In uscita il 30/9/2016 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine settembre e inizio ottobre 2016 (4,99 euro)
AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.
LUIGI CASAGRANDE
TUTTO RITORNA
www.0111edizioni.com
www.0111edizioni.com
www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/
TUTTO RITORNA Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-028-3 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Settembre 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Â
Alle mie figlie Martina e Sara
Â
Dove son già fatte le strade, io smarrisco il cammino. Nell’oceano immenso, nel cielo azzurro non è traccia di sentiero. La viottola è nascosta dalle ali degli uccelli, dal fulgor delle stelle, dai fiori delle alterne stagioni. E io domando al cuore, se il suo sangue porti seco la conoscenza dell’invisibile via. Rabindrânâth Tagore
Â
Â
PARTE PRIMA
Â
9
Prologo
Quando Michele fu al crocicchio, invece di prendere come al solito nella direzione che conduceva a un passo e di là su per i monti, decise di piegare per dove il sentiero attorniava le colline in un poco impegnativo saliscendi. Passò quindi oltre un vecchio maso in rovina invaso dalle ramaglie e s’inoltrò in un tratto boschivo. Era un terso e lucente mattino di dicembre, non faceva freddo affatto, il sole proiettava framezzo ai rami lampi cristallini, sotto ai suoi scarponcini il terreno battuto risuonava, dal sottobosco provenivano rumori discreti, come qualche animaletto che frugasse tra le foglie secche. Incrociò dei camminatori che gentilmente lo salutarono; si chiedeva spesso come mai in montagna tutti usassero salutare, mentre giù in pianura, o in città, o nei paesi, nessuno salutava se proprio non ti conosceva e anzi sembrava che nemmeno ti notasse. Forse tutti ne hanno troppe per la testa, supponeva Michele, o è la frenesia del mondo moderno, o una certa diffidenza. O magari trovarsi in mezzo alla montagna disabitata fa sentire di più il bisogno del contatto umano. Salutava anch’egli con piacere, ciò rendeva in un certo modo la sua giornata un pochettino più felice. Tra poco sarebbe stato Natale, benché l’inverno ancora stentasse a farsi strada, e anche questo lo rendeva in un certo modo banalmente felice. Gli piaceva vedere la gente che andava in giro per compere o per regali, gli piacevano le vetrine addobbate, le luminarie, quell’aria di festa perenne, quella disposizione gentile verso il prossimo, sebbene la sentisse a volte insincera. Teneva acceso un minimo di religiosità entrando di sfuggita in qualche chiesa deserta per sedersi un poco in silenzio e rivolgere un pensiero al mistero del pargol divino, o a quella stella che attraversò il cielo cambiando il cuore degli uomini, all’umiltà dei pastori e all’annunzio degli angeli, poi usciva e riprendeva l’amena passeggiata, da solo il più delle volte. Camminare da solo, che fosse su per i sentieri o per le vie della città, non gli procurava malinconia; lo rilassava, anzi, camminare senza meta, andare per le strade senza uno scopo, bighellonare, per così dire.
10 L’incuriosiva osservare le opere dell’uomo su questa terra, la natura com’era sopravvissuta alla mano dell’uomo, come si muovevano e comportavano gli uomini in questo scenario. Lo incuriosivano le persone: com’erano stravaganti e come ognuno aveva una sua particolarità. Com’era strana e sorprendente la vita e come offriva innumerevoli spunti. Sorrideva tra sé a questi pensieri, non lo rattristava stare un po’ da solo e poi, se ci faceva caso, c’era sempre una presenza buona che camminava al suo fianco, che lui poteva intuire ma invisibile agli altri. Ma questo era un altro discorso ancora, si diceva, un suo segreto. Del resto aveva le sue compagnie, non molte amicizie ma ben scelte, alcune di vecchia data altre recenti, e anche una donna che incontrava la sera e che sperava fosse quella giusta. L’amore per lui non era mai stato facile se guardava indietro alla vita che aveva vissuto; aveva dovuto impararlo, soffrirlo sulla sua pelle. Chissà perché, si chiedeva, uomini e donne passano la vita a rincorrersi, a cercarsi, e la natura non ha predisposto un codice genetico, o un segno distintivo, per cui quella e soltanto quella è la persona che ci vuole per te e non devi arrovellarti per scegliere o per essere scelto. O forse era proprio quest’incertezza che rendeva affascinante il romanzo di ognuno. Ora però un sentimento, un bisogno, una nostalgia, lo conducevano per quel sentiero. Delle figure lontane nel tempo sembravano chiamarlo, sentiva che doveva tornare, fare quel breve viaggio con passo leggero verso le sue origini, la sua infanzia e la prima gioventù. Uscì perciò dalla macchia d’alberi e si fermò su un poggio scoperto dove si apriva la vista sulla vallata. Sotto di lui c’era un manipolo di case che sembrava sputato sulla terra dall’indifferenza degli dei: quello era Borgo Travaldini, il posto dov’era nato. Ai margini del borgo passava la strada provinciale e il piccolo fiume che lo lambiva per poi andare a perdersi in mezzo alla campagna; poco lontana era la città e si vedeva l’autostrada che prendeva slancio per andare a infilarsi in una galleria, più in là dilagava la pianura che tra case e campanili sfumava nella foschia. Guardando giù, si tirò fuori di tasca un foglietto dove s’era annotati dei versi, sebbene di poesia non s’intendesse, ma questi, reminiscenza di un vecchio libro di scuola, se li era scritti:
11 Ma ei non brama che veder dai tetti Sbalzar della sua dolce Itaca il fumo E dopo che li ebbe letti, guardò il fumo uscire dai camini del borgo sopra i tetti rossi e piano i ricordi presero forma, e nella sua mente si aprivano porte, e il suo pensiero percorreva corridoi, si chinava nei cunicoli, entrava in stanze segrete, stanze dei tesori, camere d’amore o di dolore, strade, finestre, cieli, orizzonti. Si frangevano quelle membrane che occultavano alla sua vista il ricordo e vedeva le scene di un tempo come se quel tempo non fosse mai passato. Gli sfilavano davanti come diapositive le immagini di persone e oggetti, sentiva il rumore delle gomme della sua bici sulla ghiaia, il suono che faceva il pallone rimbalzando sul muro, l’odore dell’erba tagliata sul declivio, la sua mano immersa nell’acqua per sentire la fredda carezza del fiume. Con la memoria andò molto indietro, fino a trenta e più anni prima, in una giornata particolare quando avvennero dei fatti che avrebbero condizionato la sua stessa esistenza futura.
12
Capitolo I
Borgo Travaldini era situato, allora come adesso, ai piedi di una catena di colline dove la valle iniziava ad allargarsi per poi sfociare nella pianura. Si presentava arginato da un alto muro, ma non così alto da non poterlo scavalcare, abbattuto qua e là e lasciato all’incuria già allora, che conteneva un groviglio di case vecchie e strette collegate da stradine e viottoli interrotti solo da portoni sempre aperti che permettevano di entrare in altre diramazioni slargantesi in orti e cortili. Era in pratica un corpo periferico della città, la quale si poteva raggiungere percorrendo la via principale, oppure anche a piedi attraverso le stradine e i sentieri che si articolavano sui pendii. Dalla strada maestra si accedeva al borgo passando sotto a un antico arco di pietra e poi imboccando un passaggio premuto tra alti edifici che a dei bambini potevano sembrare imponenti, ma che erano poco più che normali per chi avesse girato appena un po’ il mondo. Uno di questi edifici, al lato sinistro, era un caseggiato di tre piani, in gran parte rimodernato, che ospitava al pianterreno la trattoria Veravita, con annesso il bar più frequentato della contrada che tutti chiamavano “bar del Menazzo” in onore del proprietario, un gran pancione dalle burbere maniere che si vantava tra l’altro del valore storico della sua casa, attestato, a dir suo, da una targa in marmo incastonata sul muro di facciata, piuttosto lisa però, tanto che non si riusciva a legger niente. A destra invece, si ergeva una fila di case che si prospettava sulla strada, caratterizzata da una sequenza di portici che tornavano utili per quelli che aspettavano la corriera alla fermata proprio lì di fronte, per ripararsi nei giorni di maltempo. Sul retro vi erano come confinanti delle case crollate ‒ neanche più buone per far da ricovero ai vagabondi ‒ che avevano in piedi solo i muri esterni e delle quali non si ricordava più chi fossero i padroni. Proseguendo invece sul lato opposto del vicolo, sul retro del bar Veravita c’era un cortile pavimentato chiuso da un cancello, dove un cane lupo – piuttosto nervoso e scorbutico e che il suo padrone aveva
13 avuto la brillante idea di chiamare Attila – faceva la guardia e dove si affacciavano la cucina e il magazzino. Contiguamente, dove la stradina svoltava salendo una leggera pendenza, si trovava un piccolo parco, non curato e lasciato ai rovi, dove torreggiava un cedro del Libano centenario che si scorgeva da ben lontano spuntare fra i tetti, nonostante avesse la cima spaccata da un fulmine. Il parco era recintato e non accessibile, ma vi trovava dimora una colonia di gatti randagi che si tenevano a prudente distanza dal cortile di Attila, il quale si aggrappava alla rete con le fauci aperte come un leone nell’arena che vuol sbranar cristiani; e certo non avrebbe avuto pietà, così la pensavano anche i gatti. Il passaggio del vicolo era strozzato, soprattutto all’inizio, poi circa all’altezza del piccolo parco il vicolo si allargava, ma non di molto, simulando una piccola piazzetta a forma di triangolo irregolare – a darle un certo tono cittadino era una lampada appesa a un cavo legato tra le case, che la illuminava al calar della notte e che d’inverno, nelle serate ventose, dondolava proiettando lunghe inquietanti ombre. In faccia alla piazzetta vi era una chiesetta, anche quella chiusa, con due pinnacoli ai lati di cui uno fungeva da campaniletto; una volta una piccola campana ‒ ora scomparsa ‒ suonava per annunciare le funzioni religiose, frequentate anche dai contadini che dalle masserie vicine giungevano a piedi, a famiglie intere, tenendosi per mano. Volgendosi alla destra dello slargo si trovava un palazzetto che formava il terzo lato del triangolo; il palazzo era antico, tuttavia di non pregevole fattura, ma il suo padrone, tale signor Ernesto, si vantava di possedere delle carte scritte con la penna di piuma e bollate con ceralacca che attestavano la vetustà e la nobiltà della costruzione, a suo dire risalente al ‘700 o giù di lì, e ciò costituiva una disputa col Menazzo su quale delle loro abitazioni fosse la più antica e prestigiosa, e in aggiunta ognuno dei due rivendicava pure la proprietà del parco, che nonostante fosse preteso da due padroni restava lì abbandonato. Cionondimeno, in una stanza al pianterreno il signor Ernesto aveva aperto una bottiglieria con una lanterna appesa sopra la porta e con tutta una serie di bottiglie disposte sugli scaffali e una grande insegna fuori con la scritta “Vini e Liquori dei Conti Travaldini”, se non altro per richiamare il nome del borgo. Egli sosteneva che quel palazzo un tempo era appartenuto ai nobili di questa famiglia che vi avevano dimorato per poi cadere in rovina e svenderlo, e che possedevano terreni e altre
14 proprietà e ricchezze che avevano sperperato nel corso delle generazioni, ma il signor Ernesto, che portava sempre un farfallino a chiudergli il collo della camicia (come segno di distinzione pensava lui), si faceva un vanto di ciò come se lui c’entrasse qualcosa con l’aristocrazia, senza tuttavia aver mai mostrato a nessuno quei documenti, se esistevano, e con ciò portar prove di quel che andava cianciando. Oltre al lampione che dondolava nel buio cigolando sulla piazzetta deserta, altre cose potevano inquietare chi rientrava a casa la sera tardi, perché dalla soffitta del palazzo si udivano la notte dei rumori che chi li aveva sentiti descriveva di volta in volta come: tonfi, colpi sul pavimento di legno, passi sincopati, un trotterellio leggero, unghie che raspano su parti legnose e, visivamente, proiezioni di luce negli interstizi delle imposte chiuse. In più qualcuno aveva udito anche una voce simile al lamento di chi sta molto male e, addirittura, taluno affermava con estrema certezza che si trattava anche di due voci che parlavano tra loro, ma era come se uscissero da dentro una tomba. Ora, la gente del borgo, con in testa l’oste Menazzo, chiedeva al signor Ernesto di andare nella sua soffitta a controllare. Ma questi rispondeva sempre che non aveva la chiave, che c’erano solo cianfrusaglie e vecchia mobilia dei conti e dei dipinti antichi che aveva paura di danneggiare; ma la verità era che lo faceva solo per fare dispetto ai suoi vicini, che non voleva accontentarli apposta; e poi forse avrebbero preteso che lui, dopo aver frugato anche in quei lontani ripostigli, avesse loro esibito tutte quelle pergamene antiche di cui si vantava e che in realtà non c’erano, ma che, col tempo, a forza di raccontare la stessa storia, lui stesso si era convinto della loro esistenza e di averle messe via da qualche parte, dimenticando dove. E del resto, lui e la moglie come facevano a dormire di notte, si chiedevano i vicini, se tutto quel fracasso era proprio sopra le loro teste; ebbene, il fatto era che i rumori non erano poi così seccanti e fastidiosi come la gente diceva, e molti erano stati inventati da qualche buontempone solo per ingrandire la faccenda e prendere in giro i creduloni, quindi alla fine era solo la signora Carla, la moglie, che si lamentava nel letto e diceva sempre: “Ancora questi topi che fanno le corse in soffitta! Mettigli il veleno!” ma poi si addormentava subito perché era una donna che lavorava molto e la sera crollava stanca, mentre il marito se la godeva con un sorrisetto sotto le coperte perché
15 così sapeva di arrecar disturbo ai vicini e di impaurire i passanti che rientravano. Allora la gente si inventava mille spiegazioni e i soliti burloni lavoravano ancor più di fantasia. C’era chi diceva che erano le anime dei conti Travaldini in pena per aver scialacquato tutto il loro patrimonio; l’oste diceva che Ernesto aveva un figlio deforme che teneva rinchiuso lassù; altri dicevano che si trattava di riunioni di fantasmi o balli di streghe. Certe persone, di indole romantica, dicevano che era lo spettro della bellissima contessa Vania, perché una volta il signor Ernesto si era affacciato alla porta della soffitta senza osare entrarvi e qui, nel fascio di luce che penetrava, aveva intravisto un ritratto di signora a grandezza naturale appoggiato alla parete di fronte, ma subito si era spaventato credendo di vedere la figura muoversi (forse per effetto di un bicchiere di troppo) e se l’era data a gambe. Scorgendo però un astuccio con una collana lasciato su una sedia tra la polvere (un collier di perle, purtroppo finte) aveva allungato lesto il braccio portandoselo via, per poi esporlo sotto vetro nel salone d’ingresso come dimostrazione dell’antichità del suo palazzetto, cosicché quelli che ebbero modo di veder la collana, lavorando con l’immaginazione, decifrarono la scritta incisa sulla piastrina – probabilmente il nome del fabbricante – come il nome della nobildonna presunta. Da qui venne fuori la leggenda della contessa Vania, bella e sfortunata, che vagava per la soffitta con un candeliere in mano alla ricerca della sua collana trafugata o di altri oggetti perduti, o che magari si dava appuntamento col fantasma del suo amante perduto, tanto che si erano aggiunti nuovi particolari di pura invenzione fino a sostenere che la bella Vania era morta per amore, togliendosi la vita. Ma Vento – questo era il suo soprannome – un giovanotto che faceva lavori occasionali e viveva poco più in là, affermava che erano solo “corse di topi” e che “i topi si muovono e mangiano di notte quando non sono disturbati”. E la gente rispondeva: “Ci mancherebbe altro che siamo noi adesso che disturbiamo! Lassù c'è qualcuno, o spirito o persona!” e Vento se ne andava scrollando la testa. Comunque sia, alla sinistra del palazzetto del signor Ernesto, dalla parte dove il sole tramontava, c’era una viuzza fiancheggiata da due file di case addossate, che non s’interrompevano tranne che per un varco dove s’apriva un vicoletto per il quale si giungeva alla casa di Michele. Questi era allora un bambino magretto e spaurito, con le gambe come
16 due stecchi che davano l’impressione di potersi spezzare a ogni suo passo; e in quel vicolo, ricordava, in una rientranza tra le case, c’era un giardinetto smorto e brullo perché non vi arrivava mai il sole ‒ se non alla sera o al primo mattino quando i suoi raggi nutrivano purtroppo debolmente le piante ‒ dove finiva sempre il suo pallone. La casa di Michelino era in fondo e, uscendo dal retro, si poteva arrivare a un altro viottolo, di ghiaia ed erba, che portava fuori dal borgo attraverso una cancellata arrugginita, sulla via che girava intorno alle case o verso i terrazzamenti e i casali sparsi sulla collina. Al di là del viottolo, proprio di fronte alla casa del ragazzetto, c’era la casa di Vento che vi alloggiava con gli anziani genitori che ormai non ci stavano più tanto con la testa; adiacente c’era la stalla e davanti il cortile, dove era di guardia un cane bastardino di mezza taglia che il suo padrone aveva avuto la pensata di chiamare Bischero, tanto per dargli dello sciocco, perché fin da cucciolo quando lo stuzzicavi sulla pancia emetteva dei suoni simili a un uomo che balbetta e poi, da grande, quando più nessuno lo andava a coccolare, riportò quei mugolii incespicanti anche nel suo abbaiare normale, confermando così quel nome che gli era stato dato. Tornando all’arco di pietra e andando verso destra il vicolo si diramava e subito, attraverso un portico, conduceva a un grande e soleggiato cortile interno delimitato dal muro di cinta del borgo, con orti e alberi da frutto, dove si affacciava un’altra fila di modeste case. Al centro dello spiazzo vi stava un vecchio pozzo già in disuso a quel tempo, in fondo aveva la sua bottega un sarto che ormai stentava a infilare l’ago data l’età, e a mezza fila abitava invece un vecchio e grigio maestro in pensione, il maestro Venaris, che i ragazzini chiamavano Belfagor a causa di quella sua aria torva e l’aspetto di cadavere che cammina. Oltre il muro di cinta si scorgevano in distanza le prime costruzioni della città e il maestoso duomo con il campanile che suonava tutte le ore e le mezz’ore, di notte e di giorno, come del resto fa tuttora. Ma se non si imboccava questo primo portico, poco più avanti c’era un altro portico attraverso cui, salendo per l’erta, si arrivava a un altro cortile, più piccolo, con altre due file di case di faccia l’una all’altra, in una delle quali abitava un lontano parente di Michele, un prozio, che tutti chiamavano “il vecchio Ceno”, dove “ceno” nel dialetto locale stava a significare “piccino”, “minuto”, “bimbo”, cioè il contrario di
17 quello che era, ovvero un pezzo d’uomo, ma ormai anziano e con i capelli cortissimi e bianchi, ma così lo chiamavano allo scopo di renderlo ridicolo, canzonabile. In fondo, il muro di cinta riprendeva raccordandosi tra il retro della bottega del sarto e l’ultima fila di case, interrotto solo da un cancelletto di ferro che portava direttamente per una stradina sterrata che era un’ottima scorciatoia per i ragazzi che andavano a scuola o per chi voleva andare e venire dalla città a piedi. La muraglia – che aveva conficcati sul colmo cocci di vetro taglienti e in certi tratti anche del filo spinato – circondava, percorrendo il perimetro esterno, tutte le case e le viuzze del borgo dando loro l’aspetto di una sorta di cittadella a sé stante. Il signor Ernesto affermava che tutto quanto stava all’interno del muro apparteneva una volta ai conti Travaldini, ma l’oste Menazzo negava e diceva invece che era stato degli antichi proprietari del suo attuale ristorante e che avrebbe fatto ricerche e trovato nomi e cognomi di quelli che diceva esser stati senz’altro una stirpe di nobili e arcivescovi. Tutti, però, lo consideravano svitato e non meno strambo consideravano il signor Ernesto. Dai resoconti storici si era potuto apprendere che la nascita del borgo era antecedente addirittura alla fondazione della città, ma nel corso delle epoche storiche esso aveva via via perso importanza rispetto al capoluogo, fino a ridursi a un gruppo di case antiche dall’aspetto fatiscente. Evidentemente, nel suo periodo di maggior fioritura il borgo aveva avuto una sua valenza e le terre che lo attorniavano erano state di proprietà del suo signore che non mancava certamente di servitù, artigiani e contadini che lavoravano alle sue dipendenze. Delle vestigia passate, però, poco era rimasto e con i successivi rimaneggiamenti la conformazione urbana del borgo era divenuta ancor più contorta e aggrovigliata. Ebbene, tra la fila di case dove stava il sarto e quella del vecchio Ceno, vi stava un passaggio stretto che le divideva longitudinalmente, non più largo di tre metri, quasi una trincea, e ancor più ravvicinate erano le sporgenze dei due tetti; formava, per così dire, un vicoletto a sé, alto e stretto, dove, quando aprivi le finestre, quasi potevi toccare il tuo vicino. E non serviva poi a granché in quanto le porte d’ingresso degli alloggi erano tutte dal lato opposto, per cui vi erano solo finestre e una sola porta vi si affacciava, che però era sempre chiusa. Il selciato era sempre umido e scuro, l’erba non cresceva che in radi fili, per terra
18 erano sparsi vetri rotti e nemmeno i gatti amavano quel posto, perché era senza vita e non vi batteva mai il sole. In mezzo a questo stretto passaggio c’era un sentiero appena calpestato dove il vecchio Ceno passava con la sua carriola per andare nell’orto, poiché non aveva altro accesso. Ormai, però, ci andava sempre meno data la sua età e i suoi acciacchi, perciò il terreno non era quasi più battuto. Le stradine della borgata salivano lentamente il piede del colle e le sue case erano, come in genere tutte le case vecchie della zona, a pianta rettangolare con muri di largo spessore costruiti in sassi e pochi mattoni; i costoni degli angoli erano costituiti da grossi blocchi di pietra incrociati e sovrapposti. Le facciate erano anch’esse rettangolari e rivolte al sole, con tante finestre allineate e gli scuri in legno rovinati dalle intemperie; i tetti erano poco inclinati perché non si temevano nevicate così abbondanti da far cedere la struttura. I tetti e i solai erano sostenuti da travature in legno e trasversalmente vi erano inchiodati i tavolati che nelle stanze formavano i pavimenti. I caminetti per scaldare e cucinare già non si usavano più, c’erano invece le cosiddette stufe economiche e i comignoli, sopra i tetti di tegole rosse, ne sbuffavano il fumo. Ancora in quegli anni, all’esterno quelle case non erano dipinte se non di pitture vecchie e scrostate, altre non avevano mai goduto di una mano d’intonaco e mostravano le pietre nude; oppure erano intonacate in parte, poi la malta era finita e i soldi anche, e si era lasciato tutto così. Ma nella mente di un bambino, com’era Michele, tutto questo sembrava un paese delle fiabe e ogni cosa aveva un suo interesse e tutto ciò che era creato intorno alla sua piccola esistenza sembrava “buono e giusto”. Insomma, niente di più niente di meno che un paese vecchio con i comignoli fumanti d’inverno e le ortensie nei giardini nella bella stagione. Niente di più che un popolo perso nello scalciare del tempo, niente di meglio che una memoria, qualcosa che importa solo a chi se ne ricorda e poi muore perché non conta più per nessuno. E allora perché Michele tornava indietro a cercare i propri passi e quelli delle persone che lo avevano accompagnato? Perché vagava con la mente nel vecchio borgo alla ricerca di momenti già consegnati al tempo, già vissuti e quindi consumati senza gloria apparente? Perché cercava i compagni di quei giochi di strada, perché cercava quell’amore
19 che gli sfuggì, perché tendeva l’orecchio per udire i propri passi sulla via se l’eco ormai era spento? Nemmeno lui lo sapeva con certezza. Forse pensava di aver perduto qualcosa in quel tempo, qualcosa che ora gli mancava, che sarebbe servito per dargli il giusto equilibrio, la serenità. Allungava la mano per ghermire una stella perduta, oscurata, sprofondata nello spazio; allungava la mano e la stella fuggiva, si guardava il palmo vuoto, la pelle era avvizzita, forse era passato troppo tempo ormai. Anche se gli sembrava che nulla fosse scomparso definitivamente e che tutto quel che accade in qualche modo rimane scritto nel libro dell’eternità; se ascoltava il vento gli pareva ancora di sentire Bischero che abbaiava vedendolo arrivare sulla stradina e poi lo riconosceva e gli andava incontro scodinzolando. Il mondo non cerca domande, la gente non ne vuol sapere… e Lidia cammina ancora nel vicolo la sera, mentre occhi smaniosi dall’ombra ne spiano le forme e le movenze, facendo correre la fantasia su chissà quali oasi di piacere ella possa offrire. Ma cammina solo nella mente di chi se ne rammenta (e rimpiange di non averla posseduta, di non essere tra quelli che hanno goduto di quel corpo), cammina e vive solo nella memoria, perché Lidia, come molti altri, non c’è più. Se della tua vita non sai che fartene, se la noia ti mostra inutile ogni azione, se del tuo viver quotidiano non sai esser lieto e spesso la sera ti butti a bere in un bar o stando a casa spegni il tuo sguardo davanti al televisore, allora… allora sì, veramente, avresti dovuto vedere Lidia a quel tempo, allora tutta la tua vita ti sarebbe apparsa differente, l’universo avrebbe avuto un senso, le stelle sarebbero state amiche delle tue notti, al sorgere dell’alba si sarebbe aperto il mondo, ogni rumore si sarebbe trasformato in melodia, avresti sopportato la fatica per giorni interi pensando a lei. Sì, se solo l’avessi conosciuta quella volta… perché Lidia appariva sulla via, con i suoi capelli rossi come albicocche mature e ricci, che raccoglieva in una coda durante il giorno e che scioglieva al ritorno a casa salendo l’erta leggera, muovendo i suoi fianchi simili a un’anfora antica perduta nel mare, e la sua pelle di perla delle mani e del viso, e il suo sorriso… camminando portava con sé un alone di misteriosa bellezza, come fosse in grado, con la sua sola presenza, di donare una nuova vita a quei miseri muri di pietra, a quei marciapiedi di cemento e a quella gente senza particolari ambizioni.
20 Ella emanava, per così dire, anche senza la sua volontà, un coro di invisibili vibrazioni che risvegliava negli uomini pensieri e illusioni. Ma Lidia non era un sogno romantico confinato tra i muri di una cittadella, non era una damigella rinchiusa in una stanza nell’attesa del suo cavaliere, del suo eroe coraggioso e virile, unico suo sposo: si diceva, infatti, che accogliesse nella sua alcova diversi amanti. E senza vergognarsene. Così si diceva. A motivo di ciò le donne dei sobborghi dicevano che era proprio una… poco di buono. Però una volta Lidia subì una violenza improvvisa, un assalto folle, un’ira incontrollata e, nel seguito di questa storia, ne apprenderemo le circostanze. Tutto si svolse in un solo giorno, una giornata particolare, quando da orizzonti diversi confluirono nubi nere spinte dal rancore e nubi chiare coinvolte loro malgrado, per andare a scontrarsi in un unico grande temporale. La mattina di quel giorno era una mattina come tante e come sempre Michele lasciò controvoglia il calduccio del suo letto, rapidamente si sciacquò il viso e si vestì, andò giù in cucina e si sedette per bere il caffelatte. Ancora assonnato, aprì il libro di storia sul tavolo guardando le illustrazioni e sforzandosi di rammentare la lezione, poiché temeva un’interrogazione e un conseguente esito disastroso. In una figura c’era una folla riunita in una piazza che gridava: “Pane per il popolo che ha fame”, come si leggeva nella didascalia; quella gente pareva piuttosto arrabbiata, alcuni raccoglievano delle pietre col chiaro intento di scagliarle verso un palazzo dalle alte e grandi finestre, altri si limitavano ad agitare le braccia come a minacciare o maledire, le più scalmanate erano certe donne in prima fila che ormai non avevano più alcun ritegno e impugnavano i forconi sfidando i soldati armati di moschetto; il tutto era molto colorito e di grande effetto. Maria Antonietta non trovò di meglio che rispondere: “Che mangino brioches!” ‒ così almeno le venne attribuito ‒ e in seguito alla rivoluzione il popolo di Parigi la accompagnò alla ghigliottina; così ripeteva la professoressa di storia e sembrava piuttosto compiaciuta di raccontare questa storiella già molto nota, mentre Michele appoggiato su un gomito tamburellava le dita sul banco. Leggere e studiare non era certo il suo forte, non era un mistero. Era più facile farsi suggestionare dalle figure del libro e lavorare con
21 l’immaginazione, anche se questa spesso lo portava fuori strada. Sfogliando il libro guardava la ghigliottina, luccicante al centro del piazzale e pronta a tagliare di netto le teste dei regnanti; anche il maestro Venaris aveva, a casa sua, le finestre a ghigliottina come quelle che si vedono nei film, specialmente nelle comiche quando succede che qualcuno ci lascia sotto le mani o la testa e allora si ride. Quella era forse l’unica casa del borgo che avesse le finestre così congegnate, ma era tutto un po’ strano quello che riguardava il maestro Venaris, tanto che era evitato da tutti e la gente si scansava quando lo incontrava sul marciapiede, quasi che portasse disgrazia con quella sua faccia grigia e raggrinzita che lo faceva somigliare a qualche essere che abitava nel mondo dei morti, forse proprio quello che viene a dirti che è giunta la tua ora e si porta via la tua anima, chissà dove, se all’Inferno o in Paradiso, rimuginava Michele. Quella micidiale macchina per mozzare teste occupava il centro della figura, la lama pendeva dalla corda e il boia incappucciato era in attesa di farla scivolare giù e raccogliere dal cesto sottostante il macabro trofeo per esporlo alla folla indiavolata; che effetto doveva fare farsi tagliare la testa? Michele si tastava il collo rabbrividendo e subito scacciava l’orribile pensiero e si prendeva i biscotti da inzuppare nel caffelatte, mentre la madre si affaccendava in cucina e la radio trasmetteva il notiziario. La mamma anche usava una specie di mannaia per tagliare i pezzi grossi di carne e con colpi secchi, quasi rabbiosi, spaccava l’osso dopo essersi aperta la strada attraverso il muscolo con un coltellaccio; sembrava un odio personale quello che aveva verso quel pezzo di carne sugoso, quasi come una vendetta verso il suo destino. Delle vicine di casa, qualche giorno prima, in presenza del ragazzino, avevano sussurrato: “Poveretta, è andata…” riferendosi alla madre, e poi “… povero bambino, ha solo dodici anni.” Ma Michelino aveva inteso che si parlava di sua madre, però non capiva perché parlassero a mezza voce come non volessero farsi sentire: “Ma se non volevano farsi sentire dovevano parlare ancora più piano o andarsene da un’altra parte”, pensò, e pensò anche che dovevano averci messo della cattiveria in quelle parole, anche se in realtà con lui erano sempre state gentili. E poi, che cosa intendevano con quel ”andata”? Forse si intende quando una persona è deperita fisicamente da una malattia o… quando sta perdendo il lume della ragione.
22 Comunque a Michelino sua madre non sembrava matta e le voleva bene e, anzi, non sapeva nemmeno lui come doveva essere una persona veramente matta; anche se lei ascoltava certa musica strampalata e il cane di Vento abbaiava seccato quando il volume era troppo alto e le volte che le finestre erano aperte Vento diceva sempre, attento a non farsi udire: “Ma è la musica di mia nonna!” Infatti era tutta roba da orchestre delle sagre, tipo valzer o mazurka o quel mazzolin di fior. Ma Michele ci aveva abituato l’orecchio e non ci faceva più caso; e del resto non si poteva dire che fosse pazza solo per questo. Alle volte ballava anche, da sola, aprendo le braccia come se volteggiasse con un ballerino immaginario, attenta a non farsi scorgere da nessuno, ma Michelino una volta l’aveva vista e, tuttavia, si era detto che non era nulla più di un gioco che tutti possono fare. No, non erano disturbi mentali, era solo un po’ stanca. Sì, la mamma era stanca, e si sapeva anche perché. Era triste perché il papà era morto e, anche se erano passati nove anni, quel colpo l’aveva abbattuta forse per sempre. Il dolore col tempo passa, ma per passare e farsi dimenticare ti consuma le forze e con l’andar del tempo si è più stanchi. Però certi giorni la mamma si alzava veramente felice, lo si sentiva dalla voce, e poi faceva le sue faccende con più energia e scherzava col figliolo come non faceva quasi mai, allora Michele sorrideva ed era contento. Non sapeva il motivo di questi cambiamenti d’umore, ma li accoglieva senza domandare perché: erano come un dono dal cielo. “Un angelo”, pensava, “è venuto a darle coraggio.” Per dire il vero, quei giorni seguivano di solito a delle notti un po’ strane. Infatti accadeva che, mentre Michelino si era appena addormentato nella sua camera, sua madre si avvicinava nel corridoio camminando coi piedi scalzi sul pavimento di legno e arrivata alla sua porta sbirciava dentro e poi la chiudeva a chiave. A quel punto il fanciullo quasi sempre si destava e sentiva la madre ripercorrere all’indietro il corridoio. Poi non riusciva a prender sonno subito e accendeva la lampada sul comodino; sembrava regnasse il silenzio, ma dopo un po’ si sentivano dei rumori come se la donna si girasse e rigirasse per il letto, e anche dei lamenti e degli ansiti o dei sospiri come trattenuti. “Forse non riesce a dormire perché ha qualche preoccupazione”, pensava e, intanto che ascoltava, si addormentava con la luce accesa. Alle volte però si agitava anche lui, perché essere orfani non è certo cosa facile da accettare e questo gli aveva tolto in parte la
23 spensieratezza dei suoi anni; allora si alzava dal letto e apriva la finestra e se ne stava a osservare la luna e le nuvole che le passavano davanti, immaginando di volare nello spazio per altri pianeti; oppure immaginava gli angeli scendere dal cielo per portare giustizia in quei luoghi, mentre dalla parte del parco si udiva il canto stridulo e poco rassicurante di una civetta. Una volta, non sapendo come spiegarsi la cosa, chiese innocentemente alla mamma: “Ma perché hai chiuso a chiave stanotte?” La donna, sulle prime colta di sorpresa, rispose: “Oh… è perché ho paura per te, che qualcuno ti porti via… con tutte le persone cattive che ci sono…” e cambiò discorso. Come spiegazione sembrava un po’ magra: “Sì, ma allora perché non chiude tutte le notti? E poi chi viene a portarmi via?” Ma non indagò oltre, per la naturale fiducia che i bambini ripongono nei genitori. “Sì, se fosse qua il papà sarebbe diverso, ma io nemmeno me lo ricordo…” così concludeva sempre quei ragionamenti. Uscì da casa quel giorno per andare a scuola, affrettandosi perché non voleva fare ritardo. Fece il solito giro, dalla piazzetta prendendo a destra, ma poco più avanti notò il vecchio Ceno e il signor Ernesto che parlottavano fuori dalla porta e, dentro, l’ombra di due donne che parevano disperarsi. Salutò e passò oltre uscendo dal cancelletto che portava alle scuole, poi si tolse il berretto col copriorecchie che la mamma gli metteva anche se era già primavera. Mentre camminava con la cartella dei libri in mano valutando ancora il fatto di quella mattina, arrivarono di corsa tre suoi compagnetti, tra cui Arrigo, il più forte e tremendo di tutti, con i capelli neri sempre spettinati, che gli diede un bel colpo di cartella sulla schiena. Quindi lo sorpassarono ridacchiando tra loro soddisfatti della bravata e Arrigo gli strillò senza fermarsi: “Ehi! Svegliati la mattina!” A Michele doleva il colpo e gli faceva male anche la burla, ma non rispose niente. Dentro il suo povero petto di orfano fremeva la rabbia ed egli si immaginava, come nei film western, di sfidare in un duello all’ultimo sangue con le pistole quel mascalzone di Arrigo. Sì, col cinturone pieno di cartucce avvolto sui fianchi e la pistola pendente nella fondina, con la mano pronta al guizzo, sarebbe stato un bel duello al sole, magnifico e vincente, sulla Main Street del paese, la pista di sabbia rovente pestata dagli zoccoli dei cavalli e la gente timorosa dietro le finestre dentro a casette fatte con assi di legno; lui sarebbe stato lo sceriffo o il ranger con la stella sul petto che fa
24 rispettare la legge nel West ancora selvaggio, e Arrigo il bandito che mette lo scompiglio in paese e fa il prepotente con la gente indifesa. Avrebbe estratto la pistola in una frazione di secondo per andare a colpire il suo sfidante esattamente nel punto voluto, forse proprio in mezzo al cuore, o gli avrebbe fatto saltare la pistola dalle mani con un colpo ben mirato, come si vede nei giornalini, e alla fine sarebbe entrato nel saloon a bersi un whisky… ma forse questo no, e intanto si metteva la mano lungo il fianco per tastare la Colt nel fodero, che naturalmente non c’era, mentre si avvicinava a scuola e quei tre erano già lontani. Ma era solo fantasia e quel tipo era grande e grosso e gli avrebbe dato un fracco di botte. Si accingeva a varcare la porta della scuola quando, in quel mentre, udì lontano una sirena suonare, si girò e stette in ascolto, poi entrò perché la campanella già suonava e iniziavano le lezioni.
25
Capitolo II
Pochi minuti dopo, in Borgo dei Travaldini, due carabinieri avevano davanti a sé un corpo di cui dovevano spiegare la morte violenta. Si era adunata, verso il portico che conduce al cortile del vecchio Ceno, una piccola folla formata dai borghigiani e da qualche curioso che aveva appreso la notizia e a passi cauti cercava di avvicinarsi; in quelle case c’era la stanza in affitto di Lidia: era al primo piano e vi si accedeva per una stretta scala di legno e lo stesso Ceno ne era il proprietario e ne riscuoteva la pigione. Arrivò un altro curioso e i presenti lo informarono. «È un pezzo che sono su…» «Sono due carabinieri e c’è Lisetta con loro, la cuoca della trattoria.» «È passata a prenderla per andare al lavoro, come ogni mattina, è entrata e…» «Doveva dare una mano in cucina, lì iniziano presto a preparare ma… sembra sia morta.» «Ma come? Di che cosa?» «L’hanno strozzata!» intervenne il signor Ernesto dando alla voce un tono drammatico. «Come? Lidia, la cameriera, quella bella ragazza?» «Sì sì… chissà chi si è portata dentro casa!» «Oh Signore, guarda cosa doveva capitare!» esclamò infine la signora Carla. Il maresciallo Barberi ascoltava accigliato la testimonianza di Lisetta, ma questa non aveva un granché da dire, solo che era entrata trovando la porta aperta e aveva visto Lidia distesa sul letto così come la vedevano adesso e che avevano lavorato insieme la sera prima al ristorante Veravita e Lidia, finito di servire in tavola, l’aveva aiutata in cucina fin verso le undici… e intanto piagnucolava e si asciugava gli occhi col fazzoletto. L’assistente del maresciallo, il giovane appuntato Francesco Petrini, frattanto ispezionava l’appartamento cercando indizi.
26 In realtà, l’alloggio della bella Lidia era composto da una sola stanza, nemmeno tanto grande, e da un bagno a parte. Entrando, sulla destra, c’era la cucina a gas con la cappa sopra e a fianco la credenza col cestino del pane sul ripiano e un lavabo ingombro di stoviglie da lavare; un tavolino con due sedie era appoggiato al muro accanto alla porta. Sulla sinistra era collocato un letto matrimoniale con un solo comodino e un armadio per i vestiti stava accostato alla parete a lato della porta d’entrata. Sulla parete di fronte si aprivano due finestre munite di sbarre che si affacciavano sullo stretto vicolo, tra le quali c’era un vecchio comò con spazzole e flaconi sparsi e superiormente era appesa una specchiera; sotto alle finestre vi erano i termosifoni che per poco rimanevano accesi perché il vecchio Ceno non voleva si consumasse troppo gasolio. Sempre sulla sinistra un breve corridoio portava al bagno che era piuttosto ampio perché dovevano starci dentro, oltre ai sanitari, anche la lavatrice e i fili per stendere la biancheria. Tutto l’insieme era molto ristretto ed essenziale (oggi si direbbe un monolocale) ma sembrava fosse sufficiente alle esigenze della povera ragazza. «Vada pure», disse il maresciallo alla cuoca che non faceva che piangere e singhiozzare e andava ripetendo sempre le stesse cose: che lei non aveva fatto niente e che non la portassero in prigione. «E resti a disposizione», aggiunse, al che la donna uscì disperandosi ancora di più, sia per la disgrazia che aveva colpito la collega sia per il destino che le era toccato di entrare per prima nella stanza del misfatto, proprio lei che si teneva sempre lontana dai guai. Non sembrava capace di fare alcun male, né fisicamente era tanto forte da poter usare violenza ad altri, né moralmente sembrava in grado di poter concepire un delitto o di essere persona soggetta a gravi raptus aggressivi, né tantomeno si presentava un possibile movente, ma, per principio, il maresciallo non escludeva mai nessuno dalla sua lista finché non si fosse scoperto il vero colpevole. Si vedeva bene che il maresciallo capo Tito Barberi era diverso dalla gente del posto, sia per l’atteggiamento che per l’aspetto fisico; infatti, proveniva dalle terre del Sud e a questa gente, nonostante si sforzasse, non sapeva volere un gran bene. “I popoli che vivono senza un bel sole”, si diceva spesso, “sono tristi e meschini, sempre la nebbia e il freddo e, se non basta, anche la neve e l’estate che stenta sempre a farsi largo e quando arriva porta un caldo umido che fa male alla salute; solo
27 in primavera si sta discretamente, ma questi sono sempre pallidi e musoni lo stesso e, se vanno al mare a pigliare la tintarella, dopo un mese tornano a essere bianchi come prima…” Ma il suo temperamento mansueto e il suo ruolo di tutore dell’ordine non gli permettevano di detestare apertamente questa gente, per cui manteneva con loro un rapporto cordiale e comunque un certo distacco. Il giovane Petrini invece, pur essendo del Nord e di animo semplice, era sveglio quando voleva, rapido nei movimenti e forte come un torello, e metteva certe volte a disagio il suo superiore con certe sagaci osservazioni. Doveva però trattenersi dal brillare troppo per non far sfigurare la sua stella maestra. Gli piaceva in fondo quel lavoro, ma senza averci una particolare passione, non aveva l’ambizione di far carriera e per lui risolvere un caso (ne capitavano raramente in quella provincia tutto sommato tranquilla) era gratificante per la sua indole come risolvere un rebus o un cruciverba. Dopo che Lisetta fu congedata, mentre attendevano a momenti l’arrivo dell’autoambulanza e del medico legale che certificasse la morte della ragazza, esaminarono con più calma la scena del delitto. Il maresciallo stava in piedi al centro della stanza e osservava il corpo senza più vita di Lidia. “Perché uccidere una ragazza così bella?”, si domandava. “Che scempio di gioventù e bellezza: gli uomini sono gelosi, le donne hanno l’invidia.” Il letto era in disordine e sfatto, evidentemente la ragazza aveva lottato con tutte le sue forze per non soccombere; la parte del materasso verso i piedi del letto sembrava più calcata come fosse stata sottoposta a un peso maggiore: quella era senz’altro la postazione da cui l’assassino aveva compiuto la sua crudele azione. Confermavano questa ipotesi – già di per sé scontata – la presenza di tracce di fango sul lenzuolo e altre tracce minori di erba o muschio come se l’omicida fosse salito con le scarpe. “Dunque”, pensò il maresciallo, “se questi sono i segni delle scarpe, significa che chi l’ha ammazzata era vestito e presumibilmente non stavano consumando l’atto sessuale, ma dev’esserci stata una discussione che poi è degenerata violentemente. E non è detto nemmeno che sia un amante e non invece un ladro, anche se la sua amica cuoca ha detto che questa… come si chiama?... Lidia, aveva molti uomini che le facevano la corte, anche per via del suo lavoro sempre sotto gli occhi dei clienti…”
28 «Non dev’essere stato un ladro», interruppe il suo ragionamento il Petrini, come gli avesse letto nel pensiero, «perché nella borsetta ci sono ancora i soldi: quarantamila lire e qualche spicciolo. E poi i cassetti non sono stati rovistati e tutto sembra più o meno in ordine…» «Si capisce che non è un furto finito male: porta ancora la catenina d’oro al collo, di battesimo sembra…» rispose con aria di sufficienza Tito Barberi, continuando a osservare il corpo esanime. Il viso della poveretta era girato da un lato, le palpebre chiuse, la calza – con la quale si supponeva l’avessero soffocata – era ancora attorcigliata intorno al suo collo aggraziato. Il braccio sinistro era aperto e rivolto verso la finestra, l’altro braccio era piegato sul ventre coperto dal lenzuolo che arrivava fino a lambire le cosce. Il petto era esposto, ma aveva ancora addosso la biancheria intima e la sottoveste, seppur sgualcita; le gambe, che molto dovevano aver scalciato, stavano piegate in posizione innaturale. Diverse tumefazioni e graffi – purtuttavia nessuno di particolare gravità – erano sparsi per il corpo. “Ognuno si aggrappa alla vita come può”, pensò il Barberi e osservò meglio la testa della donna, dove sotto ai capelli scomposti si notava un vistoso ematoma e dei rivoli si sangue che le scendevano sulla fronte. “L’hanno massacrata…” Poi sollevò una alla volta le mani di Lidia per vedere se sotto alle unghie avesse residui di sangue, nel caso avesse tentato di difendersi dal suo aggressore uncinandolo; quelle belle mani morbide e delicate, il maresciallo le rigirava tra le sue, erano ancora calde, ma senza vita. No, non c’era sangue né brandelli di pelle: “Almeno lo avesse sfregiato nel viso, così ora lo sapremmo riconoscere…” pensò, “forse l’ha solo percosso con i pugni, ma troppo debolmente si vede.” Voleva coprire quella povera ragazza per un atto di pietà, ma non si poteva alterare lo stato delle cose fino all’arrivo della squadra scientifica che avrebbe fatto i rilievi e le fotografie. Nel frattempo l’appuntato Petrini girava ancora per la stanza in cerca di tracce. A un certo punto richiamò l’attenzione del maresciallo: «Ci sono delle impronte di scarpe su quella sedia vicino alla parete.» «Non significa niente», commentò Barberi guardando da vicino. «La vittima conosceva il suo assassino, perché la porta non era chiusa a chiave e non è stata forzata: si sono incontrati, forse hanno dormito insieme, hanno litigato ed è finita così. Il corpo è ancora caldo, dev’essere successo alle prime ore della mattina.»
29 Il Petrini non obiettò nulla per rispetto del grado ed entrò nel bagno per ispezionare anche quello, mentre il maresciallo stette ancora lì in piedi. Qualcosa in quel momento gli ricordava sua moglie: anche lei aveva delle mani così lisce e delicate, ma non era quello. Piuttosto era il color crema di quella sottoveste: la moglie del maresciallo ne portava una dello stesso colore, anche l’ultima notte. Era dolore quello che provava per la giovane Lidia, o compassione (anche se la sua professione gli impediva di partecipare emotivamente alle disgrazie altrui, per non incorrere in qualche errato giudizio) ma quel dolore ne richiamava un altro, ancora vivo e recente, ma di natura diversa. Infatti la moglie l’aveva lasciato ed era tornata al suo paese. Non era nemmeno esatto dire che l’avesse lasciato, perché ufficialmente non c’era stata nessuna separazione e neanche erano stati chiamati gli avvocati. Soltanto, un giorno di due anni prima, la donna aveva fatto le valigie ed era partita senza fornire ulteriori spiegazioni o lasciare biglietti. Quel giorno, al ritorno a casa dal turno di servizio, Tito Barberi entrando in casa avvertì subito una calma e un silenzio insoliti; istintivamente andò in camera, aprì l’armadio e vide che i vestiti di lei non c’erano. Cercò nelle altre stanze, in bagno, nel terrazzo, ma niente, era semplicemente sparita. Un colpo a tradimento, lo definì. Ma non smise di amarla. “Noi non possiamo vivere qua, non possiamo stare bene qua, amiamo troppo quel sole, quel mare che si vede dalla collina sopra il paese. Altri ce l’hanno fatta, ma noi no. La tua terra d’origine non la dimentichi mai, solo i figli nati qui che non l’hanno mai vista non sentono la nostalgia: ma noi figli non ne abbiamo avuti – e Iddio sa se ne volevamo – e forse anche per questo se n’è andata, perché nulla ci legava e il nostro amore si stava spegnendo”, questo pensava il maresciallo, mentre il Petrini era uscito dal bagno e stava in attesa. Si riscosse da quei pensieri e, tornato al momento presente, si rivolse al giovane così ragionando: «Le finestre sono ancora aperte, certamente non chiudeva le imposte perché ci sono le inferriate, e non le dava fastidio dormire col chiaro di luna… insomma, ma questo non ci interessa. Però qualcuno può aver visto da fuori svolgersi il fatto; per esempio l’inquilino di fronte.» In quel momento arrivò l’autoambulanza, un dottore con un infermiere salirono e i due carabinieri uscirono dall’appartamento.
30 In fondo alle scale trovarono il vecchio Ceno che chiese: «Non la metterete mica sotto sequestro la stanza? Perché io devo affittarla…» E al maresciallo scappò di dire: «E si vergogni di farsi dar soldi per un buco del genere!» Intanto i curiosi che aspettavano fuori, sentendo che i carabinieri alzavano la voce, si dileguarono in un batter di ciglia. «Ci dica invece qualcosa delle abitudini della signorina», continuò. «Che ne so io? Io mi faccio solo gli affari miei, pagava puntuale l’affitto e questo mi basta.» «L’avrà pur veduta qualche volta uscire o rientrare!” si spazientì ancora il militare. «Non sono mica il portiere di un albergo.» «Ci pensi un po’, qualcosa le verrà.» «Che vuole che le dica? So che usciva la mattina per lavorare alla trattoria e tornava nel primo pomeriggio, poi usciva di nuovo prima di cena e rientrava verso le undici o anche più tardi.» «Qualcuno veniva mai in visita?» «Per me poteva ricevere chi voleva, non me ne importava.» «Ma chi veniva?» «Di solito alla sera tardi arrivavano dei giovanotti, io non lo so se salivano. Io a mezzanotte scendo e chiudo la porta quaggiù e non entra più nessuno e chi è dentro ci resta. Poi alla mattina presto la riapro.» «Allora tutti potevano salire fino a una cert’ora?» «No certo, la Lidia quando non voleva essere disturbata appendeva un pupazzetto alla sua porta, come segnale – vede, come c’è adesso – voleva dire che c’era già qualcuno, oppure che voleva dormire e che non salisse nessuno.» «Dunque non chiudeva mai a chiave la porta?» «Ma era chiusa questa giù dabbasso e allora nessuno poteva entrare, né a casa mia né nella stanza di sopra.» «Ma lei potrebbe aver visto l’assassino.» «E invece io non sto qui a guardare chi entra e chi esce, come vi ho già detto.» «E lei dov’era la notte passata?» «Chiaro che dormivo.» Il padrone di casa entrava a far parte per scontato della lista dei sospettati perché aveva accesso in qualsiasi momento alla camera, ma, seppure fosse un omaccione, sembrava troppo acciaccato e avanti con l’età per poter compiere un atto che comunque richiedeva una certa
31 prestanza. I due carabinieri guardarono dubbiosi la bambolina di pezza sulla porta; in quel lasso di tempo – più o meno tra le undici e mezzanotte – chiunque avrebbe potuto entrare nella camera. Strano che la ragazza si fidasse, evidentemente il suo aggressore approfittò di questa fiducia perché la porta non era stata scassinata, quindi era entrato e, dopo aver fatto i suoi comodi nella notte, al mattino aveva compiuto il crimine ed era uscito trovando la porta al pianterreno aperta. Cominciarono così ad abbozzare un primo quadro mentale della situazione. Quando, uscendo fuori, la coppia di carabinieri si accostò alla Fiat Uno di servizio che era parcheggiata nella piazzetta, qualcuno stava chiamando dal radiotelefono: era il comando. «Barberi, com’è la situazione?» chiese subito ragguagli il capitano. «C’è dentro il dottore che deve confermare il decesso della donna.» «S’è uccisa da sola o qualcuno l’ha uccisa? Sia chiaro maresciallo.» «No, l’hanno soffocata con una calza, sembra. Stiamo cercando qualcosa, faremo qualche domanda…» «Allora rimanga lì finché arriverà la squadra per fare i rilievi, ma non saranno liberi prima del tardo pomeriggio.» «Certo, sissignore.» «Veda che non entri nessuno e che non si sposti niente», e il capitano chiuse la comunicazione. Il suo superiore, che era il capitano Gregorio Pantaleone, lo trattava come una scarpa vecchia e il nostro maresciallo non poteva proprio digerirlo. Odiava il suo comandante, in particolar modo perché aveva fatto carriera con le raccomandazioni e con molto utili conoscenze e lo aveva scavalcato, qualche anno prima, fregandogli i gradi che gli sarebbero spettati di diritto – così pensava – e lasciandolo sguazzare nella sua melma di modesto sottufficiale senza altre possibili ambizioni; per contraccolpo il suo umore era peggiorato e tutta la sua vita, in genere, aveva preso a deprimersi, compresi i rapporti con la moglie. Lo odiava, eccome se lo odiava, e smaniava dalla voglia di fargliela pagare e di dimostrare chi veramente valeva tra loro due; gli anni passavano, tuttavia, e di occasioni vere non se ne presentavano, questa poteva esser una e tanto valeva tentare. Ora il maresciallo mise giù il ricevitore e sputò per terra, come sempre dopo aver ricevuto ordini dal
32 suo capitano, quindi si rivolse al Petrini: «Andiamo, abbiamo il tempo di interrogare qualcuno.» Imboccarono subito il portico che portava al cortile del sarto per raggiungere la casa che stava dirimpetto all’appartamento della vittima. Era una limpida e splendente mattina di primavera, negli orti le aiuole erano seminate, gli uccelli cinguettavano tra il fogliame e perfino il carabiniere Petrini si mise a fischiettare senza motivo. Fuori da una porta vi era una panca di cemento dove la gente nelle sere della bella stagione si radunava per raccontarsi i fatti della giornata, eventualmente aggiungendo qualche seggiola portata fuori dalle cucine, e quella sera certo avrebbero avuto molto da parlare. Giunti alla casa suonarono il campanello al pianterreno. Venne ad aprire, dopo che ebbero suonato una seconda e una terza volta, con la sua abituale tetraggine, il maestro Venaris. «Buongiorno, possiamo entrare?» gli si rivolsero, accennando il saluto militare. Il vecchio maestro aprì la porta piano come se stesse scoperchiando la sua stessa lastra tombale, si affacciò appena senza rispondere al saluto né dire altro; alla loro richiesta fece cenno di sì con la testa muovendo piano il capo sul collo anchilosato e tenendolo chino come un inutile pendaglio anche mentre i due carabinieri oltrepassavano la soglia. «Lei ha delle finestre che guardano verso l’abitazione della signorina Lidia?» Il vecchio li guardò come se non capisse, con le pupille insulse che gli ballonzolavano nelle orbite; il maresciallo ripeté più forte la domanda temendo che l’anziano fosse sordo. Allora questi, senza dare risposta, si girò con parsimonia e a passettini strascicati si avviò verso la scala che dall’andito portava al piano superiore. “Hai voglia!” pensò il giovane Petrini. Giunto finalmente alla porta di una stanza, l’aprì ma non entrò e restò in attesa sulla soglia con la testa abbassata. I due gendarmi fecero per entrare, ma la stanza era buia: «Accenda la luce», dissero, ma il vecchietto ci metteva troppo tempo a partire e il giovane perciò allungò il braccio e pigiò l’interruttore. La stanza era vuota, a parte una cassapanca addossata a una parete, uno sgabello in un angolo e un quadretto appeso; c’era molta polvere su tutte le superfici, sembrava che quella stanza da anni non avesse avuto a che fare con una scopa.
33 C’era un odore di aria morta, anche le due finestre a ghigliottina – tuttora serrate – probabilmente non venivano aperte da molto tempo. «Mi apra questa finestra», disse il maresciallo. “Ma non ha ancora capito che questo non si muove!” pensò l’appuntato e compì svelto egli stesso l’operazione, ma dovette sforzare i saliscendi poiché a stare sempre chiusi s’erano come incollati e poi, quando aprì anche gli scuri, questi quasi caddero a terra. Entrò subito un’ondata di aria pura e dilagò la luce solare in quell’antro; il vecchio si schermò gli occhi alzando con lentezza la mano. Da quella posizione si vedeva molto bene la stanza di Lidia, che distava infatti non più di tre metri, essendo quel vicolo, come già detto, stretto come una trincea; le tendine, però, erano tirate e non si vedevano che le ombre confuse del medico e dell’infermiere che stavano armeggiando intorno al corpo. Di sera, tuttavia, con la luce accesa dentro e le imposte aperte, un eventuale osservatore avrebbe potuto, da quel punto strategico, attraverso la quadrettatura delle sbarre, notare con precisione i movimenti di eventuali persone nella camera. “È chiaro che questo tale, questo anziano, le finestre di questa stanza non le apre mai e non mi sembra neanche che abbia la vista tanto buona e neppure le forze necessarie per mettersi all’opera, ecco perché la ragazza non chiude gli scuri di notte: perché sa che di qua non la vede nessuno. E quindi niente testimoni del fatto, almeno in apparenza”, meditò il maresciallo. Intanto il giovane Petrini stava frugando nel cassone, per l’abitudine a cercar prove o solo per curiosità e far passare il tempo; ma conteneva solo vecchie foto incorniciate o raccolte in buste, quaderni di anni lontani, libri di scuola, lettere in una scatola di latta mezza arrugginita: “Sono vecchi ricordi”, pensò tra sé. Ma nella cassapanca c’era tutta l’anima del maestro Venaris, tutti i simboli del suo mondo passato, tutta la sua vecchia anima che aspettava di morire. Nonostante gli rovistassero tra i suoi oggetti personali il vegliardo non fece una piega; ormai per lui tutto era indifferente, perfino i ricordi di scuola, i quaderni dei suoi alunni migliori, gli encomi alla carriera, le missive di quella donna che lo designava “caro amore mio”, “cuore del mio cuore”, lui, ora parvenza d’uomo, curvo e consumato, grigio e rinsecchito, senza un parente, un amico, la pietà di qualcuno.
34 “Solo polvere, asciutta polvere, neanche ragnatele: questa stanza non è mai stata aperta, anche i ragni hanno bisogno di un po’ di luce… solo al centro del pavimento il polverone sembra sia stato smosso da qualche camminata: il vecchiaccio passerà ogni tanto a guardare nel baule, forse. No, qui non c’è niente”, concluse così le sue ponderazioni il maresciallo Barberi. «Andiamocene», infine ordinò e fecero il saluto al maestro Venaris che non diede risposta né segno di vita. Uscirono da quei locali malsani provandone sollievo e giunti nel cortile si guardarono attorno: solo allora il maresciallo si rese conto che l’anziano maestro durante tutto quel tempo non aveva spiaccicato una sola parola. “Vecchio rincretinito!” inveì mentalmente passandosi la mano sulla fronte e sulle tempie perché soffriva spesso di forti emicranie che a ondate gli avvolgevano il capo. Il cortile era deserto, i bambini erano a scuola, gli uomini al lavoro, restavano solo i pensionati e le massaie che, a conoscenza del fattaccio, se ne rimanevano prudentemente barricati in casa, limitandosi a spiare dalle imposte socchiuse. Trovandosi un pallone tra i piedi, al Petrini venne la voglia di fare due palleggi, ma chiaramente non era il momento. «Che facciamo?» chiese il giovane, vedendo che da lì non si muovevano. «Non lo so.» Tito Barberi, nel corso della sua non certo esaltante carriera, solo all’inizio era riuscito a risolvere brillantemente un caso, ma ultimamente cominciava a pensare che fosse stata solo fortuna. Da quando i rapporti con la moglie erano entrati in crisi anche il lavoro ne aveva risentito e viceversa; con tutta evidenza, i due aspetti della sua vita – quello privato e quello lavorativo – si influenzavano negativamente a vicenda. In certi momenti pareva assente, come immerso in pensieri lontani, faceva solo il dovuto e di malavoglia, e quando, sempre più raramente, decideva di prendere qualche iniziativa, era poco concentrato, indolente, e i suoi propositi per conseguenza non andavano quasi mai a buon fine. Recentemente però, dopo l’abbandono della moglie, gli era venuta l’idea che una sua eventuale promozione sarebbe stata una buona carta da giocare per far tornare la sua Nora. Si figurava di telefonarle e dirle: “Sono stato promosso maresciallo ispettore, torna da me, caro amore…” Ma era solo fantasia, follia, paranoia, si illudeva, non sarebbe mai tornata e, del resto, il suo
35 capitano non gli avrebbe lasciato strada facilmente. Ora, tuttavia, gli era capitato tra le mani questo caso e gli sembrava l’occasione giusta. A ogni modo, doveva risolvere la questione in poco tempo, prima dell’arrivo dei colleghi, presentar loro l’assassino già in manette con un grande colpo di scena. Ma in casa Venaris aveva subito ingenuamente il primo scacco: come pensare che un anziano che sapeva a malapena badare a se stesso facesse lo spione, il guardone e così, per caso, avesse scorto l’assassino compiere il misfatto? Non aveva altri elementi in mano e, francamente, non sapeva cosa avrebbe fatto, né sapeva come in poche ore sarebbe potuto arrivare alla soluzione del mistero. Si avviarono per uscire dal cortile del sarto, quando da una finestra sporse il capo la signora Carla che al vederli prese uno spavento e quindi li supplicò: «Lasciateci in pace, siamo gente onesta noi!» e subito fece per richiudere. «Aspetti signora, una domanda…» tentò il maresciallo. «Io non so niente, lasciatemi stare.» «Almeno mi può dire se conosce il vecchio che abita qui di fianco?» «Quello? È più di là che di qua. Ha un orto pieno di ortiche, ma non si decide a farlo ripulire, è furbo, fa finta di non capire. È un vecchio maestro che si è inebetito da quando non insegna più, o fa finta. Non parla mai, ma ha ancora la vista buona, se vuole… e capisce, se vuole.» «Ma…» «Non apre mai le finestre per cambiare l’aria. Quella casa è come una tomba.» «E…» ma il maresciallo non fece in tempo a dir altro che quella si chiuse dentro. Intanto, nella piazzetta al centro del borgo si stava svolgendo un’animata discussione tra l’oste Menazzo e il signor Ernesto, che si affrontavano come due schermidori sulla pedana, con veloci passi in avanti e altrettanto leste ritirate, puntandosi sul muso ‒ a mo’ di fioretto ‒ il dito carico di accuse e minacce. «E dillo che sei stato tu!» «Io? Ma cosa ti inventi?» «Ah, non mi sono mai fidato di te…» «Cosa? Mi credi capace di…» «Ma confessa una buona volta!» «Confessarmi? Con te? Non sei mica il prete!» «Ah blasfemo! Non hai vergogna…»
36 «Tu piuttosto! Tutti sanno che le mettevi le mani addosso!» «Ah bugiardo! Se le volevo bene come fosse una figlia…» «Tu brutto muso, hai il sangue cattivo…» «Ah maledetto! Ma ti prenderanno!» «Adesso t’accoppo!» «Allora è vero che sei tu…» La gente, uscita dal bar sentendo le voci, se la rideva al vedere i due balordi azzuffarsi, mentre i due carabinieri, mortificati dalla poca collaborazione fino ad allora incontrata, si avviarono a loro volta verso la piazzetta, dove il cane Attila ‒ che già era abbastanza agitato da tutti i movimenti di quel giorno ‒ appena li avvistò da dietro al cancello cominciò ad abbaiare come un ossesso, al che i due litiganti, svelti e senza farsi scorgere, si dileguarono. «Che facciamo?» ripeté ancora l’appuntato che non sapeva che pesci dovessero pigliare. Il maresciallo s’innervosì alquanto, perché non sapeva che rispondere e si trattenne per non sfuriare, quando, nel medesimo istante, da una porta si affacciò una donna che subito rientrò. «Ecco, andiamo a interrogare quella lì», prese l’occasione al volo il maresciallo capo indicando in quella direzione. Si presentarono a quella porta, ma non c’era il campanello, perciò bussarono. Aprì una vecchia signora di piccola statura, storta e ingobbita, con i capelli grigi raccolti in una crocchia, che tutti chiamavano Fosca e le fecero il saluto portando la mano alla visiera del cappello; la vecchia reagì brontolando parole indecifrabili in dialetto (certamente qualche ingiuria) e comunque li fece entrare. Li condusse direttamente in cucina (poiché non c’era anticamera) dove la stufa era accesa nonostante fuori non facesse freddo per niente, ma quelle stanze sembravano molto umide e poco visitate dal sole. «Vai fuori tu!» disse la donna in tono imperioso, rivolgendosi a un ragazzotto dall’aria poco sveglia che stava lì in piedi senza far niente. Quegli allungò il braccio e mostrò il polso al quale portava un pesante orologio col vetro rotto ‒ roba da baracche della fiera ‒ e bofonchiò qualcosa, ma dalla bocca uscì un suono inarticolato, come se la lingua fosse annodata. La vecchia lo mandò via con voce ancor più forte e quello se ne uscì senza accennar protesta. «Chi è?» chiesero i due.
37 «Nessuno, è solo mio figlio, ma è nato scemo, non conta niente», disse senza pietà alcuna per la carne della sua carne. Quel ragazzo tutti lo chiamavano il Muto perché non sapeva parlare, ma faceva solo dei mugugni e nemmeno capiva niente, andava solo in giro per il borgo facendo perder tempo alla gente. Aveva ormai la sua età ed era grande e grosso, curvo e con le braccia penzoloni, tanto che a vederlo faceva un po’ paura perché, così grosso e senza giudizio, non si sapeva che scherzi gli saltasse di fare. La vecchia Fosca si sedette al tavolaccio che stava al centro della stanza e continuò quello che stava facendo prima della visita, cioè spaccare delle noci con i suoi piccoli pugni ossuti e divorarne il contenuto, mentre i due carabinieri rimasero in piedi. Notarono che in un tratto tra il pavimento e la parete si apriva una larga crepa che sembrava penetrare in profondità, i muri erano anneriti dal fumo e ai piedi della stufa erano sparsi tizzoncini spenti e cenere che la vecchia non si preoccupava di spazzare; si vedeva da tutto l’insieme che non ci teneva molto alla pulizia. Il muro dietro la stufa, però, era rivestito di piastrelle e su alcune di esse erano disegnati dei banali motivi casalinghi tra cui una caffettiera, un macinino da caffè, una tazza fumante col piattino. Osservando queste sciocchezze il maresciallo si perse subito dietro alle sue nostalgie: “Il caffè qui non lo sanno fare, non sanno cos’è… la mia Nora sì che fa un bel caffè forte che quando lo bevi ti fa rinascere… ti faceva tornare la forza in quei pomeriggi che stavamo tranquilli in casa, quando non ero in servizio… ma poi tutto è finito, dopo tanti anni è finito.” Era ossessionato dalla perdita della consorte, dalla sua terra che un giorno lasciò, dalla sensazione di essere inadatto per quelle terre del Nord e ormai si sentiva inadeguato anche per il suo lavoro. Il suo subalterno, vedendolo così assente e disattento, decise di fare lui alcune domande. «Signora, ha saputo che la signorina Lidia è stata uccisa?» «Certo che lo so, caro», rispose continuando a masticare con la bocca mezza sdentata e pulendosi le bave con la manica. «Beh, lei ha visto qualche persona sospetta avvicinarsi all’abitazione della signorina?» «Signore mio, io vedo molte cose, ma non mi serve uscire per sapere che succede.»
38 «Cioè?» chiese il Petrini, mentre si irritava sempre più per i colpi che la vecchia dava sul tavolo per rompere i gusci e si domandava perché non si avvalesse di uno schiaccianoci. «Io so chi è stato… lo leggo nei gusci delle noci.» «Ma che cavolo sta dicendo?» sbottò il giovane e con un gesto del braccio la mandò in malora. In quel momento, il maresciallo si destò dal suo torpore e si rivolse alla vecchia: «Dunque lei sa qualcosa?» La Fosca lo squadrò da capo a piedi, come se non lo avesse visto per intero quando era entrato. «Signor tenente», così gli si rivolse e intanto rimestava i pezzetti di guscio sul tavolo, «si vede che lei è uno che ha giudizio anche se non ha nemmeno cinquant’anni; invece questo giovanotto fa lo spavaldo, ma non sa niente e non porta rispetto agli anziani.» “Vecchia ciabatta!” pensò tra sé il Petrini trattenendosi dal mandarla un’altra volta all’inferno. «Sì, sta bene signora», rispose Tito Barberi, «ma io non ho il grado di tenente, sono solo maresciallo capo…» “E la chiama anche signora!” ringhiò tra i denti il giovane. «Come? Non l’hanno ancora promossa?» e intanto rovistava con tutte e due le mani tra i gusci e le briciole come se dovesse far spazio per veder meglio. «I miei segni mi dicono che lei deve diventare un personaggio importante, e se già non lo è, lo sarà presto.» Tentava ovviamente di lusingarlo, poi gettò delle noci intere tra i gusci, recuperò i suoi occhiali tutti unti e sporchi da una tasca del grembiale e li inforcò avvicinando la faccia raggrinzita ancora di più al tavolo: «Vedo che lei (ma mi permetta di chiamarla tenente, tanto prima o poi lo sarà) viene da lontano, ma è venuto qua a portare l’ordine, a scacciare il demonio… nel cerchio della sua vita vedo una donna, ma è uscita dal cerchio e lei sta cercando in tutte le maniere di farla rientrare, ma il cerchio è chiuso e lei tenente non riesce a spezzarlo, né la donna con le sue sole forze può entrare…» Non occorreva essere chiaroveggente per capire che il maresciallo era un forestiero, bastava osservarne i lineamenti e il colorito chiaramente del tipo mediterraneo. E per intuire o supporre che aveva una moglie che ora non c’era più, bastava forse, dopo aver notato l’anello nuziale al dito, osservare che il suo aspetto in certi particolari era trascurato: per esempio i bottoni della divisa non erano ben saldati, i pantaloni in certe
39 zone erano spiegazzati, la barba si vedeva che non era stata fatta la mattina, per non parlare dell’afflizione che si notava nei suoi occhi. Mancava dunque una donna che si prendesse cura di quell’uomo, che poi fosse vedovo o divorziato la vecchia non poteva saperlo, ma restando sul vago si indovinava quasi sempre. «Lei vede il futuro?» rincalzò a quel punto il maresciallo. “E adesso crede alla strega!” esclamò tra sé il giovane alzando le braccia all’aria ma senza farsi accorgere. «Io non posso chiedere quello che voglio», rispose la vecchiaccia, sapendo di averlo ormai soggiogato. «O passato o futuro le noci non lo sanno, non sanno quando o dove…» “E allora usa altra frutta! Vecchia pazza!” pensò ancora il giovane che però non osava intromettersi per non contraddire il suo comandante. «Qui c’è il flusso», continuò la fattucchiera, «in questa casa c’è il flusso, è uno di quei punti dove si uniscono le forze della terra e del cielo, dell’acqua e della roccia, dell’aria e del fuoco, e questa energia muove i gusci delle noci formando dei segni – ma potrei benissimo mettere anche briciole di pane o sabbia o fagioli, sarebbe lo stesso – e l’energia passa attraverso le persone e gli legge nell’anima e io leggo i segni…» «Ma mia moglie tornerà?» chiese Tito Barberi che trascinato dalla disperazione aveva ormai perso la dignità e già non si ricordava più di essere un militare. «Mmh, non posso saperlo, è troppo lontana, non posso leggere nella sua anima…» «Ma… mi vuole ancora bene?» «Io credo certo di sì…» disse la vecchia tanto per farlo contento. Lo vedeva così debole e disarmato che per un attimo, pur col suo cuore guasto, lo compatì. «Perché non torna allora?» implorò l’uomo. «E che ne so!» rispose l’altra, che aveva perso la pazienza e ritrovato in un secondo la sua abituale crudeltà. Allora il poveraccio andò giù afflosciandosi sulla sedia che aveva accanto, chinando la testa e fissando davanti a sé l’aria inconsistente. Si vedeva immerso in una nebbia fitta – quella nebbia che odiava – vagava intorno e di continuo inciampava e cadeva, quando si rialzava vedeva il volto di Nora, faceva per abbracciarla e questa scompariva di nuovo
40 nella foschia, ed egli provava un gran dolore che gli squassava il petto e riprendeva ancora a vagare… Il giovane Petrini – avvedutosi che il suo superiore era andato in prostrazione e rimanendone impressionato e sorpreso perché non gli era mai capitato di vederlo così in basso – pensò di salvare in qualche modo la situazione. «Insomma, se lo sa, ci dica chi è l’assassino!» disse rivolto alla megera, con un tono di voce più alto del solito e un’inaspettata autorità. All’udire quella voce chiara e sonante, il maresciallo si destò e tornò nel mondo normale ricomponendosi e riassumendo il suo ruolo. «Signora! Non perdiamo tempo!» intimò alla vecchia. La Fosca sussultò colta di sorpresa dall’improvviso assalto. A ogni modo li assecondò, pensando che con l’astuzia li avrebbe in qualche maniera imbrogliati e cominciò di nuovo a far girare sul tavolo i gusci, le noci e i vari frammenti, ogni tanto sputacchiandoci sopra, forse per dare più gusto al miscuglio. Ora con gli avambracci stesi sul piano continuava a fare larghi giri e altalenava avanti e indietro il suo busto rinsecchito, mentre le palpebre le chiudeva a metà e le pupille le buttava indietro lasciando intravedere, dietro le lenti sporche, solo il bianco degli occhi; la bocca era semiaperta e le labbra flaccide tremavano, ma non ne usciva parola, solo un rantolio. “Allora è veramente una strega”, pensò il giovane. Continuò a lungo questo rituale, recitava una parte già collaudata; il maresciallo guardava l’orologio, il tempo stringeva. L’anziana donna, man mano che passavano i minuti, sembrava come raddrizzarsi, crescere, le si gonfiava il petto in respiri lunghi, i suoi muscoli parevano irrobustirsi: quasi senza coscienza prese una noce in una mano e la schiacciò con le sole dita andando poi a mischiarla con tutto il resto. L’appuntato sbalordito guardò il suo comandante, ma questi continuava a fissare con pazienza la donna sperando in un responso e anche perché, dato che era un poco superstizioso, temeva che la Fosca gli mandasse qualche iettatura. Finalmente la vecchia iniziò a parlare, la sua voce grattava come un vecchio disco in vinile troppo consumato: «… arriva dall’alto… vola come un falco…» «Ma che diavolo dice?» sussurrò il Petrini, ma l’altro gli fece cenno con la mano di aspettare.
41 «… ha troppe voglie… non vuole moglie…» “Anche la rima! È assurdo!” Improvvisamente la vecchia si svegliò, si dette uno scrollone, si alzò, prese il secchio della spazzatura e con il braccio raspò tutti i resti di quello strano evento e li gettò dentro al secchio, poi disse come nulla fosse: «Signori, la seduta è finita, adesso devo mettere a bollire la minestra.» Poi aggiunse, con parole senza comando che le uscivano gracchiando dalla gola, come se un residuo di quell’oracolo le fosse rimasto nel petto: «…soffia tra le foglie…» I due carabinieri, senza dir niente e poco convinti, abbozzarono un saluto e se ne uscirono. Quando furono nella viuzza il Petrini esclamò: «Quella è una vecchia matta!» «Fa niente, si prenda nota di quelle parole che ha detto, non dobbiamo trascurare nessun dettaglio.» «Come? Ma signore, non significa nulla, è un delirio! E poi che facciamo? Non ci aiuta certo questo a trovare chi ha ucciso la ragazza!» «Stia calmo Petrini, ed esegua quanto le è richiesto», disse perentorio il maresciallo. «Abbiamo tempo fino a questa sera, mentre aspettiamo è nostro dovere fare di tutto perché le indagini procedano.» Il ragazzo non poteva opporsi ai suoi ordini, prese il taccuino e annotò le poche frasi; non sapeva di preciso quali fossero le sue intenzioni, né sapeva dove sarebbe arrivato con quelle fissazioni, soltanto seguiva con un certo grado di sottomissione e indolenza la sua guida. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD