In uscita il 31/10/2016 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine novembre e inizio dicembre 2016 ( ,99 euro)
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ANDREA GABELLINI
TROVERAI DI ME OLTRE LA LUCE
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TROVERAI DI ME OLTRE LA LUCE Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-036-8 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Ottobre 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Alla mia “Serenè”
L'unico modo per evitare di essere depressi è non avere abbastanza tempo libero per domandarsi se si è felici o no George Bernard Shaw
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PROLOGO
Inevitabile: da casa Tabucchi si usciva di malavoglia e sempre troppo presto. Era, a pensarci bene, come svegliarsi da un sogno. Ma non uno qualsiasi, no di certo, quello ce lo saremmo scordato subito. Bensì un sogno dal copione perfetto, dove tutto, per una volta, scorreva nella direzione giusta. Non ne avremmo cambiato nemmeno una virgola. E invece? E invece, senza alcun preavviso, ci ritroviamo con gli occhi spalancati: il gioco è finito, game-over, sbattuti fuori. Stringere le palpebre nel tentativo di riacciuffarlo? Autoipnosi? No, non tornerà, statene certi, non subito almeno. Il suono del ticchettio dell’orologio sul comodino e le lusinghe di un ricordo, altro non ci resta. Ma ce lo dobbiamo far bastare. Perché in fondo, i colori, i suoni, e i profumi che ci hanno fatto compagnia in quel rapido movimento degli occhi sono ancora tutti lì, nella nostra testa. Già, i profumi. Chissà perché, quelli non si dimenticano proprio mai. Li crediamo perduti, scalzati da questioni più urgenti, o affogati nel gorgo delle banalità. Ma basta un respiro, un singolo fugace respiro, ed ecco che riappare un volto, un vecchio album di figurine, una via, un bar, una sbronza, o il giorno in cui abbiamo fatto l’amore la prima volta. Oppure capita di ricordare una casa. Come quella dei Tabucchi, per esempio, un’erboristeria più che un appartamento. Violetta, limone, tiglio, gelsomino, e bergamotto, geranio, timo, rosmarino. Solo un olfatto ben educato sarebbe stato in grado di distinguere quella miscela invisibile che si liberava dai diffusori a parete saturando gli ambienti senza alcun pudore. I più
8 nemmeno si rendevano conto di esserne stati cosparsi e se la portavano nelle proprie abitazioni a loro insaputa, appiccicata a pelle e vestiti come il sentore d’ascensore. L’essenza di agrumi allietava la camera matrimoniale, le note dolci dei fiori o quelle più aspre delle foglie si spartivano la sala da pranzo e la cucina, mentre il salotto era il regno delle resine e delle spezie. Testa, cuore e terra o, se volete, ragione, sentimento e materia. Ma era sufficiente l’aprirsi di una porta o un refolo d’aria proveniente da una finestra aperta perché tutto si mescolasse, stravolgendo quel precario equilibrio. Il raziocinio cedeva alla passione, questa alla sostanza, la quale finiva per sottomettersi a entrambi. Oppure accadeva l’esatto contrario. Era come una locanda di paese, Casa Tabucchi. Una di quelle scovate per caso durante un viaggio senza meta e nella quale si decide di tornare non appena possibile; con l’illusione che il posto preferito sul divano sia sempre stato vuoto, in attesa del legittimo occupante. Il loro, di sofà, lo chiamavano “il mostro” e occupava per intero due lati della sala. Con quel color albicocca pareva un’enorme chela di granchio pronta a chiudersi in una soffice morsa. Davanti, un piccolo tavolino di vetro che pareva una conchiglia - perfetto dunque per far compagnia a un crostaceo- e sul quale comparivano tazzine e bicchieri colorati accompagnati da biscotti e salatini di ogni tipo. Stuzzichini che nella loro dispensa sembravano generarsi spontaneamente per poi disporsi in rigoroso ordine di scadenza. Tutti in fila, diligenti come soldati nelle loro camerate in attesa di essere passati in rassegna. Quell’ispezione, compiuta a cadenza settimanale, era una delle norme che i due coniugi si erano dati fin dal giorno del loro matrimonio. Più precisamente la numero dodici delle cinquanta vergate a mano ed elencate, per l’appunto, nel loro “Quaderno delle regole” Regola XII: mai servire cibi avariati agli ospiti; alto rischio di “espulsioni” non desiderate (P.S. specialmente da quando avremo il divano nuovo). Gli alcolici dimoravano pazienti nel mobile bar, nell’angolo antistante a quello presidiato dal mostro. Un residuato degli anni cin-
9 quanta che Loris aveva rimesso a nuovo per farne il regalo di matrimonio a un amico piuttosto incline a bevute impegnative. Ma fu in seguito a una di esse, consumata, bontà sua, con la donna sbagliata, che quel matrimonio era saltato. Il suo improvvisato restauratore li tolse, il mobile e l’adultero in visita di penitenza, dallo sguardo di Cinzia prima che questa chiamasse i facchini con lo scopo di far piazza pulita di entrambi. Il primo, dopo aver accumulato polvere e imprecazioni nel garage, trovò infine collocazione accanto alla libreria, di fabbricazione più recente ma ridotta assai peggio. Il secondo divenne, suo malgrado, merce di scambio: “O lui o il tuo mobile”. Non lo rividero più. Su quell’oasi diversamente odorosa Cinzia aveva piantato bandiera un quarto di secolo addietro dopo aver coinvolto nella ricerca mezzo paese, turisti compresi. Perché rivolgersi alle agenzie immobiliari era, nell’ordine, noioso, avvilente, inutile e, ancor di più, maledettamente tradizionale. Ogni sera, immancabile, arrivava il resoconto delle sue “investigazioni”. Modello e colore della macchina tallonata, il tono di voce di chi le aveva dato una soffiata, quel posacenere maleodorante di mozziconi proprio davanti alla porta dell’appartamento in vendita: nulla le sfuggiva. Loris assisteva a quello sciorinare confuso annuendo o inarcando le sopracciglia, tra smorfie accondiscendenti e gesti di approvazione. Cercando insomma di camuffare come meglio poteva il suo scarso interesse. I suoi timidi tentativi di aiutarla erano stati del resto sempre rispediti al mittente: appartamento troppo vicino o troppo lontano dal centro (“ci vuole una via di mezzo!”), mancanza di parcheggi (“la macchina mica posso sempre metterla nel garage”), ampia scelta di parcheggi (“brutto segno, zona depressa”), primo piano (“niente da fare, e se chi ci abita sopra mette gli zoccoli?”), attico (“ma sai quanto spenderemmo di condominio!”). Si era infine arreso, lasciando volentieri quell’incombenza alla futura moglie. L’imbeccata giusta le arrivò durante una lavata di testa. Letteralmente. Lasciata una discreta mancia alla shampista, Cinzia passò all’azione la sera stessa. Ubicato dove doveva, spazioso quanto basta, sicuramente silenzioso (“Proprio come vuole Loris”), occorreva solo “lavorarsi”i due anziani in procinto di trasferirsi a Bologna.
10 Due settimane dopo si presentò al marito mostrando baldanzosa una prima bozza di contratto. Lui tornò a essere parte attiva in quell’”affaire” solo al momento di siglare il rogito e un paio d’assegni estratti dal portafoglio con le movenze di un automa. Comprarono muri, soffitto, pavimento e tutto ciò che vi era racchiuso. Per cambiare l’arredamento ci sarebbe stato tempo e Cinzia ebbe fin da subito idee chiare in merito. Tanto da farne una regola ufficiale: Regola XVI: la scelta dell’arredamento sarà collegiale; in caso di mancato accordo l’ultima parola spetterà a chi a colei che ha trovato casa. E così fu. Mobili, quadri, lampade da tavolo, persino i vasi delle piante, davano l’idea di essere stati comprati e collocati dopo una ponderata e sofferta decisione; compreso il mobile bar, sebbene fosse costato l’esilio di un amico di lunga data. Quanto alle saltuarie rimostranze di Loris circa il vivere in un retrobottega di un ristorante a Bombay, ebbene non riuscirono mai a scalfire le convinzioni di Cinzia. Le era sufficiente la minaccia di un nuovo comandamento nel Quaderno per ricacciare indietro quelle insinuazioni. A Loris non restava che una sana boccata di smog, in terrazza. Si affacciava questa sulla piazza antistante il tribunale, giusto all’imbocco della via principale, dove il via vai di macchine scorreva lento tra vetrine infiocchettate e parcheggi in seconda fila. Quel paese era, e tuttora è, Porretta terme, o Purrata per dirla nella maniera dei locali. Poco più di tremila anime in tribolazione circondate da montagne all’apparenza gentili, ma da maneggiare con la dovuta attenzione. Così come i loro abitanti. Cinzia e Loris, come vedrete, ne erano più che degni rappresentanti.
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Casa Tabucchi aveva un unico difetto: i muri perimetrali. Non che fossero storti o crepati, tuttavia un perito avrebbe avuto più di una rimostranza riguardo l’isolamento acustico. Voci e suoni provenienti dagli appartamenti adiacenti si insinuavano sfrontati come l’odore di fritto quando si ha la certezza di non essere invitati a cena. Una sequela quasi senza pause di pianti fanciulleschi, applausi affettati di programmi televisivi, borbottii di elettrodomestici e scambi di vedute non sempre molto garbati. Non per ultimi, in ordine di intensità e se si fosse stati nel bagno di servizio alle prime ore del mattino, anche ansimanti sospiri di piacere intervallati da frasi inverosimili e di dubbia moralità. Latrati che aumentavano e diminuivano di volume, nonché di lascivia, a seconda del ritmo con il quale la spalliera del letto percuoteva il muro di confine. Non c’era volta in cui Loris, rimuginando sulle parole di sua moglie “e poi sentirai, un appartamento silenziosissimo”, non si lavasse i denti seguendo la cadenza sincopata di quei colpi. Spazzolino brandito a mo’ di bacchetta, si compiaceva, mimando il gesto finale del direttore d’orchestra, ogni qualvolta il gemito conclusivo, quello più libidinoso, esplodeva prepotente. Terminato il concerto al posto degli applausi arrivava lo scarico dello sciacquone. Quella mattina, in soggiorno, fu invece il pianto dell’inevitabile conseguenza di quelle percussioni a tenergli compagnia mentre aspettava che sua moglie sbrigasse il “restauro”. Seduto sul divano ascoltava quel disco rotto giochicchiando con un pacchetto di sigarette. Lo aveva osservato qualche minuto sul tavolino di vetro prima di iniziare a farlo volteggiare da una mano all’altra, gettandolo in aria sempre più in alto. Mezzora prima il vecchio Lorenzo lo aveva squadrato dubbioso come se lo era visto puntato davanti.
12 «Beh? Ti sei messo a fumare?». «Ti sembra che stia fumando? Per adesso le ho solo comprate, anzi starei cercando di farlo. Per provarle c’è tempo». «Ci sarebbero pure quelle light» e il bancone si era gremito di un’accozzaglia colorata di sigle e stemmi. «Guarda che non c’è bisogno che tu me le faccia vedere tutt...». «Leggi qui: donna incinta, il fumo fa male al tuo bambino. Che mi dici?». «Che se gli uomini fossero tutti belli come te sarei ancora vergine. Ma, fammi capire, hai smesso di fare il tabaccaio e ti sei messo a fare il salutista proprio con me?». «Ho pure quelle elettroniche, vanno di moda di questi tempi; si illudono che tenga a bada il vizio ma poi tornano a fumare come prima. A tal deg me». «Ecco, così mi toglieresti anche la soddisfazione di iniziare oltre quella di smettere. Van bene quelle, Lorenzo, e aggiungi questo». Copia del Gazzettino sotto braccio aveva assistito spazientito alla conta del resto prima di salutare tirandosi dietro la porta. Con lo scetticismo di Lorenzo incollato sulle spalle si era voltato in entrambe le direzioni come per controllare che non fosse stato visto. Confortato dal marciapiede ancora deserto, tranne un gatto in cerca di compagnia, aveva dato una veloce sbirciata al cielo prima di prendere la via di casa a colpi di sbadigli. Si era svegliato all’alba quella mattina, un colpo deciso sulla radiosveglia aveva messo fine al bofonchiare di ascendenti e segni zodiacali. Con gli occhi semiaperti aveva indugiato sull’intensità della luce che filtrava dalle tapparelle con l’intento di indovinare le condizioni meteo. “Pioggia anche oggi, manco fosse autunno!”. Si era girato sul fianco opposto alla finestra sicuro che sarebbe andata così. Cinzia invece, ancor prima del buongiorno “con bacio”, aveva riattaccato la reprimenda che durava da settimane. «Mica puoi passare tutto il giorno a bighellonare per casa. Trovati qualcosa da fare che non sia startene disteso sul divano a leggere quei tuoi libri. Ti rimbecilliscono più di quanto non sembri già!». «Cos’hai contro i libri?».
13 «Niente, se tu potessi farne a meno ogni tanto. Fai come gli altri tuoi amici, vai al bar…». «Ma se non vuoi che beva?». «…oppure guardati un po’ di televisione al circolino. Sai che ci sono canali pensati a tavolino per voi fanatici del Tenente Colombo?». Loris aveva digrignato un laconico “Ok, ricevuto” ed era uscito senza nemmeno fare colazione. La sua sarebbe dunque dovuta essere una passeggiata di un’oretta o poco più, lungo il fiume fino al parco giochi, ma, alla vista della tabaccheria di Lorenzo con le serrande già alzate, quei due passi si erano conclusi prima ancora di iniziare. «Già di ritorno? Scampagnata finita?» gli fece Cinzia come lo vide sull’uscio di casa intento a riporre la giacca nell’attaccapanni. «Minaccia pioggia». Cinzia aggrottò la fronte e non commentò. Tipico di Loris uscirsene con risposte secche quando voleva evitare un argomento. Per cui non era il caso di insistere. Ancora in vestaglia si diresse in camera per rinnovare l’aria: una nuvoletta innocua si stagliava in cielo opponendosi timida a un sole già caldo. «Si avvicina un bel temporale, già!». Lasciò le ante aperte e si rifugiò nella sacralità del bagno grande. Il suo bagno. Un santuario della cosmesi nel quale suo marito metteva piede solo per porgerle l’accappatoio dopo la doccia. Nonostante i cinquant’anni ancora riusciva a far cinguettare gli occhi degli uomini al suo passaggio, sbarbatelli foruncolosi compresi. Lei nemmeno si voltava, il solo pensiero di quelle attenzioni le era sufficiente, e si godeva quegli istanti ancheggiando pericolosamente sui suoi trampoli. La consapevolezza di non esser più “un’erba di Maggio” arrivava solo davanti al lavandino, sul quale costosi vasetti variopinti si litigavano il poco spazio rimasto. Con gli anni si era vista costretta ad anticipare l’ora della sveglia in modo da avere tutto il tempo necessario per spalmarsi i suoi unguenti rigeneranti. Dopo quasi un’ora si presentò al marito liscia come una bambola di porcellana. «Io vado in negozio, ci vediamo per pranzo. Pensi di startene qui o deciderai di affrontare l’acquazzone?».
14 «Resto, esco, non so. Forse resto, sì ho deciso che starò in casa; ma sì, leggerò un po’». «Bravo, un po’ di cultura non fa mai male. Se poi riesci a trasformare in libreria lo scatolone che abbiamo in sala troverai anche dove metterli, tutti quei libri. Dammi un bacio va». Si abbassò verso il marito agganciando i pollici nei pantaloni di lui, come per sorreggersi. «Tacco dodici cara?». «Ma che domande mi fai?». «Solo per illudermi che senza saresti alta come me». Lei lo zittì con un bacio, ricevendo in cambio una decisa palpata al sedere. «Non fare il maialino, proprio ora che devo uscire» sussurrò con vocina da gatta. «E soprattutto vedi di lasciare chiuso quel pacchetto che ho visto in salotto, non vorrai mica iniziare a fumare alla tua età!». «Può essere che al tuo ritorno lo troverai chiuso, come può succedere che lo troverai aperto, e più leggero; ma stai tranquilla, in fondo non ho più il tempo materiale per farmi venire un tumore ai polmoni». «Sei sempre il solito, ma non dire così che non mi piace. A dopo». «A più tardi Babby e sii gentile almeno con i clienti mi raccomando». «Continua pure a darmi della “babbiona”, ma non sono io la più vecchia in famiglia». «Ok, siamo dei babbioni tutti e due!». «A più tardi sciocchino». Loris raccolse un bacio al volo e chiuse la porta per lei. Dopo aver squadrato la maniglia per qualche secondo tornò in soggiorno. Uno scatolone enorme occupava quasi per intero lo spazio tra la conchiglia di vetro e la vecchia libreria. Prima di affrontare il suo contenuto doveva però decidere cosa fare di quel pacchetto da dieci. Decise di riporlo sopra la credenza in cucina: «Tu te ne resti qui. Vedrò cosa fare di te più tardi». Pronunciò queste parole con il tono del gangster alle prese con un ostaggio rapito alla conclusione di un colpo in banca. Sorrise. Il suo emiliano imbastardito non aiutava certo a renderlo credibile come
15 fuorilegge yankee. Si sfilò il portafogli di tasca e ne estrasse una fotografia: Charles Bronson lo fissò solenne e con aria interrogativa. Loris gonfiò le guance ed espulse l’aria lentamente. Quei baffoni folti e austeri li aveva avuti anche lui una volta e chissà che fine aveva fatto quella giacca di pelle scamosciata. Se l’era comprata al mercato della Piazzola, a Bologna, e l’aveva pagata pure cara, contrattando sul prezzo fino allo sfinimento. Uno sconto del cinque per cento e un paio di jeans a zampa di elefante a sole tremila lire: più di questo non era riuscito a ottenere. A Cinzia invece erano bastati cinque minuti per far fuori quei calzoni e ancor meno per convincerlo a radersi. “Puoi fare il giustiziere anche con il viso pulito, e vestito a modo”. Gettò un ultimo sguardo al pacchetto. Bronson ne avrebbe accesa una per poi tuffarsi in una delle sue avventure. Beato lui che avrebbe potuto. Si domandò se sarebbe mai riuscito a risolvere la sua di situazione, che intricata senza dubbio non era, tutt’altro, ma dalla quale sperava di saltar fuori il prima possibile. Non trovando risposta si volse verso la piccola e consumata libreria, uno dei primi mobili che avevano acquistato. Era stracolma di libri. Piegò il capo perpendicolarmente alle loro costole e i suoi occhi scivolarono liquidi su titoli e autori. Pratolini, Pasolini, Pirandello, Proust: il quinto scaffale, quello della lettera P, era il suo preferito. Era stata la sua prima fidanzata, fanatica divoratrice di classici e di lettori, a convincerlo a mollare le avventure di Tex e Zagor. Temendo ritorsioni o particolari astinenze, Loris aveva dilapidato le sue striminzite paghette preferendo le librerie alle edicole e, di conseguenza, le vicende di Via del Corno a quelle consumate nei polverosi deserti del Texas. Lei dopo qualche mese lo aveva piantato per un rockettaro capellone e a Loris non era restato che affogare il dispiacere perdendosi in quei tomi ingombranti. Allungò un braccio e con un dito testò la patina di polvere posata su uno di quei volumi. Si guardò il polpastrello ingrigito, prese il libro e ne fissò la copertina disadorna. Gli ricordava Cinzia. Il giorno che la conobbe, in un bar sotto i portici di una Bologna che non esiste più, erano entrambi accompagnati, lei da un ragazzo altissimo e dal fisico atletico, lui da sua cugina Sabrina. «Quella moretta non ti ha staccato gli occhi di dosso da quando siamo arrivati, caro il mio cuginetto che non riesce invece a farlo con il
16 suo libro» gli aveva bisbigliato battendo le nocche sul tavolino «te ne sei accorto?». Unica reazione, un’occhiata in tralice e un gomito piegato, quello che fino ad allora gli era servito per sorreggere il suo libro. A un nuovo tamburellare di dita, Loris aveva seguito lo sguardo di Sabrina socchiudendo le palpebre per mettere a fuoco. Una figura curvilinea poco distante da lui si agitava, o per lo meno così pareva, nel pieno di un’accesa discussione. In effetti di tanto in tanto sembrava guardarlo. «Mi avrà scambiato per qualcun altro. Non sono il tipo da sventole come quella». «Come darti torto, però guarda, si è alzata e sta venendo qua». «Posso sedermi con voi?». L’abbondante quarta di seno di Cinzia, in piedi davanti a lui, torreggiava altezzosa facendolo apparire ancora più minuto. «Prego si segga pure» era intervenuta Sabrina ammiccando verso Loris «e mi scuso per mio cugino, quando attacca a leggere non si accorge di niente, o quasi…». Quel quasi le era uscito con un sorriso a metà fra il malizioso e lo stizzito. Loris sembrava ipnotizzato dal decolleté della nuova arrivata. «Dunque avevo immaginato bene, non siete una coppia. Io mi chiamo Cinzia, piacere». Vedendosi porgere la mano, Loris aveva ricambiato il gesto riponendo goffamente il libro sul tavolino. Al contatto con quella di lei, dalla presa appena percepibile, aveva dovuto reprimere la forza della sua stretta. «Vi sarò sembrata sgarbata, ma non sapevo come fare. Vedete il tizio alto e biondo che ti sta osservando dall’altro lato della strada?». Sabrina si era voltata alla sua sinistra con l’assoluta certezza che quel “ti sta osservando” non fosse riferito a lei. Quel ragazzo muscoloso appoggiato sul cofano di un’auto stava puntando Loris con aria severa. «Lo vedo bene, un gran pezzo di…». «Stronzo!» aveva continuato per lei Cinzia. «Bé, a dire il vero avevo in mente ben altro».
17 «Io no. Ci siamo, anzi, mi correggo, l’ho appena lasciato. Dopo un anno preciso che uscivamo insieme. Già, pure io la prima volta che l’ho visto mi son detta: “Socc’mel che fico!”». «Per l’appunto». «Ricorda un po’ il cantante di quel gruppo, come si chiamano… un nome che sembra una risata». «Gli A-Ha?». «Proprio loro! Si direbbero fratelli vero?». Cinzia aveva preso a ridere di gusto prima di spegnersi d’improvviso e assumere un’espressione pensierosa rivolta ai suoi tacchi. «Mi ha chiesto di sposarlo» aveva continuato accavallando le gambe lunghe come una portaerei. Poi, con un cenno al cameriere e uno alla tazzina di Loris: «Uno anche per me grazie, macchiato, macchiato freddo, in vetro. Il caffè però caldo, molto caldo, solo il latte deve essere freddo, ma non di frigo». La curiosità di Loris si era spostata dal seno alla bocca di quella strana ragazza: sembrava fatta per parlare, e non solo. Decise, stupendosene subito dopo, di incalzarla. «Scusami se te lo dico, ma questa cosa è un po’ bizzarra. Lui ti chiede in moglie e tu che fai? Te ne vai per sedere accanto a due emeriti sconosciuti. A proposito, vediamo di esserlo un po’ meno va: io mi chiamo Loris, lei è Sabrina, della nostra parentela sai già». «Molto lieta! La proposta in realtà me l’ha fatta ieri, ma la decisione la pretendeva per oggi. E provate a indovinare dove ha intenzione di andare a vivere?». «Siamo tutt’orecchi…». «Da qualche parte in Scandinavia! Io lassù a quel freddo non ci vado, se lo può scordare. Così oggi sono venuta all’appuntamento con la sentenza già in tasca». «In effetti quei posti non sono certo dietro l’angolo». «Già! Ma lui non ha voluto sentir ragioni, quindi, per tagliar corto, visto che mi scrutavi da dietro il tuo libro…». «…». «…ho pensato bene di dirgli che “il mio ex ragazzo è seduto là, con sua sorella. Abbiamo deciso di tornare insieme”. Ed eccomi qui!».
18 «Io cosa? Ti scrutavo? Ma dico stai scherzando?» l’aveva apostrofata Loris afferrando il suo libro come per difendersi da quell’accusa. «Io stavo leggendo altro che scrut…». Lei si era chinata veloce come una pantera e prendendolo per il bavero della camicia l’aveva baciato. La mano di Loris aveva ceduto e il suo improvvisato scudo di carta era volato sulla tazzina ancora piena. Un bacio lungo e dispendioso, almeno per Loris che a quei tempi non era molto allenato nell’esercizio, e vigoroso quanto basta per riuscire a far desistere definitivamente il ragazzo biondo. La loro storia era iniziata così, come in uno zuccheroso romanzo rosa, e lui da quel giorno si era ritrovato spesso a domandarsi come sarebbe stata la sua vita se non avesse accettato l’invito di sua cugina per un caffè. Loris fissò per qualche secondo la macchia ingiallita sul titolo e soppesò il volume. «La Recherche: troppo per oggi, non ce la posso fare». Lo ripose al suo posto. Guardò poi i due ultimi scaffali in alto e le decine di libri poggiati in orizzontale sopra quelli disposti per lungo. Poi esaminò lo scatolone. «Bene, trasformiamo queste assi in una libreria quindi, la cosa più difficile sarà ricordare dove ho messo la cassetta degli arnesi. Questi svedesi dicono che c’è sempre tutto il necessario. Ma io ci credo solo se lo vedo». Dopo qualche secondo schioccò le dita e uscì in terrazza; da un armadietto estrasse una pesante cassetta in metallo che non apriva da anni. Quella mattina dunque l’avrebbe passata giocando con bulloni e cacciaviti, sperando di non imprecare più del solito.
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«Vedo che finalmente abbiamo una nuova libreria». Cinzia era tornata come sempre alle tredici in punto e ancor prima di salutare il marito aveva dato una rapida occhiata al mobile: lì dov’era, nero e solitario, sembrava il monolite di Kubrick. La sua attenzione si era poi rivolta alla cassetta degli arnesi ancora aperta sul tavolino di vetro. Loris stava scolando la pasta fischiettando, la tavola era apparecchiata di tutto punto con un fiasco di rosso al centro della tovaglia azzurra. «Quante te ne sono partite questa volta?». «Un paio!» le urlò Loris dalla cucina. «Siamo sicuri?». «Diciamo qualcuna di più, ma come vedi ci sono riuscito, e poi lo sai, confido sempre nella comprensione divina riguardo i miei intercalari. Ora vieni a mangiare che si raffredda». Cinzia sorrise. Nel suo piatto avrebbe trovato la solita insalata mista con le carote tagliate alla julienne e nient’altro, di certo non si sarebbe potuta freddare più di quanto già non fosse. «Un giorno mi farai pur compagnia con la pasta». Lei non rispose e iniziò a condirsi l’insalata aggiungendo un po’ di sale e un filo d’olio. In casa loro, l’olio durava una vita. «Novità in paese? C’era gente?». «Il solito, pochi, ho venduto solo un piumino. Uno di quelli che ti piacciono tanto». «Per fortuna tua non devono piacere a me. Come si possa solo pensare di vendere un piumino con le maniche corte resta un mistero buffo». «Non è invece un mistero che tu di moda non capisci un’acca, oltretutto abbinandoli con i guanti che coprono le braccia fino al gomito vendo sia gli uni che gli altri».
20 «Non fa una piega». «A proposito di pieghe, ti decidi a svecchiare il tuo guardaroba o continuerai a vestirti come un manichino degli anni ottanta?». «La seconda Babby, la seconda. E se anche mi comprassi qualcosa di nuovo non saprei proprio dove metterla, concordi?». «Giuro che se lo fai, poi libero spazio nel mio armadio!». «Non potrei mai farti questo, mi terrò la mia abbondante mezza anta e la tua gratitudine». «Almeno una camicia sportiva, un paio di jeans a vita bassa?». «Cui prodest? E poi ti toccherebbe metter mano al Quaderno». «Okay, discorso chiuso. Mi tengo l’armadio e ti lascio divertire con le tue frasi in Latino». Regola XIV: la suddivisione dell’armadio sarà decisa a cadenza annuale in base all’attività lavorativa e sociale. Finirono di pranzare e lei lo aiutò a lavare i piatti. Il caffè lo bevvero, come al solito, nel soggiorno. La televisione sintonizzata sul TG regionale parlava dei fatti di cronaca del giorno prima. «Ancora uno sciopero dei treni, questo non è un paese per pendolari» sentenziò Loris severo. «Non è più un tuo problema dico bene?». Loris mugugnò qualcosa e volse lo sguardo verso la libreria. Lei comprese che era meglio cambiare discorso. Quell’argomento non era ancora affrontabile. «Dove la mettiamo?». «Dove la vuoi mettere, di fianco all’altra direi. C’è spazio a sufficienza». Cinzia assentì poco convinta; la sola idea di vedere quei due mobili l’uno accanto all’altro le dava ansia e quello bar era l’unica eccezione che aveva tollerato. Il monolite prima o poi sarebbe finito nell’ingresso che portava alle camere, come da suoi piani. Tuttavia preferì non controbattere, il tempo sarebbe stato galantuomo. Con lei lo era sempre. «La cassetta degli arnesi sul tavolo di vetro non è stata una gran bella idea» commentò dopo che lui si era alzato per portare le tazzine in cucina. Lo sentì sbuffare e borbottare qualcosa riguardo certe male-
21 dette regole che non era certo stata idea sua quella di scrivere. Quando fece ritorno Cinzia annuì soddisfatta nel vederlo prendere la cassetta, aprire la finestra che dava sulla terrazza e sistemarla nel mobiletto, il suo personale “capanno degli attrezzi”. Regola XXV: tutto ciò che non fa parte dell’arredamento può sostare nell’appartamento solo per il tempo necessario al suo impiego. Al termine del quale Loris ha l’obbligo di riporlo in terrazza o in garage. «Fatto, contenta ora?». «Senti» mormorò in risposta Cinzia «sei sicuro vero?». «Riguardo a cosa mia cara?». «Ho un ritardo più lungo del solito». Loris le prese un braccio e iniziò a lisciarle l’incavo del gomito. Con Cinzia niente era scontato, ma il più delle volte quell’espediente riusciva a distenderla. «Tutto sotto controllo, ormai sono diventato un asso nella retromarcia». Loris mimò il movimento della mano su di un cambio immaginario: «Stai tranquilla». «E se tornassi a prendere la pillola?». «A te la scelta, basta che poi non mi accusi di aver attentato alla tua linea». «Per non parlare degli sbalzi d’umore». «Cosa cambierebbe scusa?». «Stupido che sei». «Ci sarebbe anche quella scatola ancora piena nel comodino, chissà se sono scaduti a proposito». «Ah no, l’ultima volta ci hai messo dieci minuti nell’operazione». «Quindi? Castità?». Lei abbozzò un sorrisetto poco convinto. «Scusami. Questi pensieri spariranno tra breve, mia sorella già non li ha più e ha solo due anni più di me». Loris la guardò in silenzio. Avevano toccato un tasto dolente, uno dei tanti per i quali la scelta migliore di un uomo è, per quanto possibile, quella di limitare commenti e opinioni preferendone un’attenzione
22 muta ma sincera. Gli baluginarono alla mente le tante volte in cui aveva scorto sua moglie avvolta di malinconia allorché si era trovata ad accudire la nipote. In tutti quegli anni il pensiero di un figlio era stato un loro compagno silente, l’unico argomento per il quale sentivano d’avere la medesima e tacita convinzione di non essere pronti ad affrontare. Adesso che il tempo propizio era passato, quella inascoltata compagnia era per entrambi diventata scomoda e intimamente dolorosa. «Non pensarci. Ti fai una pennichella prima di rientrare in negozio?». «Ci proverò, non ho sonno oggi e poi per colpa tua non faccio che pensare a mia sorella». «Colpa mia?». «Le cose con Matteo non vanno per niente bene». «Hanno smesso di funzionare da quando è nata Nicoletta, c’è ben poco da dire» chiosò Loris. «Ancora con questa tua teoria, quindi vorresti dire che io e te siamo ancora insieme perché senza figli?». «Sto dicendo che la loro crisi è nata poco dopo la nascita di nostra nipote, mi sembra incontestabile. Il resto lo stai deducendo tu e non è detto che io sia d’accordo». Cinzia gli posò una mano sulla bocca e lo baciò sulla guancia. Quando si diresse in camera il marito le dedicò una sentita e poco intonata: «Babby nun fa’ la stupidaaa staseraaa…». «Stupido te». Loris sentì la porta chiudersi e si sdraiò sul mostro. Fissando il soffitto allungò il braccio su un cambio invisibile, ma stavolta innestò una marcia più alta e diede gas con il piede. Cinzia si svegliò intontita più del solito, Loris le portò il terzo e ultimo caffè della giornata e la vide affogarvi dentro una pasticca di dolcificante dietetico. Lo bevve in piedi in un unico sorso. «Si è fatto tardi, mannaggia» imprecò allo specchio dandosi un’ultima pensosa sbirciata al viso. «Hai tutto il tempo invece, sei tu il capo».
23 «A proposito, in realtà una novità ci sarebbe. In paese fanno un gran parlare di Rino». «Rino? Quel Rino?». «Proprio lui, il tuo. Non si fa vedere da una settimana pare, e nessuno sa dove sia finito». Senz’attendere un eventuale commento gli soffiò un bacio restituendogli la tazzina. Loris guardò la porta chiudersi e vi rimase davanti perplesso. «Che avrà combinato quel rintronato stavolta?».
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Quel rintronato si chiamava Rino veramente, ma in paese era meglio conosciuto come “El Chiavador”. Padre campano, madre pistoiese e stessa età di Loris, cinquantatré anni per la precisione, Rino aggiustava macchine, amava la grappa, giocare a carte nei bar e tessere relazioni furtive con il gentil sesso. Con Loris si conoscevano fin da bambini. Cresciuti a San Mommè, sul versante pistoiese della montagna, poco più che adolescenti si erano trasferiti al di là della collina per seguire le loro famiglie. Loris si era diplomato mentre Rino aveva scelto la via delle mani: poco incline a metterle sui libri e ben più propenso a posarle su un carburatore, un culo e due tette. Non sempre in quest’ordine di preferenza. Le donne, come le macchine, le lasciava e riprendeva alla bisogna senza badar troppo se fossero impegnate. Per cui non era raro che la sua officina, oltre che di riparazioni compiute a regola d’arte, fosse teatro di infuocate discussioni con i fidanzati e i mariti delle sue conquiste. Si trattasse di becchi conclamati o solo di presunti tali. C’era pure scappata qualche rissa, che mai però era uscita al di fuori di quelle mura imbrattate d’unto e puzzolenti di gas di scarico. Zuffe che, salvo rari casi, terminavano con Rino senza un graffio e svariate tumefazioni nel viso degli occasionali sfidanti. Ma accadeva perfino che le due fazioni finissero con il diventare amiche. Perché Rino era così: donnaiolo, gran bevitore e rissoso, ma non serbava rancore per nessuno ed era ben voluto da tutti, a lungo andare anche dai cornificati. Loris non lo vedeva da mesi, segno che l’auto non ne aveva avuto bisogno, e Cinzia tantomeno. Le parole della moglie l’avevano pertanto dapprima incuriosito e poi turbato. Piegò il giornale che proprio non riusciva a leggere, “Ma sì, facciamoci due passi in paese”. Di sicuro, vista la notorietà del suo amico, avrebbe raccolto notizie più fresche. La libreria se ne sarebbe stata a
25 far compagnia al tavolino di vetro ancora per un po’: «Vedrò cosa fare di te più tardi». Finse di puntarle una pistola ancora fumante prima di riporla nella fondina, ovvero nella tasca della giacca, e uscì. «El Chiavador?». «Già, te cosa sai? Lo vedevi spesso, anche più di me». Il vecchio Lorenzo infilò le chiavi nella serratura del bandone e con un’energica spinta lo tirò fino in cima producendo un fragoroso sferraglio. Era sulla soglia degli ottanta ma in quanto a forza fisica non aveva nulla da invidiare ai più giovani. Entrò in negozio invitando Loris a seguirlo. «Non molto di più di quello che sai te. Circa un mese fa aveva preso col dire a tutti di non portargli più le macchine, che finiva di aggiustare quelle che aveva e che si sarebbe preso un anno sabbatico per riflettere». «Riflettere?» domandò Loris più a se stesso che all’anziano tabaccaio impegnato ad aprire con il tagliacarte i pacchi di sigarette. «Ha detto proprio cosi, riflettere, ma ci pensi a Rino che riflette? E cosa vorrà poi dire anno sabbatico!». «È un modo di dire, quando per esempio…». «Finite?». «Finite cosa?». «Le sigarette diamine! Te le sei fumate oppure hai deciso di non violentarti i polmoni?». «Sono sulla credenza in cucina. Cinzia le ha viste e a suo modo mi ha intimato di lasciarle lì. A te non ha detto niente di più?». «È un pezzo che non vedo Cinzia e…». «Parlavo di Rino vecchio rimbambito, non di mia moglie!». «Siamo nervosi vedo. Già Rino, lo svitato. Quando sono andato a ritirare la mia vecchia Campagnola… A proposito è tornata ad andare che una meraviglia, sai?». «Ma non mi dire». «Sembra fosse un problema di trasmissione. Ho sostituito le cinghie ed è come nuova. Non ho nemmeno speso tanto, mille euro tra materiali e…».
26 «Lorenzo, per cortesia, torniamo al punto; la Campagnola lo vedo anch’io che è sempre la solita ciofeca di macchina». Loris iniziò a tambureggiare le dita sul bancone, segno che la conversazione doveva continuare in un certo modo o sarebbe finita presto. «Siamo sempre più agitati… dunque dicevo, prima che tu mi interrompessi, che quando sono andato a ritirare la mia sfavillante Campagnola, Rino mi ha accolto come sempre». «Ovvero?». «Grandi sorrisi e pacche sulle spalle, poi un bicchiere della sua grappa. Che altro ti devo dire? A parte quelle parole non mi è sembrato più strano di sempre insomma». Loris si guardò i mocassini auspicandosi di ricavarne risposte più convincenti di quelle che sarebbe riuscito a sortire da Lorenzo. La cosa non lo convinceva. Rino era un tipo particolare, questo era certo, ma la storia del periodo di riflessione faceva fatica a digerirla. Non era uomo da ragionamenti di quel tipo, tutt’altro. L’unico pensiero vagamente intellettuale di cui sembrava disporre era ponderare sui risultati della schedina che con ostinazione continuava a giocare durante le domeniche di campionato. «Visto che oggi sono libero penso che farò un salto in officina, vediamo se riesco a scoprire qualcosa di più, ci vediamo Lorenzo». «I miei rispetti ispettor Tabucchi, porti i miei saluti a sua moglie e mi informi sulle sue investigazioni». Loris non replicò. “Vecchio balordo” si limitò a dire fra sé una volta sul marciapiede. Il tabaccaio invece continuò a sistemare i pacchi di sigarette e bofonchiò qualcosa del tipo: «Ah oggi sarebbe libero… perché in questi ultimi mesi invece?». L’officina era chiusa, questo Loris se l’era aspettato, ciononostante il cartello attaccato al citofono con del nastro adesivo fu comunque una sorpresa: “Chiuso per meditazione”. Se gliel’avessero raccontato non ci avrebbe creduto. Rino che medita su qualcosa era un’immagine che non riusciva a mettere a fuoco. Rino apriva i cofani delle macchine, smontava motori, puliva carburatori, cambiava le candele; e quando usciva dall’officina faceva tardi al bar a disquisire di mac-
27 chine e di donne con gli altri avventori. In compagnia di un bicchiere di rosso, o della sua grappa. Quello era Rino. Pensare all’amico seduto su un tappeto persiano e con le gambe incrociate intento a emettere vocalizzi stile santone indiano lo faceva uscire di testa. “No, qui non ci siamo per niente” iniziò a ripetersi sulla via di casa. “Per niente”. Ci doveva essere qualcosa dietro, per forza. E il fatto che non ne avesse voluto parlare con lui lo impensieriva. Rino era del tutto incapace di prendere decisioni così drastiche. Non senza di lui. Prima di mettersi in proprio, erano stati notti intere a far di conto a casa sua e solo dopo aver avuto la sua assicurazione che la cosa poteva funzionare aveva deciso di rilevare l’officina di Giorgetto. Anche l’idea di avviare la sua seconda attività era stata valutata a lungo. Sebbene quella volta il responso fosse stato negativo. Non perché Loris la considerasse infruttuosa, anzi, considerando il “bacino d’utenza” una distilleria clandestina avrebbe avuto un successo clamoroso. Peccato fosse illegale. Rino ne aveva preso atto a malincuore dirottandosi su una produzione limitata all’uso personale, salvo casi sporadici. Invero più frequenti di quanto Loris avesse consigliato. Scherzo del destino o meno, nel giro di pochi mesi, sembrava si fossero entrambi trovati davanti a un bivio. E avevano scelto la propria via senza coinvolgere l’altro. Rino chissà quale, lui di sicuro aveva preferito quella più comoda, seppur non indolore. Quando, due mesi prima, si era visto consegnare La Lettera le sue mani l’avevano stretta in una presa tremolante. Al suo interno i ringraziamenti a firma dell’amministratore delegato e l’offerta di una discreta somma a titolo di buonuscita. «Valuti bene Tabucchi, uniti alla liquidazione fanno una bella cifra e poi avete anche il negozio». Loris aveva ascoltato in silenzio, sicuro che ormai i giochi fossero già chiusi e che c’era ben poco da valutare. Era diventato un esubero, gli davano il benservito. “Grazie di tutto, ma lei qui è di troppo”, avrebbe preferito sentirsi dire così. «Non sono scelte facili» aveva continuato il giovane direttore del personale, «lo comprenderà, ma lei in fondo ha una situazione meno problematica di altri suoi colleghi».
28 Quella sera ne aveva parlato con Cinzia e insieme avevano convenuto che accettare quella somma e salutare “in amicizia” sarebbe stata la soluzione migliore. Inoltre quella scelta avrebbe forse potuto salvaguardare il mantenimento del posto di lavoro di chi invece ne aveva un disperato bisogno. Loro avrebbero tirato avanti con quella più che robusta liquidazione e, tenendo le dita incrociate, con i guadagni del negozio di Cinzia; nonostante la crisi le cose andavano piuttosto bene. Quando, poco prima della sua ultima timbratura, i suoi colleghi gli avevano dedicato una canzonetta d’addio, Loris aveva portato le mani al petto mimando una stilettata al cuore. In piedi sull’improvvisato palco della sua scrivania aveva salutato tutti con un mezzo inchino ed era uscito con il loro regalo nella tasca della giacca: un buono di cinquecento euro da spendere presso una catena di mobili svedese. Quella dove compri un armadio smontato e poi tocca bestemmiare divinità create sul momento per averlo come nella foto stampata sull’imballaggio. Al suo ritorno Cinzia aveva cercato di tirargli su il morale con un bacio più lungo del solito e una pizza preparata da lei stessa. Il primo era stato di gran lunga il gesto più apprezzato mentre la seconda gli aveva tenuto una gorgogliante compagnia per tutta la notte. Loris era convinto che la loro fosse stata la scelta giusta. Il problema non stava nel farsi mantenere dalla moglie, non sarebbe certo stato il primo e, visti i tempi, nemmeno l’ultimo. Ma come avrebbe trascorso le sue giornate? Ne avevano parlato più volte, e lei gli aveva accennato dell’ipotesi di aiutarla in negozio. Dopo un breve ma significativo silenzio, entrambi avevano accolto con liberazione il suo secco “No grazie, preferisco vivere”. I gusti e le competenze di Loris in fatto di moda erano paragonabili a quelli di Cinzia circa le marcature a zona e i 4-3-3 calcistici. A cena avevano aperto la lettera dei suoi colleghi e lei era esplosa con un “Domani a Casalecchio dunque!” che non aveva ammesso repliche. Il buono si convertì in un enorme scatolone con la foto di una libreria montata alla perfezione. Tale diventò settimane dopo, seppur con qualche imprecazione di troppo. Il Ragionier Tabucchi, per qualcuno novello ispettore, era immerso in questi pensieri quando una figura scura balzò fuori dal cancello del
29 sagrato, in Via Mazzini. Dopo aver seguito Loris per qualche metro, lo fermò tirandolo per un braccio. Con gesto inequivocabile, dopo che questi si era voltato per capire chi l’avesse strattonato, gli fece intendere che aveva bisogno di parlare con lui. «È per via di Rino» furono le prime parole di Don Giulio una volta seduti sotto la navata centrale della chiesa: «Ci sono cose che devi sapere». Il sacerdote proseguì fitto fitto e non la smetteva più. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD