In uscita il 30/11/2018 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine novembre e inizio dicembre 2018 ( ,99 euro)
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NICOLÃ’ MANISCALCO
UN ANGELO PROTETTORE
ZeroUnoUndici Edizioni
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UN ANGELO PROTETTORE
Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-250-8 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Novembre 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
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PROLOGO
20 agosto 2001 ore 23.35 Primo step: Si guardò attorno e notò solo qualche auto in lontananza. Mise il borsone a tracolla, prese la chiave dalla tasca e la infilò nella serratura del cancello di Villa Ester, che si aprì dolcemente, senza fare alcun rumore. Secondo step: Ivan vide l’ombra alla luce del lampione e la raggiunse correndo, poi i due proseguirono insieme lungo il giardino verso la porta d’ingresso; infine, come previsto, Ivan si fece legare e rimase all’esterno. Terzo step: Infilò la chiave nella toppa ed entrò in casa dirigendosi verso il secretaire, attese qualche secondo poi recuperò la chiave dal cassettino dov’era custodita e aprì la cassaforte. Quarto step: Infilò le mani all’interno della cassaforte, accarezzò una mazzetta di banconote poi vide la pistola e, distrattamente, la impugnò. Sentì una presenza dietro, si girò di scatto e vide il vecchio imbracciare il suo fucile da caccia. Questo non era previsto! Ci fu un urlo a coprire la detonazione mentre il proiettile gli si conficcava nel cuore eliminando ogni altro step.
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CAPITOLO I
20 agosto 2001 ore 11.30 L’estate del 2001, nel nord-ovest italiano, si caratterizzò per l’alternanza tra giornate piacevoli e ventilate e altre dominate dal sole immobile, alto, troneggiante nel cielo privo di nuvole. La mattina del 20 agosto faceva parte di quest’ultima categoria di giornate e, nonostante la temperatura non fosse infernale, il caldo si percepiva soprattutto a causa dell’umidità che, approfittando dell’aria assolutamente immobile, s’infilava tra i vestiti coprendo la pelle di abbondante e fastidioso sudore. Le poche persone rimaste in città uscivano nelle ore meno calde indossando indumenti molto leggeri. Per questo motivo quel 20 agosto, durante le ore più calde del giorno, la presenza di quell’uomo vestito di tutto punto, lungo il sentiero di un parco cittadino, era una misteriosa eccezione. Il completo, giacca e pantaloni della medesima trama scozzese, era di lana e la camicia di una tela troppo pesante per quella giornata afosa. L’insieme poi era certamente antiquato, sembrava un tizio uscito da un film degli anni Trenta. Anche l’incedere dell’uomo sul ciottolato lungo il sentiero era particolare. Non che fosse altalenante o zoppicante, piuttosto era precario come quello di un ubriaco. Certamente lui non ricordava di aver bevuto o meglio non poteva ricordarlo. Era proprio questo il suo dramma, l’assenza di ricordi. Si era ritrovato su quella panchina senza avere la minima idea di come ci fosse arrivato, poi si era messo a discendere il sentiero senza un vero motivo.
6 Motivi, motivazioni, obiettivi o progetti, lui non ne aveva né per rimettersi a camminare né per rimanere lì, seduto sulla panchina che aveva scelto interrompendo la discesa, con la faccia da ebete e con mille domande in testa. La principale, che continuava a farsi, era: “Chi sono e da dove vengo?” O per meglio dirlo nella sua lingua: “Who am I, where do I come from?” Per carità! Cercava la risposta nei meandri del cervello, però al suo posto riceveva un’altra domanda, poi un’altra ancora e così via fino ad accertare di aver perso la memoria. Decise di fermarsi perché gli era troppo faticoso camminare e finalmente si levò la giacca e allentò la cravatta. Sbottonare il colletto della pesante camicia gli regalò un po’ di fiato. Poi abbandonò la panchina, poggiò la giacca sull’erba e ci si sdraiò sopra. Ora aveva davanti a sé il cielo azzurro, anche se il forte bagliore solare gli impediva di vederlo interamente. Socchiuse gli occhi per frenare la troppa luce. Un pensiero attraversò la sua mente: “Col sole alto nel cielo sarà mezzogiorno.” Il pensiero seguente fu meno banale, ma più confortante: “Se conosco l’aspetto delle cose che mi circondano, il senso della realtà non è inficiato dalla mia amnesia.” La cosa che lo stupiva di più era quell’apatia che piano piano, scuotendola di dosso, diventava paura. Non era terrore, ma un timore, un disagio per il vuoto di conoscenza che provava. Poi, si scosse e, razionalmente, decise di analizzare quell’assenza. “Allora”, continuò nei suoi pensieri, “so cos’è una panchina, c’ero seduto fino a poco fa e sono cosciente della presenza del sole che mi abbaglia, dell’erba dove sono sdraiato e della fastidiosa sensazione del caldo; inoltre, so che è provocata proprio dal sole e dall’umidità. Anche questa è una sensazione, non è qualcosa che si vede, quindi ho la cognizione dell’astratto.”
7 A quel punto il suo pensare s’interruppe perché un dubbio, una domanda rivolta a sé, s’infilò tra i pensieri e, offuscandoli, ne prese il sopravvento: “Sarò forse matto o starò forse per diventarlo?” Interiormente cercava di negare quel dubbio, di eludere quella domanda, ma questa nuova prospettiva lo spaventava, trasformando il disagio in una paura più sentita. Si alzò e lanciò la giacca a ricoprire le spalle per riprendere il cammino. Ora era un po’ più stabile nel deambulare. La paura, nonostante lo aiutasse a sentirsi vivo, lo gettava nello sconforto. La risposta a quella domanda era veramente importante e solamente quella risposta poteva risolvere l’enigma. «Bella scoperta!» esclamò a voce alta, scrollando il capo. Nonostante l’ironia, finalmente cominciò ad avere una paura reale. Forse stava realmente impazzendo o magari aveva perso la memoria a causa di un trauma. Come un automa cominciò a palparsi freneticamente la fronte, la nuca, le tempie… tutta la testa. Non trovò alcun sintomo traumatico evidente. La cosa lo gettò ancora di più nel panico perché il non conoscerne il motivo era peggiore della paura d’impazzire. Il suo volto si corrugò e il sudore cominciò a percorrergli il viso. A quel punto ebbe un mancamento ed evitò di cadere aggrappandosi a un muro di pietra che correva lungo il sentiero. Al termine del muro vide una vasca. Si sporse oltre il bordo e, nell’acqua verdognola, vide nuotare dei pesci. “Pesci rossi”, pensò. Riconobbe i pesci rossi. “Chissà se un uomo sulla soglia della pazzia, conosce le varietà di pesci!” Quest’ultimo stupido pensiero lo convinse a muoversi. Non aveva una meta, ma sperava, andandosene di lì, di incontrare altri esseri umani, forse un aiuto. Così riprese il cammino accelerando il passo, perché in quel punto il sentiero mostrava una maggiore pendenza.
8 Percorso un centinaio di metri, vide una giovane coppia. Intorno ai due ragazzi c’erano dei libri, evidentemente erano studenti universitari che, dovendo preparare gli esami per l’appello di settembre, non potevano godersi le vacanze estive. Alcuni volumi erano appoggiati a terra mentre altri erano riversi sulla panchina dov’erano seduti. Lei era appollaiata sulle ginocchia del ragazzo mentre sulle sue c’era un libro aperto. La giovane vedendo quell’uomo barcollante puntare nella loro direzione si alzò di scatto facendo cadere il libro. Lanciò un urlo costringendo l’uomo a una brusca fermata, così da guardarla con la faccia ancora più inebetita. Continuò con quell’espressione finché la ragazza accennò a una fuga bloccata dal ragazzo che, con una maggiore presenza di spirito, la afferrò per un braccio prima di pararsi davanti all’uomo. «Si sente male?» chiese gentilmente, ma pronto a reagire nonostante l’uomo fosse notevolmente più alto e più grosso di lui. Era la prima voce umana che lo smemorato ascoltava da quando si era ritrovato su quella panchina. «No… o forse sì. Non lo so. Non sto benissimo.» L’uomo parlava con un deciso accento anglosassone, ma il lessico italiano era corretto. «Vuole sedersi?» gli chiese il ragazzo a voce bassa e sempre più vigile e pronto all’azione. L’uomo annuì e si sedette sulla panchina. Prese il capo tra le mani e cominciò a piangere come un bambino. Il ragazzo lo fissò. «Tutto bene?» «Andiamocene. Ho paura», supplicò la giovane insofferente afferrando il braccio del ragazzo e tirandolo a sé. «Aspetta», le intimò lui staccandole con gentilezza, ma in maniera decisa, la mano dal braccio. «Tutto bene?» richiese inutilmente il ragazzo rivolto al tizio seduto che continuava a singhiozzare. L’uomo alzò il volto. Era affranto e sicuramente sofferente. Purtroppo non potevano essere quei due a risolvere i suoi problemi. La ragazza, poi, era così spaventata da aver bisogno lei di conforto.
9 «Grazie, sto un po’ meglio», mentì con un filo di voce prima di riprendere la testa tra le mani. Il giovane sembrò dubbioso sul da farsi, ma vedendo la ragazza raccattare i libri e prendere il sentiero la raggiunse continuando a guardare l’uomo. Una volta fuori dalla vista dei due giovani, l’uomo decise di riprendere l’inutile cammino, si alzò dalla panchina e afferrò d’impeto la giacca dalla spalliera. Quel gesto d’impazienza provocò la caduta di un portadocumenti dalla tasca interna. Lo raccolse e freneticamente lo aprì dandosi dell’idiota per non averci pensato prima. All’interno trovò una carta di credito con la scritta in rilievo American Express che lui non ricordava d’aver mai visto. Era una delle altre infinite cose che non ricordava. Il documento era intestato a un certo George Daniel Manson. Nel portadocumenti ne trovò un altro con impresso uno strano emblema riportante la scritta Repubblica Italiana che gli ricordava qualcosa d’indefinito poi, sul frontespizio dello stesso, riconobbe un altro simbolo, quello della Comunità Europea con tanto di bandiera blu con le dodici stelle in circolo. Anche questo documento riportava il nome di George Daniel Manson. Si convinse che quel tizio era lui, anche se, nella peggiore delle ipotesi, era possibile che quei documenti li avesse rubati a quel Manson, ma cercò di scacciare quel brutto pensiero. Cominciò una ricerca spasmodica nelle tasche della giacca, ma non trovò nient’altro. Tastò i pantaloni e sentì un rigonfiamento all’altezza della natica destra, quasi strappò da dov’era un portafoglio. All’interno non c’era nessun documento, solo una mazzetta di denaro fatta da venti foglietti ognuno con il valore impresso di cinquantamila lire italiane, contò mentalmente: un milione. Le guardò meglio e si rese conto di non conoscerne il valore intrinseco. Nella foga del momento non si accorse neanche che era in grado di leggere, di fare i conti, di riconoscere quei foglietti come
10 cartamoneta, per quanto non ne conoscesse il valore reale, di sapere cosa fosse la Comunità Europea e di capire che il nome impresso sui documenti non era di un tizio d’origine italiana. Valutò questi nuovi aspetti fino a infondersi un po’ di coraggio. S’impose così di non precipitare nuovamente nello sconforto com’era successo quando riconobbe i pesci rossi. “Ho risposto a quei ragazzi, quindi conosco la loro lingua, e anche piuttosto bene, poiché sono in grado anche di pensare in questa lingua”, convenne tra sé. Provò a ripercorrere il pensiero utilizzando un’altra lingua e scoprì di sentirsi a suo agio anche con l’inglese. Rimise nelle tasche il portafoglio e i documenti sentendosi George Daniel Manson, italiano o forse inglese per ora probabilmente in Italia.
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CAPITOLO II
20 agosto 2054 ore 11.45 (meridiano di Roma) Nico Falco era attonito. Guardò lo schermo del computer e scrollò la testa, poi si girò verso l’enorme cilindro trasparente, vuoto e interamente immerso in un’atmosfera rossastra, quindi tornò allo schermo. Continuò con quel movimento svariate volte, infine, aggiustandosi gli occhiali sul naso, pigiò un bottone su una tastiera numerica posta vicino al computer. Osservò ansiosamente il grosso video nell’attesa di vedervi comparire il viso di Cynthia Helen. «Cynthia, abbiamo un problema, uno di quelli grossi», disse trafelato all’apparire del volto sullo schermo. La donna ritratta nel video socchiuse gli occhi e aprì leggermente le labbra poi, con aria interrogativa e senza emettere una sillaba, semplicemente attese che Nico si spiegasse. «Lo abbiamo inviato, ma… non abbiamo ricevuto il segnale di chiusura del circuito…» «Chi… avete inviato?» gli chiese Cynthia. «Già», rispose, «non te l’ho detto.» «No, Nico. Non me l’hai detto.» Nico era il classico scienziato tutto ingegno e sregolatezza. Nel complesso era un tipo simpatico e piacente. Piaceva a tutti, soprattutto alle donne, Cynthia compresa, nonostante l’aria da ragazzo scapestrato con i folti capelli neri arruffati e le lenti da vista adagiate sempre sulla punta del naso. Non si era mai deciso a farsi operare la miopia e proprio per questo era tra i pochi utilizzatori d’occhiali in giro nel 2054.
12 Forse era proprio questo suo aspetto da ragazzo spaurito a stimolare l’istinto materno nel sesso femminile. Professionalmente era un uomo sicuro di sé e un tecnico molto capace. «Un tizio, un tale che si chiama…» guardò la scheda riguardante l’uomo, «George Daniel Manson. Beh, non ha chiuso il circuito.» «Hai cercato di riprenderlo?» «Cynthia, conosco il mio mestiere! È più di un anno che lavoro agli invii…» «Lo so! Sono preoccupata proprio per questo. Allora l’hai ripreso? Come sta?» «Ho attivato immediatamente il programma di reflusso. Purtroppo, è tornata solo la tastierina avvolta nel gas», disse guardando il cilindro ancora avvolto da un vapore rossastro, mentre rigirava tra le mani una piccola tessera rettangolare di dieci centimetri di lato per cinque d’altezza e spessa circa mezzo centimetro. Sulla tessera c’erano una minuscola tastiera e un piccolissimo display. «È u-sci-to?» chiese Cynthia pleonasticamente e con voce grave, scandendo le singole sillabe. «Sembra proprio così.» Nico scrollò il capo e riguardò il cilindro nell’assurda speranza di veder spuntare George Daniel Manson. «My God», esclamò Cynthia. «Allora lui è uscito con il circuito ancora aperto.» «Sì», confermò Nico. «Non ha con sé la tastierina, l’abbiamo perso. Almeno per ora.» *** 20 agosto 2001 ore 11.55 Manson riprese a discendere il sentiero dopo che i ragazzi se ne erano andati. Prima di uscire dal parco, i due studenti si recarono nella guardiola del custode per denunciare la presenza di un tizio che pareva un po’ mal in arnese.
13 «Sono sicura che fosse ubriaco», mugugnò la ragazza suscitando la curiosità del custode. «No, per me stava male. Aveva qualcosa che non andava», replicò il giovane. «Qualcosa che non andava… certo, era ubriaco!» esclamò lei sarcasticamente. Il custode girò lo sguardo prima sull’uno poi sull’altra e decise di porre fine alla disputa, giacché i due non accennavano a un accordo. «Va bene. Grazie ragazzi, è tutto a posto. Me ne occuperò io.» «Di nulla. Buongiorno», terminò il giovane avvolgendo la spalla della ragazza con il braccio e prendendo la via del cancello d’uscita. Poco dopo anche Manson incontrò il custode in prossimità della guardiola. Fu quest’ultimo a notarlo. Aveva deciso di andare a cercarlo ed eccolo lì davanti a lui. «Signore», urlò. Manson forse non lo udì o per la stanchezza fece finta di non udirlo. «Signore! Dico a lei. Aspetti», gli intimò abbassando gradatamente la voce e muovendosi nella sua direzione. Manson, per come si erano messe le cose, decise di attendere l’approssimarsi del custode, ma quando lui lo avvicinò si bloccò alla vista della sua divisa bianca. Ebbe la sensazione di non amare le divise, soprattutto quelle bianche. Ecco un’altra strana sensazione che non riusciva a decifrare. Si girò verso il custode, ma non disse nulla. Non appena il custode raggiunse Manson lo squadrò intensamente alla ricerca dei segni di una recente sbornia, ma non ne trovò di evidenti, rimanendo comunque della convinzione che la ragazza di prima avesse ragione. «Si sente bene?» «Hell! Perché tutti mi fanno la stessa domanda? No. I’m not fine. Non so neanche cosa voglia dire stare bene o male.» Il custode lo guardò con aria preoccupata e incuriosita allo stesso tempo, ma non riuscì a fermarlo perché ormai aveva varcato come una furia il cancello d’uscita del parco. Che andasse all’inferno!
14 Lui doveva andare a pranzo e non sarebbe certo stato un tizio ubriaco a impedirglielo. Una volta uscito dal cancello, Manson fece una ventina di passi in discesa. Fuori dal parco fu affascinato dalla visione del mare che si spalancava alla vista. Si trovava sul marciapiede di una larga strada in discesa con due carreggiate di marcia, con doppia corsia ciascuna. Di là dalla strada c’era un muraglione basso che faceva da barriera alla visione completa del mare. Decise di superare la strada, ma c’era un po’ di traffico e il continuo andare e venire dei mezzi non gli permetteva l’attraversamento. Si girò e vide il semaforo proprio adiacente all’uscita del parco. Tornò indietro felice di aver riconosciuto un altro oggetto del mondo che lo circondava: il semaforo. E del fatto che, anche se non ricordava d’averlo mai utilizzato, confusamente ne conoscesse l’uso. Vi si collocò sotto nell’attesa di veder cessare il flusso veicolare, ma i mezzi continuavano ad andare su e giù. Distolse lo sguardo dalla strada e fu attratto da due targhe poste sui piloni del cancello del parco, con l’incisione VILLA sulla prima e CROCE sulla seconda, VILLA CROCE. Erano di marmo con la scritta dipinta in ocra. Su un’altra targa più semplice posta in alto c’era incisa la scritta: Comune di Genova. Ora sapeva di essere nel capoluogo ligure senza ricordare di esserci mai stato prima. *** 20 agosto 2001 ore 11.57 Manson decise di aver aspettato anche troppo ad attraversare la strada. Non ricordava bene la storia dei colori del semaforo così si precipitò giù dal marciapiede sicuro che le auto si sarebbero fermate.
15 La donna al volante della Fiat Marea che investì Manson, inizialmente lo vide scendere dal marciapiede attraverso il parabrezza come se lei non transitasse proprio lì in quel momento, poi lo vide adagiarsi per una frazione di secondo sul cofano e rompere il parabrezza con un calcio, infine, lo vide volare come un uccello. Fu in quel momento che la giacca che portava sulle spalle andò per conto suo fino a fermarsi nei pressi di un tombino dove cadde il portadocumenti, ma di questo nessuno se ne accorse, neanche il custode della villa che abbandonò il pranzo richiamato dalla confusione in strada. La donna rimase appoggiata al volante per qualche secondo perché lo schianto fu rumoroso e l’uomo fu sbalzato a qualche metro dal luogo dell’impatto, poi, spalancata la portiera, uscì frastornata dall’auto. «Benedetto Iddio!» esclamò, una volta in strada. «Lo avete visto tutti, ha attraversato di colpo.» Intorno a Manson si venne via via formando un capannello di gente, finché un motociclista, dopo aver fermato con difficoltà la sua Honda Pacific Cost vicino al corpo del malcapitato, prese dalla borsa del sellino un vecchio NEC P4 e compose un numero. Dopo cinque minuti arrivarono una pattuglia della polizia locale e un’ambulanza del centodiciotto. *** 20 agosto 2001 ore 12.45 La stanza aveva la luce soffusa e l’unico rumore percettibile proveniva dal monitoraggio cardiaco, respiratorio e cerebrale collegato tramite fili in varie parti del corpo dei pazienti. In tutto c’erano cinque letti, Manson era nel letto numero quattro. Lui non sentiva quei rumori perché era caduto in uno stato di coma leggero, reversibile era stato il termine usato dai sanitari che fecero la prima diagnosi.
16 Un grosso tubo usciva da uno strumento che sembrava un mantice per infilarsi direttamente nella sua gola. Incaricati di sorvegliare i monitor c’erano un medico e un’infermiera del reparto rianimazione dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di San Martino. Entrambi indossavano un camice verde abbottonato sul retro e portavano una mascherina sul volto, avevano una cuffia in testa e calzavano degli zoccoli di plastica con soprascarpe in stoffa, tutti indumenti del medesimo colore del camice.
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CAPITOLO III
20 agosto 2001 ore 23.30 Mentre Manson giaceva in un letto d’ospedale, nella zona residenziale di Castelletto, sulle alture di Genova, Villa Ester era avvolta dal buio della notte; un’oscurità a tratti interrotta dalle lame di luce dei lampioni stradali. La villa era circondata da altre abitazioni e tra queste, in lontananza ma proprio di fronte, c’era quella di Claudia e Giorgio Porta, una villetta a due piani piccola ma graziosa. I due erano ricchi rampolli della Genova bene appena tornati dal loro viaggio di nozze. I due giovani dormivano esausti dopo aver fatto l’amore nella loro nuova casa. Claudia si svegliò a causa del caldo afoso e guardò la radiosveglia, lo schermo indicava le ventitré e trenta, si alzò per diminuire la temperatura del climatizzatore che non ne voleva sapere di funzionare a modo, ma prima, senza alcuna riflessione, forse ancora annebbiata dal dormiveglia, aprì un po’ di più la grossa finestra della camera. Si affacciò cercando un po’ di refrigerio. Teneva gli occhi chiusi come se aspettasse, da un momento all’altro, una folata di vento fresco, ma quella nottata umida non le regalò che una leggera brezza calda. Aprì gli occhi e sbuffando si sporse dal davanzale. La sua attenzione si pose su Villa Ester. Non ne era sicura, ma le sembrò che il cancello fosse aperto. Non conosceva ancora le abitudini dei nuovi dirimpettai per preoccuparsi della cosa perciò tornò a letto sperando di riaddormentarsi. Guardò il marito che dormiva come un ghiro e scrollò il capo. «Come farai a dormire, con questo caldo?» gli chiese senza ricevere risposta.
18 Con qualche disagio Claudia riuscì, infine, ad appisolarsi immergendosi in quel sonno leggero che non permette di distinguere il pensiero dal sogno. Fu quello il motivo per il quale non percepì subito il rumore sordo proveniente dalla strada sottostante. Inizialmente quel rumore le sembrò lo scoppio di uno pneumatico in lontananza, ma poi, dopo qualche minuto dal primo rumore, subito dopo l’abbaiare di un cane ne seguì un altro identico. Rimase nel dormiveglia ancora un minuto, ma la curiosità ebbe il sopravvento e si diresse verso la finestra rimasta aperta. Guardò in strada e, per quanto acuisse la vista, non vide né auto in movimento né ferme, poi guardò in direzione di Villa Ester e notò il profilo di una persona vagare nel giardino. Pur non rendendosi precisamente conto di cosa stesse succedendo si spaventò e represse un urlo, poi, con voce alterata e tenuta bassa come se temesse che quella lontana presenza nel giardino potesse udirla, chiamò il marito che continuava beatamente a dormire nonostante tutto il trambusto fatto da lei. «Giorgio… vieni, presto. Alla finestra. Vieni a vedere», urlò dirigendo lo sguardo verso il letto. Lui continuò nel sonno ignorando la richiesta della donna, allora lei si precipitò verso di lui scrollandolo energicamente fino a farlo ridestare. Ci mise un po’ ad accettare la sveglia improvvisa, infine aprì gli occhi. Stava per protestare osservando tramite la radiosveglia che erano appena le ventitré e quaranta ma poi, vedendo la moglie spaventata, si rianimò completamente dirigendosi nudo verso la finestra. «Guarda», disse la donna raggiungendolo per indicargli il giardino di Villa Ester. Lui si affacciò e cercò con lo sguardo il motivo dell’agitazione della moglie. «Non vedo nulla.» La donna gli si avvicinò maggiormente e scrutò a sua volta il giardino della villa. «Aspetta», disse alzando una mano in segno d’attesa. Dopo un breve intervallo rivide la sagoma nei pressi dell’ingresso.
19 «Là… là dalla porta di quella villa.» Giorgio questa volta la notò. Era una sagoma scura. «Forse è il proprietario. Infatti, s’intravede una luce sul lato della villa.» «Non credo che sia il proprietario. Prima l’ho visto aggirarsi per il giardino guardando in ogni direzione. Dai su, chiama il centotredici.» Così il giovane pur titubante si diresse verso il telefono sul comodino. In quel momento Claudia vide in lontananza un’ombra affrettare il passo, poteva essere l’ipotetico malvivente che si allontanava, ma anche una persona del tutto estranea alla vicenda. *** 21 agosto 2001 ore 00.05 L’autopattuglia della polizia, con l’ispettore Selmi e l’agente scelto Berti, giunse a Villa Ester una decina di minuti dopo la chiamata, senza sirena per non mettere in allarme l’eventuale ladro. L’agente alla guida fermò la macchina nei pressi del cancello della villa che trovarono aperto, lo oltrepassarono dirigendosi lungo il vialetto del giardino fino a giungere sulla porta d’ingresso e qui la loro attenzione si acuì trovandola socchiusa. Improvvisamente sentirono dietro di loro un rapido movimento, si girarono di scatto puntando le pistole d’ordinanza. Un grosso dobermann, assolutamente immobile mise in mostra la sua micidiale dentatura emettendo solo un sordo brontolio. I due si aspettavano da un momento all’altro il balzo del cane, ma l’animale rimase fermo poi entrambi ne capirono il motivo, il cane aveva un grosso collare di cuoio borchiato assicurato a una catena che non era abbastanza lunga da arrivare fino a loro. Sospirarono con sollievo e, sempre con le pistole in mano, entrarono in casa osservati dall’animale, frustrato e innervosito per non aver potuto svolgere il suo compito di guardiano, al quale non rimase così
20 che lanciare un paio di latrati in direzione dei due ormai lontani dalla sua vista. I due poliziotti giunsero nell’ingresso completamente buio, in lontananza intravidero una luce accesa. Entrando si accorsero che l’illuminazione proveniva da un soggiorno ricco di salottini, con un mobilio costoso e con vari tappeti orientali. Arrivati al centro della stanza, notarono una cassaforte a muro aperta. La loro attenzione si concentrò poi su due corpi sdraiati a terra. Erano un uomo e una donna un po’ avanti con l’età, immobili e adagiati su un enorme tappeto. Un secondo dopo, i due poliziotti sobbalzarono alla vista di un uomo in ombra proprio dietro i due corpi inermi. Era un uomo sui trentacinque, quarant’anni al massimo che teneva, con entrambe le mani, una pistola. I due gli puntarono le armi contemporaneamente. «Getta la pistola, ti ho detto di gettarla, svelto», urlò l’ispettore Selmi. L’uomo sembrava in trance e li guardava con lo sguardo di un bambino svegliatosi dopo un brutto sogno, poi lentamente fece cadere la pistola a terra oscillando le mani come se stesse trattenendo un tizzone ardente. Abbassò il capo e con un filo di voce, balbettò: «Non… non sparate.» «Metti le mani sulla testa.» L’uomo ubbidì e l’agente scelto Berti lo ammanettò, poi iniziò a perquisirlo, ma non trovò altre armi. Selmi era chino sui cadaveri per esaminarne i corpi e auscultarne la carotide con l’indice e il medio della mano destra. «Questi sono morti.» Constatato il decesso della coppia di anziani, i due perlustrarono con lo sguardo la stanza fino a veder spuntare da sotto una poltrona, per quasi tutta la loro lunghezza, due tubi neri che osservati meglio si rivelarono come la doppia canna di un’arma da fuoco. Ipotizzarono che si trattasse di una doppietta da caccia e si astennero dal farla scivolare per intero da sotto la poltrona, se ne sarebbe occupata poi la scientifica. Controllarono l’ambiente circostante, ma non trovarono pericoli.
21 L’ispettore Selmi vide un telefono su un mobiletto sospeso a muro e, alzata la cornetta con l’aiuto di un fazzoletto, digitò un numero schiacciando i tasti con una penna, poi finita la telefonata, si rivolse a Berti: «Ho fatto avvertire il commissario. Tra poco arriverà in compagnia del magistrato. Io vado a cercare il tizio che ci ha chiamato, abita nella villetta qui di fronte. Tu resta qui.» «Va bene», rispose Berti guardando l’uomo ammanettato. Appena l’ispettore uscì, l’agente fissò il ladro e gli chiese: «Come ti chiami?» «Canepa. Massimo Canepa e… loro sono i miei zii», aggiunse indicando i corpi per terra. Berti represse un’espressione di stupore e domandò nuovamente: «Sono i tuoi zii?» «Sì», rispose il fermato con un filo di voce. Guardò la cassaforte aperta e aggiunse: «Li hai uccisi per svuotare quella?» «Io… è un incubo», disse l’altro con un filo di voce. Era frustrato e teneva la testa bassa, poi, come un sacco vuoto, si lasciò cadere su una poltrona. «Devo proprio tenerle queste?» chiese alzando le braccia per mostrare le manette. «Sei impazzito!» esclamò il poliziotto scrollando il capo. «Ti abbiamo sorpreso con una pistola in mano davanti a due cadaveri.» *** 21 agosto 2001 ore 00.15 L’ispettore Selmi tornò a Villa Ester dopo aver parlato con i due sposi e qualche minuto dopo arrivò il commissario Sarti in compagnia di una mezza dozzina di persone. Uno di questi si chinò sui cadaveri, poi indossò dei guanti in lattice e cominciò a esaminarli. Il commissario osservò a lungo l’uomo armeggiare con i corpi poi decise di aver aspettato abbastanza e gli chiese: «Cosa mi dice dottore?»
22 «Buon Dio, commissario! Ho appena iniziato.» Poi, scuotendo il capo, aggiunse: «Sono morti da poco, la temperatura è ancora quella corporea e non c’è traccia di rigor mortis.» «Commissario, mi pare che non ci sia molto da indagare», intervenne l’ispettore Selmi indicando l’uomo ammanettato. «Lo abbiamo sorpreso con la pistola in mano. La canna era ancora calda e dei testimoni oculari l’hanno visto aggirarsi in giardino, dopo aver sentito gli spari. È evidente che sia stato lui.» «Come si chiama?» chiese il commissario Sarti a nessuno in particolare. «Massimo Canepa», rispose Berti, cercando la conferma delle generalità dichiarate in precedenza dall’uomo, leggendo un documento prelevato dal suo portafoglio. «Inoltre ha detto di essere il nipote delle vittime.» L’ispettore Selmi prese il documento dalle mani di Berti e lo sbirciò prima di passarlo al commissario. Un uomo ben vestito e con l’aspetto pieno di sé si avvicinò al commissario e sbirciò i documenti aggiungendo: «Portatelo in Questura, lo interrogheremo là. Intanto non toccate nulla prima dell’arrivo della Scientifica.» «Certamente, dottore», concordò ironicamente Sarti che conosceva bene il proprio mestiere e non aveva bisogno dei suggerimenti del magistrato, poi rivolse un gesto ai suoi uomini che prelevarono Canepa e lo fecero entrare in un’auto che partì sgommando. «Nella villa di fronte c’è la persona che ha chiamato, è con la moglie. Vuole interrogarli?» chiese Selmi al magistrato che annuì. «Sì. Credo proprio che sia il caso di sentirli entrambi.» Il colloquio durò pochi minuti. I due giovani dissero ciò che avevano visto e la donna aggiunse di aver sentito i due scoppi, inoltre i ragazzi affermarono di non aver visto bene l’uomo nel giardino e quindi di non poterlo riconoscere. Furono convocati per il giorno dopo per verbalizzare quanto avevano dichiarato. La Polizia Mortuaria prese in consegna i cadaveri subito dopo l’arrivo della Scientifica, poi furono posti i sigilli intorno a Villa Ester. Così il commissario e il magistrato se ne poterono andare lasciando al lavoro i loro colleghi per i rilevamenti necessari.
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CAPITOLO IV
21 agosto 2054 ore 09.00 (meridiano di Roma) Nico Falco era nell’ufficio di Cynthia Helen, seduto di fronte all’enorme scrivania della donna, ingombra di computer, tastiere e video. Di fianco a lui c’era Mark Ross, seduto su una strana poltrona gialla che sembrava avvolgere per intero il piccolo corpo del General Manager. La voce di Ross era lieve come il suono di un violino, era un timbro che non poteva incutere timore, Nico sapeva però che da quell’omino dipendeva il lavoro di trecentoquaranta persone, compreso lui. Mark Ross era un uomo intelligente, ma non gli riusciva d’essere simpatico per il suo modo di fare che tradiva il risentimento provato da sempre per le persone con un fisico normale. Era un peccato per lui non rendersi conto che la sua intelligenza avrebbe potuto rendergli la vita più serena, magari facendogli accettare quel corpo minuto. In realtà la vita di tutti i giorni non era mai stata semplice per lui; infatti, fin dalla più tenera età non era l’intelligenza che cercavano i compagni di gioco e più tardi le donne furono ancora più ciniche degli amici d’infanzia. Ora, grazie al denaro che guadagnava come dirigente del British Sending Center, l’amore poteva comprarselo, ma, purtroppo, senza conoscere il piacere della conquista. «Mister Falco», disse Mark Ross, facendo vibrare le corde del violino che aveva in gola, «mi può spiegare com’è successo che quel tizio…» Si fermò, anche se ricordava perfettamente il nome, ma gli piaceva utilizzare quella strategia per tenere sulle spine i suoi interlocutori.
24 «Manson», suggerì Cynthia, alzando gli occhi al cielo per quella pantomima. «Già, Manson. Mi può spiegare com’è successo che quel Manson sia uscito e non abbia chiuso il circuito?» Nico cercò di rispondere a quella prima domanda, ma fu fermato da Ross che alzando un braccio gli segnalò di tacere, evidentemente non aveva finito con le domande: «Il motivo della mancata chiusura del circuito è chiaro, ha perso la tastierina! Ma del motivo per cui l’abbia persa cosa mi dice?» Il tecnico lo guardò cercando di capire dall’espressione del volto se fosse autorizzato a parlare, poi decise di sì e sussurrò: «Non posso saperlo di preciso, Sir.» «Okay. Non lo può sapere di preciso, ma si sarà fatto un’idea di cosa può aver causato la perdita della tastierina che aveva con sé?» Poi volse lo sguardo in direzione di Cynthia per chiedere: «È la prima volta che succede, vero?» La donna annuì ed entrambi diressero lo sguardo su Nico. «Credo…» «Sì, continui», lo incalzò Ross, alzando appena di una tonalità il vibrare del “violino”. «Credo che la trasmutazione finale non si sia completata e che lui possa essere… morto, così il circuito è rimasto aperto e la tastierina è tornata indietro insieme al gas.» «Se la trasmutazione molecolare non si è completata, e lui… sì, insomma come spieghi che sia uscito?» chiese Cynthia atterrita della piega presa dagli eventi. «Può anche essersi completata, però lui è svenuto, oppure…» «Oppure?» Questa volta la tonalità era così alta che la voce di Ross raggiunse il falsetto. «Oppure», riprese Nico, «è possibile che la trasmutazione incompleta riguardasse solo piccoli frammenti cerebrali. Lui è uscito dimenticandosi di chiudere il circuito, lasciando così la tastierina nel cilindro.» «My God!» esclamò Cynthia.
25 «Quindi non abbiamo la minima idea delle sue condizioni al momento dell’uscita?» «Già», rispose Nico con un filo di voce. L’aria dell’ufficio era notevolmente pesante e nessuno dei tre fiatò per svariati minuti. Infine, Ross incrociò gli sguardi degli altri e disse: «All right, miss Helen, ora dobbiamo verificare lo stato di salute di Manson e chiudere il circuito.» «Per farlo occorrerà un nuovo invio perché solo così sarà possibile chiuderlo dall’uscita», obbiettò Cynthia preoccupata delle intenzioni del suo capo. «Infatti, invieremo Falco e chiuderemo il circuito», precisò con estrema semplicità Ross, squadrando il tecnico. «Io?» chiese Nico preoccupato. «Sì. Così oltre a chiudere il circuito, potrà verificare le condizioni di Manson.» «Beh…» cercò di dire Cynthia, ma fu interrotta da Ross che con voce per lui stranamente imperiosa e sarcastica, aggiunse: «Sono sicuro che Falco saprà rimediare all’errore fatto.» *** 21 agosto 2001 ore 09.00 Il giorno successivo all’incidente e al relativo ricovero d’urgenza, intorno a Manson c’era un nuovo e diverso rumore, ma, nonostante il suo ritmo cadenzato, lui non era in grado di sentirlo a causa dello stato comatoso in atto. L’unica differenza rispetto al giorno precedente era dovuta all’assenza del respiratore: infatti, la sua gola non era più attraversata da alcun tubo. Ora era sdraiato su un lettino molto più lungo di lui che entrava lentamente all’interno di un enorme anello che eseguiva una scansione in ogni parte del suo corpo. Di tanto in tanto il lettino si fermava e l’anello inviava quei rumori cadenzati.
26 Il radiologo, che stava eseguendo la tomografia computerizzata, era un uomo grande e grosso di mezz’età ed era assistito da una giovane dottoressa del reparto di neurochirurgia. «Mi sembra che l’ematoma si stia dissolvendo rapidamente. Se continua a migliorare così rapidamente, non ci sarà bisogno d’intervenire chirurgicamente», disse la dottoressa all’anziano collega. «Sì. È stato fortunato perché eccetto quel piccolo ematoma cranico non c’è nessun motivo che possa impedire una ripresa, certamente non la frattura della tibia sinistra o la distorsione all’articolazione del ginocchio destro», terminò il radiologo indicando al tecnico che poteva far uscire Manson dall’interno dell’apparecchio. *** 21 agosto 2001 ore 10.00 La sala per gli interrogatori utilizzata dalla squadra comandata dal commissario Sarti era angusta e spoglia, l’unico arredamento era costituito da un tavolino circondato da quattro sedie di legno, una parete era dotata di un piccolo vetro con la parte riflettente interna alla stanza. All’esterno del vetro l’agente scelto Berti, insieme ai coniugi Porta, osservava quanto succedeva all’interno. Intorno al tavolo erano seduti: il sostituto procuratore Paolo Coletti che era il magistrato intervenuto a Villa Ester, il commissario Sarti, l’ispettore Selmi e Massimo Canepa, il fermato. Berti guardò i due ragazzi, ma questi negarono con il capo. «Non possiamo riconoscerlo. Lo abbiamo visto per pochi istanti, inoltre il giardino era buio e in lontananza.» L’agente annuì e dopo aver verbalizzato la loro testimonianza, li accompagnò alla porta, poi tornò al vetro a specchio per continuare ad assistere all’interrogatorio. «Signor Canepa, vuole raccontarci come sono andati i fatti?» chiese in maniera secca Coletti.
27 «Sono… sono andato in casa degli zii…» iniziò titubante Massimo, «la luce era accesa, allora io sono entrato di getto e… mio Dio! Erano lì sul pavimento, con… con tutto quel sangue…» «Ci sta dicendo che i suoi zii erano già morti al suo arrivo?» «Sì.» «Che rapporto aveva con loro?» «Mio zio era il fratello di mio padre. I miei morirono in un incidente aereo precipitando con il Piper di un amico di famiglia, sull’Appennino toscano. Io avevo compiuto da poco due anni. I miei zii mi hanno adottato e allevato come un figlio. Mi amavano e io volevo loro molto bene, mi mancheranno.» «I suoi zii avevano figli naturali?» chiese l’ispettore Selmi. «Sì. Ho un cugino, Andrea. È un po’ più giovane di me. Quando gli zii mi hanno adottato, zia Ester era incinta. Ora, mio cugino ha trentasette anni.» «Lei, quanti ne ha?» «Trentanove.» «Perché era in casa dei suoi zii a quell’ora? Lei non abita con loro, giusto?» continuò l’ispettore indifferente al disagio del procuratore nell’essere interrotto. «No, io sono sposato e vivo con mia moglie e mia figlia Mairi che ha due anni», affermò mentre alcune lacrime di rabbia e frustrazione cominciarono a far capolino negli occhi arrossati. «Ieri sera intorno alle undici ho ricevuto una telefonata da mio cugino nella quale mi avvertiva di un malore del padre.» Il procuratore Coletti guardò Selmi per accertarsi che avesse terminato le domande, ma lui incurante del suo sguardo, continuò: «I suoi zii erano ricchi, vero?» «Sì, molto. Mio zio è… era un imprenditore. Aveva messo su dal nulla una grossa ditta di trasporti internazionali.» Il magistrato tornò a guardare Selmi e il commissario Sarti abbozzò un sorriso. Avuta la conferma che l’ispettore non avrebbe fatto altre domande, il magistrato riprese a interrogare: «Suo cugino… come ha detto che si chiama?» «Andrea, Andrea Canepa.»
28 «Suo cugino Andrea viveva con i genitori?» «No. Lui vive per conto suo, tra Genova e Parigi, dove ha un appartamento. È un tipo molto indipendente, lo era fin da piccolo.» «Aveva un buon rapporto con i genitori?» «Certo, era il figlio.» «Lei sostiene di aver ricevuto una sua telefonata che lo avvertiva di un malore del padre, giusto?» chiese il magistrato. «Sì», annuì. «Sua moglie o qualcun altro può confermarlo.» «No. In casa non c’era nessuno e mia moglie si trova a Liverpool dai suoi genitori. È partita con mia figlia il diciannove.» Si tacitò qualche attimo e poi aggiunse: «Potete avvertirla di quello che mi sta capitando?» Il magistrato annuì e fece per porre un’altra domanda, ma fu nuovamente interrotto da Selmi. «Signor Canepa, come spiega che il cane dei suoi zii fosse legato, in piena notte? Non è forse lì per dissuadere i malintenzionati che volessero entrare nella villa?» «Sì. Infatti, non me lo spiego.» «Normalmente il cane non è legato, giusto?» incalzò Selmi, ma fu interrotto dal magistrato che digrignando i denti borbottò: «Ispettore, che cosa c’entra il cane, ora?» Selmi rimase imperturbabile, allora Coletti, arresosi, si affrettò a ordinare: «Risponda.» «Sì. Ivan… Ivan è il nome del cane, normalmente rimane libero in giardino anche di giorno. Raramente gli viene messo il guinzaglio, forse solo in presenza di ospiti.» «Né quella sera, né durante il giorno, però, c’erano stati ospiti», continuò Selmi. «Sì, che sappia io, è così. Almeno al mio arrivo in tarda serata. Durante il pomeriggio non saprei.» «I suoi zii, comunque, non avrebbero tenuto il cane legato di notte», aggiunse il commissario. Massimo Canepa annuì.
29 Coletti appariva frustrato perché, ora, ci si metteva anche il commissario a interromperlo. Guardò entrambi i poliziotti e riprese: «Dove le telefonò suo cugino? Intendo dire sul cellulare o a casa?» «A casa.» «Bene. Controlleremo.» Il giudice guardò il commissario e gli chiese se avesse altre domande da fare al signor Canepa. Lui scrollò il capo, ma mentre il magistrato stava per porre una successiva domanda, Selmi lo precedette nuovamente e rivolgendosi al fermato gli chiese: «Che rapporto ha con Ivan? Con il cane, insomma. Intendo se le è affezionato o meno.» Coletti alzò gli occhi al cielo borbottando tra sé: «Ancora il cane!» «L’ho regalato io agli zii. Mi è affezionato come se fossi il padrone.» «Allora lei era in grado di legarlo senza problemi, vero?» «Sì», rispose Canepa con gli occhi tristi. Il dottor Paolo Coletti, questa volta, guardò l’ispettore con ammirazione. Poi per l’ennesima volta, si accertò di non essere interrotto e chiese in maniera diretta al fermato: «Perché li ha uccisi?» Massimo Canepa rimase in silenzio. Poi, con la faccia contrita e i pugni serrati, sibilò: «Io… io non li ho uccisi.» Coletti perse la poca pazienza che aveva, si alzò e vomitò un fiume di parole in faccia all’uomo di fronte a lui: «Va bene, ora le dico io come sono andati i fatti. Si è presentato in casa dei suoi zii con l’intenzione di aprire la cassaforte di cui, sono sicuro, sapesse dove trovare la chiave ed è stato sorpreso dai due vecchi, poi ha visto suo zio armato di una doppietta ed ha fatto fuoco con la pistola. È andata così, vero?» Massimo Canepa non rispose e si limitò a scrollare il capo in segno di diniego. Nel pomeriggio fu tradotto nel carcere circondariale di Marassi. ***
30 21 agosto 2054 ore 14.00 (meridiano di Roma) Nico Falco era nel suo laboratorio, ed era così intento a consultare i file del computer da non accorgersi della presenza di Cynthia. «Sei arrabbiato con me?» gli chiese, ponendogli una mano sulla spalla. «Cynthia! Non ti ho sentito. No… non sono arrabbiato con te. Semmai dovrei esserlo con me stesso. Ti giuro, però, che non ho la minima idea di come possa essere successo.» «Probabilmente non è colpa tua. Hai riguardato i suoi accertamenti medici?» «Sì. È tutto a posto. Ha ottenuto la certificazione sanitaria. Quel tipo è una roccia.» «Quanti anni ha?» «Dai documenti che ci ha fornito, sembra averne trentatré.» Cynthia fece un gesto d’ammirazione. Poi, annuendo, disse: «È giovane per avere la disponibilità finanziaria all’invio nel passato.» Rifletté un paio di secondi e aggiunse: «Siamo sicuri della sua salute?» «Sì. Non avrebbe ottenuto la certificazione sanitaria se ci fosse stato il minimo sospetto. D’altra parte sai bene che, per quel che riguarda le autorizzazioni agli invii, le informazioni sono più legate alle pendenze penali dell’argonauta o dei membri della famiglia che allo stato di salute, che deve comunque essere sempre eccellente. E il nostro tizio, oltre che sano, è molto conosciuto al Dipartimento di Giustizia.» «Che tipo di rapporti ha con la giustizia?» chiese Cynthia incuriosita. «È un avvocato, un penalista, e anche in gamba stando a quello che c’è scritto qui, una specie di principe del foro, ma perché non leggi direttamente il fascicolo che ho stampato?» Lo porse alla donna muovendo la sedia girevole di centottanta gradi. Lei prese l’incartamento e cominciò a leggere. «Qui riporta che ha la madre italiana e il padre anglo-americano. Il nonno proviene dalla California e la nonna è londinese.» «Sì. Anche la madre ha un po’ di sangue misto, il padre, il nonno di Manson, è italiano ma la moglie era anche lei inglese, di Liverpool.»
31 «Infatti, ha vissuto l’infanzia tra Londra e Liverpool.» «Già. Sembra che ogni tanto andasse a vivere dalla nonna materna.» «Qualche mese dopo la morte della vecchia, il padre fu trasferito in Italia e tutta la famiglia continuò la sua vita in Italia.» «Sì, sembra addirittura che il nostro Manson si sia laureato in giurisprudenza in Italia e che abbia cominciato l’attività di avvocato a Firenze.» Indicò la posizione della Toscana su un’enorme mappa alle loro spalle piena di spilli puntati in corrispondenza di varie località europee, sormontati da piccoli pallini alcuni rossi e altri gialli. «So dov’è Firenze. Ho studiato la geografia europea alla scuola primaria», disse Cynthia con un gesto di disapprovazione. «Già, dovevo immaginarlo», ribatté lui ridendo. «Comunque all’inizio della carriera in Italia, lasciò i genitori e tornò in Inghilterra, dove superò l’esame per procuratore legale a Oxford e si mise a esercitare a Londra, cosa che fa tuttora da quattro anni.» «Perché ha chiesto di essere inviato?» chiese Cynthia a quel punto. «Top secret, insomma sono fatti suoi, non l’ha detto ed era in diritto di farlo.» Cynthia annuì poi chiese: «Dove e “quando” era diretto?» «Nell’Inghilterra degli anni Trenta del ventesimo secolo. Poiché è avvocato, ho ipotizzato che volesse studiare l’Amministrazione Giudiziaria di allora o qualcosa di simile.» Cynthia pose nuovamente la mano sulla spalla di Nico. «Quando partirai?» Lui guardò a lungo il tubo per gli invii. «Domani mattina. I ragazzi sono già al lavoro.» «Non c’è pericolo con il circuito ancora aperto?» «No, se riuscirò a chiuderlo prima di uscire dal tubo, altrimenti…» «Altrimenti addio al ritrovamento di George Daniel Manson», terminò di dire Cynthia. «Già», concordò lui, che poi aggiunse denegando il capo: «E probabilmente addio anche a Nico Falco e, ti dirò, quest’aspetto mi piace ancor meno.» ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD
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