Elena Copelli
TRENODIA
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TRENODIA Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2011 Elena Copelli ISBN: 978-88-6307-361-4 In copertina: Immagine di Federico Piccinini
Finito di stampare nel mese di Maggio 2011 da Logo srl Borgoricco - Padova
Ringrazio tutti coloro che mi amano. Soprattutto Marco.
A Vittoria
“That a heart falls tinkling down, Never think it ceases. Every likely lad in town Gathers up the pieces. If there’s one gone whistling by Would I let it greve me? Let him wonder if I lie; Let him half believe me.� Threnody, Dorothy Parker
CAPITOLO 1
Pino era un uomo tranquillo, conduceva una vita normale. Ogni mattina si alzava alle sette e mezza, si lavava con metodica cura il viso, faceva pipì e seduto al tavolo della cucina, guardando fuori dalla finestra che dava sulla stazione, beveva il suo caffè e latte mangiando una brioche. Impiegava almeno cinque minuti per lavarsi i denti, “in quarant’anni neanche una carie”, amava spesso ripetere; una regolatina alla barba e poi con estrema cura sceglieva i vestiti da indossare. Il lunedì era la giornata del pullover verde con i pantaloni grigi, il martedì preferiva la camicia nera di flanella e i pantaloni beige, il mercoledì toccava alla felpa rossa con i pantaloni neri; il giovedì si ricominciava da capo fino alla domenica, giorno in cui andava al bar a veder la partita e per l’occasione indossava il pullover di cachemire a fantasia e i pantaloni di vigogna neri. Prendeva dall’attaccapanni il suo giaccone ormai malconcio, che si riprometteva di sostituire ogni inverno, la sciarpa fatta da quella buon’anima di sua madre e i guanti di pelle presi in piazzola. Tirava fuori la sua Punto dal garage sotto casa e partiva, direzione Borgo Panigale, dove lavorava in fabbrica come operaio specializzato. Di solito impiegava una ventina di minuti per arrivare al lavoro; se c’era traffico o c’era nebbia i minuti aumentavano, ma lui non si scoraggiava: senza autoradio, perché in fondo non ne aveva mai avuto bisogno, canticchiava tra sé e sé qualche motivetto imparato alla televisione. Si fermava solo un attimo a comprare il giornale, per strada a un semaforo; poi ripartiva diritto verso il lavoro. La fabbrica si erigeva imponente di fronte a lui; ormai, dopo tanto tempo passato lì, non ci faceva più caso e parcheggiando nello stesso posto da vent’anni, si sentiva come a casa. Il suo lavoro non aveva niente d’affascinante, ma non avrebbe saputo fare altro e lo stipendio, dopo tanti anni, iniziava finalmente a aumentare; dunque perché lamentarsi? Certo non aveva mai sofferto la fame, non era uno spendaccione, ma desiderava una vecchiaia se-
rena e sapeva che i soldi avrebbero potuto essergli utili. Quattro ore, pranzo in mensa, e poi altre quattro ore: questo lo aspettava dietro la grande porta di vetro che si accingeva a attraversare. Timbrato, s’inizia! Verso le sei di sera era di nuovo in macchina, pronto a tornare a casa. A volte doveva fare gli straordinari, ma non gli pesava affatto e capitava di rado. All’uscita si fermava in un super mercato a fare la spesa, anche se non gli piaceva: troppa confusione e troppi prodotti tra cui scegliere. Lui, preferiva le botteghe di una volta, ma si rendeva conto di risparmiare in quegli enormi calderoni umani, e in fondo erano sulla strada di casa. Finita la spesa si rimetteva in marcia e, traffico permettendo, arrivava a casa giusto in tempo per guardare il telegiornale delle venti. Non che amasse particolarmente la televisione, tuttavia non disdegnava la sua compagnia di tanto in tanto e gli piaceva essere informato su cosa succedeva nel mondo. Ai fornelli non se la cavava male, aveva imparato ad arrangiarsi e, dopo un piatto di pasta e un bicchiere di vino, era pronto per leggere il giornale. Notizie interessanti non ne trovava mai, troppa politica per un uomo che da trent’anni votava lo stesso partito; la cronaca era sempre più nera, lo spettacolo non lo interessava poi tanto. A volte si chiedeva cosa lo spingesse a comprare ancora il giornale, visto che non ci trovava più niente di interessante; forse era solo l’abitudine, o forse amava quei quattro pezzi di carta che erano stati suoi compagni di vita. Dopo aver lavato i piatti, la lavastoviglie era un lusso di cui non comprendeva l’utilità, si infilava il pigiama di cotone e dritto a letto. La sua vita scorreva così da molti anni e a lui non dispiaceva affatto. I suoi colleghi lo consideravano un uomo qualunque, certo simpatico e disponibile, ma noioso e prevedibile. In effetti, Pino era un uomo tranquillo, un uomo tranquillo che amava andare ai funerali.
CAPITOLO 2
Pino era un uomo tranquillo, un uomo tranquillo che amava andare ai funerali. I funerali erano il suo hobby. Non gli sembrava strano, anche i suoi colleghi avevano interessi particolari. Cosa c’era in fondo di normale in un omino in pantaloncini che rincorre un indifeso pallone per calciarlo con una violenza inaudita? In un altro che sfida il freddo e l’acqua per catturare una bestia, che dovrà in seguito liberare? Oppure in chi corre per ore e ore su un pezzo di plastica e non arriva da nessuna parte? Ma che il suo hobby fosse più bizzarro, se ne rendeva conto; forse per questo motivo, in tanti anni, non aveva mai confidato a nessuno la sua passione. Tutto era iniziato al funerale di sua cugina Betti. Sua madre era già scomparsa e come unico rappresentante della famiglia si era sentito in obbligo di partecipare alla funzione, benché non conoscesse che superficialmente la defunta, morta in un incidente stradale. Prima di recarsi in chiesa, decise di fermarsi a casa dei prozii per porgere le sue condoglianze. Si sedette per alcuni minuti in un angolo della grande sala che conteneva il catafalco. Sorpreso dalla folla silenziosa che vegliava la cugina, si rese immediatamente conto dell’intenso momento a cui stava assistendo. La defunta, per lui solo una lontana parente, negli occhi di queste persone riprendeva a vivere. L’affetto che lo circondava, era quello che in vita Betti non si era mai resa conto di possedere. Imparava a conoscerla dagli sguardi che lo stringevano, a sentirla dai silenzi che lo abbracciavano: lacrime portavano ricordi irripetibili, che nessuna voce avrebbe potuto raccontare. I gesti di chi non si dava pace erano tutti per lei. Era veramente quella la persona che non aveva conosciuto, o la morte, come un indulgente amico, aveva fatto diventare Betti speciale? Ma cosa importa, in fondo, non siamo tutti speciali, straordinari? Anche lui lo era? Lì, circondato da altre persone speciali, apparteneva a qualcosa,
a qualcuno; provava anche lui tristezza, disperazione, rabbia. Era vivo. Circondato dalla morte, si sentiva vivo. La stanza, piena e singhiozzante, sembrava inghiottirlo nel dolore più profondo. Così, improvvisamente, sentì una lacrima scendergli sul viso e subito un’altra che la seguiva. Scoppiò in un pianto a dirotto, che lo obbligò a uscire dalla casa e a rinchiudersi nella sua automobile. Solo quando fu arrivato in chiesa, riuscì a smettere di piangere e a rendersi conto della situazione. Si era reso ridicolo. Conosceva a malapena la defunta; come avrebbe potuto essere così disperato per la sua perdita? Era lo stress, la stanchezza, la solitudine? Si sistemò in fondo alla chiesa e uscì prima della fine della cerimonia. Arrivato a casa si buttò distrutto sul letto e cadde in un sonno profondo, deciso a dimenticare l’accaduto. Al risveglio, sebbene avesse dormito solo un paio d’ore, si sentì rigenerato. L’appetito non gli mancava e mentre si preparava una bistecca e un po’ d’insalata sentì un brivido scorrergli lungo la schiena: “Cosa mi è successo? Cosa ho vissuto? In che piacevole precipizio sono caduto? In quale gioco sono stato intrappolato?”
CAPITOLO 3
“In quale gioco sono stato intrappolato?” Fu questa la domanda che non smise mai di farsi per tutta la settimana seguente. Non capiva cosa gli era successo, non conosceva le sensazioni che aveva provato. Non si era sentito un estraneo e nemmeno fuori posto: si era reso ridicolo, ma agli occhi di chi? Nessuno, in realtà, si era accorto del suo strano comportamento. Forse si sentiva un po’ in colpa, quello sì, ma in colpa per cosa? In realtà, era stato profondamente toccato da questo doloroso avvenimento, quasi più del dovuto, cosa rimproverarsi allora? Riprese la vita di tutti i giorni, cercando di dimenticare il funerale. Continuò a lavorare, ad andare al bar con gli amici, a leggere il suo giornale; ma qualcosa gli impediva di essere quello di prima, di condurre la vita di prima. Ora la sua esistenza gli appariva piatta, vuota. Quel giorno, circondato da tutte quelle emozioni, per la prima volta si era sentito vivo, aveva assaporato sentimenti forti che non era mai stato in grado di provare. Non che avesse tratto piacere dal dolore a cui aveva assistito, piuttosto aveva tolto tutti i freni che avevano bloccato fino a quel momento la sua emotività. Davanti a un avvenimento così vero, così unico, aveva trovato il coraggio e la voglia di lasciarsi andare. Non aveva conosciuto bene sua cugina, ma vedendola rivivere attraverso il dolore delle persone che l’avevano amata, era riuscito a assorbire tutta l’energia che l’avvolgeva: quest’ondata d’emozioni era arrivata in una zona recondita della sua testa e l’aveva vinta. Questa era la spiegazione che si era dato dopo settimane di riflessioni, per questo motivo aveva deciso di assistere a un altro funerale. Voleva capire se, l’intensa esperienza vissuta, fosse solo un caso, oppure l’inizio di un’avventura, che lo avrebbe portato alla scoperta di nuove sensazioni. Capire, voleva solo capire.
Il sabato mattina seguente uscì presto per acquistare il giornale e durante la colazione si mise a leggere gli annunci funebri della giornata. Aveva deciso di assistere al funerale di un perfetto sconosciuto. Cercava una persona deceduta nelle stesse circostanze di sua cugina, preferibilmente giovane e nubile. Purtroppo, non ebbe che l’imbarazzo della scelta: in una grande città gli incidenti sono all’ordine del giorno. Lo attirò l’annuncio di un ragazzo di nome Stefano, trent’anni, celibe, geometra, di cui - la famiglia e gli amici uniti nel dolore - annunciavano la perdita. Si preparò con molta cura a questo appuntamento e si sorprese, allo stesso tempo, emozionato e preoccupato. Non sapeva cosa aspettarsi, avrebbe di nuovo vissuto l’esperienza straordinaria dell’ultimo funerale o tutto si sarebbe rivelato una bolla di sapone pronta a scoppiargli in faccia? Non gli restava che provare. Arrivato al luogo dove la camera ardente era stata allestita, respirò profondamente ed entrò, senza mai fermarsi, fino alla bara. Il corpo di quel povero giovane era lì, inerme, ma non era solo: anche questa volta un cerchio silenzioso, formato da familiari e amici, circondava la salma. Pino si sentiva attirato dalla loro forza. Questa volta, però, non scese una lacrima, stava vivendo un sentimento più profondo, più segreto, una difficile serenità, una dolorosa pace. Accompagnò il feretro fino alla chiesa dove si sarebbe svolta la funzione e ne prese parte. Tornato a casa, alla fine di quel lungo pomeriggio si sentì stanco, distrutto, svuotato. Aveva lasciato qualcosa di sé a quel ragazzo, in cambio ne aveva ricevuto un istante di vita. Quella notte dormì profondamente e, cosa che non gli capitava da anni, sognò. Fu così che Pino scelse come hobby l’andare ai funerali. Diventò per lui una vera e propria passione. Ogni venerdì sera comprava il giornale e sceglieva il funerale del sabato. Si vestiva elegantemente e comprava i fiori, come se lo aspettasse un appuntamento galante. Finita la cerimonia se ne tornava a casa, pieno di emozioni e ricordi sempre nuovi. Non fece parola con nessuno dei suoi amici di questo strano passatempo, tanto a nessuno interessava cosa facesse; e poi, non avrebbero capito. La sua vita trascorse così, finché non arrivò Johnny. Da quel momento tutto cambiò.
CAPITOLO 4
Da quel momento tutto cambiò. La sua tranquilla esistenza, che a molti poteva apparire monotona, fu sconvolta da questo esserino terribile. Tutto ebbe inizio una fredda mattina di febbraio. Senza un’apparente spiegazione, cominciò a sentirsi osservato. Dovunque andasse, qualunque cosa facesse, percepiva di non essere solo. Quando si recava in macchina al lavoro, per esempio, sentiva di avere compagnia; quando alla sera si metteva a leggere il giornale, qualcuno da dietro le spalle lo leggeva con lui. Non era più a suo agio nemmeno in bagno. Una serata come tante, finalmente, il mistero fu svelato. Pino stava consumando la sua cena davanti alla televisione. Come al solito, era molto stanco e non prestava attenzione a quello che scorreva di fronte a lui sullo schermo. Tutto d’un tratto una vocina gli chiese: «Scusa, puoi aggiungere un po’ di sale a queste uova?». Guardò immediatamente la televisione, ma il giornalista stava parlando dell’inflazione: lui non poteva certo essere stato. Era sicuramente la stanchezza che faceva brutti scherzi; continuò a mangiare cercando di dimenticare l’accaduto. Dopo cinque minuti ancora quella vocina: «Allora questo sale lo metti?» Pensò, subito, che la sua televisione avesse qualche problema, un contatto, forse. Per non avere più brutte sorprese la spense e finì le sue uova. «Ti piacerebbe fosse la TV, eh? Grazie, comunque, per queste uova insipide!» Cosa stava succedendo? Di chi era questa vocina fastidiosa? In un primo momento si convinse di essere vittima di uno scherzo: qualcuno aveva piazzato una telecamera e un microfono nel suo appartamento, per vedere le sue reazioni a queste ridicole domande. Ma a
chi potevano interessare le sue reazioni? E poi, nessuno aveva le chiavi di casa, tranne la portinaia, che sicuramente non avrebbe fatto entrare qualcuno, senza prima chiedere il suo permesso. Per tranquillizzarsi, controllò se qualcosa era stato messo fuori posto, o se c’era in giro qualche aggeggio strano. «Ah, ahahah, sai che sei un po’ ridicolo? Non ho certo bisogno di questi mezzucci per spiarti!» Questo era troppo. «Chi sei e che vuoi da me? Esci dal tuo nascondiglio. Se vuoi dei soldi li avrai, ma non farmi del male». «Siamo un tantino paranoici! Tranquillo, non sarei in grado di torcerti un solo capello, visto come mi hanno ridotto! E pensare che ho sempre avuto un fisico niente male». «Cos’è questo, uno scherzo? Chi sei e, soprattutto, dove sei?» «Be’, per quanto riguarda la prima domanda, passo. La seconda la so: diciamo che in questo momento sono sulla tua testa, ma sbrigati perché mi muovo velocemente, è uno dei pochi vantaggi che ho acquisito, non so dove sarò tra due minuti!». Pino, che si sentiva veramente uno stupido a dar retta a una voce sbucata dal nulla, piegò la testa indietro, ma non vide niente, a eccezione di una mosca che si posava di tanto in tanto sul suo naso, infastidendolo ulteriormente. «Non c’è nessuno qui, o salti fuori o chiamo la polizia». «Non sei molto sveglio, eh? Ok, ti do una mano. In questo momento sono sulla seggiola dove eri seduto prima». «Su quella seggiola c’è solo un’insopportabile mosca!». «Oh, piano coi nomi. Se ti chiamassero fastidioso essere umano cosa ne diresti?». Pino rimase ammutolito. Stava davvero parlando con una mosca? Probabilmente aveva mangiato del cibo avariato, di questi tempi tutto è possibile; forse, la verdura che aveva mangiato a pranzo era geneticamente modificata. Decise, allora, di ignorare la vocina, prendersi una camomilla e andare immediatamente a letto. «Che fai? Dove Vai? Prepari ancora qualcosa da mangiare? Guarda, io avrei un languorino, se puoi farmi qualcosa di dolce te ne sarei grato… che fai, non rispondi? Ah, capisco, siamo un po’ confusi. Certo, fossi io al tuo posto non ci avrei mai creduto a una mosca parlante, anche se al cinema se ne sono viste più di una; ma se lo vuoi
sapere sono tutte balle, non c’è nessun uomo miniaturizzato dentro di me e…» «Basta, vuoi stare zitta! Aiuto, non ci credo sto parlando con una mosca, cosa mi sta succedendo?» «Più che zitta, direi zitto, visto che fino a prova contraria sono un uomo dotato di tutti gli attributi del caso, o almeno, spero che qualcosa mi sia rimasto». A questo punto, Pino lasciò perdere la camomilla e si diresse direttamente a letto. Non si spogliò nemmeno, si infilò sotto le lenzuola, sperando di essere il protagonista di un incubo, il cui ricordo sarebbe svanito al suo risveglio. «Non dirmi che è già ora di andare a letto? Non si fa niente da queste parti di interessante? Dai, è presto, andiamo fuori a bere qualcosa, a ballare, a fare una passeggiata, almeno». Pino non rispose. Nascosto sotto le lenzuola stava cercando una valida spiegazione all’accaduto. Troppo vino, forse. Strano, perché di solito beveva anche di più. Basta! Era solo stanchezza, che come dicono fa brutti scherzi. Possibile che la sensazione di non essere solo delle ultime settimane fosse dovuta ad una mosca parlante? Bene, stava impazzendo, questa era l’unica spiegazione plausibile. Sperando che il sonno lo riportasse alla ragione, chiuse gli occhi e cercò di addormentarsi immediatamente. Sicuramente al suo risveglio queste allucinazioni visive e acustiche sarebbero scomparse e avrebbe ripreso la sua vita, monotona e tranquilla.
CAPITOLO 5
Sicuramente al suo risveglio queste allucinazioni visive e acustiche sarebbero scomparse e avrebbe ripreso la sua vita, monotona e tranquilla. Questo era quello che si era più volte ripetuto la notte prima, mentre cercava faticosamente di prendere sonno. La mattina seguente, la vocina molesta che l’aveva infastidito sembrava scomparsa. Niente voce, niente mosca. Che stupido era stato a pensare, anche solo per un momento, che esistessero mosche parlanti; ancora più stupido a spaventarsi dell’accaduto. Quel vino comprato alla Coop era davvero troppo forte per lui. Decise che non l’avrebbe mai più comprato e che d’ora in avanti a cena avrebbe bevuto solo acqua. Con gli anni che passano, la digestione diventa sempre più difficile. Si alzò come ogni mattina per recarsi al lavoro. Andò in bagno, fece colazione, si lavò i denti: tutto sembrava procedere regolarmente. Poi, la sentì. Il suo ronzio, probabilmente, era stato nascosto fino a quel momento dai rumori mattutini. Ma ora che nel silenzio più completo si stava vestendo, percepì la sua presenza e la udì muoversi da una parte all’altra della stanza. “Probabilmente è una normalissima mosca che vaga in casa alla ricerca di un po’ di cibo” pensò “gli insetti parlanti non esistono, basta perdere tempo con queste sciocchezze.” Deciso a dimenticare quello che era accaduto la notte prima, come si cerca di dimenticare un brutto sogno, tirò fuori la macchina dal garage e si recò al lavoro. Fece finta di non notare che la mosca lo aveva seguito dall’appartamento, era entrata con lui in macchina, e ora girovagava intorno al sedile di fianco al suo. Arrivò in fabbrica puntuale come al solito e, dopo aver parcheggiato e timbrato il cartellino, raggiunse la sua postazione e iniziò a lavorare. Eppure una mosca continuava a seguirlo. Sicuramente non era quella che si era intrufolata in macchina, ma una delle tante che si trovavano in officina.
La giornata trascorse serena. Dopo un paio d’ore non fece più caso all’insetto che lo seguiva dappertutto e così arrivò alla fine dell’orario lavorativo. Salì in macchina e s’incamminò verso casa, come faceva ogni sera. Trovò la solita fila sui viali e quand’era ormai a un paio di chilometri dalla sua abitazione la vocina ricomparve, facendolo sprofondare nuovamente nella disperazione più nera: «Allora, com’è andata oggi al lavoro?» Il ritorno della mosca parlante provocò a Pino un vero e proprio choc e non si accorse di quello che stava succedendo, finché non sentì di nuovo quell’essere diabolico che lo avvertiva: «Attento, stai andando contro quel marciapiede!!!!!!» All’ultimo momento riuscì a salirci sopra e, senza neanche pensarci, abbandonò la macchina lì e corse via. «Dove corri, tanto sono più veloce di te». Quello scherzo di natura aveva ragione, per quanto veloce andasse se lo trovava sempre davanti. Non sapeva più cosa fare, non era abituato a correre e dopo qualche metro già non si sentiva più le gambe, non gli rimaneva che arrendersi. Si fermò, ormai senza fiato, alla prima panchina che vide. Il suo carnefice era lì, al suo fianco, che si godeva la vittoria. Decise allora di prendere in mano la situazione. «Dimmi immediatamente cosa sei e cosa vuoi da me». «Quanta fretta. Io ho impiegato settimane per scoprire chi sei tu e ora vorresti che ti raccontassi la mia storia in quattro e quattr’otto? Non è possibile. Se vuoi fare due chiacchiere, sarebbe meglio tornare a casa tua. Se qualcuno ti vedesse parlare con una mosca potrebbe prenderti per pazzo e io ci tengo alla tua reputazione». Non gli restava che assecondare quell’insetto infernale. Tornò alla macchina, questa volta senza correre, e si diresse di nuovo verso casa. Quel demonio era sempre lì, al suo fianco. In quel momento, stranamente, smise di aver paura. La curiosità di scoprire cos’era quel mostriciattolo si stava facendo strada nella sua testa; dimenticò i timori e il terrore che aveva provato poco prima. Se quello scherzo della natura avesse voluto fargli del male, lo avrebbe già fatto: cosa voleva da lui? Questa era solo una delle tante domande che stavano affollando la sua mente. Così, senza nemmeno accorgersene, arrivò nel suo appartamento, seguito dall’ormai inseparabile insetto parlante che, per prima cosa, si andò a posare sulla frutta in bella mostra sul frigorifero in cucina. Pino si sedette sul divano in soggiorno e aspettò
pazientemente che quell’essere si degnasse di spiegargli cosa stava succedendo nella sua vita. Dopo un paio di minuti il mostriciattolo ritornò, si appoggiò al bordo della poltrona di fronte al divano dove era seduto e iniziò a parlare. «Il mio nome è Johnny e sono morto da un mese».
CAPITOLO 6
«Il mio nome è Johnny e sono morto da un mese». Pino non credeva ai suoi occhi. Quell’insetto di fronte a lui parlava, ma la cosa che più lo sorprendeva era il modo in cui lo faceva. Quel mostro mezzo mosca e mezzo non-so-che-cosa parlava come un uomo. Non solo, la sua voce era chiara, limpida e forte, e il lessico e la sintassi impiegati appartenevano al bagaglio culturale di una persona istruita. Lo stupore che all’inizio manifestò nei confronti di questo fenomeno da baraccone gli impedì per qualche minuto di seguire il suo racconto. Senza rendersene conto, chiese a quella cosa: «Scusa, puoi ricominciare da capo?» L’insetto sembrò indispettito, come se da quel discorso dipendessero le sorti del mondo, ma dopo un lungo sospiro, riprese da capo. «Il mio nome è Johnny e sono morto da un mese. Ho trentadue anni e sono un insegnante d’educazione fisica del liceo. Forse dovrei dire ero; ma non mi sono ancora abituato alla situazione. Comunque, un mese fa stavo ritornando da una partita di pallavolo con un gruppo di ragazzi che alleno quando, dopo averli accompagnati tutti a casa, ho perso il controllo del pulmino che guidavo e sono finito contro un albero. Questo è tutto quello che mi ricordo». «Mi dispiace. Scusa se però mi permetto di chiederti cosa ti è successo… voglio dire, perché ora hai quest’aspetto?». Pino pensava di essere impazzito: stava dialogando con una mosca di trentadue anni e di nome Johnny, ma i suoi pensieri furono di nuovo interrotti dalla risposta dell’insetto. «A dir la verità non lo so. Non ricordo più niente di quello che è successo dopo l’incidente. Mi sembra di aver dormito per settimane; poi, tutto a un tratto, mi sono svegliato, ho aperto gli occhi ed ero sdraiato con un completo scuro, quello della laurea suppongo, dentro a una bara. Ero nell’appartamento dei miei genitori, tutti i miei cari intorno a me piangevano, è stata una scena orribile; solo in quel momento ho rea-
lizzato di essere morto in quel maledetto incidente. Ma se ero veramente morto cosa ci facevo lì? Com’era possibile che riuscissi a vederli e sentirli? Il mio primo impulso è stato quello di urlare, mi ero accorto di possedere ancora la voce, di dire a tutti che ero vivo, ero lì con loro: ma gli avrei mentito, perché non era vero. La mia anima, la mia mente, il mio essere, o in qualunque modo tu lo voglia chiamare, era sì lì con loro; ma Johnny, il Johnny che avevano amato, e a volte odiato no, quello non c’era più. Allora cos’ero diventato? Un angelo, uno spirito celeste che doveva porgergli l’ultimo saluto? No, non ero niente di così nobile e bello. Prima di tutto emettevo un rumore strano, una specie di ronzio, causato dallo sbattimento di due paia di ali trasparenti che vedevo agitarsi intorno a me; poi, non riuscivo a stare fermo, sentivo l’esigenza di muovermi in continuazione, appoggiandomi di tanto in tanto su qualsiasi cosa. Infine, mi accorsi di possedere sei zampe e una piccola bocca simile a una proboscide, che si allargava nell’estremità inferiore. Finalmente capitai davanti a una cornice d’argento, che conteneva una foto di mia madre e riuscii a specchiarmi nel vetro. Non ci volevo credere, ero uno schifosissimo insetto, uno dei più fastidiosi, dei più insulsi e inutili, ero una mosca». Pino era sconvolto. Era diventato il protagonista di un B-movie fantascientifico, uno di quelli che trasmettevano la sera tardi in televisione. Era lì nel tinello di casa sua che discuteva con una mosca della sua vita precedente, cose da matti. Ma perché proprio a lui? Senza neanche accorgersene ripeté questa domanda ad alta voce. «Perché proprio a me?» «Esatto» rispose la mosca «questo è esattamente quello che ho pensato: perché proprio a me? Perché mi ero trasformato in un essere fastidioso e antipatico e non in un angelo bello e biondo come si vede nei film? Perché non ero del tutto morto, voglio dire, perché ero in grado di vedere e sentire le persone che mi stavano accanto e di ricordarmi tutti gli avvenimenti della mia breve esistenza? Forse, ero lì per dare un ultimo saluto alle persone che amavo? Questa fu la prima spiegazione che mi diedi, ma non me ne andai nemmeno dopo essermi posato sulla spalla di ognuna di loro. Niente cono di luce o canto celestiale, ero ancora lì e per di più sotto forma di mosca». Aveva bisogno di bere, sentiva un bisogno irrefrenabile di bere. Si alzo dalla poltrona e andò verso la vetrinetta dove custodiva un paio
di bottiglie di liquori. Una era il Mirto che un suo collega gli aveva portato l’estate scorsa dalla Sardegna, l’altra una bottiglia di Nocino fatto in casa da un suo amico del Bar. Prese la bottiglia di Nocino, un bicchiere e ritornò a sedersi in poltrona, dove la mosca adagiata sul bracciolo lo aspettava. Il primo bicchierino lo mandò giù tutto d’un colpo, il secondo invece lo sorseggiò con calma mentre l’essere riprendeva il racconto. «Verso la fine della cerimonia funebre iniziai a formulare qualche ipotesi sul perché mi era successa una cosa del genere. Innanzi tutto, pensai che se mi trovavo ancora in questo mondo doveva esserci una ragione, avevo avuto un incidente e poteva esserci stato uno sbaglio. Mi ricordavo di quel film con Warren Beatty dove il suo personaggio moriva per errore, in un incidente stradale; per rimediare allo sbaglio compiuto era rispedito sulla terra e si ritrovava nel primo corpo disponibile, in attesa che se ne liberasse uno più idoneo. Il punto è: perché Warren Beatty era finito nel corpo di un milionario, bello e giovane e io in quello di una mosca? Questo doveva essere l’iter, voglio dire che, forse, dopo la morte non ci trasformiamo in angeli o spiriti ma in insetti, in miseri e piccoli insetti. Per esempio, se ti sei comportato bene con il prossimo, hai un’anima e un cuore puro, puoi diventare una splendida e elegante farfalla, amata e ammirata da tutti; se invece hai passato la vita a far del male alle persone che hai incontrato sul tuo cammino, be’, sarai destinato a diventare uno degli insetti più odiati e maltrattati della specie, un vampiro in miniatura perennemente in pericolo di vita e per cui l’uomo inventa in continuazione nuove torture ed esecuzioni: diventerai una zanzara. C’è chi lo chiama karma e chi reincarnazione, ma quello che mi è successo, in qualunque modo tu lo voglia chiamare, credo indichi che in fondo ero una brava persona, altrimenti a quest’ora il mio pungiglione sarebbe immerso nella tua soffice carne!» Ormai Pino era al quinto bicchiere di Nocino e quel dialogo con la mosca umana non lo infastidiva più. Anzi, aveva iniziato a fantasticare di un mondo popolato d’insetti che vivevano un’esistenza umana. Si immaginava vespe in giacca e cravatta che lavoravano in ufficio, bruchi che portavano le larve a scuola e termiti in pigiama davanti alla televisione. Lui cosa sarebbe stato? Forse una semplice formica, come ce ne sono tante; oppure una simpatica e innocua coc-
cinella, un po’ rotondetta, ma piena di colori. Intanto la mosca continuava a ronzare. «Lasciando perdere il discorso sugli insetti, c’era ancora una domanda importante a cui non riuscivo a trovare una risposta: perché ero proprio lì, al mio funerale? Non poteva essere uno scherzo macabro. Poi mi ritornò in mente il film con Warren Beatty. Il milionario di cui aveva preso l’identità si trovava in pericolo di vita, qualcuno lo voleva uccidere. Ripensai alla mia morte. C’era la possibilità che il mio non fosse stato un vero incidente, qualcuno aveva cercato di ammazzarmi e c’era riuscito, facendolo sembrare una disgrazia. Ero rimasto sulla terra per indagare sul mio omicidio. Non c’era altra spiegazione. Ormai ne sono convinto, finché non scoprirò la verità sulla mia morte sarò condannato a vivere sulla terra in questo stato». Sì, omicidio a Insettiville, un nuovo caso per l’ispettore Pino Nocino! Divertente, ma si era iniziato a far tardi, la testa gli girava un po’ e gli occhi gli si chiudevano. Pino non ebbe nemmeno il tempo di alzarsi per andare a letto, che sprofondò nella poltrona in un sonno rumoroso. La mosca, un po’ offesa, smise di parlare; poi si accorse di aver esagerato, troppe emozioni in una volta per un uomo che non sembrava solitamente viverne tante. Domani si sarebbe scusata, riprendendo il suo racconto dove era stata costretta ad interromperlo. FINE ANTEPRIMA CONTINUA...
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