Tre marmocchi in otto giorni

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Valentina Carli

TRE MARMOCCHI IN OTTO GIORNI Storia di una mamma per caso

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TRE MARMOCCHI IN OTTO GIORNI Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2011 Valentina Carli

ISBN: 978-88-6307-376-8 In copertina: Immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Luglio 2011 da Logo srl Borgoricco - Padova


PREMESSE

Prima di iniziare il mio racconto, va fatta una precisazione: nella mia lontana gioventù, non mi ci vedevo proprio a vestire i panni dell’angelo del focolare. Anzi. Convinta che mettersi un uomo in casa fosse solo fonte di guai e seccature, davanti alle insistenze di parenti e conoscenti, ossessive nel ripetermi di sposarmi, glissavo con eleganza e mi davo alla fuga. Queste accanite promoter nuziali avevano una vita sociale che batteva la mia di diverse lunghezze, pur essendo quasi tutte vedove o divorziate: mentre io mi dilettavo, in farmacia, a staccare fustelle e curare influenze notturne e domenicali, quelle andavano in palestra, in crociera, a ballare e a teatro. Università popolare, corsi di cucina e bon ton, piscina e cineforum, non c’era iniziativa che si lasciassero sfuggire: però, parlando con me, sostenevano con dogmatica sicurezza che mi sarei pentita della mia scelta di restare single. Ci si sposa per aver compagnia da vecchie: ecco il ritornello che mi propinavano tutte. Peccato non ci fosse nemmeno l’ombra di un uomo, nei paraggi di queste truppe d’assalto di diaboliche vecchiette; e quando c’era, era il professore scapolo incaricato di accompagnarle al mausoleo di Galla Placidia. Mr Digestivo Antonetto, per intendersi. Il mio motto era il seguente: la libertà non ha prezzo. E qualsiasi prezzo va pagato, pur di capire a cosa si rinuncia, rispondendo “sì” alle domande indiscrete di un signore in abito talare, o con una fascia tricolore addosso. Avevo visto troppe donne che, passando dal giogo genitoriale a quello coniugale, l’avevano trovato vantaggioso, nei primi tempi; per scoprire troppo tardi la verità: quel giogo non era per loro. Fu così che, sfidando gli sguardi malevoli dei perbenisti, mi decisi al grande passo: andai a vivere da sola. Ora potevo starmene in santa pace, in un ambiente creato su misura per me, senza dover spiegare a chicchessia il come e il perché di ogni mia mossa. Una meraviglia.


Nutrivo una certezza: tutte le scocciature se ne starebbero rimaste fuori da quella porta, barriera fra me e il resto del mondo. Mi sentivo una signora. Illusione, ahimè. Partì subito l’offensiva nemica. Nell’istante stesso in cui la mia indipendenza fu sancita, tutti si attivarono per scovare un uomo adatto a me. Parenti, amici coniugati, insospettabili amiche zitellone, fino a ieri critiche accanite di matrimonio e dintorni, tutti, ma proprio tutti, si rivelarono piazzisti di fiori d’arancio. Non passava mese che qualcuno non organizzasse una trappola, appiccicandomi alle costole improbabili corteggiatori sgraditi, o mi proponesse questo o quell’appuntamento al buio. Un incubo. È un fenomeno inspiegabile: appena una si organizza, mette su casa e inizia a godersi la nuova situazione, si scatena questa follia collettiva. Se poi non ha stampato in fronte “cercasi marito, disperatamente”, si ritrova tutti contro. Ben presto mi resi conto di un’altra, triste realtà: attorno a me, i mariti a disposizione pullulavano. Solo che erano i mariti di altre donne. Nulla, quanto il fatto di essere single e sul mercato, potrà mettere una donna di fronte alla reale consistenza di tante sedicenti unioni granitiche. C’è da rimanere sorprese, dinanzi alla facilità con la quale fior di compiti padri di famiglia sarebbero disposti a giocarsi la tranquillità, pur di fare un giro sul nostro materasso. Una constatazione deprimente. Queste osservazioni sul campo ebbero due conseguenze: la prima fu che diventai abilissima a smarcarmi con nonchalance, ogniqualvolta un lumacone – ammogliato – si affacciava all’orizzonte. Imparai ben presto che la parola d’ordine, con questi soggetti, è far finta di niente. Mai opporre una reazione sdegnata: il tipo ci accuserebbe di aver frainteso o di averlo provocato. Anche il semplice fatto di non essere infagottate in un burqa rappresenta una provocazione, con certi individui. Indossando il nostro più impersonale sorriso, basta fingere di non capire. Inutili i timori di far la figura delle cretine: quando un uomo simile vede una donna che non capisce qualcosa, anche la più ovvia, ci crede sempre. Sono esseri geneticamente programmati ad accettare la nostra idiozia, per quanto incredibile possa essere: facciamo le imbecilli. Ci cascheranno. E ci lasceranno in pace, senza aver poi il coraggio di divulgare l’incidente. Un’istanza di fallimento non si pubblicizza; una truffa ben riuscita, negli ambienti giusti, sì.


La seconda ripercussione fu quella di non dare più il minimo peso all’opinione maschile. Non mi fidavo degli uomini: perché preoccuparmi di come avrebbero reagito loro, quando sceglievo qualcosa? L’importante era piacesse a me. Per la prima volta nella mia vita, ero libera da qualsiasi condizionamento. Era una sensazione inebriante, e, come una droga, sentivo non avrei più potuto farne a meno: l’idea di ammanettarmi a qualcuno, capace di aspettarsi da me cieca – e soprattutto muta – obbedienza, mi sorrideva ogni giorno di meno. Così, invece di accogliere le esortazioni a lanciarmi in un’inverosimile battuta di caccia al principe azzurro, insistevo a defilarmi, ben decisa a non farmi incastrare. Con simili premesse, tutti, io per prima, ci convincemmo che mai nessuno sarebbe stato tanto abile da farmi capitolare, trascinandomi all’altare. Rimane ora da chiarire come sia arrivata alla mia attuale condizione. Quella cioè di una donna costretta a una lotta impari, per preservare qualche briciola spazio-temporale per me stessa, assediata come sono da un marito, quattro figli e un gatto. Alla faccia della coerenza! si dirà. Concordo. Invoco tuttavia le circostanze attenuanti: fui vittima di un attacco a sorpresa, giunto da un fronte trascurato, come possibile minaccia. Mi feci così cogliere impreparata, sguarnita delle mie più volte collaudate barriere difensive: finendo così a capofitto in quella che, stando all’opinione dei più, si sarebbe trasformata in una trappola mortale. Parliamone.



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L’INIZIO DELLA FINE

Prendiamo una trentenne abbastanza corteggiata da potersi permettere il lusso di scegliere, soprattutto per il no, tanto indipendente da preferire la solitudine a una storia abborracciata e nauseata quanto basta dal genere maschile. All’epoca, una situazione comune a me e numerose altre mie amiche e conoscenti. Un giorno, un amico mi propose di presentarmi un professionista, quarantenne, single e pure carino: a sentire lui, eravamo fatti l’uno per l’altra. Conoscevo svariate fanciulle pronte a lanciarsi a tuffo sull’occasione; ma una come me non poteva che procedere in controtendenza. Così, appena ricevuta la proposta, mi trasformai in un’erinni, prendendo a scarpate – metaforiche, certo, ma sempre scarpate – il malcapitato, guadagnandomi la qualifica di rompic… doc. Una qualifica rimastami appiccicata addosso: tanto da esser riportata al quarantenne in questione, quando il destino, cinico e baro, ci ebbe fatto cozzare l’uno contro l’altra, a dispetto di tutte le mie manovre per evitarlo. C’è un altro dettaglio da chiarire, prima di schierarsi tutti dalla parte del bistrattato cupido: il cosiddetto buon partito si portava dietro una piccola… tara. Un difettuccio costituzionale, in grado di renderlo tutto fuorché appetibile: il meschino era vedovo da poco. Di moglie amatissima, per di più: e già questo lo trasformava in una vittima, più che in un cacciatore di femmine. Per come la vedevo io, almeno: invece, tutti i suoi amici stavano facendo carte false per trovare qualche gonnella disposta a facilitargli la vita. C’è una rete di solidarietà incredibile, intorno a un amico rimasto solo: in particolare se questi non è solo. Non del tutto, almeno; i vedovi spesso possiedono degli optional, da acquistare assieme al pacchetto. E questo di optional ne aveva parecchi: tre, per l’esattezza. Sette e cinque anni, nonché una patuffola di meno di sei mesi. Piccini, dolci, anche bellini, mi si diceva… ma tre, santi numi! Un passaporto per l’inferno, più che un appuntamento al buio, uscire con un individuo simile.


8 Trovavo anche inopportuno tutto questo affannarsi a trovargli una compagna, a pochi mesi dalla dipartita della signora: se la sarebbe cercata da solo, quando si fosse sentito pronto, o no? Già s’è detto cosa ne penso, dei piazzisti di fiori d’arancio: sono una iattura, nella vita di un single. Per quanto riguardava me, esortai il piazzista a cercare un’altra sistemazione, per l’amico da riciclare: non ero l’Esercito della Salvezza! Di fronte ai miei ruggiti, ci fu la rotta del nemico: si ritirò scompostamente, archiviando il caso alla voce insolubili. Soddisfatta, accantonai la questione come risolta per sempre. Peccato che cupido facesse il medico e io la farmacista. Alla fine del mese avevo messo assieme una mini-collezione di ricette stilate da lui, con qualche piccola formalità da aggiustare: una sera, presa la macchina, mi avviai al suo ambulatorio per farmele sistemare. Una serie quasi incredibile di contrattempi, nebbione repentino incluso, mi fece giungere alla meta sul filo dell’orario di chiusura; sbrigata la pratica di controfirme miste, pigliai la porta d’uscita, intenzionata a svignarmela di corsa. Avevo perso anche troppo tempo; la mia priorità era guadagnare al più presto il divano del mio salotto, dove mi attendeva un film che non vedevo l’ora di gustarmi. Pop-corn in abbondanza e birra ghiacciata in frigo: c’era tutto l’occorrente per una serata rilassante. Sulla soglia, però, con le mie brave ricettine in mano, chi mi trovai davanti? Il nostro. O meglio, un perfetto sconosciuto, il quale però ebbe lo strano effetto di trasformare il titolare dell’ambulatorio in una statua di sale. Con la costernazione dipinta sul volto, questi esalò un: «Ciao, Giuseppe…» che mi rivelò all’istante la natura del suo problema. Io. Il suo problema ero io: la strega, la sciamannata nota per aver minacciato sfracelli se qualcuno le avesse posto di fronte una certa persona. Chissà che pensava avrei combinato: l’uomo era in preda al panico. Ciò dà la misura dell’effetto che riesco a fare al prossimo, qualche volta. In realtà, feci l’unica cosa possibile, date le circostanze: buon viso a cattivo gioco. Avanzai dunque di un passo, mentre venivamo presentati, strinsi con gentilezza la mano allo sconosciuto e sorrisi. E quello fu il mio primo passo falso. Pare il mio sorriso lo abbia preso dritto in fronte, peggio di una mazzata: e chi sapeva di essere uscita con un’arma impropria, quella mattina?


9 Non era la prima volta che mi capitava di colpire e affondare grazie ai miei fascinosi incisivi, ma, per tutti i diavoli, questo non era l’uomo giusto da annoverare fra le mie vittime… Che dire: ormai il danno era fatto, anche se, nella mia suprema dabbenaggine, non mi accorsi di nulla. Pensavo di trovarmi su terreno neutro, non in zona di guerra. Quanto a lui, di primo acchito mi lasciò abbastanza indifferente. Un bell’uomo, niente da obiettare: viso regolare, statura media e corporatura atletica, ma un tipo vagamente anni Sessanta. Chioma gonfia, scriminatura laterale: una specie di Little Tony senza cresta. Non il mio genere, di sicuro. Era il tipico esemplare di medico da corsia ospedaliera, capace di far impazzire le signore ultrasessantenni, con quell’aria da bravo ragazzo, l’occhio verde muschio e il capello nero impomatato. Solo che io di anni ne avevo la metà e i miei gusti erano un po’ più attuali. Senza contare che, dato il fardello già descritto, fosse stato anche Raul Bova, non l’avrei nemmeno guardato in faccia, per evitare tentazioni. C’era qualcosa nel suo sguardo, però, capace di catturarmi. Guardarlo negli occhi fu come perdersi in un oceano di tristezza; un dolore profondo, dal quale cercava di riemergere, per assumere un contegno socialmente accettabile. Accennò a sua volta a un sorriso, mentre espletavamo le formalità di rito: un atto quasi eroico, visto il suo stato d’animo. S’intuiva solo a guardarlo. A quel punto, me tapina, anche uscire tutti e tre per andare a bere un aperitivo diventava d’obbligo. E così fu fatto. I due compari fecero sembrare la mezz’ora seguente un incontro innocuo, improntato a una normale atmosfera amichevole, durante il quale il mio essere donna appariva una cosa incidentale. Nessuno pareva averlo notato, insomma. Non m’insospettii, quindi, quando partì, non ricordo più da quale dei due, la proposta di un’uscita a tre, per una pizza e una birra in compagnia. Perché no? mi dissi In fondo, questo poveraccio chissà come si sente, rimasto solo, con tre ragazzini da accudire… Massì, portiamolo un po’ fuori, che si distrae. Sembra anche un tipo simpatico, e poi… si esce in tre, dopotutto. Mi sembrava una situazione priva di rischi: sapevo per certo che il suo matrimonio, finito in modo tanto tragico e precoce, era stato un’unione felice. Tutti, fra gli amici e i parenti, temevano fosse impossibile per un'altra donna risvegliare il suo interesse, dopo una moglie tanto amata.


10 E poi c’era il piccolo trio, capace di mettere in fuga anche la più accanita delle zitelle in cerca di sistemazione: figuriamoci se proprio io potevo immaginarmi invischiata in un ginepraio del genere. Un’amicizia tranquilla, tranquilla: ecco quel che pensavo sarebbe seguito alla serata in pizzeria. Così, accettai l’invito. Salutati i due gioviali dottori, mi avviai a casa, ignara. Ignara di aver fatto colpo, attirando l’attenzione di qualcuno: qualcuno che piangeva sì la moglie morta, ma era pressato dalle insistenti richieste dei figli. Figli desiderosi di una mamma al punto da proporne l’acquisto presso il locale ipermercato: «Papà, lì ce ne sono tante: vedi se ne trovi una che vada bene per noi» se n’era uscito, la settimana precedente, il più giovane dei due. Il più vecchio, invece, impegnato a sostenere e distrarre il fratellino minore, annientato dalla scomparsa della mamma, manteneva una condotta composta. La sera, però, una volta addormentatosi il fratello, trascorreva ore e ore a fissare il soffitto, sentendosi più solo ogni giorno che passava: s’infilava così nel letto del papà, piangendo suo malgrado – era grande, lui, per certi stupidi piagnistei… – implorandolo di cercare al più presto una signora disposta a fare da madre a lui e ai suoi fratelli. Non riuscivano ad adattarsi alla loro nuova condizione: «Ma siamo bambini orfani, noi?» chiedevano, con tutta la costernazione che possono provare due bimbi cresciuti da una mamma, dedita soltanto alla famiglia, sempre piena d’amore e di attenzioni per loro. Si sentivano persi. Il papà, fosse dipeso da lui, si sarebbe chiuso in un convento, con la sola compagnia dei suoi ricordi; però si sentiva morire, davanti alle lacrime dei figli bambini. Ed era preso dall’angoscia, osservando la piccina, destinata a crescere senza una figura femminile di riferimento. Una figura giovane, per essere precisi. I genitori, infatti, gli erano di grande aiuto: li avevano ripresi in casa tutti e quattro; quella santa donna di sua madre non faceva che cucinare, lavare e stirare, allevando nello stesso tempo la piccola neonata. La piccina, manco avesse saputo in che caos era finita, mangiava e dormiva, limitando al minimo il disturbo arrecato. Gli zii dei piccoli, la sorella minore del papà e il marito, si spendevano per far compagnia ai nipotini, portandoli con sé dappertutto e cercando di distrarli il più possibile. Una rete di solidarietà familiare commovente, ma purtroppo insufficiente. Una mamma è una mamma, papà lo capiva benissimo. Le mamme non si potevano però creare al computer, dotandole di tutte le caratteristiche necessarie… Inoltre, essendo fuori dal giro da quindici


11 anni, non sapeva proprio dove andare a sbattere la testa, per procacciarsi una moglie. Non era nemmeno detto ci fosse una donna, da qualche parte, in grado di volere bene sia a lui, sia ai bambini. La possibilità di innamorarsi di nuovo, poi, non la contemplava nemmeno: sperava in una relazione improntata a una tranquilla affettività. Il grande amore, per lui, era scomparso per sempre, mesi prima. In un deserto simile, ecco finalmente profilarsi una possibilità all’orizzonte. Molto, molto promettente: il sorriso di una signorina bionda e lentigginosa, dall’aria simpatica. Forse, dico forse, si profilava una luce, in fondo al tunnel. Mentre di fronte alla suddetta signorina si apriva un baratro. Chiusa nel mio comodissimo appartamento da single, nulla sapevo di questi complicati retroscena, che mi avrebbero dissuasa dall’accettare l’invito di quei due associati per delinquere. In un completo stato di relax, mi gustavo il mio film, bruciando velocemente quelle che, in realtà, erano le mie ultime ore libere.


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PRIMO APPUNTAMENTO

Eccoci dunque giunti alla fatidica serata che segnò la svolta nella nostra vita. Esiste una regola, alla quale non sfugge alcuna donna: alla prima uscita con un uomo, perdiamo un tempo inverosimile a scegliere il vestito, le scarpe, il trucco e l’acconciatura. La profondità della scollatura e il numero di centimetri di gambe da scoprire saranno fatti oggetto di studi approfonditi, così come la tipologia di lingerie: anche se non ci leveremo null’altro che il soprabito, ognuna di noi sa quanto peso possa avere, al primo appuntamento, una curva sottolineata nel modo giusto. La sottoscritta non fece eccezione: nulla lasciai al caso, nemmeno il cappotto. Il risultato fu un incrocio fra una suora in borghese – di quelle che ti fanno rimpiangere la cara vecchia tonaca – e Sbirulino. Un loden informe, acquistato in svendita anni prima, copriva la più ignobile accozzaglia di abiti asessuati mai vista: sul fondo dell’armadio, ero riuscita a recuperare un paio di calzoni pied-de-poule, bianchi e neri, dimenticati da anni, in grado di farmi assomigliare a un tronco. L’effetto comodino era accentuato da un paio di anonimi mocassini rasoterra, che evidenziavano impietosamente la mia scarsa statura. Un blazer grigio calava giù, giù a raggiunger quasi le ginocchia: abbinato a una camicia extralarge, rigorosamente abbottonata fino all’ugola, completava il quadro. Desolante. Fissandomi con occhio critico, decisi che ero nefanda a sufficienza da non correre alcun rischio: né di ammaliare, né di sembrare inopportunamente seduttiva. Inopportunamente per via della moglie – un po’ di rispetto, che diamine! – e soprattutto per via dei figli. La presenza dei quali rendeva l’uomo, ai miei occhi, interessante quanto una conferenza sulle prospettive finanziarie offerte dalla coltivazione del tartufo. Per come mi ero conciata, confidavo la cosa sarebbe stata reciproca. Quanto a come si combinò lui, non ne parliamo. Anzi, facciamolo: tirato in giacca e cravatta, aveva scelto l’opzione perfetta per acquisire punti con una patita del casual selvaggio, che andreb-


13 be vestita sportiva anche ai matrimoni, se la gente non si offendesse. Si era inoltre asperso con generosità di un’eau de toilette aggressiva, con un risultato olfattivamente respingente. Come se non bastasse, la cosa mi costrinse, essendo allergica a quasi ogni tipo di essenza, a mantenere una considerevole distanza di sicurezza, per evitare pericolose reazioni cutanee. Infine, c’era la questione capello. Quello era un dramma: fermo all’acconciatura di quando aveva diciassette anni e i pedicelli sul naso, teneva a bada l’ignobile zazzera con una tonnellata di gel, ottenendo un look da residuato bellico, risalente ai tempi dello ye-ye dei Beatles. Assomigliavamo a due macchiette, non certo a due potenziali amanti appassionati. Ma l’aspetto non è tutto. Purtroppo per me e per la mia amata libertà. In pizzeria la serata decollò in modo deciso, tanto da imbaldanzire il nostro eroe e indurlo a proporre una sortita a casa sua: un Porto, due dischi, così, tanto per far arrivare almeno le undici… Perfetto: la prospettiva era di piombare, a sera inoltrata, in una casa infestata da minori e da nonni da guardia, con l’intento di bere e far chiasso. Una meraviglia. Cupido, da parte sua, era tutto fuorché avvezzo – o intenzionato, non l’ho mai chiarito – a far le ore piccole e dava manifesti segni di riluttanza; la logica e il senso dell’opportunità suggerivano, anzi, urlavano a pieni polmoni di darsela a gambe al più presto e senza voltarsi indietro. Alla luce di queste sagge considerazioni, c’era un solo comportamento da tenere. E difatti, non appena ci fu chiarito che i bimbi erano conservati altrove, accettai l’invito con malcelato entusiasmo. Non scorderò mai l’occhiata sconcertata con la quale mi fulminò l’amico nostro accompagnatore: ma tu non eri quella che non ne voleva sapere nemmeno di vederlo, questo qui? Il suo sguardo muto era un capolavoro di eloquenza, ma vi risposi facendo la gnorri in modo vergognoso. Mai assaggiato il Porto: che c’è di male se lo voglio provare? diceva la mia espressione, fintamente innocente. A ripensarci, sono certa di aver avuto l’aria di una gatta che si avvicina noncurante alla vasca dei pesci rossi; attratta dal campo magnetico di quel pericoloso soggetto, mi comportavo ormai con completa mancanza di logica. E come in ogni donna in fase di sbandata, le mie reazioni cominciavano a diventare incomprensibili al resto del genere umano: eccezion fatta per


14 l’oggetto della mia attenzione. Il quale, vile, aveva intuito di aver fatto breccia. Fu così che l’improbabile trio si trovò seduto in un salotto, con il piacevole sottofondo dei Carmina Burana e un bicchiere in mano. Mentre Cupido crollava fra le braccia di Morfeo dopo meno di dieci minuti, ronfando riverso su una poltrona, noi due, vispi come un gufo e una civetta, volteggiavamo nel cielo, scoprendo incredibili affinità negli ambiti più disparati. Dai gusti musicali – gusti capaci, appunto, di far addormentare le persone normali – fino alle preferenze letterarie e le opinioni politiche, eravamo sulla stessa linea in tutto. La sottoscritta era stata giovane ai tempi dei dischi di vinile, un periodo storico nel quale valutavi anche la fedina politica di un ragazzo, prima di accettare di uscirci. E garantisco: un paio di soggetti, del colore sbagliato, o troppo intenso per i miei gusti, era già stato eliminato. Costui, al contrario, aveva imbroccato anche l’orientamento in cabina elettorale. Roba da non credere. Persa la nozione del tempo, non è dato sapere l’ora fino alla quale si protrasse la nostra travolgente chiacchierata. L’unico ricordo chiaro che conservo è il seguente: il nostro chaperon riprende i sensi, si scuote e dichiara, in tono seccato: «È ora di andare!», per poi ricondurmi a casa, più morto che vivo, e inconsapevole che fra me e l’amabile paparino era scoccata la più classica – e incendiaria – delle scintille. Da parte mia non facevo alcuna ammissione al riguardo, né con gli altri né con me stessa: sarebbe stato troppo terrificante ammettere che quel concentrato di problemi mi piaceva da morire. Insistevo a recitare la parte della disinvolta con me stessa, facendo finta di nulla. Solo che mi ritrovavo con insolita frequenza a osservare con attenzione la linea dei miei fianchi, per vedere se producesse un effetto apprezzabile; mi ero rimessa ad applicarmi maschere al viso, dopo essermene infischiata per anni della grana della pelle, e spesso restavo con un oggetto a mezz’aria, smarrita in chissà quali meditazioni. Con lo sguardo vitreo e l’espressione persa, sembravo una sedicenne in piena cotta. Patetica, vista l’età, e nei guai fino al collo, considerato il lui che mi ero andata a pescare: come in seguito disse quella saggia donna di mia zia, dovevo aspettare trent’anni per andare a piombare tra le braccia di uno con tre figli? A quanto pare, le cose si mettevano proprio così.


15 Il seguito della faccenda rimase in linea con le prime battute: Sbirulino e il clone di Little Tony in love. Oggi le comiche. Un paio di giorni dopo, infatti, l’uomo si presentò da me, sul lavoro, armato di una pila di CD e mascherato da uno capitato lì per caso. La scusa ufficiale era questa: cercava una persona tanto gentile da duplicarglieli su cassetta, per poterli ascoltare in macchina; sapendomi in possesso dell’attrezzatura adatta, aveva pensato a me. Vedi un po’ la combinazione. Per ricambiare la cortesia, l’idea era di portarmi fuori a cena. Nemmeno al liceo ero stata braccata con tanta ingenuità, ma avevo la solidità di un panetto di burro in agosto e il senso critico ridotto a zero. Pur con il concetto FIGLI FIGLI FIGLI inciso sulla corteccia frontale, sfuggivo la realtà, cercando di convincere me stessa di un’assurdità dopo l’altra. Ormai ostaggio del mio lobo limbico, a totale discapito della componente razionale del mio cervello, ragionare in modo sensato non mi riusciva più. Nononono, non mi sta facendo la corte… mi ripetevo. Figuriamoci, ha altro per la testa, questo: una volta duplicati i dischi, non lo rivedrò più. O forse usciremo ogni sei mesi per una pizza. E poi mi so difendere, dai corteggiatori sgraditi: di che ho paura? Incredibile come una donna riesca a mentire a se stessa, quando c’è di mezzo l’amore. Di quali corteggiatori sgraditi andavo farneticando? Quello mi garbava, eccome! Mi feci convincere con invereconda facilità e uscimmo assieme. Purtroppo, non avevo addosso la mise di due giorni prima: frequentatrice abituale di palestre e piscine, ero una donna in forma, senza un filo di grasso di troppo attorno. Fra quello, il sorriso durbans e il piglio disinvolto, non passavo inosservata. E quella sera, pur non essendo vestita da mangia-uomini, il mio abbigliamento lasciava intuire qualcosa di più, circa il paio di argomenti di cui disponevo, volendone fare sfoggio. Ma non volevo, no che non volevo… Il nostro, già rimasto positivamente colpito dal mio cervello, caso unico fra i maschi di mia conoscenza, una volta scoperta la mia dotazione – due gambe guardabili – si convinse ancor di più a insistere con l’attacco. Mirando a colpire, e analizzare, l’elemento di maggior interesse: il cuore. Gli serviva un soggetto con caratteristiche “cardiache” particolari, considerata la sua condizione; il suo compito, quella sera, era capire se ne fossi dotata.


16 Andavano misurati il mio istinto materno e la mia capacità affettiva: da bravo dirigente medico, era abituato ad affrontare le questioni con pragmatismo e abilità diagnostica; peccato non mi dovesse assumere come collaboratrice, ma cercasse una moglie e dovesse conquistare una donna … Non era provvisto di piglio da seduttore, s’è capito, però non gli mancavano intelligenza e profondità: due qualità tanto rare quanto adorate da me, che diventavo così spaventosamente vulnerabile. Ci mancava solo si mettesse a parlarmi dei bambini. Il mio accompagnatore si era trasformato, negli ultimi mesi, in un mammo perfetto; così la pensava, mi riferì l’interessato, la maestra del piccolo, suora tanto energica quanto simpatica. E in veste di mammo iniziò a descrivermi i suoi figli, disegnandone un quadro irresistibile. Non era tipo da buttarla sul lacrimevole: i dettagli della tragedia nella quale era rimasto coinvolto li venni a sapere col tempo e non solo da lui. Anzi, il più me lo raccontarono parenti e amici; in questa prima fase, il centro dei suoi racconti erano i bambini. Il trio era il fulcro delle sue preoccupazioni, del suo cuore e della sua esistenza. Tagliarli fuori dalla nostra conversazione sarebbe stato non solo impossibile, ma anche inopportuno: per quanto ci piacessimo, e tanto, la relazione non poteva prescindere dai piccoli. Cosa della quale ero perfettamente consapevole a mia volta; anche se ricacciavo il pensiero ogniqualvolta mi si affacciava alla mente. Quello, però, si presentava sempre più spesso, tanto da esser divenuto una presenza fissa, nella mia scatola cranica: ero vittima di un’ossessione. Seduti al ristorante, a un tavolo appartato, un cronista fin troppo coinvolgente mi raccontò le iniziative avviate dai giovanotti, allo scopo di procacciarsi una mamma. Pare i due fossero tipi organizzati: oltre alle istruzioni già impartite al padre, avevano deciso di mobilitare le alte sfere. Il primo era già in grado di leggere e scrivere con perizia: avevano quindi fondato un’unità di crisi, sede la loro cameretta, e avevano steso un documento ufficiale. Documento inoltrato alle autorità competenti, attraverso il papà: era la richiesta formale d’invio di una mamma. L’invio era classificato urgente e la mamma sarebbe stata gradita giovane, simpatica, nonché bella, se possibile. Gente di gusti semplici, i ragazzi. Il destinatario? Babbo Natale.


17 Eravamo agli inizi di Dicembre e i tempi erano maturi per la letterina: ogni anno essa aveva trovato cortese riscontro. Perché mai, ragionavano i fratellini, proprio quell’anno le loro istanze avrebbero dovuto essere rigettate? Fiduciosi, erano lì, in attesa di eventi. Il povero papà, di fronte a tutto questo rigirio, non sapeva più che pesci pigliare: le mamme prêt-à-porter non erano disponibili, almeno sul mercato locale, e internet era assai di là da venire. In rete si trova di tutto, dicono, dal kit del bombarolo perfetto agli abiti di Michelle Obama: ho fondati motivi per credere che, se la ricerca online fosse stata possibile, il mio amato bene un tour da quelle parti lo avrebbe tentato di sicuro. Invece eravamo ancora in un’era pretecnologica, nella quale i PC giravano lenti come mulini e i cellulari pesavano come mattoni. Babbo Natale avrebbe toppato, quell’anno...? L’interrogativo aleggiava, minaccioso, nell’aria, creando non poche ansie all’intera famiglia. Figuriamoci le ansie provocate a me, giunti a questa fase. Fossi stata una dalla pasticca facile, ci sarebbe stato di che intossicarsi: per fortuna mantenevo un equilibrio notevole. Anzi, ammirevole: difatti, fu ammirato. Più ancora degli arti inferiori, o degli incisivi superiori; avevo a che fare con un neurologo, dopotutto. Un altro versante della faccenda era quello pittorico. In un delirio a tutt’oggi rimasto inspiegato, all’inizio di quell’anno tutte le maestre furono prese dalla smania di far ritrarre la mamma ai loro discepoli. Si può immaginare l’imbarazzo in cui si erano trovati i due, richiesti di disegnare una mamma… morta. Quasi macabra, come pretesa. Senza perdersi d’animo, avevano escogitato due ingegnose soluzioni, illustratemi nei dettagli dall’implacabile papà, determinato a sconfiggere le mie resistenze. Il maggiore aveva realizzato un’effigie somigliante alla madre, appiccicandovi due ali sulle scapole. La mia mamma è un angelo, adesso… La mia espressione dev’essere stata più che eloquente: non farsi prendere troppo stava diventando un’impresa. E mentre io tentavo invano di combattere la commozione, lui mi riferì la trovata del più piccino. Molto portato alla sintesi, il bimbo aveva messo mano ai colori, tracciando pochi ma efficacissimi segni sul foglio: un grande cuore, con tre piccoli cuori dentro. Roba da far piangere anche un mujahideen: plic, plic! Due goccioloni, grossi come pioggia primaverile, piovvero sul tavolo.


18 Mayday, mayday, allarme rosso! Mi stavo squagliando come un ghiacciolo sotto il sole. Me la vedevo proprio con un professionista: senza il minimo cedimento al vittimismo, smantellava i miei proponimenti di non lasciarmi coinvolgere, uno dopo l’altro. Dopo una conversazione condotta su questi toni, le sue intenzioni erano diventate trasparenti; usciti dal ristorante, mi portò a fare una passeggiata romantica tra le vie di Asolo, uno dei borghi antichi più affascinanti della zona; incastonato fra le colline e dominato da una rocca medievale, sembra uscito da una favola. Il cielo era limpido, la serata splendida, l’atmosfera magica: aveva scelto il luogo ideale per una dichiarazione d’amore. La quale, naturalmente, non avvenne: niente, in questa storia, andava mai secondo logica. Il mio corteggiatore scelse invece di farmi una rivelazione di natura… cardiovascolare. Stavamo discendendo a passo lento una piccola calle, mano nella mano, fra i muri secolari dei palazzi quattrocenteschi, alla calda luce dei lampioni. Eravamo circondati dal silenzio: non c’era nessuno, in giro. D’improvviso, Giuseppe si fermò, lasciandomi la mano, e si voltò verso di me. Fissandomi negli occhi con intensità, s’indicò il petto, con le dita delle mani tese e intrecciate, in un gesto quasi di resa, sussurrando: «Io ho due cuori: uno è spezzato per sempre. L’altro potrebbe ricominciare a battere… per te». Gli si ruppe la voce e non aggiunse altro. Improvvisamente afferrata da una specie di gorgo, mi sembrava di inabissarmi, inghiottita da un sentimento incontrollabile: con le gambe di pastafrolla e l’ovatta nella testa, rimasi lì, con gli occhi pieni di lacrime, senza reagire. Ero crollata. Per mia fortuna, non era prevista una mia risposta: mentre io ero risucchiata in una dimensione alternativa, lui sospirò profondamente, come si fosse tolto un macigno dalle spalle, cercò di nuovo la mia mano, la chiuse in una stretta dolce e decisa e mi condusse con sé, riprendendo a camminare in silenzio. Il suono dei nostri passi rimbalzava sulle pietre del piancito, riecheggiando nella mia testa: o forse era il battito del mio cuore, a rimbombarmi nel cervello. Non saprei. Di fatto ero in uno stato di semi incoscienza: e in quelle condizioni l’uomo mi riportò a casa. Davanti al portone d’ingresso mi resi conto di aver bisogno di tempo per metabolizzare tutto quello che mi stava succedendo.


19 Gli dissi: «Non ti dico di salire: e non mi chiedere il perché. Lo sai anche tu, che è meglio così…» Con un sorriso tenero, si sporse verso di me e mi diede un leggero bacio sulla guancia. Mi buttai letteralmente fuori dall’auto, rifugiandomi in casa, con il cervello in blocco e il cuore in tumulto. Ormai era assodato: ero incappata nel tipo giusto. E nonostante decidere per il sì significasse tuffarsi in un mare di guai, era sopraggiunto un imprevisto. Avevo perso la testa.


20

TI PRESENTO I MIEI

Pochi giorni dopo, l’uomo s’imbucò in una gita in montagna, con un gruppo di amici miei, gita programmata già da tempo. Per l’intera giornata mi rimase incollato, in quota come aveva fatto in pianura, incurante del fatto che il giorno dopo la notizia del nostro feeling avrebbe fatto il giro del paese. Sotto una pioggia torrenziale, chiusi in macchina, stavamo tornando alla base, circondati da montagne scure e vagamente minacciose, e avvertivamo entrambi la sensazione di essere travolti da un fiume in piena. Non capivamo proprio cosa ci stesse capitando: ci conoscevamo appena, ma qualcosa di grosso stava bollendo in pentola. Era evidente a entrambi. Tuttavia, invece di dichiarare l’interesse reciproco, ci lamentavamo l’uno con l’altro: «Ma che diavolo mi hai fatto?» Nessuno dei due aveva una risposta plausibile. Però avevamo ambedue un problema pressante. I rampolli. Come avremmo fatto, con i bambini? Mentre mi arrovellavo su come districare la matassa, mi giunse la sua voce: «Andiamo a casa mia: ti devo far conoscere i miei figli. Subito, stasera stessa». Rimasi perplessa e gli chiesi: «Scusa, ma che tarantola ti ha morso? Che fretta c’è?» Non mi rispose, continuando a guidare silenzioso, con un’espressione indecifrabile dipinta sul volto. Quando quell’uomo non è d’accordo con me, il suo viso diventa un monolite, come i Moai dell’isola di Pasqua: avrei imparato a temere quell’espressione. È foriera di guai, per me. «Non ti sembra il caso che ci frequentiamo un po’ noi due, prima di coinvolgere tutta la famiglia? A me sembra prematuro portarmi dai tuoi, oggi» ripresi, molto convinta della sensatezza delle mie argomentazioni. Serio, molto serio, mi rispose: «C’è, la fretta. Ogni minuto trascorso con te mi rende più intollerabile l’idea di non vederti mai più. Prima che mi diventi insopportabile lasciarti, voglio farteli incontrare. Li conoscerai stasera, così vedremo se riuscite a legare». Rimasi spiazzata: la sua risposta era di una logica disarmante. Dei due, quella più sensata non ero io.


21 Continuò: «Se non funziona, con i piccoli, non ti cercherò più. Però voglio tu lo sappia: se dovesse succedere, ci starei male da morire. Ma devo pensare al bene dei bambini, prima che al mio». Aveva ragione: prima che un uomo, era un papà. La sorte della nostra relazione dipendeva da quell’incontro. Di solito con i bambini m’intendevo al volo e i cuccioli sotto i tre anni esercitavano su di me un potente effetto calamita, ma qui si trattava di prendere quattro, al prezzo di uno… Ragazzi, mi sentii abbrancare dall’angoscia. E lui pure, a dire la verità. Solo che le ragioni della nostra ansia erano opposte: lui era terrorizzato che le cose non funzionassero, fra la prole e la sottoscritta, mentre a me si annodavano le budella, all’idea che ci piacessimo. Quale sarebbe stato il mio ruolo, da allora in poi? Fare la mammina? E chi ci credeva, accipicchia? Passare da zero a 180 km l’ora in un battito di ciglia: nemmeno da una Ferrari si pretende tanto. Tuttavia, per quanto fossi attanagliata da una paura atroce, non riuscivo a rifiutare. Prole o meno, mi era impossibile decidere con freddezza di rinunciare a lui, senza fare nemmeno un tentativo. Si trattava di conciliare cuore con ragione: sforzo titanico, date le circostanze. Mi sentivo pronta a rischiare, purché il rischio fosse solo mio: una volta deciso per il sì, mi rendevo conto che sì doveva essere. Nessuno spazio per errori o ripensamenti: non era il caso di sottoporre dei piccoli, già duramente provati dalla vita, a nuovi traumi. La valutazione doveva essere obiettiva, seria, sensata. Se necessario, avrei dovuto davvero decidere di fermarmi: era la mia ultima occasione per innestare la retromarcia. Giungemmo così davanti alla casa del padre, e fermammo la macchina. Con essa, si fermò anche il mio cuore: ci siamo, mi dissi. Nella concitazione di quella giornata densa di eventi, non avevo preso in considerazione un dettaglio, solo all’apparenza insignificante: dietro a quella porta, oltre ai summenzionati rampolli, si celavano anche i suoi genitori. La prima volta che incontri i suoi, dovresti presentarti indossando un’uniforme ben precisa: tubino regolamentare, filo di perle, calze color daino 20 denari, che troppo velate non sta bene. A costo di farsi prestare l’intero ambaradan dalla madre, in genere una è tutta a postino, capello fresco di parrucchiere, trucco appena accennato, rossetto lievemente rosato. Vuoi fare buona impressione: anche se sotto il tubino, in realtà, hai


22 una pantera tatuata in mezzo alle reni, che ti zompa dritta sul fondoschiena. Provenendo dalla montagna, non era esattamente quello l’aspetto che esibivo. Sulla soglia del paterno ostello, quell’indimenticabile sera, si presentò uno strano personaggio: la mia chioma, stravolta da una giornata d’intemperie scatenate, stava a metà fra un carciofo e una paglietta per le pentole. Per domare l’inguardabile cespuglio ci sarebbe voluta una striglia da somaro, ma non avevo con me neppure un misero pettinino da borsetta. Anzi, non portavo nemmeno la borsetta. Infagottata in un pile multicolore di tre taglie oversize – adoro la roba comoda – sfoggiavo un paio di calzoni tecnici da sci e due scarponi quasi militari, suola Vibran, che riecheggiava secca, a ogni passo. Ci mancava anche lo scivolo verso la taverna, accidenti, con pendenza 20%, ad appesantire ulteriormente il mio incedere. Del minimo tot di trucco sbattutomi in faccia, ore e ore prima, non era rimasta traccia alcuna: dovevo sembrare proprio un’istruttrice militare, prelevata da un campo di reclute. Aggiungiamo che, una volta infilata la porta e salutati con cortesia i presenti, non degnai più di un solo sguardo i padroni di casa. Dal mio punto di vista – alquanto alterato, va detto – quelli contavano meno di due soprammobili. Temo mio suocero, a quasi quindici anni di distanza, non mi abbia ancora perdonato il modo in cui lo ignorai: essendo egli un protagonista nato, commisi reato di lesa maestà. Ma la mia attenzione era polarizzata da ben altro, in quei minuti di suspense. Il trio dei pulcini neri. La situazione era questa: papà, l’incaricato ufficiale di trovare una mamma, aveva trascorso tutta la giornata con una signora. Chissà quale accoglienza le avrebbero riservato… Ciò rimuginando, entrai in quella stanza convinta che loro – i figli, intendo – mi avrebbero passata al setaccio, puntandomi con la curiosità e l’attenzione di un paio di segugi. Giurerei di aver trattenuto il respiro, posando per la prima volta il mio sguardo su di loro. Per tutta risposta, ricevetti un’occhiata distratta, seguita da un ciao biascicato, dopo il quale tornarono a dedicarsi alla loro precedente occupazione: guardare la tv. Erano avvinti da un VHS della Disney, sullo schermo probabilmente per la sesta volta, quel giorno: avrei iniziato ben presto a odiare i cartoni animati, grazie a quei due.


23 Quella sera, tuttavia, ero priva di strumenti di valutazione, per cui non ci capii un’acca, della loro reazione. Leggermente interdetta, fissai con uno sguardo interrogativo il paparino, il quale mi fece cenno di procedere. L’idea di abbozzare un barlume di conversazione con i genitori, impegnati nel frattempo a eseguirmi una TAC, non mi sfiorò neppure; mi voltai, invece, verso le due poltrone, occupate dai catatonici. Come niente fosse – pareva mi ci trovassi tutti i giorni, in situazioni siffatte – chiesi ai due teledipendenti: «Posso dare un’occhiata alla vostra sorellina?» «Fai, fai pure… È lì» risposero, indicando con fare noncurante il divano. Erano collaborativi, almeno: mi aiutavano a individuare la posizione della neonata… e non sembravano gelosi di lei. Un punto a loro favore. La quale neonata, assisa sul suo piccolo trono, dominava la situazione, dardeggiando su di noi uno sguardo serio, quasi corrusco. La osservai: una delle più belle bambine che avessi mai visto. Un Calimero in gonnella, anzi, in tutina rosa di felpa: occhi scuri, capelli neri, guanciotte da baci. Da mangiarsela. Fissandola con attenzione, tuttavia, mi chiesi se avessi le traveggole: possibile che una briciola di nemmeno cinque mesi sia in grado di inchiodarti con lo sguardo? Ci scrutammo reciprocamente per alcuni, lunghissimi secondi. Possibile. Garantisco. Aveva due carbonchi, al posto degli occhi, quella creatura. Resistere alla tentazione di slegarla dalla minuscola sdraio, per spupazzarmela durante il resto della serata, mi costò uno sforzo titanico. Lei, di certo, non avrebbe apprezzato l’invadenza di quest’estranea e sarebbe stata una mossa assai poco tattica, rispetto alla marcia di avvicinamento ai suoi fratellini. Nel frattempo, credo, papà aveva sollecitato i due giovanotti a spegnere l’arnese infernale: infatti me li trovai attorno, come per incanto. Due graziosi scugnizzi, questo è certo. Non era quello, però, a balzare all’occhio: a colpire, dei loro visetti, erano le occhiaie. Avevano le occhiaie, povere creature: segni neri, profondi, quasi incisi sulla pelle, a testimoniare l’indicibile tormento che li affliggeva. D’improvviso, quanto avevo saputo di loro dal papà esplose dentro di me: era come se la loro sofferenza fosse dilagata nella mia anima, scatenando dentro di me un istinto di protezione, mai provato prima d’allora.


24 Con un unico sguardo li abbracciai tutti e tre: e lì, mi successe una cosa inspiegabile. Mi sarei aspettata ci volessero mesi, forse anni, per abituarsi gli uni agli altri, capirsi e volersi veramente bene: per quanto ben disposta potessi essere, per me erano degli sconosciuti. Al solito, mi sbagliavo. Ne avessi imbroccata una, in questa faccenda. Cogliendomi alla sprovvista, l’amore per loro mi colpì come un potente pugno, sferrato nello stomaco, mettendomi knock-out. Fui percossa da una consapevolezza: erano miei e lo sarebbero stati da allora, per sempre. Solo un’altra volta, nella mia vita, sperimentai la stessa sensazione: accadde anni dopo. Un personaggio non meglio identificato mi piazzò sulla pancia un giovanotto, mai visto prima di allora, dotato di una voce possente e di un discreto carattere. Nonostante fosse un estraneo, in una frazione di secondo divenne il centro esatto dell’universo: poi qualcuno tranciò il cordone ombelicale, credendo di averci separato. Illuso. Per quanto mi riguarda, sto ancora legata a quel bel tipo a tripla mandata e la cosa più risibile è che la stessa sorte è toccata anche ai suoi tre fratelli; ciò rappresenta un vero mistero, sotto il profilo clinico. Un caso conclamato di legame ombelicale inscindibile, nonostante di cordoni, fra me e loro, non ce ne sia mai stata nemmeno l’ombra. Misteri della mente materna. Quando si tratta di figli, comanda l’utero: anche se, accidentalmente, non si tratta di prodotti dello stesso. Quello che conta è il pensiero. Dopo nemmeno un quarto d’ora, quel trio mi aveva già comprata, impacchettata e portata via: avevo mollato gli ormeggi e viaggiavo verso destinazione ignota. Fin dalle prime battute, la nostra relazione fu segnata dalla bizzarria: facemmo difatti conoscenza in posizioni del tutto inconsuete. La sottoscritta, tanto per rafforzare nei suoceri l’impressione di avere a che fare con una primitiva, stava seduta sul tavolino del salotto; il maggiore si manteneva in equilibrio instabile, sulla punta della poltrona di fronte a me, mentre il piccolo era arrampicato non so dove. Mi sembra di ricordare si attorcigliasse allo schienale del sedile dov’era sistemato il fratello. Era un bimbo con una spiccatissima tendenza al free climbing: nel corso di quella serata, lo vidi dare la scalata alla seggiola di suo padre, scavalcandogli la spalla e piombandogli in grembo; poi eseguì un percorso sul


25 crinale del divano, aggrappandosi, come Cita, alle maniglie delle finestre, per precipitare infine sul pavimento con un salto e un tonfo terrificanti. Ero strabiliata: ma suo padre, con orgoglio, mise l’accento sull’agilità del bimbo, ignorando in apparenza la possibilità per lui di rompersi l’osso del collo, a esibirsi in prodezze del genere. «Nessun rischio» mi rassicurò, quando azzardai l’ipotesi che si potesse fare male «Si comporta così da quando ha iniziato a camminare». Lì mi resi conto del perché l’omino fosse soprannominato teppa: mai nomignolo fu più azzeccato. ‘Sto furetto mi ronzava attorno con un’espressione radiosa e una faccina di una simpatia assassina. Sembrava la versione miniaturizzata di Zio Fester, della famiglia Adams: il mascalzone, con quell’aria malandrina, sarebbe stato capace di strappare un sorriso anche alla signorina Rottenmeier. Il fratello era un tipo più serio; esibiva il fascino del “ragazzo maturo”, oltre a essere un bambino di una bellezza straordinaria. Due immensi occhi nocciola chiaro, costellati di pagliuzze d’oro e sottolineati da lunghe ciglia scure, dominavano un viso perfetto. Ragazzino dall’intelligenza brillante, abituato a relazionarsi con gli adulti, era molto compreso dal suo ruolo di figlio maggiore, in cotanta famiglia; s’incaricò immediatamente di aprire con me un tavolo di confronto, agendo anche per conto dei fratelli. Dopo una mezz’oretta avvenne lo sperato momento catartico: mi sentii battere piano su una spalla e mi girai. Era lui, con un’espressione fra lo speranzoso e l’incerto, che agitava una caramellina, tenendola seminascosta in grembo, e me la offriva, con un …vuoi? carico di significato. Era stato lanciato il primo rampino d’arrembaggio. Quella caramella è rimasta un paio di lustri in cassaforte, in mezzo agli oggetti preziosi: le nostre lettere d’amore, i biglietti dei bimbi, antichi disegni, opera di manine incerte, e il contratto d’acquisto del nostro nido. Un giorno è misteriosamente scomparsa: temo inghiottita dal marito, ignaro dell’alto significato che quei pochi grammi di zucchero rivestivano per la consorte. Dopo un minimo sindacale di conversazione, si passò ai fatti: non si poteva mica sprecare tutta la serata in inutili ciance. Quando comincia il divertimento? La taverna dei nonni non era un luna park: escludendo la tv e un’impressionante serie di dinosauri distribuiti a colonizzare il pavimento, non c’erano grandi chance di inventarsi un passatempo convincente.


26 Per mia – e loro, soprattutto – fortuna, la fantasia mi venne in aiuto. In capo a pochi minuti, avevamo messo su una pista da bowling. I birilli erano rappresentati da una dozzina di pennarelli grossi, da colpire con una pallina da tennis. Fu una partita molto combattuta, nella quale sorpresi gli astanti con un paio di colpi ben aggiustati: mi pare di ricordare persino uno strike. Caso unico, per me, notoriamente imbranata con qualsiasi gioco dove si preveda di mandare una palla da qualche parte. Dalla pallavolo al tennis, sono sempre stata un disastro: ma quella sera fui favorita dalla sorte. E mi guadagnai l’imperituro rispetto dei due bambini, affascinati dalla mia perizia. Vedi un po’ se una può diventare mamma per una partita a birilli… Però non c’è che dire: per me fu così. Per anni, facemmo riferimento a quella sera dicendo semplicemente: quella partita a birilli… Le vie del Signore sono davvero infinite. Mentre noi tre giocavamo come fossimo stati soli, ben tre adulti ci osservavano, soppesando il mio comportamento; avendo perso la bussola, tuttavia, non ci pensai nemmeno per un secondo. Mi ero scordata dei presenti: esistevano solo i bambini, per me. E io per loro, in quei momenti. Ciò permise al mio futuro marito un’iniziale valutazione della mia attitudine per l’impresa alla quale mi accingevo. Il responso fu: idonea e arruolabile. Arrivarono le dieci della sera: ero stanca e piuttosto stravolta; inoltre, l’indomani, i due sarebbero dovuti andare a scuola. Mi accomiatai, salutando con la solita, colpevole distrazione i due nonni, nonché potenziali suoceri, avviandomi all’uscita. Il mio spasimante mi seguì a ruota, cercando di carpirmi un bacio, questa volta. Opposi un deciso niet! e fuggii di gran carriera. L’ultima cosa di cui avevamo bisogno erano complicazioni di natura fisica: già ci piacevamo fin troppo così, a metri di distanza. Visto il labirinto in cui ci stavamo muovendo, meglio lasciare certe cose al futuro. Se esisteva, un futuro. Per mio conto, non ne ero per nulla certa. Quanto a lui, aveva già intuito la realtà: l’incontro era stato un completo successo. Lui i bimbi li conosceva e già li aveva interpretati. Al contrario, io mi sentivo come appena uscita da una centrifuga e non riuscivo a pensare. Volevo solo tornare a casa, farmi una doccia e andare a dormire. Ero sfinita: affrontare il resto mi era impossibile. Fosse andata bene oppure no, la mia vita ormai era saltata in aria.


27 Decisi di rimandare all’indomani la decisione se suicidarmi – in senso figurato, s’intende – o no, e accesi il motore dell’auto. Non pioveva più.


28

FIDANZAMENTO PLURIMO

Il mio mestiere si mise subito di traverso tra di noi: conosciuti i bambini il giovedì, ventiquattro ore dopo mi ritrovai sigillata nel sarcofago. Ovvero entrai in turno: una settimana durante la quale ero relegata in farmacia, night & day, potendo contare solo su un’ora di libera uscita, tra le sette e le otto di sera. Mentre il mondo festeggiava matrimoni, assisteva a funerali, celebrava Pasqua e Natale, in poche parole viveva un’esistenza normale, io rimanevo chiusa in gabbia. Partecipando ai suddetti eventi in spirito, mentre le mie spoglie mortali rimanevano rinchiuse nell’orrido sacello. Ebbi così la certezza di non avere il tempo nemmeno per una scappata a casa loro, una sera a cena, per esempio. Occasione utile, casomai, anche per dare una lucidatina alla mia immagine, con i suoceri. Nemmeno a parlarne. Capito come funzionava, ‘sto strano meccanismo di una guardia lunga 170 ore, il mio pretendente chiese di venirmi a trovare. Figuriamoci. Accettai: la mia riluttanza era ormai ridotta in cenere. Lo vidi giungere, verso le nove della sera, equipaggiato con un mazzo di rose: cinque boccioli, tre rossi, due rosa. Non sto a spiegare l’ovvio simbolismo celato dietro tale scelta cromatica. Commossa, cercai un vaso dove sistemarle: una farmacia, però, non è attrezzata per simili eventi. Così, fui costretta, con un certo imbarazzo, a tuffarle nella brocca usata per le pulizie, una cosaccia di plastica un tempo bianca, ora ridotta a un obbrobrio. Riuscivo sempre a ridurre il romanticismo a quota zero. Con signorilità, il mio corteggiatore finse di non accorgersi di nulla. O, più probabilmente, non si accorse di nulla sul serio: doveva ancora calare l’asso, il vile, e mi attendeva al varco, con la tagliola lì, spalancata per me. Quando lo raggiunsi, mi porse un foglietto, dicendo: «Ecco, questo è il biglietto…» Lo presi e lo lessi. Recitava: ciao da Valentina, Andrea e davide. Opera di Davide, appunto, l’unico dei tre in possesso delle capacità letterarie per partorire cotanto componimento: nell’agitazione, aveva scritto il


29 proprio nome minuscolo. Dettaglio subito sottolineato dal padre, inesorabile: il ragazzo era nervoso, mi comunicò. Continuò poi con la descrizione degli avvenimenti seguiti alla mia uscita di scena, la sera della partita a birilli. Una volta accompagnata Maria Goretti alla macchina, incassando il suo rifiuto a qualsiasi contatto più intimo di una cordiale stretta di mano, era rientrato dai due giovanotti; nemmeno aveva fatto un passo, in taverna, che Andrea gli era volato in braccio: «Papà, papà, papà, devi assolutamente scoprire se la Vale è sposata…» «E perché, scusa?» «Perché se è libera, questa la prendiamo! Ma hai visto come gioca a birilli… ?» Mi misi a ridere, intenerita, e chiesi: «Ho passato l’esame, allora… ?» «Sembrerebbe di sì» mi rispose lui, sorridendo «Difatti, sono qui». Cose da pazzi. Quello mi stava facendo una dichiarazione in piena regola, con l’espediente di riferirmi le chiacchiere di un bambino di cinque anni. E io ci stavo, per di più. Anzi, precisiamo: stavo al gioco, ma di sicuro non ci stavo con la testa. Il mio stato di confusione mentale non era però tale da farmi perdere del tutto la trebisonda: anche questa volta, ci limitammo a parlare, parlare, parlare. Una volta superato l’ostacolo più grosso, la possibile ostilità dei piccoli, ci rimaneva da capire se davvero andavamo d’accordo, come possibile coppia. Funzionavamo, non c’era dubbio. In un paio d’ore, ci raccontammo tutta la nostra vita, dallo svezzamento in poi. Ci accomunava il fatto di non aver avuto una vita facile e di aver subito grosse perdite, in campo affettivo: forse per quello c’eravamo capiti tanto in fretta. O, forse, eravamo davvero fatti l’uno per l’altra, come aveva detto qualcuno, a suo tempo. Comunque fosse, assieme stavamo benissimo. Durante questa conversazione rivelatrice, tuttavia, non mi passò nemmeno per l’anticamera del cervello di informarmi circa l’impressione fatta ai suoi. Probabilmente è stato meglio così; quei due erano convinti io fossi una squilibrata: scelta condivisibile, quella di non mettermi a parte dei loro commenti. La mia futura suocera aveva già iniziato a collezionare sordide storie di matrigne cattive, pronte a rinchiudere in collegio i figliastri, non appena raggiunto lo status di mogli: conosceva a memoria nomi, cognomi e qua-


30 lifiche. Aveva messo assieme una casistica impressionante; va da sé che le professioniste in carriera erano le più sospette, nel gruppo delle megere in agguato. In effetti, per quanto ne sapevano loro, della strega avevo anche l’aspetto. Poveracci: a mettersi nei loro panni, avevano motivo di strapparsi fino all’ultimo capello dalla testa. Comunque sia, devo riconoscerlo: seppero mantenere un comportamento irreprensibile. Difatti, con aplomb inglese e ospitalità tutta siciliana, nelle settimane e nei mesi seguenti, non mi presero a scarpate. Un segno di grande apertura mentale, considerata la qualità del mio esordio. Sereno – e non so capire come, poi… – nelle prime settimane di frequentazione di casa loro, il mio spasimante avrebbe tranquillizzato la madre, tenuto buono il padre e registrato i commenti dei bambini. Era sua intenzione osservare come me la sarei cavata, con loro: fra noi due, cosa c’era ancora da chiarire? Era inverosimile anche per noi, i protagonisti di quest’assurda vicenda, ma i nostri sentimenti erano limpidi come l’acqua: ci amavamo. Dovevamo solo imparare a conoscerci un po’. Sì, solo: fra i turni miei, le guardie sue e i piccoli da cominciare a frequentare, il tempo per fare i fidanzati ce lo saremmo dovuto inventare. Tuttavia, questi erano problemi organizzativi ancora lontani, quella sera. Eravamo, infatti, in piena fase di approccio: non mi era ancora stata formulata alcuna formale richiesta, né m’ero lasciata strappare concessioni compromettenti. Il che non significa affatto non mi fossi compromessa senza speranza: tutti lo avevano visto, amici e parenti di primo grado, e ognuno di loro aveva capito come sarebbe andata a finire. La novità aveva fatto di me il mistero più interessante del momento: Valentina è impazzita? S’è data all’abuso di droghe? S’è bevuta il cervello? si chiedevano tutti. Le più fantasiose ipotesi impazzavano, sia nel giro mio, sia in quello suo. Fummo l’argomento di conversazione preferito del nostro microcosmo per settimane, forse mesi; il resto del paese, come c’era da aspettarsi, partì ben presto con le illazioni più disparate. Queste spaziavano da una mia improbabile santità sino alle più offensive allusioni a una relazione pregressa, data per certa da un consistente numero di cosiddetti bene informati. Santa o p… che mi considerassero, fosse stato chiaro a uno il busillis: semplicemente, mi ero innamorata alla follia.


31 La mia vicenda ne è la prova provata: non si tratta di un’espressione figurata. A qualcuno capita di smarrire la capa per amore, e di commettere di conseguenza tutte le fesserie di cui mi macchiai io, senza negarmi nulla. Lo riconosco. Tornando al mazzo di rose, quando i boccioli ebbero iniziato a sfiorire, decisi, nella mia lucida follia, di farne fiori secchi, per conservarli in sempiterno: però non ero il tipo giusto, per arrischiare simili tentativi. Nonostante mi fossi documentata su come eseguire l’operazione, fu un naufragio: non solo le rose marcirono, ma rovinai anche il libro in cui le avevo pressate. Ho stampato nella memoria lo sguardo di tenero compatimento con cui mi osservò il mio attuale marito, quando, delusa nel profondo, gli confessai l’accaduto. «Tranquilla», mi rassicurò, «noi dureremo di più». Previsione confortante, specialmente se si pensa che ormai si era aperta la stagione delle scommesse: i broker mi davano a tre mesi. Trascorsi i quali sarei fuggita, lasciando alle mie spalle pianto e stridor di denti; ero circondata da universale fiducia. Nei giorni successivi alla consegna delle rose galeotte, un paio di episodi segnarono, in via più o meno ufficiale, il mio passaggio a promessa mamma, fidanzata di papà, o comunque si voglia definire questo strano fidanzamento. Un fidanzamento nel quale nessuno si disturbò mai a chiedere la mia mano. Se la sono presa e basta; e con essa tutto il braccio, l’articolazione della spalla e parte della scapola. Domenica pomeriggio: ora d’aria. Brevissimo lasso di tempo, ovvero, in cui mi concessi di lasciare il presidio del banco, facendomi sostituire. Mi recai all’ospedale, per andare a salutare l’uomo, di guardia a sua volta: una relazione piuttosto medicalizzata, la nostra. Il sole era già tramontato. Raggiunto il nosocomio, la cui massa si stagliava enorme, nell’oscurità, percorsi fra i vari padiglioni un buon chilometro, fendendo gruppi di parenti in visita e schivando infermieri frettolosi, che si affannavano qui e là. Non era il massimo, doversi incontrare in una corsia ospedaliera. In attesa nel suo studio, lasciato a luci spente, stava il caimano; la misera stanzetta era al quinto piano, con le finestre – anzi, gli immensi finestroni panoramici – che insistevano su un panorama mozzafiato, reso ancora più affascinante dal buio e dallo spettacolare gioco di luci, ombre e profili di piante secolari. Pure il parco della villa antica aveva a disposizione,


32 quel losco individuo: manco avesse arruolato il Padreterno, per mandarmi a tappeto. La scenografia, di tutto rispetto, sortì l’effetto voluto: mi stese. In senso figurato, ben s’intende; la pera, giunta a maturazione, cadde dunque con un tonfo: e lì ci fu la dichiarazione. O meglio, la non dichiarazione: «Aspetta» mi disse «ti voglio dare una cosa». Prese dalla tasca il portafoglio, aprendolo con strana circospezione; vuoi vedere che mi arriva un’altra missiva dei minorenni... azzardai mentalmente. Con precauzione, quasi stesse manovrando un oggetto di cristallo, ne estrasse due piccole perle: erano un paio di orecchini. «Dormono qui dentro da mesi» mi disse «li aveva addosso mia moglie, il giorno in cui è nata la bambina. Qualcuno, mettendomeli in mano, mi ha detto: - Dottore, gli orecchini…- quando…» gli si spezzò la voce. Inghiottì, facendo una brevissima pausa. Nel frattempo, io rimanevo vittima di una sindrome vaso-vagale, che mi condusse sull’orlo di uno svenimento. Ripresa quota quel tanto da recuperare la favella, il mio pretendente continuò: «Non hanno più visto la luce, da quel giorno. Ora vorrei che li portassi tu». Quale poteva essere la mia risposta? In primo luogo, mentre singhiozzi, non è sano abbandonarsi a dichiarazioni di alcun genere: risulterebbero poco chiare e per giunta inattendibili; inoltre, mi aveva lasciato senza parole. Un’eventualità, quest’ultima, da Guinness dei primati. Accettati gli orecchini, concessogli un bacio – era ora! Date le circostanze, però, non me l’ero sentita di capitolare prima – tornai in galera, con una sola consapevolezza: mi aveva incartata. E adesso? Come l’avremmo detto, ai piccoli? Centomila pensieri si affollavano nella mia mente confusa, ma non riuscivo ad abbozzare lo straccio di un progetto operativo. Abituata a pianificare gli acquisti invernali delle pastiglie per la gola e degli sciroppi per la tosse, non ero stata addestrata per organizzare la vita mia, di un compagno e tre bambini. Di lì all’eternità, fra l’altro: cose da far tremare le vene e i polsi. Tutto il mio pragmatismo si era liquefatto – e non era l’unica cosa in tale stato ad affliggermi – per lasciare spazio a un senso di panico dirompente: come diavolo me la sarei cavata, da lì in poi?


33 Incapace di prepararmi neppure per andare a letto, saltai in una tuta e rimasi l’intera notte a rigirarmi fra le coperte, rispondendo alle chiamate con l’entusiasmo di un robot e lo sguardo di un automa. Mi stavo disumanizzando. Si trattava ora di approcciare i bambini in modo corretto; non mi potevo presentare a casa loro, dichiarando: «Sono la vostra mamma! Qui, sul mio cuore…» Quale formula si poteva trovare? E soprattutto, cos’ero destinata a diventare? Una matrigna? Santo cielo, tutto, ma non questo: povere stelle, ne hanno già viste troppe, giurai a me stessa. La morosa di papà…? Sì, questo pareva un po’ meglio, ma eravamo un po’ stagionatini, per fare i morosetti. Mentre io mi arrovellavo, i due furetti agivano: avevano preso da papà, quanto a decisionismo. La sera del lunedì – erano passati quattro giorni in tutto, c’è da notare – ero bardata per andare in palestra. Nessuna somiglianza con le sale fitness tutta moda e linea, con tute adesive e forme in evidenza: mi attendeva una lezione di presciistica, tenuta in una palestra fatiscente, pietosamente messa a disposizione da una scuola media della zona. Eravamo tutti iscritti allo Sci Club: giungere agli allenamenti con le magliette dei cementifici e le tute più scalcagnate che mente umana potesse concepire era un dovere. Eravamo degli sportivi veri, noi: nessuna concessione a frivolezze come eleganza, curve seducenti e sciocchezze simili. Vestita come una bagonghi, stavo per uscire; anzi, ero già fuori, chiavi della macchina alla mano, pronta per andare a consumare la mia – unica – ora libera sfacchinando e smaltendo tensione. Ne avevo accumulata parecchia, negli ultimi giorni. Me lo trovai davanti, a sorpresa. Mi stava aspettando fuori, con una novità: stavolta aveva ricevuto un incarico formale. Era lì per presentarmi richiesta ufficiale di diventare… la mamma. Spazzando via tutte le nostre titubanze e le mie preoccupazioni, sulla forma da dare all’annuncio, i due interessati avevano preso personalmente l’iniziativa di reclutarmi. Ora dovevo dare una risposta. E lo dovevo fare di persona. L’intenzione di andare in palestra svaporò; non così, purtroppo, il mio abbigliamento.


34 E in tale arnese mi presentai, per la seconda volta, a casa dei suoceri, con tanti saluti alle mie intenzioni di ricostruire la mia immagine. Com’era successo la volta precedente, di tutto avevo in testa, fuorché far conversazione con loro. Era destino: con quei due, finivo sempre col fare la figura della femmina psicopatica, orrida e mostruosamente malvestita. E pensare che mio suocero è un elegantone e sua moglie una sarta. Chissà, forse avrà anche pensato di cucirmi qualche abitino, così, per compassione. Non l’ho mai saputo, ma potrebbe essere: pietosa, ero di sicuro pietosa. Con la solita falcata da marine, piombai in taverna, dove i due – bambini – mi aspettavano; lo sguardo preoccupatissimo col quale m’infilzarono mi diede ragione di quanto fosse importante, per loro, il mio assenso. Tuttavia, ero preoccupata di illuderli: come potevo fornire garanzie circa la durata della mia storia con papà? E quale ruolo mi sarei ritagliata con loro, nel frattempo? Mentre li raggiungevo, la mia mente lavorava febbrilmente; m’invitarono a un summit, svoltosi sul tavolo della nonna. Ovvero: ci sedemmo tutti e tre, gambe incrociate, stile indiani, sopra la stube della taverna. Fossi cresciuta in una caverna, priva di allacciamenti e servizi igienici, mi sarei saputa comportare meglio. Cercavo di adattarmi ai bambini: non mi sfiorava neppure l’idea di chiedergli di adeguarsi a un contesto più civile. Avrei pensato più tardi alle buone maniere: per il momento, m’interessava ben di più stabilire un ponte fra me e loro. E si trattava di un ponte destinato solo a noi: nessun altro poteva avervi accesso. Poveri nonni! Mi ero di nuovo dimenticata della loro esistenza. Sarà stata la strana posizione cui ero costretta, o forse perché la disperazione aguzza l’ingegno, ma mi uscì, liscia come l’olio, la soluzione ai numerosi problemi generati da quel complicato gioco di ruolo. «Ragazzi, accetto» me ne uscii, tranquilla e disinvolta «accetto di fare la vostra mamma in prova. Mi frequenterò con papà, e con voi mi comporterò come se foste figli miei. Vi coccolerò, ma vi sgriderò – e punirò – se servirà: proprio come una mamma vera. Se andremo d’accordo, ci sposeremo, tutti e cinque: altrimenti, resteremo amici. Mi potrete venire a trovare, raccontarmi come vi vanno le cose, ma non sarò la vostra mamma. Come vi pare, la proposta?»


35 I ragazzi si dimostrarono entusiasti della soluzione: ci scambiammo un gesto rituale per la sottoscrizione dell’accordo, ricevetti un anellino con l’effigie di Paperina come pegno e la mia avventura di mamma ebbe inizio.


36

IL MIO POMERIGGIO DI UN GIORNO DA CANI

Il sabato seguente fui rilasciata: il turno era finito. Ora non c’erano più scuse: avrei iniziato a ballare sul serio. Ricordo che fui condotta, il pomeriggio stesso, a casa dei genitori di lui. Non dico di essermi tirata a lucido, ma di sicuro avevo scelto un abbigliamento nella norma, finalmente. Era l’occasione nella quale avrei rivolto la parola anche ai padroni di casa; ero carica di speranze: mi sarei potuta redimere, una buona volta. Una conversazione educata, un caffè seduta al tavolo, modi urbani e un comportamento impeccabile: bambini o meno, stavolta avrei dimostrato chi si celava, dietro la troglodita che avevano imparato – ahimè – a conoscere. Mentre così fantasticavo, Giuseppe, impegnato nella manovra di posteggio, mi buttò lì, en passant: «Ah, i miei stanno per uscire. Così rimarremo da soli con i bambini, oggi». Un sottile sospetto iniziò a farsi strada dentro di me, però mi costrinsi a stare calma. L’istinto mi suggeriva di affrontare i problemi uno per volta, senza farmi le anteprime dei film. La realtà era terrorizzante a sufficienza: il mio panico non aveva bisogno d’incentivi. Appena entrata, vidi i nonni affferrare i soprabiti, con la faccia scura e l’aria di chi è in terribile ritardo. La mia futura suocera, prima di dileguarsi, disse: «Torniamo in serata. Pensi tu ai piccoli… ?» Si era rivolta a me e – sottolineo: solo in seconda battuta – al padre degli stessi. Mi si dilatarono le pupille. Erano le due del pomeriggio: mancavano ore, alla serata! Smarrita, mi voltai verso di lui, sperando in una spiegazione; erano rimasti talmente nauseati dalle mie precedenti apparizioni da fuggire appena mi vedevano…? Il subdolo soggetto, anziché chiarire le idee a me, si affrettò a rassicurare la madre: «Mamma, andate pure con calma: non serve che vi precipitiate a casa appena possibile. Tanto, con i bambini ci siamo noi…» Il che aumentò in modo esponenziale il mio terrore. Noi?! Com’ero coinvolta, nella faccenda?


37 Caspiterina, entravo in casa loro per la prima volta… Fino a quel giorno, avevo giusto intravisto la taverna. Che diamine stava succedendo? I miei occhi erano due immensi, sconvolti punti di domanda, la risposta ai quali, bontà sua, fu: «Stanno andando a un funerale». Era una tragedia. Non avevo idea di chi fosse morto, ma misi immediatamente il lutto. Dico, andarsene così, senza farmi un corso di preparazione serio – non avevo seguito nemmeno quello pre-parto! – un minimo di formazione, senza preoccuparsi del mio know-how… Niente di niente. Manco il libretto d’istruzioni, mi fecero trovare: la fantasia al potere. Peccato che il mio cervello, in quel momento, avesse attività elettrica zero: mi ero trasformata in uno zombi. Dopo alcuni minuti sprecati nell’inutile tentativo di ritrovare me stessa, in mezzo alla sarabanda più totale – mentre io perdevo il contatto con la realtà, i due gaglioffi si erano accorti del nostro arrivo – cercai qualche ragione per recuperare un po’ di smalto. Una mamma seduta sul marmo dell’ingresso, intenta a strapparsi i capelli e levare lamenti al cielo, perché abbandonata sola con loro tre, non avrebbe fatto buona impressione. Cercai di convincermi che andava tutto bene: dopotutto, la bambina era la numero tre, per lui. La mia totale incompetenza, nell’accudire minori, era cosa irrilevante: ci avrebbe pensato papà. Quanto ai grandi, erano di certo in grado di badare a se stessi. Il mio ruolo sarebbe stato quello di affiancare il papà, col sorriso sulle labbra, mentre si destreggiava con perfetta padronanza fra pannolini, biberon e ammennicoli vari. I bambini avrebbero giocato fra loro, mentre io mi sarei riposata: esigenza pressante, dopo una settimana di lavoro matto e disperatissimo. Questi miei ragionamenti aberranti danno la misura della mia totale inesperienza, sia di figli, sia di padri jurassici. Già. In quella fatidica occasione compresi di quale tipo d’uomo m’ero innamorata. In capo a mezz’ora, la casa era ridotta a un campo di battaglia. Nell’ingresso non si camminava, a causa delle dozzine di giocattoli disseminati per ogni dove; i decibel raggiunti dalle urla dei ragazzini avevano superato la soglia di pericolosità, mentre le attività motorie cui si dedicavano erano quasi sport estremi.


38 Mi domandavo come la bambina potesse dormire, con un manicomio simile fuori dalla sua porta, ma decisi di non fare domande. Non volevo conoscerne le risposte. Sfibrati dall’entusiasmo eruttivo dei due, che non stavano nella pelle dalla felicità, eravamo sul punto di accasciarci al suolo, vinti. In un sussulto di vigore, il padre prese una decisione improvvisa: estrasse una videocassetta e la mostrò ai due «Che ne dite di guardare un film… ?» Come previsto, la proposta fu accettata con urla di giubilo: in pochi secondi il tumulto era sedato. In linea di massima, ero contraria a usare la tv come babysitter, ma in quella specifica occasione… Avrei approvato anche l’utilizzo di un narcotico sparato a distanza, come si fa con le tigri. Stremati, crollammo su divano della cucina, mentre in salotto Walt Disney faceva il suo sporco lavoro. Non riuscimmo nemmeno a tirare il fiato. Dalla camera della piccola, contrabbandatami fino a quel momento come un angioletto, che mangiava e dormiva, senza mai piangere, si levò un urlo belluino, seguito da un pianto eseguito in quadrifonia stereo. Disturbati dal rumore, gli animali che infestavano il salotto ruggirono: «Non si può avere un po’ di silenzio, in questa casa?» Mentre valutavo se recarmi nella stanza accanto a far concorrenza a Erode, o rimanere dov’ero, accanto ai coltelli, e tagliarmi i polsi, sopraggiunse papà, con un esserino urlante in braccio. Il fatto di essere stata sollevata dalla culla non sembrava averla confortata per nulla. Insisteva a gridare come un’ossessa. «Bisogna cambiarla…» mi comunicò suo padre, piazzandomela in braccio. Oddio, non m’ero immaginata così il primo abbraccio con quella creatura… Creatura disumana, a giudicare dagli strilli. Bisognava fare qualcosa. Già, ma cosa? M’informai di dove fosse il fasciatoio; tutte le mie amiche mamme ne avevano uno: credevo fosse un must, nella casa di un neonato. Illusa: mi fu indicato il tavolo della cucina. «La cambiate qui?» esclamai incredula, osservando la cerata che fungeva da tovaglia. Non intendevo stendere un’innocente bambina su quella superficie fredda e inospitale.


39 «Mia madre ci mette sopra un asciugamano…» fu la titubante risposta; al mio sguardo saettante l’uomo si affrettò a procacciarsene uno: la bambina, nel frattempo, mi demoliva l’orecchio destro. Sistemato il telo, papà afferrò un pannolino, rovistando sotto una sedia, dov’era conservata la scorta per la giornata. Meno male: almeno quella era un’informazione nota. Non mi ci vedevo, a confezionare ciripà con gli strofinacci della cucina. Presi in mano il panno-mutandina: come si usa? mi domandai, angosciata. Certo, tutti sanno a cosa serve un pannolino, ma capire quale sia il davanti e quale il dietro, come si apre e, soprattutto, come si chiude, non è altrettanto intuitivo. Specialmente quando colei alla quale esso è destinato sta tirando giù il soffitto, a suon di barriti. In un modo o nell’altro, riuscimmo a spogliare la piccola; come quando si smontava un giocattolo, da piccoli, feci molta attenzione, studiando com’erano stati montati gli attacchi del panno. Ero una sciatrice, conoscevo le insidie celate in un attacco sconosciuto: se non sai fissarlo, rischi di restare a bordo pista per ore. Ipotesi agghiacciante, specialmente per l’indifesa vittima dei nostri esperimenti. Insomma, sapevo montare le catene da neve in cinque minuti, sarei ben riuscita a fasciare una neonata! Ero anche una farmacista, perdindirindina, i pannolini li vendevo, le cremine le consigliavo, sapevo tutto sulla puericultura… Appunto. Sapevo tutto sulla puericultura, ma non sapevo un fico secco della bambina che avevo di fronte: AAARRGHHH!!! Fra la teoria e la pratica c’è di mezzo il disastro. Mi sentivo al timone del Titanic. Tolte le braghette, che si tirarono appresso i calzini, svaniti un nanosecondo dopo aver toccato terra – questa storia del pavimento divoratore di calzini meriterebbe un approfondimento scientifico – comparvero i bottoncini del body. Sganciati quelli, fu la volta di un paio di mutandine; via anche quelle. Ma quanta roba indossano, ‘sti piccoli? Per forza le madri passano la vita a cambiarli… ragionavo io. Nel frattempo, eravamo arrivati al pannolino. Totalmente inesperti entrambi, eravamo terrorizzati: cosa ci aspettava dentro il cartoccio? Scartammo la figlioletta con grande precauzione e ci apparve uno spettacolo del tutto inaspettato.


40 Un secondo esatto dopo aver fissato la parte più personale del giovane soprano, mi sovvenne di aver notato delle crosticine sospette, sulla faccia di Davide. «Non è che hanno avuto la varicella, i grandi, vero… ?» Mentre pronunciavo questa domanda, alla quale avevo già risposto, nel fondo del mio cuore, sentii la sua voce tuonare: «Esantema!» Porca paletta. La prima volta che cambio un pannolino, devo farlo a una creatura con i genitali devastati dalle pustole! Nel frattempo, papà era corso a prendere una pomata; speravo esistesse in quella casa qualcosa di meno energico – l’individuo è abituato alle maniere forti, in corsia; e non cura i neonati, di norma… – e per fortuna avevo ripreso il controllo della situazione. Una volta capito come agganciare quel dannatissimo velcro del pannolino, circa il resto mi sentivo preparata quanto basta: chiesi di mostrarmi tutto il materiale della bambina, scelsi la crema più adatta e concludemmo felicemente l’operazione di salvataggio. Non nascondo di aver vissuto attimi di pura angoscia; ricordo di aver chiesto: «Come si spegne, la bambina?» Non esattamente la tipica frase di una mammina perfetta. Sin dagli esordi si capì come il mio sarebbe stato un percorso in salita, che avrei scalato con grande energia, ma con frequenti scivoloni all’indietro. Quanto alla patente di madre perfetta, sto ancora lavorando alacremente per ottenere il patentino di mamma appena decente: ma qui gli esami non finiscono mai. D’altro canto, con un debutto siffatto, chi poteva aspettarsi grandi cose, da me? Una volta calmata la piccina, giunse il momento di preparare il biberon. Di nuovo mi venne in aiuto la mia professione: quante volte avevo spiegato alle mamme dosi e modalità per sciogliere quella polverina bianca extracostosa, per farne carburante per i loro pargoli… L’operazione non aveva segreti, stavolta. Senza soverchie difficoltà, allestii il mio primo biberon: e lì mi si offrì alfine l’opportunità di sedermi e godermi la prima poppata della mia pupa. Furono gli attimi che resero quella cucina un angolo di paradiso. Mi sentivo rigonfia d’amore… E la piccola mi rigurgitò sul bavero.


41

TRASFORMAZIONI INASPETTATE

È dimostrato: tutto si supera, persino l’impatto col pannolino e l’esantema esplosivo. Ridotta ai minimi termini – l’abito, originariamente indossato per ricostruire la mia immagine, era deturpato dall’immonda medaglia appena ricevuta dalla pupa – riconsegnai il fagottino rosa alla nonna, finalmente rientrata. Le comunicammo la ferale notizia: terzo caso di varicella del mese. Mi aspettavo una reazione spazientita: sei persone sulle spalle, nessun aiuto, la prospettiva di chissà quante notti insonni… C’era di che farsi venire una crisi di nervi. Ero in apnea, pronta a collidere con la suocera: ogni mia conoscente mi aveva narrato il suo personale film dell’orrore, con la propria. Ero rassegnata al peggio. La donna, serafica, non fece un plissé: friulana doc, dotata di rachide d’acciaio temperato, non perdeva la testa davanti a nulla. Al contrario, prese in braccio la piccola ammorbata e la consolò sottovoce, con un tono così carezzevole e consolante da avere un effetto sedativo anche su di me: bah, insomma, alla fin fine… Non era poi tanto male, fare la mamma. Con un tutor simile, c’era qualche speranza imparasse il mestiere persino una femmina in una situazione intricata come la mia. Il sorriso dolce della mia futura suocera mi aveva conquistata; né lei né io, però, conoscevamo gli sviluppi derivanti da quel caso di faccina puntiforme. Di lì a poco sua figlia venticinquenne sarebbe stata travolta dal virus, poveraccia, trasformandosi in un mostro; sapendolo, forse i nostri sorrisi sarebbero stati meno convinti, e convincenti. I miei due aspiranti figli, imparai presto a mie spese, erano formidabili collettori di germi, virus e microrganismi patogeni di ogni ordine e grado. Nutro il convincimento dessero loro la caccia di proposito: non gliene sfuggiva uno. Qualsiasi epidemia ci fosse in corso, a scuola o all’asilo, giungeva per direttissima alla sorellina; questa cadeva vittima delle aggressioni batteriche e, a ruota, contagiava l’intero gruppo di parenti.


42 Fin dai primi giorni, osservai che c’era sempre qualche malato, sotto quel tetto: ero finita in un lazzaretto. Un giorno era la piccola con l’otite, l’altro la cognata influenzata, il terzo trovavo mio suocero orizzontale, nel letto, circondato dai nipoti i quali, per allietare la sua degenza, trasformavano il copriletto in una pista da circo. Il loro ruolo, manco a dirlo, era quello delle belve feroci. Peccato mancasse la figura del domatore: carenza alla quale tutti si aspettavano avrei ovviato io, in un prossimo futuro. Me tapina. Come da copione, mi adattai subito all’ambiente; già soggetto immune persino alla TBC, subito dopo aver iniziato a frequentare La Famiglia mi ritrovai a battagliare, a suon di siringoni, con infezioni smisurate e ricorrenti. Si trattava di un impegno non indifferente su tutti i fronti, incluso quello immunitario: nei mesi a seguire, mi sarei chiesta spesso se sarei sopravvissuta a cotanta avventura. E non si trattava di una domanda retorica, ma di un dubbio batteriologicamente concreto: il mio sistema immunitario stava capitolando, forse anche a causa dell’accelerazione subita dalla mia esistenza. L’aver accettato l’incarico di mamma in prova era una faccenda dai svariati risvolti, nessuno dei quali di tutto riposo. Punto primo: si trattava di trasferirsi, armi e bagagli, a casa dei miei suoceri. Già s’è detto con quanta considerazione li avessi trattati, fino a quel momento: ci mancava solo mi vedessero piombare a casa loro ogni due per tre, con la scusa di frequentare i piccoli. Soluzione improponibile: infatti, fu quella immediatamente adottata. In un momento di sconforto, valutai l’ipotesi di recarmi al prospiciente camposanto, per acquistare un loculo: almeno quello me lo sarei scelto come lo volevo io. La probabilità di utilizzarlo a breve non mi sembrava più così campata in aria… Decisi tuttavia di soprassedere, per scaramanzia, e mi accinsi a eseguire le consegne del Capo. I figli erano suoi, le direttive per trasformarli in figli nostri dovevano partire da lui. Fu così che mi trasformai in una pallina da pingpong. Alle sei e mezzo del mattino, sbadigliando come un ippopotamo, scivolavo quatta quatta fuori dal mio appartamento, per attraccare poco dopo ai loro cancelli, silenziosa come una gatta e circondata dalle tenebre. Le circostanze erano raggelanti, e non soltanto per motivi climatici. Il profumo del caffè, tuttavia, mi accoglieva sulla soglia, predisponendomi ad affrontare il bailamme che sarebbe seguito: facevano tutti ogni


43 sforzo per facilitarmi il compito. Incluso il doping a base di caffeina e biscotti. Con la piccolina in braccio, impegnata a trastullarsi con i miei capelli, dirigevo le operazioni di risveglio e allestimento pargoli; li destavo a suon di coccole, assistevo alla loro colazione, li obbligavo a lavarsi i denti, sovrintendevo alla scelta degli abiti, rintracciavo le scarpe (W il velcro!) e, alfine, salutavo Davide, prima che si avviasse, accompagnato dal nonno. Giunti a questa fase, il mio livello energetico era già pericolosamente scemato; in un momento di evidente fragilità, ero anche costretta a separarmi dalla frugoletta – potendo, me la sarei portata al lavoro nel marsupio – per caricare Andrea in macchina. Ah, già, la macchina. Che sofferenza. La mia adorata automobile nuova, attesa dodici, interminabili mesi in più, per raggranellare i soldi per un modello più potente. Una vettura robusta e sicura, in grado di macinare centinaia di chilometri e arrampicarsi ardimentosa sui passi montani più impervi, senza tradirmi mai. Quella Delta era per me un traguardo raggiunto e un trampolino per un futuro pieno di speranza. Forse per quello l’avevo scelta verde; stessa tinta assunta dalla mia faccia, quando mi sentii chiedere: «Scusa, hai mica in farmacia uno di quegli adesivi bimbo a bordo, o simili…?» Ne avevo a dozzine; li regalavo, accidenti a me, ma non intendevo affatto… Figuriamoci. Sissssignore, signore! Con espressione funebre e mano tremante, deturpai il vetro posteriore della mia gloriosa amica, ormai degradata a volgare mezzo di trasporto casa-scuola, casa-supermercato, casa-immediati dintorni. Molto, immediati: di andare a spasso non se ne parlava più. L’epitaffio della mia libertà era stato dunque scritto: baby on board. Ovvero: carte di caramelle, rimasugli di merenda, briciole di cracker e pupazzi vetusti, giocattoli rotti, cuscini, coperte, fazzoletti di carta – usati e non – e soltanto cassette di Joghi e Bubu. Bubu, benedettoilcielo, Bubu! Dov’era finita la bionda – quasi – rampante di poche settimane prima? Sepolta dai pannolini. Che disastro!


44 Bene. Il quadro pare chiaro. Si trattava ora di ficcare in auto un pirata di cinque anni, piazzarlo sul seggiolino – se ne potevano contare tre, nidificati sul mio sedile posteriore; tre seggiolini, di due tipi diversi. SIGH! – imbragarlo con la cintura di sicurezza, vincendo le inevitabili resistenze, e partire, alla volta dell’asilo. Già questo rappresentava per la sottoscritta l’occasione per la prima bella sudata della giornata. Me la dovevo vedere, infatti, con un’anguilla, dotata di uno spiccato senso dell’umorismo, che declinava divertendosi a escogitare sistemi originali per farmi ammattire. Facevo per afferrare il gancio della cinghia e mi trovavo in mano una tarantola gigante, pelosa in modo vomitevole; nella tasca della giacca, invece delle chiavi, c’era un Power Ranger. Se decidevo di approfittare della sosta per comprarmi il giornale, in mezzo ai soldi trovavo mischiato un minimostro di gomma molliccia e appiccicosa. Per fortuna non erano ancora stati inventati i Puzzones… altrimenti, già so quale sarebbe stata la mia fine. E questa era la parte facile e divertente. Trovare un parcheggio di fronte alla scuola materna, alle otto e rotti del mattino, era una scommessa: ma non ci si poteva esimere dal trovare una sistemazione sicura, e stabile, per l’automezzo. La mia permanenza tra le mura dell’istituto non era mai breve, anzi. Essa rappresentava uno dei momenti più drammatici e snervanti, nell’arco delle ventiquattro ore. Una cosa va chiarita: non mi ero presentata al seguito del piccino, con il grado di mamma, senza aver prima fatto conoscenza con la sua maestra. Durante le vacanze di Natale, papà, pargoli e io eravamo giunti fino all’asilo parrocchiale; la supersuora direttrice, nonché maestra di Andrea, ci aveva accolti con un sorriso radioso. Alla teppa era toccato l’onore delle presentazioni; alla domanda: «Chi è questa signora?», il bambino aveva risposto con un conciso: «La mamma». Risposta formulata a quattro zampe, mentre spingeva un’automobilina su pavimento: pareva fosse la cosa più naturale del mondo. Una nonchalance sconcertante, almeno per me. Poi mi fu chiarita la situazione: tanta era la voglia di mamma dalla quale era afflitto, da aver preso l’abitudine di chiamare così anche la suora che lo accudiva a scuola, la nonna, la zia, persino lo zio. Insomma: ero la risposta a un’esigenza potentemente sentita; e, a giudicare dal sorriso e dalla lacrima con cui mi accolse la monaca, rappresentavo anche una preghiera esaudita.


45 Problemi zero, dunque, sul fronte accettazione della nuova mamma, alla scuola materna. Ero stata accolta a braccia aperte, nessuna losca ipotesi era stata ventilata sul mio conto – il parroco ci conosceva tutti: sapeva che eravamo al di sopra di ogni sospetto – e mi era stata garantita la maggior collaborazione possibile. Mi credevo in una botte di ferro. Quando, al termine delle vacanze, condussi il bambino a scuola per la prima volta ero rilassata e tranquilla: slacciato il giubbottino, appeso il berretto all’attaccapanni, stampai un bacione sulla fronte del topolino e lo salutai. Non si mosse. Strana reazione… «Coraggio, tesoro, la suora ti aspetta, i compagni vogliono giocare con te…» tentai. Immobile, il bimbo non si schiodava dalla sua posizione, mentre il volto gli si contraeva in un’espressione di disperazione. Angosciata, iniziai a sudare freddo: che diavolo avevo sbagliato, stavolta? Si fecero rapidamente strada in me seri dubbi, circa la possibilità di liberarmi con facilità del simpatico fardello, per recarmi al lavoro. Il sopraccitato fardello, infatti, era nel frattempo scoppiato in lacrime, come fossimo entrati nel braccio della morte. Santo cielo. Non avevo idea di che santi invocare. Sapevo che il piccolo aveva un rapporto splendido con le educatrici: la suora, sua maestra, era stata una delle colonne cui suo padre si era appoggiato, dopo la scomparsa della moglie. Il suo comportamento era incomprensibile, per me. Qualsiasi genitore di figlio in età prescolare sarebbe stato in grado di spiegarmi il perché della sceneggiata cui assistevo, ma non c’era anima viva ad assistere al dramma. Quanto a me, ero totalmente all’oscuro di qualsiasi nozione in materia. Caddi nel panico. E quindi feci l’errore più classico: mi accosciai, portandomi al suo livello. Rapido come una bertuccia, il bimbo mi si avvinghiò al collo, facendomi crollare poco dignitosamente sul deretano. Rialzatami barcollando, sempre con il geco incollato addosso, guadagnai una panchetta, dove trovai una malcerta collocazione per il mio martoriato fondoschiena. Iniziò una lunghissima quanto infruttuosa trattativa: il giovanotto non in-


46 tendeva mollare la presa. Non sarebbe rimasto in quel luogo di dolore un solo secondo di più. Quando si partiva, per tornare a casa? Ero in stallo. Perché si comportava in quel modo…? E lì, si manifestò l’apparizione. Alla sommità della scala, comparve il dolce viso di una donna velata, che aprì le braccia sorridendo, rivolta a me e al bambino. Ero salva! Chiusi gli occhi, levando un muto ringraziamento alle alte sfere: evidentemente avevano accolto le mie implorazioni. L’apparizione parlò: «Siamo alle solite, vero…?» Dopo questa esclamazione, scese le scale, avvicinandosi con incedere deciso al giovane ribelle, il quale esibiva l’espressione più afflitta che mai gli avessi visto in faccia. Rivolgendosi a me, la mia salvatrice continuò: «Tranquilla. Faceva così anche con la sua mamma: mezz’ora ogni mattina! Vero, birba…?» Il verme affondò la faccia nell’incavo della mia spalla, scuotendo risolutamente la testa: era vittima di una macchinazione. Calunnie, erano tutte calunnie… Nel contempo, aumentava in modo esponenziale l’energia con cui mi si stringeva al collo: un altro po’ e sarei crollata, svenuta. Nonostante stessi per morire soffocata, il sollievo che provai, alle parole della suora, fu tale da non farmi pensare al tiro mancino che mi era stato giocato: nessuno mi aveva avvisata delle lacrimevoli abitudini del bambino. Anzi. Mi avevano raccontato meraviglie, circa il benessere e la serenità garantiti da quella scuola: notizie senza dubbio vere, ma colpevolmente incomplete. Ero proprio una dilettante, mandata allo sbaraglio. Prima che metabolizzassi tale concetto, tuttavia, accadde un fatto che mi stravolse. Dopo la concisa spiegazione che tanto mi aveva sollevato, la maestra, spazientita, afferrò il bambino con decisione, strappandomelo dalle braccia, per condurlo, obtorto collo, nella sala dei giochi. Dopotutto, io lo conoscevo da meno di un mese, lei da anni: non aveva senso si creasse grandi problemi. Di lì a poco la peste sarebbe stata impegnata in qualche gioco sfrenato, in compagnia di svariati amici, divertendosi un mondo. Quella che ha appena finito di scrivere è la mia parte razionale.


47 Peccato che lì, impalata, ci fosse la mia parte irrazionale: lo osservai sparire dietro l’angolo, singhiozzante, con la manina tesa nella mia direzione. Sembrava la scena di un film neorealista: eravamo ridicoli. Ricordo che fui presa da una furia incontrollabile: come si permetteva, QUELLA LI’, di strapparmi MIO FIGLIO in quel modo? Solo un barlume residuo di sensatezza m’impedì di piombare nella stanza, spintonarla via e riprendermi il piccolo. Per fortuna i miei freni inibitori non erano saltati: almeno quelli erano ancora funzionanti. Il resto del mio cervello, viceversa, batteva in testa. Uscii di scena schiumante di rabbia, mugugnando propositi di violenze efferate, qualora un episodio simile si fosse ripetuto. IL MIO BAMBINO!!! Ma come si fa a trattare in un modo simile una MAMMA, per tutti i diavoli? Giunta al lavoro, telefonai immediatamente al papà, raccontandogli furibonda l’accaduto. Dall’altro capo del telefono, una voce pacata mi ricondusse alla realtà: «Vale, è la sua maestra da tre anni, quasi…» Rimasi come fulminata. Accidenti. Avevo subito una mutazione genetica: mi ero trasformata in una mamma vera. FINE ANTEPRIMA. CONTINUA...


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