla porta, il listino prezzi. Entro spedito, perché la gente seduta ai tavolini del bar mi sta guardando. Ci sono tre ragazze sedute su poltrone di finta pelle, come quelle di certi aeroporti, una davanti al computer e le altre due davanti a due Nintendo DS. Ridono e una dice: «Ciao, vuoi massaggio?» «Sì, massaggio completo.» «Prego.» Mi fanno entrare in uno stanzino lungo e stretto, dove a malapena ci sta un lettino per i massaggi coperto da uno strato di carta. La ragazza, quella che ha parlato - non la più bella ma una vale l’altra - mi fa segno di spogliarmi e di appendere i vestiti e mi dà un sacchettino di cellophane con dentro una cosa nera. Lo guardo senza capire subito cosa sia e lei allora estrae un perizoma e mi fa segno di indossarlo. Poi esce e lascia che mi spogli da solo. Quando ritorna, mi sto specchiando: sono in perizoma. Mi fa segno di sdraiarmi e mi dice: «Pancia in giù.» Io penso: “Allora parla.” poi rompe la carta e vedo che nel lettino c’è un buco per respirare. Inizia il massaggio, un vero massaggio, e mi sembra brava. È un massaggio diverso da quelli che ho fatto in Tailandia ma piacevole. Le dico che è brava, ma mi guarda con l’aria di chi non ha capito. Le chiedo da quanto tempo è a Milano e mi accorgo che non capisce assolutamente niente: sa tre o quattro parole d’italiano e basta. Mi domando come farò a chiederle un massaggio completo. Boh, forse già glielo avrà detto l’altra ragazza. Dopo un po’ inizia a massaggiarmi sempre più vicino al perizoma. Le mani vanno verso l’interno delle cosce e risalgono sui glutei. Mette altro olio versato da una boccetta di baby shampoo Johnson & Johnson e mi viene da ridere, pensando che anche l’olio è made in China e poi messo in una boccetta usata. Ma in un attimo le mani s’infilano sul perizoma, accarezzandomi da dietro, molto delicatamente, i testicoli. Sento un accenno di erezione e devo inarcare la schiena per mettere il pene in verticale nel perizoma. La ragazza si ferma. La guardo e le domando: «Posso girarmi?» «No.» Continua come prima per qualche minuto, poi mi dice: «Finito.»


Mi siedo sul lettino, con un’erezione ben visibile. Lei abbassa gli occhi, si gira per uscire. Quando ha già aperto la porta, domando: «No massaggio romantico?» «No.» «Neanche se ti do altri soldi?» «No.» «Grazie.» Mi rivesto, pago 20 Euro - il massaggio era in offerta - e me ne vado. Francamente, non posso dire di essere deluso dal trattamento, il massaggio non era male, ma non capisco il perché delle carezze sul perizoma per poi lasciarmi così senza finire il lavoro. Forse le irruzioni della polizia degli ultimi giorni (un appello: Ministro Maroni, Sindaco Moratti, lasciateci i massaggi!) hanno spaventato le ragazze, che ti fanno capire che potrebbero farti un massaggio “romantico” ma poi si fermano. Ho ancora in tasca il secondo indirizzo, tra qualche giorno proverò se è così dappertutto. Infatti, dopo due giorni vado al secondo centro massaggi orientali. Entro è c’è un cliente, un bel ragazzo italiano sui trent’anni, che ride nell’ingresso con le cinesine. Lo saluto e chiedo alla ragazza alla cassa un massaggio romantico. Mi fanno entrare in una stanza con due futon e una vasca da bagno. L’ambiente è bello, nulla a che vedere con l’altro centro. Bussano alla porta. Entra una ragazza giovanissima e mi porge il perizoma, nel solito sacchettino di cellophane. Ormai sono un esperto, mi spoglio, me lo metto e resto in piedi davanti allo specchio. La ragazza bussa di nuovo ed entra. È proprio carina. Mi sorride e m’indica il primo futon. Mi sdraio a pancia in giù e lei mi spalma d’olio e inizia il massaggio. È un massaggio diverso. Lei è in shorts e canottiera e usa anche le gambe, le cosce, per massaggiarmi. La vedo nello specchio e noto che per essere una cinese ha un bellissimo seno. Mi piace molto e mentre mi massaggia allungo una mano e le accarezzo una coscia. Lei non si muove e non dice nulla. Le dico: «Sei molto brava.» Lei ripete: «Bla-va.» «Dove hai imparato?» …Nulla. Questa proprio non capisce assolutamente niente. Mi rimette la testa dritta e continua il massaggio. Dopo qualche minuto sono stufo e mi giro di colpo, mentre lei è cavalcioni sulla mia schiena. Non fa neppure in tempo a spostarsi e me la ritrovo sopra con un’aria sorpresa. Le faccio una carezza sulla spalla, sorrido e lei sorride. Poi mi mette una mano sul petto e mi accarezza i peli. Li guarda come se fossero qualcosa


di strano. È una scena assurda. Ci guardiamo, ci accarezziamo senza capire nulla l’uno dell’altra. Le guardo la scollatura e le dico: «Bella.» Di nuovo lei ripete, ma non sono certo che abbia capito. Domando se parla Inglese e mi dice: «No English.» «No English, no Italian ma bella e bla-va.» Mi fissa. Non so cosa fare. Mi alzo e lei chiede: «Finito?» Rispondo di sì e lei esce per tornare con un asciugamano di carta con cui mi asciuga dall’olio. Mi sfilo il perizoma e rimango nudo, per rivestirmi. Lei prima sbircia, poi gira la testa dall’altra parte ed esce. Pago e le lascio 50 Euro di mancia. I soldi li capisce, mi abbraccia e mi dà un bacio sulla guancia. Non so perché ma provo una gran pena per questa ragazza dolcissima, me la porterei a casa. Poi penso che è soltanto una puttana, in Cina chi fa il suo lavoro è considerata una puttana. Con i massaggi orientali ho finito. Cioè, magari quando vorrò un vero massaggio tornerò in un centro massaggi orientali, ma per il sesso è meglio andare a cercare qualcos’altro. E tuttavia capisco che per un uomo solo, maltrattato da una moglie inacidita - il mondo ne è pieno! - che dopo quarant’anni di matrimonio vede in lui soltanto uno che si lamenta per gli spaghetti scotti e scoreggia sotto le coperte fingendo di dormire - veramente imperdonabile, soprattutto per l’ipocrisia - il contatto con una di queste massaggiatrici orientali sia un’evasione proibita a buon mercato, gratificante e, se casta, senza troppi sensi di colpa. Io di sensi di colpa non ne ho, ho un gran bisogno di scopare e mi sono fissato con le orientali: il sabato successivo chiamo una puttana giapponese. La fotografia l’ho trovata sempre su Bakeka incontri. Sembra molto carina. Certo, questa è una vera puttana, che riceve a casa sua. Casa non proprio, un locale seminterrato in Via Cadore dove lei ha messo un letto. Dietro una porta scorrevole s’intravede una cucina e, a fianco, c’è la porticina di un bagno. L’ambiente non potrebbe essere più squallido, ma lei sorride ed è carina. Non è quella della fotografia ed è cinese. Anche la fica in questo mondo di oggi è contraffatta, bisognerà istituire un consorzio a tutela della fica D.O.C. In più è grassa, molto grassa per una cinese - strano. Mi guarda - sono in gessato blu, cravatta di Marinella e camicia azzurra e mi dice: «Tu bello.» Mi ricordo le parole dette trent’anni prima dalla puttana toscana e penso: «Tutto il mondo è paese.»


Poi mi slaccia la cravatta - provo a fare da solo ma insiste - e mi spoglia, slacciandomi anche le stringhe delle scarpe fatte su misura da Laszlo Vass a Budapest. Resto nudo e lei mi guarda e dice: «Grosso, bello.» Prendo un preservativo dalla tasca e mi sdraio sul letto. Ho un po’ schifo, ma c’è una specie di lenzuolino che sembra pulito. Lei si slaccia la vestaglia, sotto è nuda e mi abbraccia. Mi lecca i capezzoli, mi accarezza tra le gambe e ripete: «Amore, amore.» Mi pare un po’ eccessivo, ma non ho tempo di dire nulla perché in un attimo mi sta succhiando, senza preservativo, con una foga imprevedibile. Ho orrore delle malattie, penso che potrebbe trasmettermi l’epatite B, la sifilide, l’herpes e tante altre malattie ma ormai è tardi per divincolarsi, perché lei succhia e geme, come se veramente le piacesse. Resto sdraiato, fermo e la guardo. È grassa ma ha una pelle stupenda. I peli del pube sono neri e lisci, come quelli della mia giapponese di Toronto. I capezzoli scuri risaltano sulla pelle bianca. Dopo un po’ le accarezzo la testa e mi siedo sul letto. Apro il preservativo e me lo metto. Lei fa per aiutarmi, ma io faccio da solo: voglio essere sicuro che sia messo bene. La metto in mezzo al letto e la penetro standole sopra. Lei chiude gli occhi e geme. Dice: «Grosso. Tu fai piano.» La scopo piano, guardandola negli occhi a mandorla e vengo, vengo mentre lei contrae il sesso e geme sussurrando: «Amore, amore.» Un po’ esagerato ma gentile. Esco e lei prende una salviettina profumata. Tolgo il preservativo e lo annodo, tenendolo in mano. Lei mi pulisce. Prendo dalle sue mani anche la salviettina - non voglio lasciare niente di mio - pago 100 Euro quando la tariffa era 60, ma noblesse oblige, metto preservativo e salviettina in tasca, la bacio sulla fronte, ringrazio e me ne vado. Nell’androne ci sono sei o sette condomini insieme all’amministratore che discutono di come riparare il portone. Mi guardano tutti con un’aria di disgusto e mi giro dall’altra parte. In una frazione di secondo realizzo che sono andato con una puttana e non sono più il ragazzino ubriaco di trent’anni prima. Per la prima volta mi sento vecchio. Sono un uomo che va a puttane. Ero un piccolo maschio alfa, ora sono un puttaniere. I diavoli sono angeli caduti. Io sono caduto ma non ero un angelo, non mi sento un diavolo, mi sento umano. Non provo alcun senso di colpa. Non ho più nessuno al mondo, non devo rendere conto a nessuno. Con la puttana mi sono comportato umanamente, oserei dire cavallerescamente, compatibilmente con lo squallore della situazione. Ecco, lo squallore è l’aspetto insopportabile.


Sarò un esteta, ma dello squallore a me stesso devo rendere conto. Se questo è il sesso che mi resta, è meglio lasciar perdere. Mi sento triste. Mi sento solo. Mi sento vecchio. Entro in un bar, non corro neppure a casa a lavarmi e bevo finché non mi gira la testa, finché ubriaco torno a casa, a quella casa che non è mia - che è vuota, in vendita e mi è stata prestata - e mi getto sul materasso dell’IKEA. Sono qui da due settimane e niente è più come prima. Cerco di addormentarmi, ma come al solito non ci riesco. Leggo Utz di Bruce Chatwin fino alle due. Mi sento male. A ogni sorso d’acqua la testa mi gira di più. Non mi sono neppure lavato. Finirò male, sì, finirò male. Devo fare qualcosa, devo avere maggiore cura di me stesso. Da domani cercherò di non bere, non andrò più a puttane: tutti i vizi iniziano così, in maniera innocente. Poi, senza che ce ne accorgiamo s’impadroniscono di noi. Penso a mia figlia, alla mia casa. Penso a mia moglie, che ho perso per sempre, soprattutto dopo l’ultima mail. Vorrei piangere, ma non ci riesco. Il messaggio… accendo il computer e rileggo il messaggio: “Tu mi chiami per rinfacciarmi quello che ti ho fatto dieci anni fa, ma non hai neppure il sospetto che se dieci anni fa ho perso la pazienza la colpa forse era tua. Tu sei così. Te l'ho già detto e scritto. Il tuo egoismo, la tua totale assenza di umanità, il tuo menefreghismo verso i bisogni di tuo marito sono cose che mi lasciano inorridito. Mai un accenno di autocritica, mai un barlume d’intelligenza, che ti consentirebbe di accorgerti quando la misura è colma e anche una persona paziente come me non ce la fa più a sopportarti. Spero che mia figlia cresca diversa da te e diversissima dalla tua famiglia. Sei un mostro e nonostante questo io per diciotto anni ti ho vissuto accanto e ti ho amato. Ora me ne vergogno. Vorrei veramente che tu morissi, perché il mondo sarebbe per gli umani un posto migliore senza di te, e senza quelli come tuo padre che prepotentemente fanno assessori i loro amici e nipoti, evadono il fisco, portano i soldi in Liechtenstein dai loro amati banchieri, trattano a calci in culo tutti coloro che non gli sono utili e strisciano con i potenti. Questa è la mia ultima mail. Addio. NON MI TELEFONARE MAI PIU', NON MI SCRIVERE MAI PIU'. Voglio soltanto lasciarti dietro le mie spalle prima possibile, come una merda che si vuole togliere da sotto le scarpe.” Mio dio, cos’ho scritto. Non ci posso credere. Non mi pare possibile avere scritto una cosa simile a mia moglie, alla madre di mia figlia, alla donna che ho amato per diciotto anni. ("È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. Antoine de SaintExupéry, Il Piccolo Principe)


Eppure l’ho amata. L’ho conosciuta un’estate a St. Tropez. A Moorea, of course, sono un uomo di gusti classici, non alla Voile Rouge o al Club 55 tanto alla moda. Era alta e magrissima, gambe perfette, seno piccolo ma ben delineato, capelli castani e occhi neri, profondi, “occhi privi di friandises”, come disse Giuseppe Ungaretti a una sua ammiratrice il giorno del loro primo incontro. «È una ballerina.» mi avevano detto i miei amici. «Abita a Cannes, ma è palermitana.» Irresistibile: una ballerina mi mancava. Mi ero già immaginato tutto. Lei ballerina in qualche night club. Io malinconico cavaliere che la seduce e la salva da una vita di perdizione. La sera stessa l’avevo portata a Les Caves du Roy, io che odio i locali, ed ero rimasto al tavolo a guardarla ballare scatenata. Poi l’avevo baciata e le avevo passato un cubetto di ghiaccio nella scollatura (sì, mi è piaciuto così, e allora?). Dio che felicità… e come mi baciava. L’avrei subito portata nella mia camera, ma lei voleva ballare e francamente alle cinque del mattino ero troppo stanco per darle più di un ultimo bacetto, così l’avevo lasciata alla Maison Blanche e me ne ero andato a letto, dopo averle dato i miei numeri di telefono - i telefonini non esistevano quasi, io non l’avevo. Non mi aveva chiamato e il giorno seguente era arrivata in spiaggia alle tre del pomeriggio. Era di cattivo umore - dovevo capire subito che non faceva per me - e io, sensibile, orgoglioso e incazzoso, me l’ero presa male, avevo fatto le valige ed ero partito per il lago. Quella sera stessa - ero appena arrivato - mi aveva telefonato. Mi domandava perché me ne fossi andato, mi chiedeva di tornare, mi diceva che sarebbe partita anche lei per tornare a Montecarlo dai suoi genitori (genitori? Anche le ballerine dei night club hanno un papà e una mamma?). Ero felice, era stata gentile. Le ho promesso che l’avrei raggiunta a Montecarlo. E così ho fatto. Dopo un paio di giorni ho preso la BMW 520 di mio padre - sì, il declino economico era già in stadio avanzato - e sono andato al Beach Plaza. Abbiamo cenato insieme da Pulcinella - va beh, non sarà stato chic ma era per restare in tema meridionale - poi le ho domandato di venire da me a dormire. No, non abbiamo dormito. Per la prima e unica volta nella mia vita ho fatto l’amore per tutta la notte, fino all’alba. Non saprei neppure dire quante volte io - e quante volte lei - abbiamo ansimato fissandoci negli occhi. So soltanto che ho avuto paura. Paura che il sesso potesse essere qualcosa di così manifestamente esagerato. Paura addirittura di un’eventuale emorragia uretrale, che per me non sarebbe stata né la prima né l’ultima. Poi ho capito che c’era stato un malinteso: era una ballerina classica, figlia di un noto politico palermitano. Sono un gentiluomo, l’ho sposata


quasi subito. E le sono stato fedele per diciotto anni. Non sempre all’altezza della nostra prima notte, diciamo la verità, mai più all’altezza della nostra prima notte, ma fedele e innamorato. Lei ha smesso di ballare, è diventata una stilista e io il suo devoto schiavo. Poi, un giorno tutto è finito, con la stessa esagerazione con cui era incominciato. Eppure il nostro è stato un matrimonio fantastico. Siamo stati felici per sedici anni. Abbiamo una splendida figlia. Perché mia moglie non mi ama più? Forse mi dovrei suicidare, forse dovrei morire ed essere cremato, ovviamente. Ci sono già abbastanza rifiuti in questo mondo. Non sarei il primo in famiglia ma senz’altro sarei l’ultimo maschio, dato che ho soltanto una figlia femmina. Una figlia femmina: in fin dei conti è lei il mio unico motivo per vivere. Sì, ho mia figlia. Morire non è difficile, essere malati è difficile, anzi difficilissimo, ma morire è un attimo, ho visto due persone morire quando ero in ospedale, è un attimo: l’allarme del monitor cui tutti eravamo attaccati, gli infermieri che corrono, il medico di guardia che arriva, il massaggio cardiaco nel panico e nella confusione, con gli altri sei malati che guardano, prima con curiosità, poi con terrore. Qualcuno che si gira dall’altra parte, uno che piange, sì, l’ho sentito che piangeva. Io invece scherzavo con Klaus, il Tedesco del letto davanti e gli dicevo: «Besser als E.R.» La paura fa ridere. Ma morire è un attimo. Dopo la confusione, il lenzuolo viene steso sul viso del morto e un infermiere porta il letto fuori dal reparto. La mattina dopo la morte di un compagno di stanza è il momento più triste. Si guarda il posto vuoto, si ricorda che poteva toccare a noi e si spera che il posto sia subito occupato da qualcun altro, perché questo è il vero senso della vita: perpetuum mobile, uno esce e l’altro entra, uno muore e l’altro nasce. Se il letto resta vuoto, rimane soltanto il ricordo della morte. Con Klaus ho scherzato tutti i giorni. Era venuto a Milano per lavoro, si era ubriacato ed era caduto dal marciapiede (incredibile ma vero!) rompendosi una vertebra. Si era ritrovato in terapia intensiva al Policlinico in mezzo ai moribondi e agli infermieri che non capivano una parola di tedesco. Quando gli avevo rivolto la parola in tedesco, io che per i primi giorni non sapevo nemmeno più parlare in italiano, si era quasi spaventato. Lo avevo aiutato a domandare persino le cose più semplici, il pappagallo - nessuno di noi poteva andare in bagno - un bicchiere d’acqua. E poi avevamo iniziato a scherzare e lui rideva, rideva come se non avesse ancora del tutto smaltito la sua memorabile sbornia. Klaus, amico mio, per un marciapiede alto sì e no venti centimetri hai rischiato di vivere tutto il resto della tua vita sulla sedia a rotelle. Non ti voglio rivedere,


perché ci siamo divertiti ma se dovessimo rivederci, ci ricorderemmo soltanto le cose terribili che abbiamo visto, che abbiamo visto ridendone per il terrore di essere le prossime vittime. Sono stato male il 3 ottobre di due anni fa. Il giorno prima ero andato all’Agenzia delle Entrate. Avevo fatto istanza per ottenere il rimborso dell’IRAP e mi aveva telefonato una funzionaria domandandomi se potevo passare da lei a discuterne. Al telefono aveva aggiunto: «So che ha domandato anche il rimborso dell’IVA auto, porti l’istanza che ne parliamo.» Ero appena diventato socio di uno dei più importanti studi legali italiani e l’Agenzia delle Entrate era piuttosto lontana. Ho preso un taxi. Era una bellissima giornata di ottobre ed ero contento, uscendo dallo studio avevo scherzato con le telefoniste, con cui del resto mangiavo tutti i giorni nel seminterrato, unico partner nei cento anni di storia dello studio a farlo. I corridoi dell’Agenzia delle Entrate erano bui. Trovato l’ufficio, la porta era chiusa. Dopo un quarto d’ora avevo bussato alla porta del dirigente e questi mi aveva risposto, sgarbatamente, che dovevo aspettare davanti alla porta della funzionaria. Dopo venticinque minuti, quando stavo per andare via, è arrivata una signora bionda, piccola, grassottella, sui cinquantacinque anni e mi ha detto: «Venga avvocato, è qui da molto?» «Sono qui dall’ora del nostro appuntamento.» Nell’ufficio tutto era vecchio e regnava il più assoluto apparente disordine, il tavolo era ingombro di carte e per terra c’era una pila di fascicoli con i nomi dei contribuenti scritti a mano, alla faccia della legge sulla privacy, che nel nostro studio era osservata alla lettera. Subito la funzionaria mi disse senza guardarmi negli occhi: «Avvocato, lei lavora in uno studio importante. Non ha bisogno di questi soldi. Ha fatto istanza di rimborso e io vedrò quello che posso fare per lei. Però lei deve capire che se io le nego il rimborso, lei deve fare il ricorso alla Commissione Tributaria e, ammesso che lei vinca, non prenderà i suoi soldi prima di sei, sette anni.» La guardai incrociando istintivamente le braccia e le gambe e mettendomi di traverso, come per difendermi da un’aggressione e le domandai: «Cosa mi suggerisce?» Lei senza un attimo di esitazione mi rispose: «Lei mi dà 800 Euro e io le faccio avere il rimborso. Ora telefono al mio collega del piano di sopra per vedere se lui può fare qualcosa per il suo rimborso IVA auto.» Mi venne voglia di alzarmi e andarmene, ma restai ad ascoltare la conversazione. Per altri 400 Euro avrei avuto anche il secondo rimborso.


Dissi a bassa voce che avevo capito e ci avrei riflettuto e lei aggiunse: «Poi, se lei mi paga un tot l’anno, ovviamente in nero, perché non posso emetterle fattura, io mi occupo della sua dichiarazione dei redditi e le assicuro che non subirà più altre verifiche.» Avevo subito già tre verifiche e non avevano trovato nulla, ma proprio nulla, eccetto il ritardo nel versamento di una ritenuta d’acconto. Sussurrai: «Penserò anche a questo ma vede, io ho un commercialista da molti anni e mi dispiacerebbe togliergli il lavoro.» Lei rispose: «Ci pensi, io sono qui. Ma faccia in fretta, perché il termine per la mia risposta sta per scadere.» Uscii ripassando davanti alla porta del dirigente e fui tentato di entrare e fare una scenata. Non sarebbe stata la prima, anni prima avevo già minacciato di chiamare i carabinieri dopo avere subito un simile ricatto e il dirigente mi aveva detto tranquillo: «Faccia un po’ quel cazzo che vuole, ma si levi dai coglioni.» facendomi capire che le cose, almeno in Italia, vanno così. Tornai in studio e al posto di andare nella mia stanza andai dal mio collega a capo del dipartimento dedicato al contenzioso tributario, un ex sottufficiale della Guardia di Finanza e gli dissi: «Pierpaolo, mi hanno ricattato.» Lui si fece raccontare bene la cosa e poi rispose: «Se vuoi chiamo i miei ex colleghi e faccio mettere un microfono e una telecamera nella stanza della funzionaria, però poi addio rimborsi, decidi tu.» Passai una delle peggiori giornate della mia vita. Mi maledissi per non essere rimasto in Canada, come tutte le volte che avevo a che fare con la corruzione, l’amoralità e la sciatteria del nostro paese. Tirai fuori dalla cassaforte le carte dell’affare W.X. e le rilessi tutte, comprese le interpellanze parlamentari. Non sapevo che facendo così stavo preparando la mia ischemia cerebrale. Ripercorsi le tappe di quell’affare che aveva quasi distrutto la mia carriera soltanto perché io, insieme al direttore finanziario di una multinazionale, avevo inviato alla capogruppo una relazione con cui dicevo che l’amministratore delegato della società italiana aveva dato una tangente a un banchiere italiano. Eravamo stati convocati a Zurigo. Io ci andai in treno, il direttore finanziario, un ragazzo tedesco di non più di trentacinque anni, arrivò in auto dalla Germania. In una giornata di novembre, grigia e ventosa, come due spie c’eravamo dati appuntamento sulla Bahanhofstrasse ed eravamo saliti insieme negli uffici di W.X. Al tavolo, oltre a noi, due consiglieri di amministrazione e un’avvocatessa svizzera. Dopo un rapido esame delle carte e alcune domande, senza un commento, ci avevano detto che potevamo andare. In strada c’eravamo stretti la mano dicendoci: «Abbiamo fatto quello che


era nostro dovere fare.» Dopo venti giorni, con una semplice telefonata in francese, l’avvocatessa svizzera m’informò che il direttore finanziario era stato trasferito in Messico e che il mio contratto di consulenza non sarebbe stato rinnovato. Compresi in una frazione di secondo che l’amministratore delegato aveva versato la tangente con i soldi e il pieno assenso dei consiglieri della controllante. In un primo momento mi venne voglia di inviare le carte a un giornale, a qualcuno che facesse scoppiare uno scandalo. Poi mi resi conto che mi avrebbero radiato dall’albo degli avvocati e mi rassegnai a perdere due terzi del mio fatturato così, in un attimo. Io ho ancora le carte, ma non le ho mai mostrate a nessuno. Sono certo che non lo abbia fatto nemmeno il direttore finanziario, che in fin dei conti, appena sposato e con un figlio piccolo, voleva tenersi il suo posto in Messico. Eppure ci fu un’interpellanza parlamentare, qualcuno di sicuro un concorrente di W.X. - aveva ipotizzato tutto (non ci voleva molto) ma non aveva le prove e la cosa finì nel nulla. E pensare che tornando in Italia da Zurigo in treno due finanzieri mi avevano perquisito. Alla ricerca di documentazione bancaria mi avevano domandato di aprire la cartella e avevano dato un’occhiata ai documenti. Poi, vedendo che non c’erano carte su conti esteri, mi avevano restituito tutto. Io credo fermamente che l’avere riletto le carte di W.X. dopo il ricatto all’Agenzia delle Entrate abbia causato la mia ischemia cerebrale. Forse i medici non saranno d’accordo, ma io lo penserò lo stesso per tutta la mia vita. Dopo l’ischemia cerebrale, il coma e l’operazione al cuore ho dovuto dare le dimissioni da partner dello studio, perché il direttore, un ingegnere intelligente e capace, un amico (non ti porto rancore, è grazie a quelli come te se lo studio ha festeggiato i 100 anni), mi aveva detto: «Sei sotto budget.» La mia risposta era stata: «Sono quasi sotto terra, se per lo studio sono un peso, ti faccio avere oggi stesso la mia lettera di dimissioni.» Detto fatto, la sera ero andato con la mia Subaru Legacy SW a ritirare le mie cose. Avevo parcheggiato nel cortile - lo studio occupa un intero palazzo nel centro di Milano - accanto alle Maserati Quattroporte e alle Audi Q7 degli altri soci e me ne ero andato via, nel bagagliaio una scatola di cartone con le mie cose, come i ragazzi della Lehman Brothers dopo il crack. Le mie fughe stanno diventando troppe. In un certo senso sono fuggito dalla mia vita, dalla vita come la conoscevo prima. Ma devo andare avanti, tutti vanno avanti, vivere è andare avanti. La prima fuga 12 anni prima, dallo studio dell’avvocato N.N. Lui non mi aveva fatto socio - nonostante avessi appena negoziato per conto di W.X.


un contratto da mille miliardi di Lire, uno dei più importanti mai stipulati in Italia - dopo essersi consultato con suo figlio e io, che non tolleravo che il figlio fosse implicato in una simile decisione, me ne ero andato sbattendo la porta. Gregor, avevo 34 anni e pensavo di essere un “precocemente compiuto”, nel mio lavoro naturalmente. E lo sarei stato: bastava leccare il culo al figlio di N.N. Ma non l’ho fatto. Ho fatto bene? Giudicate Voi. Leggendo queste mie considerazioni mi querelerà, lo so. E io gli manderò un cesto di frutta secca. Ho lasciato l’avvocato N.N. per andare in uno studio dove il titolare aveva tre figli e, sette mesi dopo, litigare col primogenito e di nuovo andarmene sbattendo la porta, questa volta per aprire il mio studio, forte del contratto di consulenza con W.X. All’epoca mia figlia non era nata e non sapevo ancora che un uomo dovendo scegliere tra un bravo collaboratore e suo figlio sceglierà sempre immancabilmente suo figlio, anche se idiota. Aveva ragione mio suocero - don suocero - maestro assoluto nell’arte della raccomandazione. Fottendosene delle lamentele ha favorito fino all’ultimo respiro tutti quelli che poteva ed è morto osannato come un benefattore dal riconoscente popolo palermitano. Io al funerale non c’ero, lo ricorderete. Ho lasciato mia moglie a Palermo la sera prima delle esequie e per la rabbia ho preso l’aereo per Milano e quindi guidato fino a Maribor e poi da Maribor a Budapest, poi ho proseguito per Zakopane, in Polonia, perché ero ancora arrabbiato e volevo passeggiare sui monti Tatra come Giovanni Paolo II per capire perché mi fossi arrabbiato tanto, con un morto per di più. Non è servito a nulla. Dopo la prima passeggiata insieme a polacchi che non parlavano una parola d’inglese, tedesco o francese sono tornato al lago, dopo avere percorso 5.200 Km, ancora più arrabbiato. Ma sono certo che non si sia levata neppure una lamentela per i suoi metodi levantini né per le palesi e sfacciate bugie pubblicate sul giornale (si era scritto persino il suo coccodrillo, dove diceva, mentendo, di essere morto a Milano mentre era in viaggio per andare a far visita a una figlia che abitava in Lombardia. In verità abitava a Milano da più di un anno ma non voleva che si sapesse, neanche post mortem, dimostrando una vanità e un culto della propria persona degno di un vero dittatore – del resto era sempre stato un fascista convinto). Non sono andato ai funerali perché mi aveva tolto il saluto dicendo che ero un mascalzone (chi, io?), semplicemente perché avevo detto a un creditore, lo stampatore dei manifesti elettorali, giustamente impaziente di essere pagato che forse mio suocero non era più tanto lucido, data l’età e la malattia. E mia moglie mi ha offeso a morte, prendendo le parti di


suo padre. Contro di me, suo marito da quasi diciassette anni, di certo l’opposto di un mascalzone. Contro di me che in diciotto anni mai avevo preso le parti di mia madre nelle loro patetiche, interminabili faide. Questo si ottiene a mettere in dubbio l’autorità del despota: parola dell’ultimo discendente di un despota dell’Epiro. Me ne sono andato, ho troncato il mio matrimonio, ho lasciato mia figlia, la mia casa, le mie cose. Sì, ma perché mi sono arrabbiato tanto? In fondo mio suocero è morto e io so bene di non essere un mascalzone. Devo capire il perché di questo mio odio cieco, per poterne guarire. Perché l’odio è un sentimento negativo, una malattia che infetta chi lo prova. Non avevo mai odiato. Disprezzato sempre, certo, il disprezzo è parte integrante del mio DNA. Ma odiato mai. Ecco, sinceramente spero che mia figlia somigli a mio suocero, più che al suo fragile (pazzo?) padre. Di sicuro si troverà meglio in questo mondo. Se poi sposasse i gusti popolari della nonna mia madre e la prepotenza del don nonno sarebbe un mix irresistibile, la perfetta miscela per il successo. Io invece no. Sono un prodotto di difficile smercio. I miei consensi non superano lo zero virgola. Nella linea evolutiva dell’uomo sono un perdente, troppo fragile, troppo sensibile, elitario, nessuna volontà di potenza - al contrario, volontà di autodistruzione. Eppure non mi spezzo. “Ci sono uomini che sono troppo fragili per andare in frantumi. A questi appartengo anch’io” (Ludwig Wittgenstein). A gennaio aprirò un nuovo studio. Non ho mai smesso di lavorare, anche se alcune clienti hanno creduto all’ingegnere che è subito andato a far loro visita dicendo: «L’avvocato A. T. non può più lavorare. Ha avuto un’ischemia cerebrale e ha perso l’uso della parola. Ora lo sta recuperando, ma i danni al cervello sono irreversibili. I suoi collaboratori sono rimasti presso il nostro studio e tutto continuerà come prima, le vostre pratiche saranno semplicemente affidate a un altro socio ma continueranno a occuparsene le stesse persone.» Per fortuna, dopo i primi successi di questa politica, l’ingegnere ha commesso una leggerezza. È andato dalla mia maggiore cliente e ha aggiunto: «Comunque l’avvocato A. T. da anni non scriveva più gli atti. Gli atti li scrivevano i suoi collaboratori e lui li firmava e basta.» La cliente mi ha convocato per domandarmi se fosse vero e io ho risposto: «È vero. Se per anni vi sono andati bene i miei collaboratori, cui ho insegnato tutto, io vi andrò ancora meglio.» Quello stesso pomeriggio mi furono confermati tutti gli incarichi: circa settanta cause.


Non sto sempre bene. Sono sempre stanco. A volte non riesco a scandire le parole o a trovare la parola giusta. Ma come avvocato sono meglio di prima. Mi occupo di tutto personalmente. Evito semplicemente le discussioni orali e non faccio più il relatore ai convegni. Ci ho riprovato sei mesi dopo l’ischemia ed è stato tragico, balbettavo, non mi venivano le parole giuste e mi sono vergognato della mia condizione. Ora ho stabilito quali sono i miei nuovi limiti e li accetto. Se poi questi limiti hanno avuto un’influenza negativa nei rapporti con mia moglie, non sono in grado di dirlo. C’è una zona del mio cervello che è spenta per sempre, a cosa servisse proprio non lo so. Muovo di nuovo il braccio destro, non sono più strabico e parlo quattro lingue, anche se a volte non ricordo come si dica “libro” in italiano. Mi sento come un panda gigante, come una specie in via d’estinzione. Posso fare qualcosa? Non saprei. Le mie ribellioni non sono servite a nulla anzi, mi hanno danneggiato. Non mi resta che cercarmi un nascondiglio e andare a leccarmi le ferite. No, non sono un vigliacco e non mi rifugerò nel vittimismo. Me ne andrò per il mondo con le mie ferite bene in vista e saranno per me un motivo d’orgoglio. Non ho vinto ma ho combattuto con onore. Voi, vigliacchi, rispettatemi. Una volta bastava appartenere a una certa classe sociale per farsi strada nella vita. Ora non più. L’uguaglianza è un’utopia e io rivendico con fierezza la mia diversità. In questo mondo bastardo io non voglio essere uguale a nessuno. FINE ANTEPRIMA CONTINUA…


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