Ulisse torna sempre

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VALENTINA PAPA

ULISSE TORNA SEMPRE

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ULISSE TORNA SEMPRE Copyright Š 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-551-9 Copertina:Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Giugno 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova


All'isola che ognuno di noi ha dentro di sĂŠ, e al mare di Agropoli, sempre.



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Prologo Il segreto del marinaio

Il faro di Torresogno da lontano appariva come un piccolo marinaio bianco, un omino speranzoso che aspettava paziente l’arrivo della sua nave. Osservandolo dal porto, Aurelio non poteva fare a meno di notare quanto quel bianco splendente fosse in realtà una pura e semplice illusione. Spesso saliva lassù, insieme alla nonna, e avvicinandosi al faro toccava con le piccole mani i pezzi d’intonaco che si sgretolavano sulla sua pelle, lasciando ombre bianche sulle dita. Lui conosceva il segreto del marinaio: la sua divisa bianca, accecante da lontano, non era altro che una logora veste che a malapena lo ricopriva. Povero marinaio, così vecchio e stanco, così nudo ed esposto al mare, così speranzoso e silenzioso, ad attendere una nave che non sarebbe mai arrivata. Aurelio a volte si sentiva come quel vecchio marinaio, e avvertiva in gola una mano stretta a pugno, che gli impediva di respirare e lo faceva piangere. Ma spesso si tratteneva, perché i bambini non devono piangere.


6 Almeno così diceva suo padre, che non piangeva mai. Nemmeno quando i suoi pazienti morivano e lui gli appoggiava la mano sugli occhi, facendosi il segno della croce. I suoi occhi turchesi ritornarono sul faro. Era un faro antico, antico come Torresogno, o forse c’era ancora prima che Torresogno nascesse. Chissà. Un sasso lanciato pesantemente nell’acqua sfiorò il suo orecchio, facendolo sussultare appena, e delle grida sguaiate alle sue spalle lo costrinsero a girarsi. Eccoli là, i sei ragazzini più cattivi del paese, i Pirati. Michele, il capogruppo, stringeva tra le mani alcuni sassolini, e guardava Aurelio con quel suo solito sorriso storto sulla bocca. Aurelio odiava quelle labbra: erano le labbra delle bugie, delle parole aguzze, più potenti dei sassi che gli lanciava sempre. «Guardate, Pirati, guardate! Il Tedesco sta scrivendo la letterina d’amore a donna Carmela! Ma quella non ti guarda, Tedesco, hai capito? Buffone! Buffone!» urlava Michele, lanciandogli altri sassi. Subito gli altri cinque lo imitarono, iniziando a scagliare piccole pietruzze e frammenti di conchiglie contro quella schiena esile, che li ignorava senza sforzo apparente. Un frammento di conchiglia si incastrò tra i capelli biondi di Aurelio, quei capelli chiari come le spighe del grano baciate dal sole, che gli avevano fatto guadagnare il suo stupido soprannome. Il Tedesco lo chiamavano, per via dei suoi occhi azzurro pallido e di quei capelli stridenti, accecanti come la divisa bianca del suo amico marinaio, il faro. E il Tedesco si notava, in mezzo a quei bambini figli del sole, coi capelli scuri come il carbone e con la pelle dipinta d’acquerello ambrato. Il Tedesco sotto il sole non si abbronzava, ma arrossiva come le femmine. E allora non c’era niente da fare, era condanna-


7 to quel figlio della luna: non poteva essere come gli altri, e forse già lo sapeva. Ignorando le risate dei Pirati, finalmente cacciati via dai pescatori, Aurelio districò il frammento di conchiglia dai capelli. Lo rigirò per qualche secondo tra le dita, catturando i riflessi del sole su quella minuscola superficie rosa, e finalmente si decise a lanciarlo in acqua, insieme all’ultimo sasso lanciato dai Pirati. La superficie del mare s’increspò appena, e con un piccolo tonfo il sasso sprofondò. Una goccia d’acqua salata finì sul piede nudo di Aurelio, che rimase a guardarla per qualche istante. Poi ci poggiò un dito sopra, premendo leggermente, e si portò quella goccia alle labbra. Subito il sapore prepotente del sale si arginò sul suo labbro inferiore, e nello stesso istante sul vecchio faro un’onda s’infranse. Il marinaio stava assaporando l’acqua marina, proprio come lui.



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Capitolo Uno

«Ecco qua. Sono 100 lire, Aurelio». Il sorriso gentile di donna Carmela lo investì come un treno in corsa. Il cuore gli batteva più forte dentro il petto tanto sottile, ma sperava che donna Carmela non se ne accorgesse. Frugò nelle tasche dei pantaloni di lino, facendo tintinnare appena le monete. Contò in fretta per non dare a donna Carmela la possibilità di accorgersi delle sue dita tremanti, e le porse le monete senza guardarla negli occhi. Sapeva di perdersi un altro sorriso al profumo di pane, ma non poteva rischiare d’arrossire nuovamente. «Grazie, Aurelio bello. Porta tanti saluti a tuo padre e a tua madre da parte mia e di Renato, va bene?» la voce morbida di donna Carmela si insinuò gentile tra le pieghe della sua timidezza, e Aurelio non poté non alzare gli occhi. Annuì appena, frettoloso di porre fine a quell’imbarazzante servizio, ma al tempo stesso desideroso di prolungarlo il più possibile. «Carmela, Carmela mia, buongiorno!». La signora Adelaide entrò nel piccolo negozietto con il suo solito vestito a fiori della domenica mattina, chiassosa e ingombrante come sempre. L’attimo d’incanto si spezzò immediatamente, e Aurelio prese velocemente dal bancone il pane appena pagato. Le sue dita si strinsero sulla carta ammorbidita dal calore del pane e, sfiorando


10 solo per un attimo con gli occhi il viso della signora Adelaide, mormorò un cauto buongiorno. «Ah, Aurelio, ci sei pure tu! E come facevo a non notare questo bambino bello, mamma mia guarda che occhi, Carmelina, guardalo!». le dita ingioiellate della donna strinsero le guance di Aurelio, che teneva la mascella contratta per il fastidio di quel contatto. «Eh lo so, lo so, Aurelio è bello e tanto bravo». Carmela sorrise, trattenendosi dalla voglia di ridere vedendo il bambino così infastidito dai modi della signora. Gli occhi marroni di Carmela incontrarono quelli di Aurelio, e lui dimenticò le grosse dita che gli stringevano le guance: in quel momento c’erano solo gli occhi di donna Carmela, quel marrone intenso che faceva pensare alla sfoglia calda e croccante dei cornetti che sfornava insieme a Renato la mattina presto. Aurelio osservò con gli occhi spalancati la sottile linea nera sopra le palpebre della donna, quel filo di trucco che secondo lui non andava bene, non su donna Carmela. Doveva ricoprire lo sguardo con qualcosa di chiaro, come il sole, come i raggi d’oro che la mattina arrivavano sul faro. Un giorno, forse, gliel’avrebbe detto, e i suoi occhi avrebbero brillato più del sole stesso. Si scambiarono un sorriso lieve, delicato, e finalmente la signora Adelaide si decise a lasciarlo andare. Ma non prima di avergli scompigliato i capelli, e soprattutto di avergli detto: «E salutami tuo padre, Aurelio, digli che la tosse di mia figlia è passata, ma se vuole passare la ricontrolliamo che altrimenti non mi tranquillizzo. Ah, la salute... la salute, Carmelina mia, che te lo dico a fare...». Donna Carmela trattenne un sospiro, e con pazienza ascoltò la solita storia che la signora Adelaide le raccontava ogni mattina. Mentre la signora parlava, però, Carmela si perse a osservare il


11 Tedesco che si allontanava velocemente, scivolando via come un gatto silenzioso. I capelli biondi del Tedesco rubavano i raggi del sole, e uscendo dal negozio sembravano una fiamma che lentamente bruciava della sua stessa luce, abbagliando chiunque si avvicinasse.

«Buongiorno, nonna!» la voce quasi impercettibile di Aurelio finalmente si accese, salendo di una tonalità, e un sorriso sincero apparve sulle sue labbra piene. «Aurelio mio, ciao. Vieni, fatti baciare». Le mani invecchiate dal tempo, ma pur sempre piene di forza, strinsero a sé il piccolo nipote, che non esitò a baciare la guancia della nonna con affetto. «Perché sei seduta, nonna, che stavi facendo?» chiese subito Aurelio, leggermente preoccupato. Vittoria sorrise, invitando il suo amato nipote a salire sulle sue gambe, tenendolo in braccio come fosse ancora un bambino. Suo figlio Angelo si lamentava sempre di quell’abitudine, rimproverando con gli occhi la madre. Voleva che Aurelio crescesse, possibilmente in fretta, e si rifiutava di accettare che a nove anni un bambino desiderasse ancora essere baciato e abbracciato. La verità era che suo figlio aveva dimenticato cosa voleva dire essere bambini. Non poteva permettere che a soli nove anni suo nipote facesse lo stesso errore. E così, Aurelio sedeva felice tra le braccia rassicuranti della nonna, che lo stringeva a sé e gli carezzava i capelli con amore infinito. Potevano restare ore e ore in quella posizione, anche senza dirsi nulla: tra loro c’era un legame speciale, qualcosa che univa quel bocciolo di una vita appena iniziata alle radici profonde della nonna, una quercia che lo proteggeva e gli assicurava riparo dalla pioggia.


12 «Riposavo, Aurelio mio. Ogni tanto anche la nonna ha bisogno di riposare». Il bambino si scostò appena, scrutando la nonna negli occhi: «Non ti senti bene?». Vittoria ricambiò l’occhiata, affascinata e stupita dalla somiglianza che trovava ogni volta tra suo figlio e suo nipote: quello stesso sguardo color mare li caratterizzava, e in quegli occhi turchesi era possibile scorgere la stessa inquietudine. Aurelio fissava la nonna con intensità e preoccupazione, la stessa che poteva leggere negli occhi del padre quando osservava un paziente con sguardo esperto, in cerca di sintomi che solo lui poteva svelare. «Aurelio, Aurelio, e che ti preoccupi? Vuoi fare il dottore, come tuo padre?» Vittoria sorrise di nuovo, sfiorandogli la guancia morbida. «No, come mio padre non voglio diventare. Io voglio scrivere, nonna, come Virgilio. Voglio raccontare la storia degli eroi e delle muse, come tu la racconti a me». L’indice di Vittoria si posò sulle labbra del nipote: «Aurelio mio, non ti far sentire da tuo padre a dire queste cose. Poi si arrabbia, lo sai». Il nipote si strinse nelle spalle: «Scusa, nonna, è che solo a te la dico la verità. E poi che c’è di male, Virgilio lo studio quando vado all’altra scuola, quella dei grandi. Me l’hai detto tu. E se io divento uno che si studia a scuola, nonna, mica è una cosa brutta. No?». Lo sguardo della nonna sfuggì per qualche istante dal suo, posandosi sul mare che si stendeva sotto di loro, ai piedi della grande casa sulla collina. Dalla loro terrazza la vista era meravigliosa, lo sapeva bene, e spesso si perdeva a contemplare le diverse sfumature che il mae-


13 stoso mare assumeva, prendendosi gioco dei suoi occhi e cambiando ogni istante. Poi sospirò, lasciando scorrere le dita tra i capelli del nipote, e scosse appena la testa: «Studierai, studierai e aiuterai tante persone, perché il dottore è un lavoro bello e importante, e tu sei bravo e lo puoi fare». «Ma se non lo voglio fare, nonna, papà non si deve arrabbiare! Glielo dici tu che non lo faccio, nonna? Per favore, glielo dici?». Gli occhi di Aurelio diventarono lucidi e supplichevoli, inchiodando quelli di Vittoria. Lei non rispose, stringendosi il nipote al petto e perdendo di nuovo lo sguardo tra le onde. In cuor suo si chiedeva se non avesse sbagliato a raccontare ad Aurelio di Ulisse, Achille e di tutti gli altri eroi della mitologia. Era una sua grande passione e condividerla con il nipote le dava un enorme piacere. Aurelio era intelligente e molto profondo per la sua piccola età: aveva voglia di sapere, era curioso del mondo, e lei sentiva sempre il bisogno di incoraggiarlo. Le sue fiabe della buonanotte non erano comuni, ma Aurelio si addormentava felice, cullato dalle parole di Penelope che aspettava Ulisse, tessendo la sua tela. Si svegliava al mattino chiedendo particolari, dettagli che a volte Vittoria non sapeva dargli, e la domenica sulla spiaggia sognava di vedere all’orizzonte la coda di qualche sirena che attendeva al varco un eroe per ammaliarlo. Quelle sirene non le avrebbe mai viste, ma Vittoria non glielo diceva mai. Del resto, come Vittoria aveva intuito prima del tempo, suo nipote non sarebbe mai stato quello che suo padre desiderava.


14 Ma Vittoria a suo figlio Angelo questo non lo diceva mai. Era meglio aspettare in silenzio, e continuare ad amare suo nipote con tutte le sue forze. Il tempo avrebbe fatto il suo corso, e cosĂŹ doveva essere.


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Capitolo Due

«Aurelio? Aurelio!» la voce autoritaria di Angelo sferzò il silenzio della grande casa, e dopo qualche istante dei piccoli passi frettolosi annunciarono la presenza del figlio. «Eccomi, papà». Angelo guardò severamente il bambino, cancellando dagli occhi turchesi qualsiasi traccia di benevolenza: «Deve bastare una volta, quando ti chiamo». I capelli biondi di Aurelio si mossero appena mentre lui annuiva, tenendo lo sguardo fisso sui piedi. Suo padre lo osservò con occhio critico, notando immediatamente i pantaloni sgualciti e la maglietta leggermente macchiata. «Che hai fatto, qua, ti sei sporcato?» chiese, sempre con quel tono serio che lo contraddistingueva. Aurelio si schiarì appena la voce: «Non lo so, papà». «Come, non lo sai? Che vuol dire, Aurelio, che non lo sai?». Angelo iniziò ad alterarsi, innervosito dal fatto che il bambino non lo guardava. Era suo figlio e nemmeno riuscivano a guardarsi negli occhi. Quegli occhi che tutto il paese di Torresogno gli decantava, e che lui, suo padre, non vedeva che di sfuggita. Erano simili ai suoi, dicevano, solo ancora più chiari. Ma lui la differenza non la notava, perché Aurelio guardava tutti tranne lui.


16 Come se nascondesse qualcosa, come se negli occhi del padre ci fosse un abisso terribile in cui rischiava di sprofondare. «Aurelio?». «Sì, papà». Le sue labbra sussurrarono quella risposta quasi automatica, e poi l’attenzione del bambino si spostò sulla cartella di pelle, mollemente appoggiata accanto alle gambe del padre. «Ti metto la borsa al suo posto, papà» disse poi, avvicinandosi automaticamente alla sedia dove stava il padre, ben attento a non sfiorarlo. Angelo lo guardava, immobile, pur desiderando sfiorare con una mano quei capelli d’oro. Ogni volta che la volontà di donargli un piccolo gesto d’affetto veniva fuori, le sue mani improvvisamente diventavano di piombo. Qualcosa lo frenava dall’avvicinarsi troppo al bambino... il suo bambino! E dire che a Torresogno tutti lo conoscevano come il medico più bravo, lui che dispensava carezze e consigli insieme alle medicine. Tutti i bambini lo attendevano con un sorriso, tutti lo salutavano con rispetto. Poi tornava a casa, e l’incantesimo si spezzava. Si era chiesto spesso se fosse lui il problema, se c’era qualcosa che non andava nel suo atteggiamento. Rita, sua moglie, a volte lo rimproverava timidamente: «Non devi essere così...». E Angelo sospirava, replicando: «Deve crescere forte. Per colpa tua e di mia madre, non sa reagire. Non reagisce mai». «Ma Aurelio è piccolo...» mormorava Rita, con un gesto di resa. «A nove anni, oggi, bisogna imparare a essere grandi» diceva lui, risoluto. Ma ogni volta la storia era sempre la stessa. E le sue parole si ripetevano, anno dopo anno: «A dieci anni, oggi... a undici anni, oggi... a dodici anni, oggi...» e così via.


17 Questa storia era andata avanti per anni, e per anni Angelo aveva guardato con invidia gli altri padri. Si chiedeva se fosse lui il problema, quello sbagliato. Lui non era come gli altri padri, severo al punto giusto, ma anche buono al punto giusto? Si era interrogato tante volte su questa questione. Poi, finalmente, aveva iniziato a capire. Non era lui che non era come gli altri padri, no. La verità è che suo figlio non era come gli altri bambini.


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Capitolo Tre

La campanella della scuola media di Torresogno sferzò l’aria, rompendo il silenzio incantato che fino a pochi istanti prima regnava indisturbato sull’istituto. Dei gridolini di felicità accompagnarono quel rumore, assieme a leggeri sospiri di sollievo, quasi impercettibili. Le sedie di legno si spostarono velocemente, producendo un rumore sordo e fastidioso nel loro strisciare decise sul pavimento. Rumori di passi, di tanti passi, mescolati a suoni di voci più o meno adolescenti riempirono la scuola. La maestra Patrizia fu la prima a uscire dall’istituto, con tutti i ragazzini dietro di lei che aspettavano rispettosamente che le porte venissero spalancate prima di lanciarsi fuori, incontro ai loro genitori e amici. Lo spiazzo di fronte alla scuola era gremito di motorini. Qualche Lambretta si scorgeva in mezzo ai più diffusi modelli di Vespa, decisamente il mezzo preferito dai ragazzi di Torresogno. Ogni modello ricordava le sfumature delle nuvole, dal bianco panna all’azzurro pallido. Aurelio le guardava, passandoci in mezzo con la cartella pesante sulla spalla, e sognava di possederne una anche lui. Con quella sarebbe andato lontano, molto lontano, e nessuno lo avrebbe più riconosciuto o chiamato il Tedesco.


19 Nonna Vittoria lo aspettava seduta su una panchina poco distante dal cancello di scuola e, quando lo vide, agitò lievemente il ventaglio in segno di saluto. Vedendola Aurelio si dimenticò immediatamente di tutti quei motorini che tanto invidiava, e corse incontro alla nonna urlando: «Ciaooo!». Vittoria rise, osservando i capelli biondi del suo bambino agitarsi nell’aria. Faceva più caldo del solito, oggi, e le guance di suo nipote erano lievemente arrossate dal sole. «Aurelio, non correre!» disse la nonna teneramente, chiudendo il ventaglio con un gesto elegante e allargando le braccia per accogliere il suo nipotino. Lui sorrise, leggermente affannato, e buttò le braccia al collo della nonna: «Ciao, nonna!». Gli occhi della donna si addolcirono, ma alzandosi cercò di darsi un tono di fronte al nipote: «Su, su, Aurelio, non vorrai mica farti vedere dagli altri bambini in braccio a tua nonna? Hai tredici anni, adesso, e lo sai che a scuola non dovrei neanche più venirti a prendere!». Il suo tono di finto rimprovero fece sorridere Aurelio. «Nonna, che me ne importa di quello che pensano i bambini! I maschi sono stupidi...» disse, prendendole la mano e iniziando a incamminarsi con lei verso casa. Vittoria gli strinse appena le dita, corrugando la fronte: «E chi te l’ha detta, questa cosa?». Suo nipote si strinse nelle spalle, sistemandosi meglio la cartella di pelle e spingendola verso il collo: «Lo dice anche Raffaella, che sono stupidi». La nonna si accigliò appena, cercando di ricordare chi fosse Raffaella. Nella sua mente cacciò l’immagine della sarta che aveva il negozio alla pineta e si fece strada tra i ricordi il volto della bambina con cui aveva visto più volte Aurelio giocare.


20 «Raffaella... la tua amica della classe? Quella con i capelli lunghi, scuri?». «Sì nonna, certo. Chi sennò?» disse lui, indignato dal fatto che la nonna non ricordasse la sua amica. «Ma perché l’ha detto, che è successo?» chiese Vittoria, fingendosi distaccata. Ancora una volta, Aurelio scrollò le spalle. Quel gesto stava diventando un’abitudine, il suo modo personale di scacciare pensieri che lo infastidivano. Continuarono a camminare per un po’, in silenzio, e Vittoria attendeva invano che suo nipote parlasse. Poi, quando erano ormai in prossimità di casa, lo incalzò: «Sono stati i Pirati, Aurelio? Che hanno fatto?». «Niente, mi danno fastidio. E poi Michele mi scoccia sempre, nonna, solo perché io con lui non ci voglio giocare. Fanno le cose stupide e io non mi diverto con loro. Preferisco giocare con Raffaella, perché con lei non devo fare male a nessuno». Vittoria si fermò di colpo, bloccandosi a metà della scalinata. I suoi occhi incontrarono quelli del nipote, che però sfuggivano come piccole onde. «Aurelio, in che senso devi fare male? Che giochi fanno, i Pirati?». Lui deglutì e lo sguardo color cielo si offuscò appena: «C’era un gatto, nel giardino, e loro hanno preso dei sassi e glieli tiravano. Il gatto però è scappato sul tetto e Michele giocava a chi tirava il sasso più in alto per prendere il gatto. Io sono passato a vedere che succedeva, nonna, e quello mi ha dato un sasso e mi ha detto: “Tira, tira!”...». nuvole scure passavano veloci in quegli occhi candidi, e Vittoria sognò di essere un soffio di vento fresco per poterle cacciare via. «E tu l’hai tirato, il sasso?».


21 La bocca di Aurelio si spalancò, sconvolta: «Nonna! Ma secondo te, io un sasso a un gatto lo tiravo?!» disse, e la sua voce divenne leggermente più acuta per l’incredulità. La mano ingioiellata di nonna Vittoria gli sfiorò dolcemente i capelli: «No, hai ragione, scusami tesoro mio. Lo so che non l’avresti mai fatto». «Eh.» disse il nipote, ancora leggermente risentito. «No che non lo faccio, io. Però poi i sassi li tiravano a me, e mi hanno detto: “Vai, vai Tedesco, vai a giocare con le femmine!”... ecco che mi hanno detto...». I suoi bellissimi occhi si riempirono di lacrime, e con un gesto vergognoso Aurelio le asciugò in fretta, passandoci sopra la manica del grembiule nero. Nonna Vittoria trattenne un sospiro e strinse il nipote contro il petto. Rimasero in silenzio per qualche istante, e dalla scalinata la nonna contemplava il mare sotto di loro. All’improvviso Aurelio si districò da quell’abbraccio confortante, con gli occhi leggermente arrossati, e disse con forza: «Andiamo, nonna, che poi la mamma si preoccupa se facciamo tardi». Vittoria sorrise, tirandolo per un braccio: «Mamma oggi non c’è, è andata da tua zia per aiutarla a misurare il vestito di tua cugina». «Che vestito? Gloria ha un vestito nuovo?» chiese, improvvisamente interessato. «Sì, un bel vestito nuovo. Presto verranno i cugini di Milano e faremo una festa tutti insieme». «Una festa? Perché, nonna?» Vittoria sorrise: «Per festeggiare il compleanno di Fulvio, il loro bambino». Dopo qualche istante di silenziosa perplessità nel sentire quella notizia, la risata cristallina di Aurelio spezzò il silenzio: «E cosa fa, festeggia il compleanno a Torresogno?».


22 «Sì, Aurelio. Che c’è da ridere?». Il nipote la guardò, scioccato: «Ma nonna, lui è a Milano! Cosa ci viene a fare, a Torresogno, quando sta lì? Quello è un posto dove fare la festa, non questo paese pieno di bambini stupidi...». Vittoria assunse un’aria di finto rimprovero: «Aurelio, non dire così. Torresogno è il tuo posto, è dove sei nato... e qui non ci sono solo bambini stupidi, ci sei anche tu. E c’è tuo padre, tua madre, tua cugina Gloria a cui vuoi tanto bene...». «Ci sei tu, nonna!» aggiunse Aurelio sorridendo, e strappò un sorriso anche a Vittoria. «E c’è anche il mare. A Milano il mare non c’è, Aurelio, lo sai vero?». Il nipote annuì: «Certo che lo so. Io studio, mica sono come Michele». «Lascia perdere Michele. Devi andare fiero del posto in cui sei nato, Aurelio, hai capito? Tuo padre è conosciuto come il miglior medico di Torresogno, la nostra famiglia qui è importante. A Milano saresti uno dei tanti, qui sei il figlio di Angelo Ducato, il bel figlio del dottore più bravo di Torresogno. Non ne sei orgoglioso, Aurelio mio?». Suo nipote abbassò gli occhi, guardandosi la punta delle scarpe, e dopo aver sfiorato solo per un istante il viso colmo d’apprensione della nonna spostò lo sguardo sul mare. Il faro brillava in lontananza, nel suo bianco accecante e illusorio come sempre. «A volte è uno dei tanti che preferirei essere, nonna, capisci...» mormorò lui, e poi senza aggiungere altro le prese di nuovo la mano, risalendo lungo la scalinata.


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Capitolo Quattro

«Aurelio, fermati». Vittoria lo bloccò, tirandolo appena per la mano stretta nella sua. Suo nipote si voltò a guardarla con aria interrogativa, appoggiando il piede sul gradino di pietra. I suoi occhi erano due onde agitate, un cielo mai terso. Ancora una volta, Vittoria riuscì a cogliere ogni nuvola in quello sguardo. E proprio per questo si sforzò di sorridere, di portare un raggio di sole in quegli occhi che non potevano apparire così rassegnati, non alla sua età. «Che c’è, nonna?». Aurelio la osservò insospettito, cercando di capire perché la nonna lo stesse guardando in quel modo strano. Lei però tirò fuori dalla borsa il ventaglio, incurante di quell’occhiata interrogativa, e con gesto teatrale lo aprì e lo sventagliò davanti al viso. Qualche capello sfuggito al fermaglio di perle sbuffò nel vento. «Fa caldo, Aurelio mio, e a casa non c’è la mamma. Facciamo una cosa, andiamo a mangiare al porto, là staremo freschi di sicuro». «Al porto, nonna? Da Sergio?». Aurelio si illuminò all’idea di quel bel ristorante, con il pesce fresco servito su piatti decorati d’azzurro. Adorava quel posto, era il ristorante delle grandi occasioni, quello dei festeggiamenti dei grandi.


24 Nonna Vittoria sorrise: «Ma sì, andiamo da Sergio. Su, tesoro mio, scendi». «Nonna, ma lo posso togliere il grembiule?» disse lui, entusiasta dall’improvviso cambiamento di programma. Vittoria scoppiò a ridere: «E va bene, ma io ti aspetto qui. Fai in fretta, Aurelio, mi raccomando». Non fece in tempo a finire la frase che suo nipote scattò verso casa, saltando agilmente ogni scalino con facilità. Stava crescendo sempre di più, ma il suo corpo esile non cambiava: magrissimo e alto, Aurelio somigliava più allo stelo delicato e sottile di un fiore che a un ragazzo che andava sviluppandosi. Eppure non si accorgeva che le ragazzine di Torresogno lo guardavano e si scambiavano sorrisini, incantate da quel figlio del dottore così distinto, così biondo e diverso da tutti gli altri. Ma Aurelio non le notava, se non nel momento in cui cercava qualcuno con cui condividere i suoi giochi misteriosi, giochi da bambino un po’ cresciuto che si divertiva a fare ancora oggi, mentre suo padre attendeva speranzoso che suo figlio diventasse un adulto. «Eccomi, nonna, andiamo!». La voce improvvisamente carica d’allegria distolse Vittoria da quei pensieri. Aurelio indossava una delle sue maglie preferite, a righe bianche e blu, uno dei rari regali del padre al di fuori del classico regalo di compleanno. Quel motivo conferiva al suo corpo esile un po’ più di spessore, e Aurelio con quel semplice tessuto si sentiva più grande, addirittura più bello. Prese la mano della nonna con un sorriso, lasciando che le loro dita si intrecciassero in una stretta familiare. Aurelio percepiva sotto di sé le dita forti della nonna, e conosceva a occhi chiusi ogni millimetro di quelle mani. Gli anelli premevano il loro me-


25 tallo freddo contro la mano di Aurelio, e la fede più di ogni altro gioiello si riconosceva tra quelle dita segnate dal tempo. Camminarono in silenzio fino al porto, dove il vento soffiava più deciso, dando sollievo a Vittoria che iniziava a sentire fin troppo caldo. I capelli di Aurelio svolazzavano appena, giocando con gli sbuffi d’aria che li accarezzavano. Avvicinandosi al ristorante di Sergio, per il quale ogni giorno i pescatori di Torresogno si contendevano il pesce migliore da offrire, gli occhi di Aurelio furono attratti da qualcosa di bianco in lontananza. Alzò appena lo sguardo, con un piccolo sorriso sulle labbra piene, e salutò mentalmente il faro bianco. Il vecchio faro sembrò inchinarsi appena per uno strano gioco di luce, e Aurelio lo interpretò come un saluto regale alla sua persona. Nel frattempo, gli occhi di Vittoria non avevano perso per un solo istante quelli del nipote e, vedendo spuntare quello strano sorriso, non ci mise molto a ricollegare lo sguardo di Aurelio al faro in lontananza. Peccato che suo nipote si stesse perdendo il visino dolce di Angelina, la figlia di Sergio, che gli sorrideva felice vedendolo avvicinarsi al ristorante. «Buongiorno, donna Vittoria. Buongiorno, Aurelio» disse la ragazzina, arrossendo leggermente. «Buongiorno a te, cara. Oggi abbiamo deciso di mangiare il pesce più buono che c’è, e questo è il posto migliore». Vittoria le sorrise, benevola, mentre le guance della ragazzina si colorivano ancora di più. «Grazie, signora, siete sempre gentile. Chiamo subito papà». Con le dita sottili, Angelina si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, in un gesto che tradiva la voglia di apparire più grande e più femminile che mai. I suoi occhi si spostarono speranzosi sul viso di Aurelio, che però aveva lo sguardo ancora perso in lontananza.


26 La stretta forte di Vittoria riportò il nipote alla realtà, che mettendo a fuoco Angelina la salutò con un sorriso caloroso. «Come stai, Angelina?». «Oh, bene, grazie. E tu?» rispose lei, compita come una piccola donna. Aurelio scrollò le spalle, senza rispondere, e improvvisamente i suoi occhi si spostarono sul collo della ragazza, attorno al quale era posato un foulard bianco e rosso dalle sfumature delicate. «Ooh, Angelina, ma che bello! Lo sai che ti sta proprio bene?» disse Aurelio d’impulso, lasciando la mano della nonna per avvicinarsi. Senza pensarci, allungò le mani sul collo della sua amica, toccando la stoffa sottile del foulard e facendosela scivolare sotto le dita. «Mi piace un sacco... è proprio delicata, poi, sembra fatta di... di vento!». Aurelio sorrise, alzando gli occhi grandi su quelli di Angelina, a pochi centimetri dai suoi. La bambina lo guardava affascinata e impietrita al tempo stesso, incapace di dire qualsiasi cosa. «Aurelio...» disse gentilmente la nonna, cercando di dare alla sua voce un piccolo tono di rimprovero. Eppure non ci vedeva nulla di male in quel gesto così privo di malizia, anche se comprendeva che suo nipote non era affatto cosciente dell’effetto che aveva provocato alla bambina. Pur sentendosi intenerita dalla capacità di conquista di Aurelio, una piccola voce dentro di lei continuava a sussurrare qualcosa che non aveva ancora la forza di sentire del tutto. E così la zittiva, lasciandola bisbigliare in sottofondo i suoi sospetti. «Ah, ma che piacere... donna Vittoria, signora mia! Buongiorno!». La voce possente di Sergio interruppe quel momento, e con un gesto improvviso Angelina si scostò da Aurelio per avvicinarsi al padre.


27 «Buongiorno». Vittoria cercò di distendere il più possibile il sorriso che faticava a salire alle labbra, e incontrando gli occhi buoni di Sergio finalmente ci riuscì. «Ah, Aurelio, ciao! Oggi siete solo voi due?». La mano grande dell’uomo si poggiò sulla testa di Aurelio, scompigliandogli appena i capelli. «Sì, oggi ci concediamo un pranzo speciale. C’è un tavolo qui all’aperto?». Sergio sorrise, orgoglioso di poter concedere alla signora Ducato uno dei tavoli migliori del suo bel ristorante: «Angelina mia, accompagnali al tavolo sul terrazzo, oggi il vento è piacevole e mangiare sopra il mare sarà ancora più bello». Angelina scattò in avanti, seguita a ruota da Aurelio e da Vittoria, che sorrise a Sergio per ringraziarlo del trattamento di favore. In realtà la sua vita a Torresogno era sempre stata così, sin da quando all’età di sedici anni si era fidanzata ufficialmente con il bell’Aurelio Ducato, destinato a diventare suo marito quattro anni dopo. Da quegli anni spensierati a oggi non era cambiato nulla, e Vittoria si era abituata a essere trattata come una delle personalità più importanti di Torresogno. Aurelio era nato alla fine degli anni Cinquanta e per questo motivo non comprendeva appieno la sua fortuna. Era nato e vissuto tra quei privilegi, abituato a essere considerato come il figlio del dottor Ducato, e non si rendeva conto dei trattamenti di favore che spesso e volentieri gli erano concessi nel paese. Lui, come tutti i bambini, vedeva il mondo solo tra i coetanei attorno, e si crucciava per un soprannome che in realtà non significava nulla. Nulla, tranne il fatto che era diverso.


28 Sul terrazzo del ristorante Aurelio e Vittoria avevano la sensazione di dominare tutto il paese, con il mare sotto di loro che si stendeva come un elegante arazzo cangiante. Grazie al vento fresco, l’incantevole odore marino saliva fino a loro, facendoli sentire immersi tra le onde. Pareva quasi di poter sentire le voci dei pescatori in lontananza e il rumore sordo delle reti gettate nel mare alla ricerca di pesci. Vittoria mangiava i calamari lentamente, assaporandone il gusto un po’ sfuggente, e intanto si divertiva a osservare Aurelio con le mani luccicanti d’olio, impegnato a sgusciare un gambero dispettoso e incapace di usare le posate per farlo. Se ci fosse stato suo figlio Angelo, sapeva che avrebbe perso il conto per le occhiate di rimprovero indirizzate al nipote. Ma ora erano da soli e Vittoria non se ne curava: era un piacere vederlo impegnarsi e divertirsi, e ogni tanto, mentre continuava la sua opera con i gamberi, lo imboccava con un calamaro fritto o un’alice salata e un po’ pungente. «Nonna, ne vuoi un pezzo?» disse a un certo punto, con l’espressione soddisfatta per essere riuscito a sgusciare completamente ben quattro gamberetti. I gusci arancione pallido riempivano quasi completamente il grande piatto azzurro e Aurelio li scostò per prendere tra le dita uno dei gamberi e offrirlo alla nonna. Lei rise, scuotendo appena la testa, e rifiutò gentilmente: «No, tesoro, mangialo tu, grazie». Il nipote corrugò la fronte, incuriosito: «Perché ridi, nonna?». «Perché mi fai ridere». «Ti faccio ridere? E perché?» chiese lui, testardo. «Perché... perché sei buffo. E sei tanto bello» aggiunse Vittoria, per addolcirlo un po’. «Buffo?» Aurelio ripeté quella strana parola, accigliandosi.


29 La risata di Vittoria sfumò tra le onde: «Sì, vuol dire che sei... divertente. Comico». Gli occhi di Aurelio si adombrarono appena: «Non voglio essere buffo, nonna». «E perché no? Che c’è di male? È più bello mettere allegria che tristezza, no?». Lui sospirò, come se dovesse spiegare un concetto fin troppo semplice, e Vittoria trattenne una risatina. «Nonna, nonna... e come te lo devo dire...». «Con la bocca, con le parole...» rispose lei, facendolo sorridere. «Eh, con le parole... nonna, ma secondo te a Ulisse glielo dicevano che era buffo?». «Non lo so, tesoro mio, ma penso di no. Ulisse non doveva far tanto ridere, ed è un peccato. È bello far ridere le persone, no?». «Se ti prendono in giro mica è tanto bello...» disse, abbassando gli occhi sul piatto. «Ma io non ti sto prendendo in giro. Tesoro mio, perché ti arrabbi tanto?». Vittoria allungò una mano sopra il tavolo, sconcertata dall’improvviso cambiamento di umore del nipote. «Perché voglio somigliare a un eroe, nonna, e invece per ora somiglio solo a un bambino...». Vittoria si alzò in piedi, avvicinandosi al nipote e tirandolo per un braccio per farlo alzare a sua volta. «Nonna! Ma che fai?» disse, stupito da quel gesto improvviso. Vittoria non rispose e lo trascinò davanti al parapetto che dava sul mare. Aurelio alzò lo sguardo sulla nonna, sconcertato, e ripeté: «Ma che fai, nonna?». Lei gli poggiò un dito sulle labbra e poi indirizzò quello stesso dito verso il mare. Gli occhi di Aurelio seguirono quel movimento, fermandosi sull’orizzonte.


30 Vittoria si avvicinò, chinandosi appena per essere all’altezza della guancia di Aurelio. Con lo sguardo fermo sulle onde, iniziò a raccontare: «Dopo circa vent’anni di lontananza da Itaca, la sua splendida terra, Ulisse finalmente fece ritorno a casa... ad aspettarlo c’era Penelope, la sua amata e paziente sposa che tesseva la tela in attesa del ritorno del suo eroe. Dopo mille peripezie, eccolo finalmente riapparire dal mare... solo, all’orizzonte, provato da tutte le avventure vissute, eccolo che ritorna... lo vedi, laggiù?» sussurrò, indicando un punto lontano. Aurelio aguzzò lo sguardo e, strizzando gli occhi chiari, gli parve quasi di intuire un puntino lontano al confine tra il cielo e il mare. «Ulisse era un eroe. Un eroe forte, un vincitore, un uomo capace di superare ogni difficoltà. Tu sei come lui, Aurelio mio, sei un piccolo eroe. Per me lo sarai sempre, e te ne accorgerai anche tu quando farai ritorno qui, dopo tante avventure. Io resterò come Penelope ad aspettarti, tesoro mio, proprio qui». «E quando tornerò sarò un eroe vero, nonna?» bisbigliò Aurelio, senza staccare lo sguardo dall’orizzonte. Le labbra di Vittoria si posarono dolcemente sulla guancia del nipote: «Sei già un eroe adesso, piccolo. Lo sarai per sempre». Un sorriso sincero apparve sulle labbra di Aurelio, che si voltò verso la nonna e d’impulso la abbracciò forte. Le braccia di Vittoria si strinsero attorno a quelle dell’adorato nipote e Aurelio si cullò in quella stretta. Le sue dita gli solleticavano appena il viso, e chiudendo gli occhi inspirò profondamente il profumo dei gamberetti che aleggiava sulla sua pelle. Immaginava che quelle dita fossero immerse nell’acqua, mentre remava verso la riva, con quel profumo che andava confondendosi all’odore del mare.


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