Un segreto di famiglia

Page 1


In uscita il 31/7/2017 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine luglio e inizio agosto 2017 ( ,99 euro)

AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.


ANNA MARIA SDRAFFA

UN SEGRETO DI FAMIGLIA

www.0111edizioni.com


www.0111edizioni.com

www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/

UN SEGRETO DI FAMIGLIA Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-118-1 Copertina: immagine di Reginaldo Valle

Prima edizione Luglio 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


A mio padre e al nostro strano, irrisolto, indimenticabile rapporto



5

CAPITOLO I 23 ottobre 1942

I Lo aveva capito subito che non si trattava del solito allarme. Lo aveva capito mentre scendeva precipitosamente le scale scontrando i vicini di casa che si riversavano nei pianerottoli, mentre correva spaventata verso le cantine del palazzo. La bambina si era svegliata e piangeva. La strinse a sé, colta dall’ansia improvvisa che quella piccola folla in preda al terrore la travolgesse facendole scivolare la piccola dalle braccia. Temette di perderla, e che potesse finire calpestata. Sentì che le batterie antiaeree, dai monti, sparavano ormai furiosamente. Passando accanto a una delle finestre che si aprivano sulle scale, guardò fuori, d’istinto: l’oscurità della notte era squarciata da luci intense che scendevano dal cielo come grossi palloncini illuminati. Non ne aveva mai visti prima, erano i bengala. Il bombardamento iniziò prima ancora che potessero raggiungere la cantina, un inferno di fuoco che la lasciò senza fiato. Ondate successive di aerei stavano rovesciando sulla città centinaia di bombe dirompenti e spezzoni incendiari. Le luci dei bengala, le esplosioni e soprattutto gli incendi che divampavano ormai in ogni quartiere illuminavano a giorno la città. Si ritrovò stipata insieme a decine di altre persone in un piccolo spazio, acquattata come un topo di fogna. Non aveva neppure la forza di urlare. I volti intorno a lei erano pallidi e muti, gli occhi sbarrati dall’orrore si inseguivano l’un l’altro, quasi a cercare un conforto impossibile. Tremavano le fievoli lampadine elettriche, ma non c’era bisogno di luce: quella minacciosa che proveniva dai cancelli li illuminava con crudeli bagliori, mentre un fumo acre quasi li soffocava. Le batterie contraeree dell’UNPA 1 continuavano a sparare all’impazzata. 1 Unione Nazionale Protezione Antiaerea


6

II Dal fondo della cantina si levò una voce femminile, esile e incerta, alla quale nel giro di pochi secondi si unirono altre voci sommesse, ovattate. «Ave Maria, gratia plena …». Strinse la bambina e nascose il viso contro la sua piccola spalla. «…dòminus tècum, benedìcta tu in mulièribus …». La flebile cantilena di quelle parole a lei sconosciute si univa all’agghiacciante fischio delle bombe in caduta e al frastuono spaventoso delle esplosioni. Chiuse gli occhi. La piccola, confortata dal calore del suo corpo, aveva smesso di piangere e si era addormentata. Ascoltò il suo respiro regolare e percepì il profumo dolce della sua pelle. Strofinò il naso contro la gota liscia, sfiorò le sue ciglia lunghe e scure. «…nunc et in hora mortis nòstrae. Amen». Grosse lacrime le rotolarono sulla guancia: si sentì estranea e disperatamente sola.


7

CAPITOLO II 15 aprile 1956

La telefonata di Antonio Baretti arrivò in un luminoso mattino di una domenica d’aprile. Corrado Sivori, commissario di polizia in pensione, era appena rientrato dalla sua distensiva passeggiata sul lungomare, soddisfatto per essersi spinto fino al porticciolo di Nervi senza poi utilizzare il tram per il ritorno. Del resto l’aria era tiepida, appena rinfrescata da una leggerissima brezza, il cielo terso e il mare, piatto come una tavola, luceva sotto i raggi dorati di un tiepido sole di primavera. Entrò in casa e posò sul tavolo della cucina, davanti alla moglie, il pacchetto con i dolci che aveva acquistato a Quinto, lungo la strada. «Si stava d’incanto» le disse, «hai fatto male a non venire anche tu». «Con tutto quello che ho da fare…» brontolò lei alle prese con una maionese che rischiava di impazzire. Fu proprio in quel momento che squillò il telefono. «Oddio, sarà Alfredo…» si agitò subito la signora Matilde. Per lei, da quando il figlio si era trasferito a Roma, ogni telefonata poteva essere soltanto preludio di disgrazie. Sivori andò a rispondere alzando gli occhi al cielo. Sollevò la cornetta e riconobbe dall’altro capo del filo la voce dal forte accento spezzino del collega che occupava, in questura, il posto che un tempo era stato il suo. «Sono Baretti, dottore». «Antonio?!». «Come sta?». Benché da qualche anno non fosse più il suo superiore, Sivori non era ancora riuscito a far perdere a Baretti l’ossequiosa abitudine di dargli del “lei” e chiamarlo “dottore”, sia pure in risposta al più amichevole “tu” con cui veniva trattato dal vecchio capo. «Bene, Antonio, bene! Che piacere sentirti». In un certo senso era vero. Anche se quel collaboratore un po’ ingessato e costantemente attento a che nulla fosse d’intralcio alla sua carriera lo


8 aveva sempre messo lievemente a disagio, non poteva negare di nutrire un certo affetto per lui. Antonio andava preso per quello che era, insomma… Dall’altro capo del filo giunse un nervoso colpo di tosse. «Io… spero di non disturbarla, dottore». «Ma cosa dici? Nessun disturbo. Dimmi, dimmi…». «Ecco» continuò Baretti con voce incerta, «mi chiedevo se non potremmo vederci. Con suo comodo, s’intende!». Baretti voleva incontrarlo? Questo gli parve veramente strano. Non era mai accaduto da quando era andato in pensione, neppure i primi tempi quando i passaggi di consegna, forse, avrebbero richiesto qualche chiacchierata in più. A ogni modo non esternò la sua sorpresa e si dichiarò disponibile in qualunque momento. «Anche oggi?» incalzò la voce dall’altro capo del filo. «Anche oggi, certo…». «Facciamo alle quattro nel mio ufficio?». Il fatto che Baretti fosse in ufficio di domenica e la premura con cui voleva vederlo lo incuriosirono ulteriormente. «È successo qualcosa?». Sentì, attraverso la cornetta, che cresceva l’imbarazzo del giovane commissario. «Ehm… no. Cioè, sì, in effetti…». «Non puoi anticiparmi nulla?». «Preferirei parlargliene a voce, dottore». «E allora vada per le quattro!». Riattaccò il telefono. La richiesta di Baretti gli suonava strana, ma non abbastanza da togliergli l’appetito. Tornò in cucina, sollevò a uno a uno i coperchi delle pentole sui fornelli e si inebriò con i profumi che ne esalavano. Il suo vecchio ufficio all’interno della Questura di Genova era rimasto pressoché identico. Solo la foto di Einaudi, appesa al muro dietro alla scrivania, era stata sostituita da quella del Presidente della Repubblica in carica, Alberto Gronchi. Per il resto le stesse pareti bianche e un po’ scrostate, gli stessi armadi carichi di faldoni, lo stesso piano ingombro di carte. Di sicuro Antonio non è più ordinato di me, pensò Sivori con una certa soddisfazione.


9 Sedette di fronte a Baretti e lo scrutò con curiosità. Il suo giovane collega aveva qualcosa di strano quel giorno: il colorito era giallognolo, l’espressione cupa e le mani nervose tormentavano i fogli davanti a lui. «Che succede?» chiese l’anziano commissario visto che l’altro non si decideva a parlare. «Ma… nulla, dottore. Non vorrei averla allarmata senza ragione». «È accaduto qualcosa di grave?». «No. Cioè, sì…». «Spiegati». Baretti tergiversò ancora. «Il fatto è che… insomma, volevo fare ricorso alla sua memoria» spiegò un po’ confuso. «Alla mia memoria?». «Sì, sul caso Ferraro». Tutto si sarebbe aspettato Sivori tranne il riferimento a quella vecchia vicenda, una delle ultime che aveva gestito prima di andare in pensione. Un caso che era parso subito chiaro ai suoi superiori e all’opinione pubblica, ma che lui aveva vissuto con un certo malessere. «Che problemi ci sono sul caso Ferraro?» chiese bruscamente. «Sta per iniziare il processo d’appello». Vincenzo Palumbo, l’assassino di Erminia Ferraro, dopo essere stato condannato a vent’anni in Corte d’Assise, rischiava di veder addirittura aumentare la pena se fosse stata riconosciuta la premeditazione. «Sì. Ha letto i giornali?». «Certo». «Sembra che metterà la parola fine». «Infatti». Baretti emise un profondo respiro. «Be’, spero che sia così» concluse inaspettatamente. «Speri?!». «Sì. Lo spero». Il giovane commissario sembrava in difficoltà a iniziare il discorso, e ciò non era da lui. Sivori pensò di incoraggiarlo. «Raccontami tutto senza problemi, Antonio. Vuoi dire che sono emersi dei fatti nuovi? Proprio ora?». L’altro posò i gomiti sulla scrivania e si spinse in avanti verso il suo interlocutore. A Sivori parve che il pallore delle guance si fosse addirittura accentuato.


10 «Vede dottore» cominciò finalmente, «martedì scorso si è presentato un tizio in Questura, un certo Claudio Arvigo». «E chi è?». «Un tipo sui trent’anni. Ci ha detto di essere architetto e di lavorare nella società edile del padre, un certo ingegner Arvigo che sta impestando di cemento tutte le alture intorno a Genova». I cantieri spuntano ovunque, pensò Sivori. Ma non disse nulla e attese che l’altro continuasse. «Arvigo ha chiesto del commissario che si era occupato del caso Ferraro». «Di me?!». Era sobbalzato sulla sedia. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto cercare lui come responsabile di una vecchia indagine conclusa ormai da almeno cinque anni? «L’ho ricevuto io». «Hai fatto bene». «Ma con me non ha voluto parlare» terminò Baretti con aria desolata. «E come mai? Anche se all’epoca non facevi ancora parte della squadra, ora sei tu che hai preso il mio posto». «È quello che gli ho detto anch’io. Ma lui ha insistito per incontrare chi aveva condotto le operazioni che hanno portato all’arresto di Palumbo». «E non ti ha detto perché?». «Mi ha detto solo che forse era importante». «Forse?!». Finalmente il giovane commissario parve illuminarsi almeno un po’. «Ecco!» esclamò con una punta di soddisfazione. «Probabilmente anche lei sta pensando quel che ho pensato io. Ho creduto che fosse uno che voleva farci perdere del tempo». Sivori si strinse appena nelle spalle. «In effetti…» commentò. «Non gli ho dato importanza». «Non hai insistito perché ti dicesse quello che sapeva?». «No». «E lui?». «Lui era ben determinato a vuotare il sacco solo con lei, dottore». «E perché non mi hai chiamato?». Il volto di Baretti si afflosciò nuovamente in un’espressione colpevole, ma l’uomo tentò comunque una debole difesa. «Ma se lei stesso mi ha detto che poteva sembrare un perditempo…».


11 «Sì, certo» si affrettò a tranquillizzarlo Sivori. «E comunque non ha importanza, me lo hai detto oggi. Perché sei così preoccupato? Per via del processo a Palumbo? Ma cosa vuoi che abbia da dirci di così determinante quell’Arvigo?». L’altro sospirò. «Nulla» rispose senza guardarlo negli occhi. «Anche perché non farà più in tempo. È morto». Un imbarazzato silenzio calò fra i due uomini. Baretti era livido, e Sivori capì finalmente la ragione del suo disagio. Dovette ammettere con se stesso di provare una certa irritazione nei confronti dell’ex collaboratore: era da lui rifiutarsi di mettere in contatto il suo vecchio capo con un potenziale testimone, e solo per la presunzione che tutto dovesse comunque gravitargli intorno e nulla dovesse escluderlo. Ma un istante dopo ritenne ingeneroso il suo pensiero: probabilmente egli stesso avrebbe sottovalutato una richiesta del genere. L’avrebbe giudicata il gesto di un mitomane che voleva attirare su di sé l’attenzione facendo leva su un caso che in quei giorni occupava le pagine dei giornali. Non fece quindi alcun commento e si limitò a chiedere come fosse morto Claudio Arvigo. «È stato trovato con il cranio fracassato in fondo alla scala che conduce in cantina, nella villa dei suoceri, che abitano dalle parti di Serra Riccò. La moglie si chiama Molinari, suo padre è un avvocato civilista, ha lo studio a Bolzaneto». «Raccontami qualcosa di più». Baretti allargò le braccia come a indicare che al momento non erano molte le informazioni in suo possesso. «Ieri sera c’era stata una specie di riunione di famiglia. Si festeggiava il fidanzamento del cognato di Arvigo. Fatto sta che i suoceri avevano riunito a casa loro i parenti più stretti, che poi avrebbero dormito in villa e sarebbero rientrati a Genova stasera. Un’occasione festosa, insomma. Era andato tutto bene, secondo le prime testimonianze non c’è stato alcun episodio particolare, nessuna discussione, nulla che abbia turbato la festa in famiglia. Questa mattina la moglie di Arvigo, quando si è svegliata, non lo ha trovato nel letto, ma ovviamente non si è preoccupata. È scesa per colazione e ha pensato che il marito fosse uscito presto per una passeggiata. Più tardi, tuttavia, si è


12 accorta che la porta che da un piccolo disimpegno conduce in cantina era aperta. Ha acceso la luce e ha visto il corpo di Arvigo in fondo alle scale. Pare che sia caduto e abbia picchiato la testa. Ha chiamato l’ambulanza, ma l’uomo era già morto. Il medico della Pubblica Assistenza ha rilevato alcune stranezze nelle ferite e ha stabilito di metterlo a disposizione dell’Autorità Giudiziaria. Io sono stato avvisato da un agente in servizio presso il comando di Bolzaneto. Le confesso tuttavia che se non fosse stato per la visita che egli ci aveva fatto un paio di giorni fa non avrei dato alcuna rilevanza al caso. E forse, effettivamente, si tratta solo di un incidente domestico: Arvigo voleva scendere in cantina, è precipitato dalla scala, ha picchiato la testa ed è morto. Ma non posso dimenticare che voleva dirci qualcosa, e noi non lo abbiamo ascoltato». Sivori si astenne dal fargli notare che lui non lo aveva ascoltato. «Perché hai voluto vedermi?» chiese invece. «L’uomo voleva parlarmi del caso Ferraro, e lei di quella storia sa tutto». «Tutti sanno tutto, ormai. I giornali non parlano d’altro» osservò l’anziano commissario. Baretti fece un debole sorriso. «Lei ne sa più degli altri». «È vero» ammise Sivori. Quella sera, dopo il pomeriggio trascorso in questura a rievocare il vecchio caso, non riusciva a liberarsi dall’ossessivo ricordo di quei giorni. Baretti aveva frugato minuziosamente nella sua memoria: voleva sapere, soprattutto, se almeno uno di quei due nomi, Arvigo o Molinari, fosse comparso almeno una volta nel corso delle indagini che avevano portato, quasi sei anni prima, all’arresto di Vincenzo Palumbo. Ma per quanto si fosse sforzato non era riuscito a cogliere alcuna attinenza fra la morte del giovane architetto e quello della signorina Erminia Ferraro. Ora, dopo aver salutato il suo ex collega e mentre si dirigeva verso Corso Buenos Aires a prendere il tram, ogni attimo di quella dannata sera in cui fu scoperto il cadavere della donna gli scorreva davanti agli occhi come un film. E dettagli, frasi, sensazioni che credeva dimenticate riaffioravano incredibilmente alla sua mente. Ma, sopra a tutte, un’inquietante consapevolezza lo tormentava: sapeva che, a dispetto delle schiaccianti prove che indicavano Vincenzo Palumbo come unico colpevole, una tale conclusione non lo aveva mai completamente convinto.


13

CAPITOLO III Dicembre 1950

Era il 12 dicembre del ’50, un martedì. Lo ricordo come se fosse ieri. Matilde si era raccomandata che arrivassi a casa presto quella sera. Non avevamo ancora fatto l’albero di Natale né il presepe, ed era strano per noi, che ogni anno addobbavamo la casa per le festività nel giorno dell’Immacolata. Stavo per uscire dalla questura quando arrivò la telefonata. Un tizio ci informava che in un palazzo di Corso Sardegna una donna di una quarantina d’anni era stata trovata morta nella sua camera da letto. Accorremmo, naturalmente. Eravamo io e Giuliano Canepa, uno dei miei ispettori, accompagnati da un agente. Fummo i primi ad arrivare, il medico legale ci raggiunse dopo. L’uomo che aveva telefonato ci aveva fornito l’indirizzo. Salimmo al terzo piano di un palazzo costruito negli anni ‘30, che si erge all’inizio della strada, poco prima del mercato ortofrutticolo. Era una casa spaziosa: un bell’ingresso che si apriva su una grande sala e, a sinistra, un lungo corridoio rivestito da una tappezzeria a fiori enormi, rose e dalie dai colori vividi che spiccavano sopra a un fondo nero. Il giovane che ci venne incontro aveva i tratti tipici dei meridionali, i capelli ricci e scuri, la carnagione abbronzata e un velo di barba sul viso. Gli occhi, nerissimi e un po’ infossati, lucevano in modo febbrile. Una coppia di mezza età, che aveva atteso con lui nel soggiorno, restò discretamente in disparte, seppi dopo che erano vicini di casa. Un altro tizio, alto e brizzolato si presentò come il dottor Valenti, che abitava nello stesso stabile e che era stato chiamato dopo la macabra scoperta. Confermò di aver trovato la donna già morta e di non aver potuto fare nulla per lei. Fu il giovanotto ad accompagnarci nella camera da letto dove era stata rinvenuta la vittima. Era proprio l’ultima, in fondo al corridoio sulla destra. Era completamente a soqquadro, i cassetti erano aperti e il contenuto alla rinfusa, parte della biancheria era a terra. Una sedia rovesciata giaceva proprio di fronte all’armadio, le cui ante, tuttavia, erano stranamente chiuse.


14 Il corpo era disteso sul pavimento, nello spazio fra il comò e l’ampio letto matrimoniale, con il capo in un lago di sangue. Gli occhi, ancora sbarrati, conservavano il terrore degli ultimi istanti. La donna era scivolata davanti al cassettone, picchiando probabilmente contro il pesante ripiano in marmo rosa che lo ricopriva. Il ragazzo, in preda a una visibile inquietudine, disse di averla trovata tornando dal lavoro, verso le 18. Giuliano prese le generalità della vittima da un documento trovato nella sua borsetta: Erminia Ferraro fu Liberio, nata a Morano sul Po, in provincia di Alessandria, il 3 giugno 1904. Casalinga, nubile. Poi chiese quelle dell’uomo, che si affannò invano a cercare la carta d’identità e quindi le fornì a voce. «Vincenzo Palumbo di Gennaro, nato a Salerno il 15 luglio 1925, muratore». «Dove lavori?» gli chiesi. «Nell’impresa Moschino & Figli» rispose affrettatamente, poi arrossì. «Veramente dovrei dire che ci lavoravo» aggiunse confuso. Quello fu il primo tassello che permise di costruire l’impianto accusatorio contro di lui. «Cioè?». «Fino a due settimane fa» precisò a malincuore. «E ora?» insistetti. «Ora sono disoccupato». «Ma non ci hai appena detto che tornavi dal lavoro quando hai trovato il corpo?». Palumbo era in evidente difficoltà. «Sì. Cioè no. Io alla signorina Ferraro non lo avevo detto che mi avevano licenziato. Per questo ero rimasto fuori tutto il giorno». «Quindi ti hanno licenziato…» ripetei con un immediato interesse. L’uomo annuì senza alzare gli occhi dal pavimento. «Perché?» chiesi io. «Perché non c’era più lavoro» rispose. «Chi era per te la signorina Ferraro?». «L’affittacamere». «Da quanto?». «Da quasi due anni. Cioè da quando sono arrivato a Genova». «Perché non hai detto alla signorina che eri stato licenziato?». «Perché avevo paura che mi cacciasse di casa». «Ce li avresti avuti i soldi per l’affitto, alla fine del mese?».


15 «Stavo cercando un altro lavoro, l’avrei pagata». Era pallido, aveva gli occhi lucidi e sfuggenti. Lo sguardo saettava da un lato all’altro della camera da letto, ma non mi fissava mai. Tornammo nella sala da pranzo, dove i vicini di casa, sotto lo sguardo vigile dell’agente Spadone, attendevano di essere interrogati. Era una bella stanza, dotata di un’ampia vetrata che si apriva sul balcone affacciato su Corso Sardegna. Nel mezzo c’era un tavolo piuttosto grande ai cui lati stavano due credenze simili, in legno chiaro e decorato, ognuna dotata di vetrina, antine e di un paio di capienti cassetti. Mi avvicinai e li aprii a uno a uno. Trovai, perfettamente in ordine, un servizio di posate in argento. Richiusi i cassetti e mi apprestai a interrogare i vicini. Dissero di abitare nello stesso pianerottolo, nell’appartamento a fianco, e ci raccontarono che Palumbo aveva suonato alla loro porta poco dopo le 18. «Era in uno stato da far paura» spiegò la signora. Parlava con un filo di voce e si torceva nervosamente le mani. «Siamo entrati in casa con lui, abbiamo visto subito che non c’era più niente da fare, ma abbiamo chiamato comunque il dottor Valenti, che abita nell’altra scala, e poi voi». «Avete sentito nulla?» chiesi. «No» rispose la donna con aria sconsolata. «Del resto sono stata fuori quasi tutto il pomeriggio per gli acquisti di Natale». «Io ero appena rincasato quando ha suonato il signor Palumbo» precisò suo marito. Mi rivolsi al medico. «Secondo lei quando è accaduto?». «Difficile dirlo prima dell’autopsia» rispose il dottore. «Comunque da non più di due o tre ore, direi». Fu a quel punto che la signora, come se ci pensasse solo in quel momento, rivolse quella domanda al giovane inquilino. «E la bambina? Dov’è la bambina?». Sono passati ormai diversi anni, eppure quando ripenso a quel momento sento ancora una fitta dolorosa al petto. Perché noi, quella bambina, non l’abbiamo mai più ritrovata.


16 Per il momento la nostra unica reazione fu di stupore. Ci guardammo sorpresi, Cànepa e io. «La bambina? Quale bambina?». Palumbo alzò finalmente su di noi uno sguardo smarrito. «Dio mio, è vero! La bambina…». «Di quale bambina state parlando?». «Di Sandra» balbettò il giovane. Fu la vicina di casa a fornire una breve spiegazione. «La signorina Ferraro aveva una bambina con sé». La cosa mi sembrò quasi incredibile. Non sembrava una casa abitata da bambini: a eccezione della camera da letto, buttata letteralmente all’aria, tutto appariva in ordine e persino austero. «E di chi è figlia?». Palumbo e i vicini si scambiarono uno sguardo dubbioso. «Mah…» iniziò la donna, «di una cugina della povera signorina Erminia. Una che è morta in tempo di guerra». «E la teneva lei?». «Sì. Quando la signorina tornò giù dal Piemonte, dove era sfollata, portò con sé la piccola. Una volta mi ha detto che la sua mamma era morta di tifo». «E il padre?». La donna si strinse nelle spalle. «Non si sa» rispose. «E ora dov’è?». Ancora si guardarono attorno con aria smarrita. «Non lo so» disse Palumbo, «dovrebbe essere qui». Mi voltai verso Cànepa e lui capì al volo. La bambina poteva aver visto o sentito qualcosa ed essersi nascosta terrorizzata da qualche parte. Guardammo in dispensa, negli armadi, sotto ai letti, sotto al lavandino. Uscimmo sul balcone dove, a un’estremità, sorgeva una piccola costruzione in legno per gli attrezzi. Ma della piccola non trovammo traccia. Ipotizzai che potesse essere da qualche parente, o da amici, ma Palumbo lo escluse, e anche i vicini parvero d’accordo con lui. «La signorina Erminia non aveva né parenti né amici» affermarono categorici. «Magari una compagna di scuola…». «La bambina non va a scuola». Sobbalzai.


17 «Come non va a scuola?». «No» confermò la vicina, «non mi risulta che sia mai andata a scuola». Mi rivolsi ancora a Cànepa. «Cerca questa bambina. Interroga i vicini, la portinaia. Sandra avete detto… e di cognome?». Palumbo allargò le braccia. «Sandra… e basta».


18

CAPITOLO IV

Il giorno successivo era lunedì. Sivori aveva riflettuto a lungo sulla morte di quel possibile testimone, e appena sveglio decise di chiamare Baretti in ufficio per saperne di più. Era piuttosto presto, ma l’altro era già al lavoro e rispose al primo squillo. «Ci sono novità sul caso Arvigo?». L’umore del giovane commissario non sembrava migliorato rispetto al giorno precedente. Con voce cupa lo informò che stava attendendo i risultati ufficiali dell’autopsia. «Nessuna indiscrezione?» chiese Sivori «Le fratture sembrano compatibili con la caduta dalle scale, tranne una alla base del cranio. Lì pare dovuta all’impatto con un corpo contundente, probabilmente di bronzo o qualcosa del genere». «Quindi ritieni che il nostro amico sia stato colpito prima di precipitare dalla scala» concluse Sivori. «Potrebbe» convenne mestamente Baretti. «Avete fatto un sopralluogo?». «Ho avvisato la scientifica. Io sto andando proprio ora a Serra Riccò, nella casa dei suoceri». Tacque per pochi istanti, poi sorprendentemente chiese: «Non verrebbe anche lei, dottore?». Mancò poco a Sivori di strozzarsi con il caffè che stava sorseggiando. «Io?! E a che titolo?». Dall’altro capo del filo si percepì un’ombra di delusione. «Sì … capisco. A nessun titolo. E poi ieri le ho anche rovinato la domenica…». Il commissario pensò che il suo giovane collega si era forse già pentito per quella precipitosa proposta, e cercò di rispondergli senza offenderlo ma dandogli il modo di ritirarla. «Per me la domenica è uguale a ogni altro giorno» rispose con noncuranza. «Se posso rendermi utile sono a tua disposizione, ma forse accompagnarti durante il sopralluogo potrebbe creare qualche problema. La famiglia si domanderebbe chi sono e perché sono lì…». Inaspettatamente Baretti non colse quella via d’uscita.


19 «Se lo domanderanno la presenterò come un esperto in qualcosa. Ci verrà pure un’idea» insistette. E dopo un attimo aggiunse: «Mi farebbe molto piacere se ci fosse anche lei. Potrebbe cogliere qualche dettaglio che a me sfugge, qualche nesso con il caso Ferraro». Il fatto che Baretti chiedesse aiuto era così insolito che doveva in qualche modo essere premiato. E Sivori, sorridendo sotto ai folti baffi, accettò l’invito. L’abitazione dei Molinari, appena fuori di Pedemonte di Serra Riccò, era una villa liberty a due piani, sormontata da una piccola torre e circondata da un giardino pieno di fiori, a cui si accedeva tramite un cancello in ferro battuto. Quando i due poliziotti arrivarono percepirono un’atmosfera malinconica e quasi irreale: le finestre erano chiuse, le tende tirate, e dall’interno non giungeva né una voce né un rumore che rivelasse la presenza di un’anima viva. Suonarono al campanello. Dopo pochi secondi una donna piccola e magra, con i capelli grigi, aprì loro il portone. Baretti mostrò il distintivo. «Polizia» disse, «vorremmo parlare con i proprietari». La donna portò istintivamente la mano davanti alla bocca. «O bello Segnô coscì caô» esclamò a bassa voce, ma si spostò di lato per far passare i due. L’atrio era piuttosto grande e arredato semplicemente. Sul fondo una scala ricoperta da una passiera rossa portava al piano superiore, sulla sinistra una porta con i vetri decorati si apriva su un soggiorno che si intravedeva spazioso ed elegante. La donna fece loro strada fino a una stanza più piccola sul lato destro dell’ingresso. Era un salottino con le poltrone in una fantasia di velluto verde e i braccioli in legno, secondo la moda di venti o trent’anni prima. «Vado a chiamare i signori» disse mentre i due si accomodavano. Aveva gli occhi rossi e uscì dalla stanza trascinando pesantemente i piedi, con il capo chino. Mentre aspettavano il ritorno della domestica con i padroni di casa Baretti ricordò brevemente a Sivori che i Molinari si erano arricchiti con il commercio di fertilizzanti e prodotti per l’agricoltura, ma che l’attuale


20 capofamiglia aveva abbandonato l’attività per conseguire la laurea in giurisprudenza. Attualmente conduceva uno studio ben avviato a Bolzaneto. «L’azienda è stata rilevata da alcuni cugini». «E il figlio? Di cosa si occupa?». «Da qualche tempo affianca il padre nello studio, ma anche se è laureato non ha ancora conseguito neppure il titolo di procuratore. È molto giovane». «Si tratta di quello di cui si festeggiava il fidanzamento?». «Proprio lui. È l’unico maschio». Lo sguardo dell’anziano commissario spaziò all’interno del salotto in cui si trovavano. Sulla parete una libreria a vetrina, in rovere, lasciava intravedere diversi volumi di pregio. In un angolo era collocato un minuscolo scrittoio sormontato da un’alzata con cassetti e una piccola teca. Proprio di fronte alle poltrone, su un caminetto in marmo di Carrara, in un delizioso candelabro un nudo femminile, mosso e sensuale, si appoggiava a un ramo che ne costituiva i bracci e che culminava nell’artistica rappresentazione di foglie cesellate. “Una casa elegante” pensò. “Una famiglia agiata, un’attività rispettabile da lasciare al figlio e un buon matrimonio per la figlia… Praticamente la perfezione. Fino a ieri”. Pietro L’attesa dei due poliziotti non si protrasse per molto. Dopo qualche minuto un uomo fra i cinquanta e i sessant’anni, dalla stazza imponente, entrò nel salotto e si presentò porgendo loro la mano. «Sono Pietro Molinari» disse seccamente. «Lei è il suocero di Claudio Arvigo, non è vero?» chiese Baretti, e l’altro confermò. I capelli erano brizzolati e i baffi ancora scuri. Indossava un vestito stropicciato anche se di buon taglio. L’aspetto trascurato e gli occhi incavati tradivano la tensione di quelle ore. Il commissario nuovamente mostrò il distintivo e spiegò in breve le ragioni della visita. Molinari lo ascoltò in silenzio con attenzione. «Cosa intende dire?» domandò bruscamente quando l’altro ebbe terminato il suo discorso.


21 «Mi sembra chiaro» ribatté tranquillo Baretti. «Claudio Arvigo è caduto dalla scala della cantina perché è stato colpito alla nuca con un oggetto pesante». L’uomo scosse il capo con decisione. «È impossibile» obiettò. «Tutte le porte d’accesso alla casa erano chiuse. All’interno c’eravamo soltanto noi di famiglia. Non è pensabile che un malvivente si sia intrufolato dentro con cattive intenzioni e abbia colpito mio genero». Sivori pensò che non era stata un’affermazione felice da parte sua, ma non commentò e chiese invece chi avesse telefonato alla Pubblica Assistenza. «Io stesso» rispose Molinari. «E chi ha aperto la porta ai militi?». «Ancora io». «Come ha trovato la porta?». L’altro capì immediatamente. «Chiusa dall’interno» disse d’impeto. Ai due non sfuggì che un attimo dopo si morse nervosamente il labbro. «Ci sono altre porte di accesso alla casa?». «La porta di servizio che dà sulla cucina e quella della rimessa». Baretti si sentì in dovere di riferire a Sivori quel che sapeva. «L’agente che ha fatto la prima perlustrazione ha trovato la porta della rimessa chiusa dall’interno. La porta di servizio era aperta, ma se n’era servita la donna di servizio che era arrivata poco prima della polizia». «Chi ha le chiavi di casa, oltre alle persone che abitano nella villa?». «Soltanto mia figlia e Irma, la domestica». Sivori annotò mentalmente. «C’erano diverse persone in casa sabato sera, non è vero?» continuò Baretti. «Sì, avevamo festeggiato il fidanzamento di mio figlio Alberto». «E gli ospiti si sono fermati a dormire». «Sì» confermò ancora Molinari. «Tutti quanti?». La voce di Baretti risuonò incredula, ma il padrone di casa chiarì con un sorriso stirato. «Non eravamo poi così numerosi. Abbiamo invitato mia figlia con suo marito, mia sorella e mio cognato e una nipote di mia moglie. Questa è tutta la nostra famiglia. E poi, naturalmente, c’eravamo noi che abitiamo qui e la fidanzata di mio figlio Alberto».


22 «Nessun parente della ragazza?» si sorprese il commissario. «No. La mia futura nuora è un’italo-americana. È venuta in Italia per studiare arte e ha conosciuto mio figlio. Dovevano sposarsi tra qualche mese, probabilmente con quel che è successo le nozze verranno rimandate». «Dovrò parlare con tutte le persone che erano in casa quando è successo il fatto. E l’avverto che arriverà a breve la squadra scientifica. Ispezioneranno il locale dove è deceduto suo genero». L’uomo ebbe un gesto di evidente fastidio. «Tutto ciò per una caduta dalle scale?» esclamò contrariato. «Finita tragicamente, sì. Ma pur sempre di questo si tratta». «Ci sono forti possibilità che suo genero sia stato ucciso» ribadì freddamente Baretti. L’altro lo trafisse con lo sguardo. «È semplicemente ridicolo» sibilò trattenendo a stento l’ira. «Se lo sia o meno, lo stabiliremo noi». Molinari si sistemò in poltrona di fronte ai due poliziotti. Tacque per un po’, con la fronte aggrottata e un’espressione dura negli occhi. Infine si decise a parlare. «Qui ci sono soltanto mia moglie e mia figlia con la bambina». «Gli altri ospiti sono tornati a casa?». «Naturalmente». «E suo figlio? Non abita con voi?». «Abita qui» confermò l’avvocato celando a stento l’insofferenza, «ma stamattina è andato al lavoro. Qualcuno doveva pur esserci nello studio visto che io ho preferito restare a casa. E ho fatto bene a quanto pare» aggiunse con un’occhiata malevola all’indirizzo dei due poliziotti. Baretti preferì ignorare il tono ostile. «Cominceremo da lei» disse con voce impersonale. L‘uomo si agitò sulla sedia, palesemente a disagio. «Cosa volete sapere?» chiese con voce gelida. «Vogliamo sapere con precisione quel che è accaduto fra sabato e domenica». «Abbiamo festeggiato il fidanzamento di mio figlio con la signorina Sereno». «Questo lo sappiamo» confermò con voce pacata il giovane commissario, «ma vorrei che lei ci raccontasse tutto nei minimi dettagli». Molinari sospirò impaziente.


23 «Mia figlia e mio genero sono arrivati da noi fin da sabato mattina». «E come mai così presto?». L’altro si strinse nelle spalle. «Fabiola voleva trascorrere una giornata con la madre e mio genero, per accontentarla, ha preso un giorno di festa». «E cosa avete fatto?». «Nulla di particolare. Mia figlia è rimasta insieme a mia moglie, hanno chiacchierato, lei ha preparato il dolce. Claudio è stato un po’ con me nello studio». «Avete parlato di qualcosa in particolare?». «Mi ha raccontato dei suoi progetti per il futuro, mio genero era un bravo architetto. Era il figlio minore, e non voleva sfigurare davanti al fratello nell’azienda di famiglia». «Null’altro?». «Abbiamo parlato di alcune idee che aveva per modernizzare questa casa». «A noi sembra molto bella». «Ha quasi cinquant’anni, ha bisogno di un po’ di manutenzione. Inoltre avremmo voluto ricavare un piccolo appartamento per loro e Claudio pensava anche a una tavernetta». Fu l’unico momento in cui parve commosso, forse al pensiero di quel progetto, ormai inutile, di ottenere nella villa uno spazio per la famigliola. Per il resto mantenne un’aria dura, quasi indifferente. Non esattamente quella che ci si aspetta da chi ha appena subito un lutto. Sivori decise tuttavia di non insistere per non porlo ancor di più sulla difensiva. Scambiò un’occhiata con Baretti che a sua volta tacque aspettando che l’altro continuasse. Ma l’avvocato si limitò ad allargare le braccia prima di riprendere con lo stesso tono approssimativo. «Cosa vi devo dire? Sabato non è successo nulla di strano, proprio nulla… Una normale giornata in famiglia. Nostra nipote Maria è giunta verso le quattro, mentre per ultimi sono arrivati mia sorella e mio cognato con la fidanzata». «Come mai la fidanzata era insieme a sua sorella?» lo interruppe Baretti. «Vive con lei» spiegò Molinari, «mio cognato è lontano parente del padre della ragazza. I genitori l’hanno lasciata venire in Italia a studiare arte purché soggiornasse da qualcuno che conoscevano. Per questo Sally è a Genova, anche se lei avrebbe preferito Roma o Firenze». «Ha notato qualcosa di strano in suo genero?». «Di strano?» si sorprese il padrone di casa.


24 «Sì. Le è parso nervoso, preoccupato, spaventato?». «Nulla di tutto questo». La risposta arrivò rapida, ma a Sivori non sfuggì un lampo di inquietudine negli occhi del loro interlocutore. «Chi ha trovato il corpo?». «Mia figlia» rispose l’uomo con un certo fastidio. «Ho già spiegato tutto questo al vostro collega che è venuto qui ieri mattina». «Certo, certo…» tagliò corto Baretti. Tirò fuori dalla tasca un piccolo blocco per appunti e lo scorse velocemente. «Lei ha dichiarato di essere stato svegliato dalle grida di sua figlia, che si è precipitata in camera sua dopo aver trovato il cadavere del marito. Sostiene che erano circa le 8, e che fino a quel momento aveva dormito sodo e non aveva sentito alcun rumore. Conferma?». «Naturalmente. Anche se non sono certo sull’ora. Ero piuttosto intontito, ho fatto fatica a realizzare quello che era successo. Forse la sera precedente avevo mangiato e bevuto troppo». «Quindi non ha sentito quando suo genero si è alzato ed è sceso al piano inferiore, e non potrebbe riferire a che ora ciò sia avvenuto». «L’ho già detto» rispose l’uomo piuttosto bruscamente. Baretti ignorò il tono sgarbato della risposta, ma dopo un attimo aggiunse: «Possiamo vedere la signora Arvigo?». Ancora una volta Molinari parve contrariato dalla richiesta. «Fabiola è molto scossa» protestò, «non mi sembra il caso di turbarla ulteriormente. E perché poi… ». «Perché forse è stato commesso un delitto» ribatté Baretti. L’altro divenne così rosso in volto che Sivori, per un istante, pensò che fosse sul punto di stramazzare al suolo. «Ma come potete pensare che mio genero sia stato ucciso!» sbuffò. «Qui… in casa nostra…». «È possibile che si sia trattato di un incidente» ammise Sivori nel tentativo di calmarlo, «ma noi abbiamo il dovere di approfondire la questione. Non dimentichi che il tutto nasce da una segnalazione della Pubblica Assistenza…». Per sua fortuna l’uomo non gli chiese a che titolo parlasse. Probabilmente non aveva neppure notato che egli non aveva esibito alcun distintivo. Fece un ultimo gesto di stizza e commentò rabbiosamente che era stato un errore chiamare l’ambulanza.


25 «Avremmo dovuto telefonare al nostro medico!» osservò scuotendo il capo. «Del resto si capiva benissimo che per il povero Claudio non c’era più nulla da fare». Restò per un po’ in silenzio, pensieroso, poi si alzò lentamente dalla sua poltrona. «Vado a chiamare mia figlia» disse rassegnato. Stava per avviarsi verso la porta ma Sivori lo fermò. «Un’ultima cosa, signor Molinari». L’altro si voltò verso di lui. «Il nome Erminia Ferraro le dice nulla?». Suo malgrado al padrone di casa uscì un sorriso sarcastico. «Ma se i giornali non parlano d’altro!» osservò. «Si vede che non sanno come riempire le pagine». «Quindi ne ha letto solo sui quotidiani». «Certo! Perché me lo chiede?». Sivori ignorò la domanda. «Lei non ha mai conosciuto personalmente né la signorina Ferraro né l’uomo che è stato accusato di averla uccisa?». «Accusato e già condannato in primo grado» ribatté ruvido Pietro Molinari. Quindi scosse il capo con fermezza: «io non conoscevo nessuno». «Né lei, né qualcuno della sua famiglia?». L’uomo ebbe un gesto spazientito. «Perché queste domande?» chiese con irritazione. «Cosa vuole che ne sappia di quel caso? Solo quello che abbiamo letto sui giornali…». Quindi aggiunse con fare aggressivo: «E non vedo cosa c’entri quella vicenda squallida con la morte del mio povero genero». L’anziano commissario lo fissò dritto negli occhi. «Probabilmente nulla» ammise poi stringendosi nelle spalle. Fabiola Fabiola, la giovanissima vedova di Claudio Arvigo, entrò nella stanza accanto a suo padre. L’accentuato pallore e i lineamenti tesi nulla toglievano a una bellezza indiscutibile ma un po’ aggressiva. La figura era elegante e flessuosa, i tratti del volto regolari ma nettamente marcati, gli occhi grandi e verdi erano cerchiati da profonde occhiaie scure.


26 Tese la mano sussurrando poche parole di presentazione, quindi sedette rigida di fronte ai due poliziotti. Molinari restò qualche secondo in piedi, con un certo imbarazzo, in bilico fra l’evidente desiderio di assistere al colloquio e la consapevolezza che fosse opportuno uscire dalla stanza. Un eloquente sguardo dei due poliziotti lo convinse, a malincuore, ad allontanarsi. La ragazza seguì il padre con gli occhi finché la porta del salottino non si rinchiuse dietro di lui, ma quando si volse infine verso i due uomini l’espressione era tutto sommato tranquilla, quasi vuota. «Ci dispiace disturbarla, signora Arvigo» esordì Baretti, «ma lei capisce che dopo quello che è accaduto abbiamo il dovere di porle alcune domande». La giovane annuì. «Chiedetemi quello che volete» rispose con voce bassa ma ferma. «È stata lei a scoprire il corpo di suo marito». Era stata un’asserzione e non una domanda, ma Fabiola confermò con un cenno del capo. «Ci spieghi come è andata». Per qualche attimo la donna parve riordinare in silenzio i suoi pensieri, ma poi raccontò esprimendosi con sicurezza. «Ieri mattina mi sono svegliata alle 7 e mezza e ho visto che Claudio non era accanto a me. Questo non mi ha stupito, mio marito era molto mattiniero. Sono scesa in cucina per farmi un caffè. La casa era ancora silenziosa, avevamo fatto piuttosto tardi la sera prima, e tutti dormivano ancora». «Il fatto di non trovare suo marito neppure al piano inferiore l’ha insospettita?». «No. Ho pensato che fosse uscito per una passeggiata». «Lei ha un’idea circa l’ora in cui si è alzato? Lo ha sentito?». «No. Ho il sonno pesante; però so che alle 6 era ancora a letto. Lo so perché la bambina si è svegliata e ha pianto insistentemente, così mi sono alzata per darle il ciuccio». «Ha trovato tracce della colazione, in cucina?». La donna lo guardò sorpresa «Di chi? Di Claudio?» domandò a sua volta quasi divertita. «E chi gliela avrebbe preparata? Lui non sapeva neppure accendere il fuoco sotto a un tegamino». A Sivori non sfuggì un leggero disprezzo nella sua voce.


27 «Ed era normale per lui alzarsi di buon mattino e uscire per una passeggiata senza neppure prendere un caffè?». Fabiola rifletté qualche istante, poi si strinse nelle spalle. «No, forse no» ammise. «Mi pare di aver capito che la domestica non avesse dormito qui». La ragazza confermò. «La Irma ci aveva aiutate a preparare la cena, ma poi era rientrata a casa sua, in paese. Sarebbe tornata al mattino per riordinare». «Non vive con voi?». «Ha una stanza nella villa e da quando è rimasta vedova si ferma talvolta per la notte. Ma ha mantenuto la sua casa, e in particolare le fa piacere tornarvi il sabato sera, quando suo figlio rientra da Genova dove lavora tutta la settimana». «Capisco» mormorò Baretti, e dopo un attimo di riflessione aggiunse: «A che ora sarebbe dovuta tornare?». «Mah! Non prima delle nove, suppongo. Anche se ha le chiavi di casa non sarebbe arrivata troppo presto per paura di far rumore e disturbare». Si fermò in attesa di altre domande, ma Baretti con un cenno la invitò a proseguire. «Mi sono scaldata un po’ di caffè avanzato dalla sera prima, ma era terribile. È dal tempo di guerra che mia madre si è abituata al surrogato d’orzo che non piace a nessuno. Così sono andata in dispensa per prendere quello buono da macinare e farmelo fresco. Da lì ho visto che la porta della cantina era aperta. Si apre su un piccolo disimpegno appena fuori dalla cucina». «Dopo vorremmo dare un’occhiata» la interruppe il giovane commissario, e la ragazza annuì. «Naturalmente» disse. Poi, prima di proseguire, esitò per un lungo istante. Socchiuse gli occhi. «Mi sono avvicinata per chiudere la porta, e l’avrei fatto senza guardare di sotto, anche perché la luce era spenta. Lì per lì ho pensato semplicemente che qualcuno l’avesse dimenticata aperta per sbaglio. Ma poi ho notato una ciabatta di Claudio sul primo gradino». «Una ciabatta?». «Sì. Deve essersi sfilata nel momento in cui è caduto. Allora ho acceso istintivamente la luce e…. e l’ho visto, in fondo alla scala». Fabiola Molinari appariva ora turbata. Distolse lo sguardo e si morse nervosamente il labbro, ma gli occhi restarono asciutti.


28 «Lei ha idea del perché suo marito si fosse recato in cantina così di buon mattino?» chiese Sivori. «No» rispose la ragazza di getto. Poi parve ripensarci: «Forse cercava una bottiglia da portare in tavola per mezzogiorno. La sera precedente, a cena, mio padre si era rammaricato per la scelta del vino: aveva detto che non era all’altezza dei piatti serviti». L’anziano commissario non sembrò convinto. «Alle sette del mattino suo marito cercava il vino per mezzogiorno?». La donna si strinse nelle spalle. «È l’unica ragione che mi viene in mente» disse. «Suo padre ci ha parlato di alcuni lavori di ristrutturazione che prevedono la trasformazione della cantina. È possibile che volesse scendere per un sopralluogo?». Lei fece una smorfia annoiata. «No, non credo. Nei fondi c’è ancora del materiale di scarto che risale alla costruzione della villa e sarebbe piuttosto costoso rimuoverlo. Proprio qualche giorno fa Claudio mi ha detto che secondo lui potevamo scordarci la tavernetta, perché mio padre non intende spendere». Baretti scambiò un’occhiata con il suo vecchio capo, poi riprese con voce impersonale. Sapeva che ciò che stava per chiedere suscitava di solito reazioni infastidite e spesso addirittura offese. «Vorrei rivolgerle ancora una domanda, signora» esordì quindi prudentemente. La donna sospirò rassegnata. «Quali erano i rapporti di suo marito con lei e con il resto della famiglia?». Con una certa sorpresa i due uomini registrarono il tono indifferente con cui la vedova parlò. «Normali» si limitò a rispondere. «Cosa intende per normali?». «Intendo che fra me e mio marito c’erano talvolta delle discussioni, ma nulla di diverso rispetto a quel che accade normalmente». Sivori pensò che quella risposta mal si addiceva a una moglie giovane e innamorata che ha appena perso il marito, tuttavia tenne per sé le sue considerazioni. «Da quanto eravate sposati?» chiese ancora. «Tre anni». «Avete figli?». «Una bambina di tredici mesi, Letizia».


29 Le parole si spensero in un sussurro, e anche il commissario si zittì per un istante. Poi, con tono gentile, proseguì. «E con gli altri familiari? Com’erano i rapporti di suo marito con loro?». Questa volta Fabiola Molinari accennò un sorriso. «Direi ottimi» rispose, «i miei genitori adoravano Claudio». Baretti la fissò dritto negli occhi. «Nessun dissapore, quindi…» ribadì come a chiedere conferma. «Neppure con gli altri parenti presenti in casa domenica mattina?». «Mio padre mi ha detto che sospettate che Claudio sia stato spinto. Ma è un’ipotesi ridicola». «Abbiamo le nostre ragioni, signora» commentò freddamente il giovane poliziotto, ma la donna ritenne di dover insistere. «È caduto da solo. Ha perso la ciabatta ed è inciampato». Sgranò i bellissimi occhi verdi e, per la prima volta, l’espressione un po’ infantile ne tradì la giovanissima età. «Mi sembra evidente!» aggiunse allargando le braccia. «Se è così sarà meglio per tutti» fu la gelida reazione di Baretti. Fabiola desistette dal ribadire la sua versione. Incrociò le braccia e si rannicchiò contro lo schienale della poltrona. Il commissario lasciò trascorrere qualche secondo prima di incalzarla con una nuova domanda. «Lei sa, signora, che pochi giorni prima di morire suo marito si è presentato in questura?». Lo stupore che le si dipinse sul volto parve genuino. Sollevò lo sguardo a turno sui due uomini e infine si lasciò andare a una breve esclamazione. «In questura?!» ripeté perplessa. «Esattamente» confermò Baretti. «E perché?». «Sosteneva di avere informazioni sul caso Ferraro». Un sorriso quasi divertito le increspò appena le labbra. «Sul caso Ferraro? E cosa poteva sapere mio marito del caso Ferraro?». «Purtroppo non ce lo disse». Il sorriso scomparve e Fabiola aggrottò la fronte, mentre gli occhi puntarono dritto in faccia Baretti. «Mi sta prendendo in giro?» chiese. «E allora cos’è venuto a fare, in questura?». Il tono nervoso non scompose il suo interlocutore.


30 «Disse di avere forse informazioni» ripeté lentamente, scandendo le parole, «ma domandò di una persona in particolare che in quel momento non c’era, e non trovandola promise che sarebbe ritornato». «E lo ha fatto?» s’informò la donna con aria scettica. La risposta di Baretti fu laconica e secca. «Non ne ha avuto il tempo». Fabiola Arvigo si strinse nelle spalle. «Sono certa che Claudio non sapesse nulla di così importante. E poi che c’è da sapere di più?» aggiunse con una smorfia di disgusto. «Un delinquente si è approfittato di una donna ingenua e alla fine l’ha uccisa. È tutto così chiaro…».


31

CAPITOLO V Dicembre 1950

Ciò che maggiormente inguaiò Vincenzo Palumbo fu il ritrovamento dei gioielli. Avvenne quasi subito, e non riuscivamo a credere che il ragazzo fosse stato così stupido. Il cofanetto, completamente vuoto, era ancora posato sul piano in marmo rosa del vecchio cassettone della Ferraro, ma il suo contenuto, avvolto in una sciarpa di lana, fu ritrovato nel fondo dell’armadio nella camera dell’inquilino. C’erano un braccialetto a più fili di perle trattenuto da un fermaglio in pietre preziose, degli orecchini tempestati di piccoli brillanti, un paio di anelli di foggia antica, un pendente d’oro dalla strana forma che ricordava un ‘pigreco’ leggermente allungato sulla sinistra, e due spille di pregevole fattura. Mi incuriosì la foggia del ciondolo, che richiamò alla mia mente ricordi scolastici e di cui non mi spiegai il significato. L’intero cofanetto aveva comunque contenuto un piccolo patrimonio e quel che colpiva era l’eleganza raffinata di quei gioielli. Non sono mai stato un esperto in materia, né lo era Giuliano Canepa. Eppure entrambi capimmo subito che si trattava di oggetti di un certo valore, che non ci saremmo aspettati di trovare in quella casa da cui trapelava benessere, ma non certo lusso. Palumbo dovette confessare di averli sottratti lui stesso dal portagioie della padrona di casa, ma negò di aver compiuto il delitto, dichiarando di aver trovato il cadavere della Ferraro al suo rientro. E si ostinò a ripetere di aver già trovato la stanza a soqquadro, con i cassetti del comò aperti e parte del loro contenuto rovesciato sul pavimento. Non gli credemmo, naturalmente. Quale ladro avrebbe buttato all’aria il mobile per poi ignorare gli oggetti di valore in esso custoditi? Del resto tutta la messinscena era piuttosto maldestra: la presenza delle posate d’argento nel cassetto della credenza in sala e il perfetto ordine che regnava in tutta la casa a eccezione della camera da letto della


32 signorina Ferraro facevano ben pensare che non ci fosse stata alcuna rapina. Ma un altro dettaglio ci colpì immediatamente. Per quanto gli abiti di Palumbo si trovassero nell’armadio in camera sua, furono ritrovati alcuni pezzi della sua biancheria intima in uno dei cassetti del comò nella stanza della vittima. E un paio di pantofole in pelle da uomo, ordinatamente appaiate, si trovavano ai piedi del letto matrimoniale. Palumbo farfugliò qualche assurda giustificazione tentando di negare l’evidenza. Infine ammise di essere stato l’amante della vittima per quasi un anno. Parlò tra i singhiozzi. Disse che la matura signorina si era invaghita di lui, e lo fece con un irritante lamento. «Mi girava sempre intorno… Entrava nella mia stanza dopo che mi ero ritirato, con qualunque scusa …». «E tu?» gli chiedemmo. «Io… che vulite, commissà … Pena mi faceva…». Era patetico e disgustoso. «Ti pagava?» domandò Canepa. Gli occhi, lucidi e neri, si sollevarono su di noi con un’espressione disperata. «Ma che dite? Farmi pagare, io …? Io pagavo, non lei …! Pagavo la stanza…». «Lo facevi sempre?» incalzai. «Con qualche piccolo ritardo, commissà …». Lanciai un’occhiata su una vecchia foto incorniciata sul comò della Ferraro. Risaliva ad almeno dieci anni prima e mostrava una donna che forse non era mai stata bella. Tuttavia il viso aveva una certa vivacità, il sorriso era accattivante e il fisico prorompente aveva certo attratto più di uno sguardo maschile. Confrontai l’immagine del ritratto con quella del corpo che giaceva ai nostri piedi, le cui membra scomposte ricordavano un burattino dai fili spezzati. La pelle, bianca e sottile, si stendeva opaca e in parte grinzosa su una muscolatura ormai flaccida, ma dalla camicetta scollata emergeva un seno ancora florido, e le gambe semicoperte dalla gonna di vigogna scura erano forti e snelle e dalle caviglie sottili. Il viso, nella fissità della morte, aveva un che di spaventoso. I capelli, tinti di un colore rossastro e arricciati dalla permanente, mostravano


33 un’impietosa crescita grigia alla radice e i lineamenti tirati erano aguzzi e ordinari. Vincenzo Palumbo, rannicchiato sulla poltroncina di raso stinto, in un angolo della stanza, piangeva e tirava su col naso. Lo conducemmo con noi in questura, e quella notte stessa fu fermato. I risultati delle indagini, nei giorni successivi, non fecero che stringere il cerchio intorno a lui. Non furono trovate in casa prove del passaggio di altre persone, anche se, a dire il vero, il precipitarsi dei vicini sul luogo del delitto poteva aver cancellato eventuali tracce. Fu invece confermato che da circa due anni Palumbo occupava la camera nella casa di Erminia Ferraro. Dal libretto di risparmio della donna risultò in effetti che le sue condizioni economiche erano peggiorate più o meno da quel periodo, giustificando quindi la decisione di affittare per la prima volta una stanza. Tuttavia le registrazioni della pigione, che la Ferraro conservava in un quaderno, non erano del tutto regolari e rivelarono che l’inquilino era stato piuttosto negligente nell’ottemperare ai suoi impegni. Il titolare dell’impresa edile Moschino confermò di averlo avuto alle sue dipendenze e di averlo licenziato quindici giorni prima, ma la ragione non era stata certo la mancanza di lavoro. L’uomo dichiarò che il giovane più volte si era presentato ubriaco in cantiere, e i compagni confermarono che amava bere a ogni ora del giorno e che talvolta bastavano soltanto piccole quantità di vino per aumentare di molto la sua aggressività. Una ragazza che abitava nel palazzo di fronte, tal Luisa Gatti, si presentò spontaneamente in questura, accompagnata dal padre, per raccontare che il giovane la corteggiava con insistenza. La sua testimonianza portò un elemento decisivo all’indagine. «Io non ne volevo sapere di lui» raccontò. «Non le piaceva?» le chiesi. Lei scosse il capo. «Non era per questo» rispose. E poi ammise quasi controvoglia: «Non si può negare che fosse un bel ragazzo». «E allora?». «Se la faceva con la padrona di casa» sibilò abbassando un poco il tono della voce.


34 Sospirai. «Lo sappiamo» commentai con scarso interesse, ma le parole successive stuzzicarono la mia curiosità. «Io gliel’ho detto che non intendevo avere niente a che fare con lui finché stava con quella, ma lui all’inizio non lo voleva proprio ammettere…». «Solo all’inizio?». «Sì, perché poi ha dovuto riconoscere che qualcosa c’era. E mi ha promesso che si sarebbe liberato di quella vecchia…». Vincenzo Palumbo non smentì mai di essersi espresso in quel modo. Anche al processo, nonostante il suo avvocato gli avesse consigliato di negare, confermò ogni parola, pur stragiurando, disperato, che non intendeva certo uccidere la sua matura amante, ma solo lasciarla. Non dimenticherò l’espressione da cane bastonato con cui fissava Luisa Gatti mentre lei, sul banco dei testimoni, ripeteva implacabile la frase che lo inchiodava. Eppure, pur nella terribile situazione, a tratti lo sguardo si addolciva e le labbra si schiudevano in un cenno di sorriso mentre guardava rapito la ragazza, bionda e bellissima, che si era trasformata nella sua più spietata accusatrice. «Un delinquente» lo aveva definito il padre di Luisa Gatti quel giorno in Questura. Teneva un braccio sulle spalle della figlia, la incoraggiava a proseguire senza paura della verità. «Perché noi siamo gente onesta, commissario» aveva spiegato guardandomi con fierezza «Sempre dalla parte della legge e della giustizia, non come quella marmaglia del Sud!». Quale fu il primo momento in cui dubitai della colpevolezza di Palumbo? E perché ne dubitai? Il ragazzo aveva mentito. Aveva inscenato un furto, si era impadronito dei gioielli della vittima. Aveva dichiarato di aver trovato la camera a soqquadro, ma a parte i preziosi, sottratti da lui, dalla stanza non mancava nulla. Ma soprattutto aveva sfruttato la passione di quella donna non più giovane, si era fatto mantenere da lei, aveva probabilmente smesso di pagarle l’affitto, le aveva tenuto nascosto di aver perduto il lavoro perché in fondo gli piaceva star fuori ogni giorno a bighellonare, a bere, a corteggiare le ragazze… Temeva che lei lo avrebbe rimproverato, ammise durante un interrogatorio, e addirittura che gli trovasse un nuovo lavoro. Eppure, a un certo punto, io dubitai della sua colpevolezza.


35 Il giudice istruttore aveva formulato l’ipotesi che la donna lo avesse sorpreso a rubare dal suo portagioie, e che questo gli avesse fatto perdere la testa. Iniziai a domandarmi perché il ragazzo si era avvicinato ai gioielli mentre la Ferraro era in casa, quando avrebbe potuto approfittare di una sua assenza. Al processo si disse che lei lo aveva sorpreso rientrando improvvisamente, ma io ero convinto che non fosse così, e lo dichiarai sul banco dei testimoni: Erminia indossava le pantofole quando fu uccisa. L’accusa osservò che forse si era cambiata le scarpe appena entrata in casa, ma la Ferraro le teneva in dispensa, proprio all’estremità del corridoio, mentre la camera da letto in cui erano conservati i gioielli era l’ultima sulla destra. Impensabile che scorgendo il suo amante che frugava nel cassettone avesse prima pensato a indossare le pantofole! Forse la porta della camera era chiusa, osservò ancora il pubblico ministero. Ma perché? Mi domandai io. Perché chiuderla quando ciò poteva impedirgli di sentire la donna rientrare, la chiave girare nella serratura? E poi quello sguardo così perso, così intimorito… Vincenzo Palumbo aveva la rettitudine di un gatto randagio, ma non era un delinquente abituale. Non c’era un solo precedente penale nella sua vita né in quella dei suoi familiari. Quando all’inizio lo fermai pensai che sarebbe crollato nel giro di poche ore. Nonostante le parole della Gatti ero convinto che si fosse trattato di un delitto d’impeto, e in questi casi, per mia esperienza, l’assassino crolla nel corso dei primi interrogatori, specie se si tratta di una personalità fragile e superficiale quale era, senza dubbio, quella del giovane salernitano. Invece Palumbo non crollò. I suoi occhi restavano inquieti, lo sguardo incredulo e a tratti la bocca semiaperta, il collo proteso verso di me, l’espressione spaventata. Poi abbassava il capo e lo scuoteva disperato, chiedendosi mille volte perché tutto questo era accaduto proprio a lui. Ma ormai la macchina della giustizia era partita. Il giudice aveva convalidato l’arresto, le prove parevano schiaccianti e io stesso non avrei potuto portare un solo indizio a favore della sua innocenza. Non avevo alcuna convinzione del resto, solo qualche minimo dubbio e, lo confesso, una forte antipatia per quel fannullone con la faccia da


36 gabibbo 2 che aveva abusato del suo ascendente su una donna sola e forse un po’ sciocca.

2 Meridionale in senso dispregiativo, l’equivalente genovese di “terrone”


37

CAPITOLO VI

Su richiesta dei due poliziotti, Fabiola Molinari li scortò in cantina. Attraversarono l’ingresso e imboccarono un corridoio che li condusse all’ampia cucina, rivestita da maioliche bianche e blu. Su quest’ultima si affacciava un disimpegno dalle dimensioni ridotte, dove si apriva la dispensa e dove una seconda porta conduceva al locale sotterraneo. Oltre la porta il pianerottolo era stretto e ingombro da un piccolo tavolino, tanto da non consentire di sostarvi a più di due persone, e immetteva su una scala ripidissima, in legno. La perlustrazione fu piuttosto rapida. La cantina era spaziosa e tenuta ineccepibilmente in ordine. Aveva una pianta approssimativamente quadrata, ma in due punti un arco nel muro conduceva a un piccolo corridoio che culminava in una specie di stanzino, basso e completamente buio, nel quale erano ammucchiate parecchie vecchie botti. Nel locale principale le pareti erano quasi interamente ricoperte da scaffalature che contenevano molte bottiglie di vino, ma anche attrezzi e oggetti di vario genere. Una sagoma in gesso, disegnata ai piedi della scala probabilmente dall’agente chiamato dal medico della Pubblica Assistenza, indicava l’esatta posizione del corpo al suo ritrovamento. Mentre Baretti si soffermava a studiare la posizione della salma Sivori si concesse un breve giro all’interno del locale. Le bottiglie di vino portavano quasi tutte etichette scritte a mano, a indicarne l’imbottigliamento casalingo. Solo uno scaffale pareva destinato a vini pregiati e d’annata. Su un lato si ergevano tre botti altissime, evidentemente inutilizzate da molti anni. Di fronte, su una parete attrezzata a mensole, i proprietari tenevano un’infinità di scatoline di chiodi e viti, oltre a martelli, tenaglie e altri strumenti da lavoro. Accanto era appoggiato un vecchio armadio, che Sivori aprì con cautela. In realtà Baretti non aveva alcun mandato di perquisizione ma, con una rapida occhiata a Fabiola, il commissario si sincerò che la donna fosse del tutto tranquilla e per nulla preoccupata per quell’ispezione.


38 L’armadio non conteneva nulla di interessante, almeno apparentemente: soltanto vecchi libri per bambini e giocattoli usati, che erano appartenuti probabilmente ai giovani Molinari e conservati per ragioni affettive. Una fila di soldatini di stagno, un trenino in legno dipinto, alcune marionette, due bambole con gli occhi semoventi che, accanto a una di pezza, più consumata e quindi probabilmente più amata, parlavano di un’infanzia ricca in tempi in cui la maggior parte dei bambini non aveva da mangiare. L’anziano commissario oltrepassò uno degli archi nel muro e tornò nel piccolo corridoio. Scorreva parallelamente a un lato della cantina ed era accessibile attraverso l’arcata da cui era passato lui e un’altra a pochi metri di distanza. Sul fondo, accanto all’accesso allo stanzino, erano incassati alcuni scaffali di legno su cui rinvenne solo uno straccio sporco. Sivori si chinò per guardare sotto all’ultima mensola: in un angolo, sul pavimento, scorse una grossa fibbia che pareva strappata da un tessuto pesante. La prese, quindi perlustrò i ripiani a uno a uno con la mano per l’intera profondità. Erano tutti parecchio impolverati, a eccezione di quello in mezzo, che si trovava più o meno all’altezza del suo braccio. Su questo, dalla superficie apparentemente più pulita, erano tuttavia presenti diversi batuffoli di polvere. Sivori vi passò la mano sopra con maggiore attenzione. Sentì che il legno era ruvido e in alcuni punti scheggiato e percepì, verso il fondo, la presenza di un grosso chiodo. Perlustrò meglio e sentì che vi era attaccato qualcosa. Dovette tirare per prenderlo, perché era rimasto impigliato. Quando ci riuscì, vide che si trattava di un piccolo lembo di stoffa. Cercò con gli occhi la giovane padrona di casa, che tuttavia pareva più interessata alle analisi di Baretti, e decise di far sparire in tasca i minuscoli reperti. Maddalena Maddalena Molinari era una bella donna sui cinquant’anni, alta e formosa, con i capelli neri appena striati di grigio e gli occhi chiari messi in risalto da lunghe ciglia scure. Entrò nel salottino e si presentò tendendo con eleganza la mano bianchissima. Pareva ancora molto scossa, e dimostrava una minore freddezza rispetto alla figlia. Sedette sulla poltroncina di velluto verde e posò sui due uomini uno sguardo angosciato.


39 «Potrei avere accanto mio marito?» chiese con voce tremante. «Preferiremmo ascoltarla da sola, signora Molinari». Lei si appoggiò alla spalliera della poltrona e socchiuse gli occhi. «Certo…» acconsentì rassegnata. «Il fatto è che sono così nervosa. Non vorrei dire delle sciocchezze…». Sivori le rivolse un sorriso incoraggiante. «Lei ci deve solo raccontare la verità» osservò. «È naturale!» si affrettò a precisare la donna. «Ma sono successe tante cose, così terribili … Ho una gran paura di fare confusione…». «L’aiuteremo noi» promise l’anziano commissario. Baretti si schiarì la voce e, assai più rigidamente, iniziò con la consueta serie di domande. «Dov’è la sua stanza, signora? Rispetto a quella di sua figlia e suo genero, intendo». «È esattamente quella accanto». «Lei ha sentito quando Claudio Arvigo è sceso al piano di sotto, ieri mattina?». «No, deve aver fatto molto piano». «Ha sentito altri rumori, qualcuno che scendeva?». «No, nulla. Dormivo profondamente». «A che ora si è alzata?». «Non saprei dirle l’ora. Ci ha svegliati mia figlia, che si è precipitata in camera nostra dopo aver trovato il corpo di suo marito». «Quindi lei ha visto suo genero vivo per l’ultima volta la sera prima». «Sì, è esatto. Sabato sera, quando siamo andati a dormire». «A che ora?». «Era piuttosto tardi. Dopo l’una, sicuramente. Avevamo festeggiato in famiglia il fidanzamento di mio figlio Alberto con la signorina Sereno». Sembrava aver acquistato un po’ di sicurezza, anche se le mani tormentavano i braccioli della poltrona. «Io sono stata l’ultima ad andare a letto. Ho preparato un biberon di camomilla per la bambina, nel caso si svegliasse di notte, e ho portato a mio marito la pastiglia per i bruciori di stomaco. La prende tutte le sere». «Ha controllato la porta di ingresso?». «Naturalmente. Lo faccio sempre prima di coricarmi». «Anche quella di servizio? Quella da cui è entrata la domestica ieri mattina?». «Certo. Ho chiuso personalmente le due serrature, girando le manopole fino in fondo».


40 «E le finestre erano tutte chiuse?». Baretti sapeva che non erano state trovate effrazioni alle finestre, ma fece comunque la domanda. «Tutte chiuse. Ho verificato io stessa». Mentre il collega proseguiva con le domande, Sivori si concentrò a studiare l’atteggiamento della donna nel rispondere. Pareva effettivamente molto attenta nel riferire gli eventi con precisione e preoccupata di non ricordare ogni dettaglio. Proseguì confermando sostanzialmente quanto già aveva dichiarato il marito: nulla nel comportamento di Arvigo poteva far pensare che egli fosse stato preoccupato o spaventato da qualcosa. Secondo Maddalena Molinari il genero aveva agito in modo perfettamente naturale. «E nei giorni precedenti?» chiese Baretti. «Quando è stata l’ultima volta che aveva visto suo genero? Prima di sabato, intendo». «Domenica scorsa» rispose la donna di getto. Poi si corresse. «No, a dire il vero, no. Domenica scorsa mio genero aveva dovuto lavorare: un sopralluogo in una villa in riviera, ci aveva detto. Ma gli altri erano venuti tutti qui a Serra Riccò. Mi piace così tanto farmi circondare dai miei parenti!». Sospirò commossa e poi mestamente aggiunse: «Ormai siamo rimasti in pochi …». Fissò Sivori con uno sguardo un po’ vuoto e mormorò: «Senza di noi la mia povera nipote sarebbe praticamente sola al mondo …». Baretti la riportò al discorso originario. «E quindi a quando risale la penultima volta che lo ha visto?». Maddalena Molinari si fermò brevemente per riflettere, ma poi rispose con sicurezza. «Due domeniche fa, a Pasqua. L’abbiamo festeggiata qui, tutti insieme». «E come le era parso in quel frangente?». La donna lo guardò senza capire. «Cosa intende dire?» chiese. «Era preoccupato, nervoso? Le è sembrato che avesse qualche pensiero?». «Ma assolutamente no! Erano così felici lui e mia figlia, con la loro bella bambina…». «È sicura che non avesse fatto riferimento a qualcosa che lo assillava?». La donna si asciugò una lacrima che faceva capolino e scosse il capo. «Vi assicuro, era del tutto sereno». La domanda su Erminia Ferraro arrivò ancora una volta a bruciapelo.


41 «Lei la conosceva?» chiese Baretti, e la donna lo guardò sorpresa. «Conoscerla personalmente? Certo che no». «Ma forse la conosceva suo genero» insistette Sivori. Di nuovo la signora Molinari scosse il capo. «Non credo» rispose, «con tutto quello che i giornali hanno scritto sulla vicenda ce ne avrebbe sicuramente parlato». «Sì, probabilmente sì» convenne Baretti. «Eppure suo genero si è presentato in questura dicendo che aveva delle dichiarazioni sul caso Ferraro». Questa volta la donna parve veramente cadere dalle nuvole. «In questura?!» ripeté sbalordita, e un violento rossore le affiorò al viso. «La cosa la stupisce?». «Be’, sì…» ammise perplessa. «Non vedo che relazione potesse esserci fra mio genero e quel vecchio caso». Quindi dopo aver riflettuto qualche istante aggiunse: «E cosa vi ha raccontato?». «Nulla» rispose Baretti con un leggero imbarazzo. «Voleva parlare con una persona in particolare e non avendola trovata ha detto che si sarebbe ripresentato». «E voi l’avete lasciato andare?». Sivori percepì una vena ironica nelle parole della signora. Si domandò se non fosse in realtà meno confusa di quel che volesse far credere. Ne scrutò attentamente l’espressione del viso, ma gli parve di leggervi soltanto un autentico stupore. «Non potevamo certo trattenerlo» si affrettò intanto a spiegare Baretti, e la signora educatamente annuì. Giunse infine la domanda di rito relativa ai rapporti con la vittima. Maddalena Molinari asciugò una piccola lacrima con il fazzoletto che fin dall’inizio stringeva fra le mani. «Ottimi, commissario!» rispose con un basso tono di voce. «Claudio era un ragazzo d’oro, qualunque donna l’avrebbe voluto per genero». Un singhiozzo spezzò le sue ultime parole. Quindi rivolse ancora ai due poliziotti uno sguardo carico di sofferenza. «Non riesco a capacitarmi di quanto è successo» mormorò a fior di labbra. «La mia povera figlia… già vedova … E la sua bambina senza papà …». Gli occhi turchesi si velarono e l’espressione del volto si fece un po’ assente. «Mio marito penserà a tutto, naturalmente… Fabiola non può cavarsela da sola… non lo ha mai fatto, non è come mia nipote Maria …».


42 Pareva sul punto di scoppiare in lacrime, e Baretti pensò bene di interrompere la loro conversazione. «Per il momento abbiamo finito» le disse. Poi, mentre la donna si alzava stancamente dalla poltrona, aggiunse: «Ma vorremmo interrogare la sua domestica. Può condurla qui, per favore?». Maddalena Molinari recuperò il suo autocontrollo. Rivolse un’occhiata sorpresa a Baretti, ma non fece commenti, e uscì dalla stanza per rientrare dopo pochi minuti accompagnata dalla donna anziana e minuta che aveva aperto loro la porta. Era un palmo più bassa di lei, e la padrona di casa le teneva una mano sulla spalla con fare protettivo. L’accompagnò fino al divanetto in velluto verde e accennò a sedersi lì accanto. Baretti la fermò con un gesto della mano. «Vorremmo sentire la signora da soli». Lei reagì con uno sguardo lievemente risentito, ma non protestò. Si diresse verso la porta e uscì dalla stanza senza pronunciare parola. Irma «Qual è il suo nome, signora?» chiese Baretti quando la Molinari fu uscita. La domestica lo guardò intimorita. «Parodi Irma fu Antonio, vedova Risso» recitò. «Bene, signora Risso» continuò gentilmente il giovane poliziotto. «Sappiamo che lei era qui quando è arrivato il signor Arvigo e che è stata presente per l’intera giornata». La donna parlò esprimendosi con una forte inflessione dialettale. «E io cosa ci devo dire? È stata proprio una disgrasia , povero signor Claudio che ö l’ea tanto bravô, meschin!3». «Ci parli della giornata di ieri». La donna riepilogò brevemente i fatti, confermando sostanzialmente la versione dei familiari: Claudio e Fabiola erano arrivati fin dalla mattina. La giornata era trascorsa serenamente, non vi erano stati litigi e neppure discussioni. 3 che era tanto bravo, poverino!


43 «Io sono andata via alle sette e venti. Era tutto pronto, avevo aiutato le signore a preparare da mangiare». «E ieri mattina a che ora è arrivata?». «Saranno state le otto e mezza. Eravamo d’accordo con la signora Maddalena che avrei aiutato a mettere tutto a posto. Sa, c’erano tanti piatti da lavare, e tutti i letti da fare, e poi bisognava spostare della roba, e far da mangiare perché si fermavano anche alla domenica…». «Sì, sì…» tagliò corto Baretti. Poi chiese bruscamente: «L’ha vista qualcuno mentre arrivava qui?». La donna lo guardò diffidente. «Cioè?» chiese. Sivori ritenne di intervenire. Far capire alla donna che la si poteva sospettare di essere arrivata ben prima, aver aperto con le chiavi e aver buttato Arvigo già dalle scale avrebbe avuto come unico risultato quello di spaventarla costringendola a trincerarsi in un impaurito mutismo. «È solo una formalità, signora» spiegò pazientemente. «Lei abita distante da qui?». «No. Vivo nel centro del paese, sono dieci minuti a piedi». «Bene. Se ricorda qualcuno che l’ha vista nel tragitto da casa sua alla villa ce lo faccia sapere». Irma annuì. «Ci è stato riferito che ieri mattina lei è entrata dalla porta di servizio» proseguì Sivori. La donna si strinse nelle spalle. «Come sempre!» confermò. «Come ha trovato la porta?». L’altra guardò senza capire. «Ha dovuto girare più volte la chiave perché era chiusa dall’interno o era stata semplicemente tirata?». «C’erano i giri!». «Come fa a esserne sicura?» domandò Baretti. «Se fosse stata solo tirata ci avrei fatto caso! I signori chiudono sempre bene prima di andare a dormire». Era rossa in volto e sembrava che si stesse agitando sempre di più. Sivori pensò bene di cambiare argomento e le si rivolse in tono incoraggiante. «Da quanto lavora per i Molinari?» chiese. La donna rispose accompagnandosi con un gesto delle mani. «Sono tanti di quegli anni!» disse. «Ho visto nascere l’Alberto e la Fabiola».


44 Poi, abbassando un poco il tono della voce, spiegò: «Una volta qui c’era tanta servitù, mica solo io… C’era una domestica fissa e una cuoca, e un giardiniere che faceva anche l’autista e l’uomo di fatica». Sorrise forse inconsapevolmente al ricordo di quei tempi migliori. «Io venivo solo quando c’erano lavori pesanti da fare, tipo le pulisie generali, o lavare le tende, i tappeti ... Ma non ero fissa. Avevo la mia famiglia, e mio figlio Vittorio. Tante volte lo portavo con me quando era piccolo». Emise un profondo sospiro prima di continuare. «Ma poi con la guerra è cambiato tutto. Alla fine sono rimasta soltanto io. Mio marito è morto nel ’46, mio figlio studiava, avevamo fatto tanti sacrifici per mandarlo a scuola a Genova, dai Salesiani. Poi sono rimasta vedova, e credevo di doverlo togliere da studiare, ma i signori mi hanno aiutato». Le sfuggì un singhiozzo e si soffiò rumorosamente il naso. «A l’è gente tanto brava!» ripeté sconsolata. «La signora pensa sempre a tutti! Se sapesse che attaccamento che c’ha per sua nipote, e il bene che ci vuole anche ai parenti di suo marito, alla signora Dora…». Sivori pensò bene di troncare quel profluvio di elogi. «Lei vive in paese?» le chiese interrompendola. «Sci! 4 Ma qualche volta mi fermo a dormire qui, se non c’è mio figlio». Quindi aggiunse orgogliosa: «Lui ha una casetta a Genova, perché lavora giù, è professore…». «Complimenti!». «Insegna in quella scuola da scignuri, il D’Oria… Ma il sabato pomeriggio viene sempre insù a trovarmi». Il viso rugoso si era quasi trasfigurato nel nominare il figlio. Baretti era rimasto in silenzio, ma ora si affrettò a riportare il discorso sull’argomento che più premeva. «Dunque lei non ha percepito alcun attrito tra i familiari, neppure in qualche occasione precedente?». Irma Risso lo guardò con aria interrogativa. «Andavano tutti d’accordo?» tradusse Sivori. La donna annuì, ma non sfuggì all’anziano commissario la sua perplessità. «Sì sì, tutti d’accordo». «Non mi sembra così convinta». 4 Sì


45 «Sì, signor commissario, andavano d’accordo…» ribadì con maggiore enfasi. Ma poi ancora un singhiozzo le incrinò la voce. «Ma ora sì che è una disgrasia, proprio una disgrasia…». Stava per scoppiare in lacrime, e Baretti pensò bene di mostrarsi comprensivo. «Certo» disse, «quella povera signora così giovane, e una bambina piccola …». La Risso scosse il capo desolata. «Dice proprio bene, sciô commisaiô, dice proprio bene… La Fabiola è così giovane, e ora è vedova … È proprio una disgrasia per tutti, per tutti…». Cacciò le mani nella tasca del grembiule e con un largo fazzoletto si asciugò le lacrime che sgorgavano copiose. I due uomini attesero che si calmasse prima di porre un’ultima domanda. «Lei ha mai sentito parlare di Erminia Ferraro?» chiese a bruciapelo Baretti. La donna posò su di loro uno sguardo curioso. «E mi no» 5 rispose sorpresa con un’alzata di spalle. «Come no?! Ne hanno parlato tutti i giornali. La donna che è stata uccisa dal suo inquilino!». «Io non so leggere sciô commisaiô. Comunque ora che me lo dice me ne ha parlato mio figlio». «Suo figlio la conosce?». «No! Però mi ha raccontato che una donna di Genova l’ha ammassata quello che ci affittava una camera». Sospirò ancora. «Quanta cattiveïa che gh’è a ö móndo!» 6 Quindi, alzando gli occhi al cielo, aggiunse: «E pensare che con la guerra credevo di aver visto tutto il peggio possibile…».

5 “E io no” 6 “Quanta cattiveria c’è al mondo!”


46

CAPITOLO VII 24 ottobre 1942

I Lui arrivò verso l’alba. Era disperato. Corse trafelato verso la scala esterna che dava accesso al palazzo. La piccola fabbrica che la delimitava era stata centrata da una bomba incendiaria e fiamme gigantesche gli impedirono l’accesso. Non si diede per vinto, tornò indietro e risalì lungo la strada che, al suo lato opposto, si ricongiungeva con la sommità della scalinata. Riuscì a stento a passare, in quanto il caseggiato che si trovava all’imbocco ardeva sulle sue fumanti macerie. Aggirò la collina e, finalmente, riuscì a raggiungere la parte superiore della scalinata esterna. Lassù non era successo niente. La percorse in discesa fino al corridoio all’aperto che conduceva al palazzo. Frammenti di fuoco gli volteggiarono intorno e un fumo denso lo avvolse. Raggiunse il suo portone e salì le scale. Molte porte erano aperte, ma da dentro giungevano pochi rumori e qualche pianto sommesso. Si sentivano voci concitate, invece, che provenivano dai piani più alti e dai terrazzi. Nonostante la stanchezza, fece gli scalini a due a due. Un gruppetto di uomini, che conosceva di vista, lavorava ancora febbrilmente nell’attico. Gli spiegarono che uno spezzono incendiario aveva centrato un baule pieno di biancheria che era andato a fuoco, bucando il pavimento e cadendo nell’appartamento sottostante. Con alcuni sacchetti di sabbia, portati provvidenzialmente sulle terrazze qualche mese prima, gli uomini erano riusciti a spegnere l’incendio. Si erano mossi prima che cessasse l’allarme, avevano rischiato la vita ma salvato la casa. Qualcuno gli mostrò delle persiane che avevano preso fuoco e che erano riusciti a staccare in tempo. C’erano altri danni, più o meno gravi, ma l’edificio stava ancora in piedi e questo era l’importante.


47 Chiese di lei, la sua porta era chiusa. Gli risposero che l’avevano vista in cantina, con la piccola al collo, e lui ridiscese precipitosamente le scale. II Il cessato allarme era già suonato da un po’, ma lei non aveva avuto il coraggio di rientrare. Era rimasta seduta sullo scalino dell’ultimo portone del corridoio, quello con le cantine più ampie, dove avevano trovato rifugio. Piccole scintille tutt’intorno parevano pronte a ghermirla, il fumo non la faceva respirare. Teneva la bambina stretta contro il suo petto, come a proteggerla da quell’inferno. Sotto di lei il fuoco divampava ancora furioso in quella che era stata una conceria, ma i muri perimetrali e parte del tetto erano ancora intatti. Lei pensò che probabilmente era stata colpita soltanto da spezzoni incendiari e non da una bomba, ma erano caduti a pochi metri da loro, e quel pensiero martellante le rimbombava nella testa dolente. Immense lingue di fiamme rosseggianti uscivano dalle finestre, avvolgendo le pareti esterne. Di pompieri neppure l’ombra, ognuno cercava di fare da sé, la gente del palazzo andava avanti e indietro e nessuno le badava. Qualcuno diceva che gli appartamenti degli ultimi piani erano danneggiati. Lei pensava che forse non aveva più una casa, ma non trovava la forza di alzarsi e andare a controllare. Non ci sperava, non credeva più a nulla in quella dannazione di fuoco e macerie. Infine lo vide. Si dirigeva verso di lei, voleva correre ma non ce la faceva più, aveva gli occhi sbarrati, lo sguardo vitreo. La raggiunse e accennò un sorriso, ma gli riuscì soltanto una patetica smorfia. Non la abbracciò, non la baciò, non la aiutò a sollevarsi. Si sedette soltanto sullo scalino accanto a lei e scoppiò in un lungo pianto dirotto.


48

CAPITOLO VIII

Quel pomeriggio, tornando da Serra Riccò, Sivori ebbe la sensazione che Baretti intendesse proseguire da solo nelle indagini, come del resto era giusto che fosse. Lo capì quando gli mostrò il lembo di stoffa e la fibbia trovati in cantina e si accorse che l’altro non trovava la cosa interessante. «Perché li ha presi?» s’informò. Sivori pensò che lo facesse solo per buona educazione. «Perché dal ripiano su cui li ho trovati era stato tolto qualcosa di recente». «E come fa a dirlo?». «C’erano tre scaffali incastrati in una rientranza del muro, ma solo due erano coperti da uno strato di polvere. Nel terzo la polvere era presente a batuffoli, come se qualcosa fosse stata rimosso da poco». «Non è strano» osservò Baretti, «si tratta di una cantina». «Certo» convenne Sivori, e rinfilò i reperti nella tasca destra della giacca. Baretti lo riaccompagnò fin sotto casa, a Priaruggia. Lo salutò dicendo che si sarebbero sentiti il giorno dopo, ma una telefonata dalla questura giunse soltanto il giovedì mattina. «Mi scusi, dottore» esordì il giovane poliziotto, «le avevo detto che l’avrei tenuta informata ma ho avuto molto da fare questa settimana». «Nessun problema» lo rassicurò Sivori. «Hai poi sentito il resto della famiglia?». «Li ho convocati per oggi. Vuole essere presente?». Era chiaramente una domanda formale, e l’altro capì che avrebbe dovuto tirarsi indietro. Conosceva bene Baretti, e intuiva che alternava momenti in cui il timore di eventuali guai lo spingeva a cercare l’aiuto, e soprattutto la memoria storica, del suo vecchio capo, ad altri in cui preferiva, orgogliosamente, condurre il gioco senza alcuna interferenza.


49 Tuttavia quella strana storia lo incuriosiva parecchio, e accettò con entusiasmo la proposta. Baretti, educatamente, lo informò che avrebbe iniziato alle tre del pomeriggio. «E i risultati dell’autopsia?» continuò Sivori. Dall’altro capo del filo ci fu qualche istante di grave silenzio. «Nessun dubbio, purtroppo: Arvigo è stato ucciso» disse infine Baretti. Sivori attese, e l’altro proseguì. «Probabilmente la morte è dovuta alla caduta dalle scale, ma almeno due colpi alla fronte sono stati sferrati dopo il decesso. Sono presenti vistose ferite proprio sopra al sopracciglio, ma l’ecchimosi è piccola, il che fa pensare che i colpi siano stati inferti quando l’uomo era già morto o aveva comunque pochi attimi di vita e il suo cuore non pompava quasi più». «E quello alla nuca di cui mi avevi parlato lunedì?». «Glielo confermo. La lacerazione è stata provocata da un corpo contundente e non è compatibile con la caduta. È stato sequestrato un grosso candelabro di bronzo, si ritiene che possa essere l’arma del delitto». Sivori pensò al nudo femminile, languidamente appoggiato al ramo, che troneggiava sul caminetto nel salottino della villa. La forma complessa dell’oggetto, i gomiti sporgenti, il ginocchio piegato e gli stessi boccioli destinati ad accogliere le candele, uniti alla pesantezza del bronzo, potevano giustificare lo squarcio provocato nella nuca del giovane. «E la morte a che ora risale?». «Secondo il medico legale era subentrata da non più di cinque ore quando lui ha visitato il corpo. Questo è coerente con quanto dichiarato dalla moglie, secondo la quale il delitto si può circoscrivere fra le sei, ora in cui l’uomo era ancora a letto, e le sette e trenta, quando lei è scesa in cucina». L’anziano commissario raccolse le idee per qualche istante, mentre al di là del filo percepiva il nervosismo di Baretti, che pure taceva. «Quindi, ricapitolando, Arvigo è stato colpito una prima volta quando era in cima alla scala, e questo lo ha fatto precipitare. Quando è arrivato in fondo era già morto ma l’assassino, per sicurezza, ha infierito ancora con un paio di colpi». «Sì, sembra che questa sia la ricostruzione esatta dei fatti» ammise Antonio Baretti.


50 Alberto e Sally Alberto Molinari e Sally Sereno furono ascoltati per primi, quel pomeriggio. Il ragazzo insistette per non lasciare sola la fidanzata: disse che la sua conoscenza dell’italiano non era così perfetta e che avrebbe potuto incorrere in qualche errore di interpretazione. «Anche se la famiglia di Sally è di origine italiana» spiegò il ragazzo, «lei è qui da meno di un anno, e potrebbe avere qualche difficoltà a esprimersi». Baretti tentò di opporsi ma infine accondiscese. Del resto non voleva essere accusato, in seguito, di aver carpito informazioni in modo scorretto da una teste con scarsa dimestichezza con la lingua. Si sedettero su due sedie vicine, proprio di fronte alla scrivania del commissario, mentre Sivori restò in piedi accanto alla finestra con la sua solita pipa fra le mani. Formavano una bella coppia: lei era piccola e bruna, con un visetto aggraziato e gli occhi vivaci. Lui, un ragazzone biondo e dinoccolato, nonostante la situazione sfoggiava un sorriso accattivante. Il loro racconto ricalcò fedelmente quello del resto della famiglia. Confermarono che Alberto sabato pomeriggio non si era mosso da casa e che Sally era giunta con i coniugi Megli verso le diciotto. Dissero che durante la serata nulla di strano era accaduto, che l’atmosfera era festosa e gli animi rilassati. In merito alla mattina del 15 aprile entrambi ribadirono di essere stati svegliati dalla voce di Fabiola, che era entrata gridando in camera dei genitori. Sally aveva occupato, insieme a Maria Ottolenghi, la stanza degli ospiti posta tra quella del fidanzato e quella dei Megli. Né Sally né tantomeno Alberto avevano sentito scendere Claudio quando questi si era alzato. Il ragazzo affermò di aver udito a malapena il pianto di Letizia, mentre lei ammise di essersi addormentata verso il mattino, e di essere quindi precipitata in un sonno profondo. «Non riuscivo a dormire per l’eccitamento» raccontò nel suo italiano a tratti stentato, «e anche perché poco prima di coricarmi ero andata in cucina e avevo preso l’ultimo caffè rimasto nella caffettiera. E io non sono abituata al vostro caffè, troppo forte…» aggiunse con una smorfia. «E perché lo ha bevuto, allora?» domandò Baretti. Fu Alberto a rispondere per lei.


51 «Volevamo appartarci per cinque minuti, così ci siamo recati in cucina con la scusa di un bicchier d’acqua. Per tutta la sera eravamo stati in mezzo ai familiari, desideravo rimanere un po’ solo con lei. Soltanto per parlare, s’intende» precisò con puntiglio da gentiluomo. «E gli altri erano già andati a dormire?». «Stavano andando». «Che ora era?». «Non saprei. Certo dopo mezzanotte» rispose ancora il ragazzo. «E vi siete fatti il caffè». «No. Io ho bevuto effettivamente un po’ d’acqua e Sally ha preso le due dita di caffè che erano rimaste nella napoletana. Lei lo adora, anche se non le fa troppo bene». «Sono rimasta sveglia quasi tutta la notte per colpa di quella tazzina» spiegò imbronciata la ragazza. «Quando è salita in camera la signorina Ottolenghi dormiva già?». «No, era sveglia. Volevo chiacchierare un po’ con lei, ma mentre parlavo Maria si è addormentata». «E durante la notte ha sentito qualche rumore?» s’intromise Sivori. La ragazza aggrottò la fronte. «Rumore? Di che genere?» chiese sorpresa. «Per esempio qualcuno che si alzava». «Non ho sentito nessun rumore». «A che ora si è addormentata, signorina Sereno?». Sally sollevò il nasetto per aria e parve molto concentrata a ricordare. Ma la sua risposta non fu per nulla precisa. «Non saprei dirlo. Le quattro, le cinque…» accennò. Poi, dopo aver riflettuto meglio, puntualizzò che dovevano essere passate le cinque. «Sul comodino c’è una sveglia con le lancette luminose» spiegò, «e ricordo che l’ultima ora che ho visto è stata proprio quella». Maria Maria Ottolenghi entrò immediatamente dopo i fidanzati. Doveva avere una trentina d’anni, era alta e magra e, nonostante l’accurata eleganza, risultava nel complesso piuttosto scialba. Prese posto di fronte a Baretti e gli puntò dritto in faccia lo sguardo acuto. Sivori pensò che, tutto sommato, pareva ansiosa di farsi interrogare. «Veramente pensate che Claudio sia stato ucciso?» esordì non appena seduta.


52 «Ci sono buone ragioni per supporlo» ribatté il giovane commissario stringendosi appena nelle spalle. «E quali?». La voce di Baretti si fece più dura. «Le domande le facciamo noi, signorina». La Ottolenghi distolse lo sguardo, vagamente offesa. «Immagino che neppure lei abbia notato qualcosa di strano, sabato sera. O sbaglio?». «Oh no, nulla» si affrettò a rispondere la donna. «Claudio Arvigo era del solito umore? Nessun nervosismo, nessuna allusione, nessun battibecco con qualcuno dei presenti?». «Assolutamente no!». «E la mattina? Ha sentito quando suo cugino è sceso al piano di sotto?». «Non ho sentito nulla, a parte la bambina che a un certo punto si è messa a piangere. Ero stanca, avevo lavorato tutto il giorno e la sera precedente abbiamo fatto tardi». «Qual è la sua parentela con i Molinari, signorina Ottolenghi?». «Mia zia Maddalena è la sorella della mia povera mamma». «E solo lei era presente? Della famiglia della signora Maddalena, intendo…». La giovane scosse il capo con aria desolata. «Sono rimasta solo io commissario. Mio padre è morto, e mia madre è come se lo fosse». «Lei è figlia unica?». «Sì. Avevo un fratello, di dieci anni maggiore di me, ma è caduto in guerra nel settembre del ’44» spiegò mestamente. «Dopo l’armistizio… » considerò Sivori tra sé. Baretti assunse un’espressione di circostanza. «Mi dispiace molto» mormorò a fior di labbra. «E ora ci mancava anche questa!» continuò lei ignorandolo. «È una maledizione! Ma quando avremo pace nella nostra famiglia?». I due le lanciarono uno sguardo comprensivo. Baretti provò ad aprir bocca ma lo sguardo interessato di Sivori lo fece desistere dal fermarla. «Non bastava la guerra, che ci ha devastato… Si è portata via mio fratello nel pieno della sua giovinezza, e mia madre non è stata più la stessa. E ora un altro lutto! Se sapeste quante ne abbiamo passate … Mio padre nel ‘47 è stato colpito da una paralisi. Ha vissuto tre anni su una sedia a rotelle, prima di andarsene… ».


53 Il commissario cercò di nuovamente di inserirsi ma qualcosa lo trattenne: proprio il suo vecchio capo gli aveva insegnato che non si interrompono le confidenze dei testimoni. «Mia zia e la sua famiglia sono tutto ciò che mi è rimasto» concluse lei quasi parlando a se stessa. «Sua madre però è ancora viva» si intromise l’anziano poliziotto. Lei scosse le spalle. «Mia madre è ricoverata» spiegò. «Subito dopo la morte di mio padre ha dato segni sempre più gravi di squilibrio. Del resto la sua testa se n’era già andata da tempo… Mi sono trovata praticamente da sola a mandare avanti il negozio» aggiunse commiserandosi. «Si riferisce a quello di via Orefici?» chiese Sivori. Ottolenghi era un’insegna molto nota in città, un negozio di biancheria femminile frequentato da tutte le signore della Genova bene. La donna annuì orgogliosa. «È il miglior negozio del centro. E ne abbiamo altri due, a Rapallo e a Chiavari. Ma io ci ho lasciato la giovinezza, lì dentro …». Dopo qualche educata parola di circostanza, Baretti decise di porre fine a quel fiume di confidenze. «Mi dispiace molto» ripeté, «ma ora dobbiamo tornare al nostro caso». «Certo» convenne l’altra distogliendo lo sguardo. «Qualcuno aveva motivo di rancore nei confronti di suo cugino?». La domanda fu secca e diretta, e Maria Ottolenghi ne fu colpita. «No!» esclamò d’istinto, ma poi si bloccò e senza sollevare il viso lanciò obliquamente su Baretti uno sguardo inquieto. «C’erano dissapori in famiglia?». «No» ripeté la donna. Questo secondo “no”, pronunciato a voce bassa, risuonò assai poco perentorio, e Sivori si chiese se Baretti lo avesse percepito. Probabilmente fu così, perché sporgendosi appena verso la Ottolenghi le ricordò: «Ci deve dire la verità, signorina». Lei annuì col capo, decisa. «Lo sto facendo» affermò. Poi, poiché l’altro taceva, abbozzò un sorriso malinconico e proseguì. «Claudio era un ragazzo d’oro, gli volevano tutti bene». Sivori ricordò che anche la suocera lo aveva definito così, e osservò che lo sguardo della Ottolenghi si era addolcito nel ricordare la vittima. «Mia cugina aveva avuto una gran fortuna a trovare un marito come lui». Trapelò una certa amarezza dalle sue parole. Baretti taceva, e Sivori non riuscì a trattenere una domanda.


54 «E ne era consapevole?» chiese di getto. Era la prima volta che apriva bocca, e la donna parve accorgersi solo ora della sua presenza. Si voltò e lo guardò un po’ sorpresa. «Come?» domandò a sua volta. «Sì…» ripeté lentamente l’anziano commissario. «Era consapevole della sua fortuna?». Le guance della ragazza, finora pallidissime, si colorirono visibilmente. «Ma certo!» esclamò. Avrebbe voluto esternare una ferma indignazione, ma l’espressione che le riuscì fu solo di un palese, confuso imbarazzo. I due uomini restarono per qualche istante in silenzio, e Maria Ottolenghi, pensando che avessero terminato, accennò ad alzarsi. Ma con un gesto della mano Baretti la fermò. «Un’ultima cosa, signorina. Lei conosceva Erminia Ferraro?». Per un istante la donna li guardò sorpresa, con la bocca leggermente aperta. «Erminia Ferraro?» ripeté infine. «Sì. La conosceva?». «Ma no! Perché avrei dovuto?». «Però è al corrente della sua storia…». «Chi non lo è? È ancora su tutti i giornali…». «Forse conosceva Vincenzo Palumbo» insinuò Sivori. Le labbra della giovane si arricciarono in una smorfia di disprezzo. «Quell’assassino…» brontolò. Lo sguardo gelido passò dall’uno all’altro dei due uomini. «No» ribadì infine sprezzante, «io non ho nulla che vedere con quella sporca vicenda». )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.