Una giornata bestiale

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In uscita il 30/11/2017 (14, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine nombre e inizio dicembre 2017 ( ,99 euro)

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VINCENZO CARRIERO

UNA GIORNATA BESTIALE

ZeroUnoUndici Edizioni


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UNA GIORNATA BESTIALE Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-148-8 Copertina: immagine proposta dall’Autore

Prima edizione Novembre 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


A Lori perchĂŠ mi ha sempre incoraggiato A Julia perchĂŠ senza non sono niente Ai folli so che cambierete il mondo perchĂŠ non avete paura di scalare montagne di merda



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PREFAZIONE

Una giornata bestiale è: quando ti svegli senza un motivo per cui sorridere, quando vivi senza riuscire nemmeno a dire un grazie, quando non hai qualcuno a cui importa veramente di te. Una giornata bestiale è: quando te la prendi con chi sta peggio di te, quando l’altro è una minaccia, quando esisti solo tu. Da uomo a bestia il passo è breve, l’umanità è a rischio, solo la solidarietà la può salvare, il “prendersi cura”, l’accoglienza. L’uomo, la scintilla divina che ha dentro di sé, la creatività che imita Dio e quasi lo raggiunge. Quando si crea brilliamo, produciamo un calore benefico, l’atto creativo è un fuoco attorno a cui si canta, ci si ritrova, si sta insieme a celebrare bellezza nuova, una nascita, una rivoluzione. Una giornata bestiale è quella passata senza essere curiosi di scoprire un talento nuovo, folle, imprevedibile, come quello di Vincenzo Carriero che, in questo libro, ci fa fare un viaggio che ci ricorda che la bestialità è sempre in agguato. Ognuno di noi


6 ha tutta la forza per uscirne salvo, senza mai sottolineare la forza dirompente dell’ironia e della leggerezza di cui queste pagine sono ricche. Grazie Vincenzo, per la fiamma che arde potente dentro di te. Raffaele Bruno, Delirio Creativo.


UNA GIORNATA BESTIALE



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Faceva insolitamente caldo quel giorno di dicembre. Diciassette gradi, pareva primavera. Le mimose del giardino della signora Anna erano già in fiore, non sembrava che stesse arrivando il Natale. «Non esistono più le mezze stagioni» mi diceva la vecchia mentre andava su e giù per il terrazzo, stendeva i panni che sapevano di fresco, e si godeva il sole. «Signò ma quali mezze stagioni, mò vene Natale» risposi mentre me ne stavo seduto sorseggiando il primo caffè della giornata, nero, amaro, bollente, bruciato; una vera ciofeca. Mia moglie ha tanti pregi, devo dirlo. È una bella donna, ‘na pulitona, madre esemplare, cuoca discreta e grande amatrice. Ma o’ ccafè non è proprio arte sua. Tuttavia non posso farne a meno, devo prenderne almeno uno ogni giorno. Per me che soffro di stitichezza da quando ero bambino, il suo caffè rappresenta un vero toccasana. Meglio del bifidus actiregularis. Anche quella mattina la bevanda aveva fatto il suo dovere, la mia pancia cominciava a brontolare. Mi congedai dal terrazzo con un gesto cortese della mano e mi barricai in bagno prima che ci entrasse mia figlia. Se mi avesse preceduto, sarebbero stati guai seri. Cominciai a sfogliare il catalogo di Ikea, seduto sulla tazza del cesso mentre pensavo ai fatti miei.


10 Davo un’occhiata alle sedie svedesi dai nomi improbabili, pieni di consonanti. Non sono la fine del mondo ma costano poco. Prima o poi ne avrei comprata qualcuna, pensai, ne avevamo proprio bisogno. All’improvviso il citofono si mise a trillare. «Chi è?» disse mia moglie affacciandosi al balcone. È Automatico. Suona il citofono e lei va al balcone. Ormai ci ero abituato. «Il postino, c’è da firmare!» disse il postino con nonchalance. Due trilli, era il postino, dovevo aspettarmelo. Quando sentii che c’era da firmare, che vi devo dire, ‘o fridd ncuoll’1. Non era mai un buon segno, sarebbero state rogne. Mia moglie scese a ritirare la posta col cuore a mille mentre io me ne stavo sul cesso e origliavo trepidante. «‘O ‘ssapevo, ‘na bella cartolina bianca… è arrivata Equitalia!» la sentii esclamare ad alta voce. Accidenti, il mio presentimento si stava avverando. Se ci penso, a distanza di tempo, ci sto ancora male. «Ma come, sotto Natale? Manco la decenza di aspettare? Fateci fare le feste in grazia di nostro Signore!» mia moglie provò a protestare perché già sapeva che quella cartolina mi avrebbe intossicato il capitone. Figuriamoci l’alberello di Natale. «Signò che ci posso fare?» replicò il postino quasi a volersi scusare. Quindi aprì la cartolina, sgranò gli occhi e, con la voce sommessa e le mani tremanti disse: «Mamma d’o Carmine, so’ quasi cinquecento euro, addio week end sulla neve.» 1 Il freddo addosso.


11 Poi, allargando le braccia con fare sconsolato, aggiunse: «Che ciorta2, adesso devo disdire e perdo pure la caparra.» Mi alzai dal cesso e andai a controllare; era giunto il momento di intervenire. «Amò, mi sa che dobbiamo rimandare» le dissi con una faccia degna di un funerale mentre stringevo la malefica missiva fra le mani. «Nun te piglià collera, tanto nun ce sta ‘a neve» disse lei mettendomi una mano sulle spalle. Poi passò oltre. Se la prese con filosofia, fingendo che la cosa non la facesse soffrire. Si sforzò di non farmela pesare. In realtà si vedeva che ci era rimasta male. Era il regalo per il suo compleanno, un vero peccato dovervi rinunciare. Così si mise a lavare i piatti dandomi le spalle, fingendo di non curarsene più di tanto. “Speriamo non stia piangendo” pensai, ma non ebbi il coraggio di andare a controllare. Non vi dico il magone, avevo il morale a terra. Cinquecento euro sono una bella cifra da apparare3 al giorno d’oggi. Le lanciai uno sguardo da orsacchiotto come per dire mi dispiace tanto, poi scostandole i capelli le sussurrai in un orecchio: «‘O ssaje ca te voglio bbene?» e la strinsi forte. Poi uscii fuori al balcone, dovevo prendere un po’ d’aria, mi veniva da vomitare. “Che jurnata ch’è schiarata” pensai; manco una cagata in pace mi avevano fatto fare. Se lo sapevo non mi facevo trovare, non rispondevo al citofono, evitavo la notifica, perdevo tempo. Magari un giorno sarebbe andata in prescrizione, chi avrebbe potuto dirlo…?

2 Fortuna, in questo caso inteso in senso ironico, quindi sfortuna. 3 Mettere insieme.


12 Guardavo la cartella esattoriale, la ripassavo fra le mani come se la volessi pesare, non ci potevo credere. Cinquecento euro per aver pagato l’INPS con un giorno in ritardo, di questi tempi che è un miracolo restare aperti. «Tanto non me la darete mai la pensione, maledetti!» «Site ggente senza core! Mannaggia ‘a morte!» «Fanculo voi ed Equitalia!» cominciai a sbraitare contro un nemico immaginario che, se lo avessi avuto davanti, lo avrei fatto a pezzi. Mi dovevo sfogare. Assolutamente. Com’è difficile uscire di casa per lavorare con uno stato d’animo del genere. Avevo voglia di tornarmene a letto, ero depresso. Scesi le scale lentamente, sforzandomi di non pensare; avrei fumato volentieri una sigaretta. «Prima o poi riprendo il vizio» mormorai a testa bassa. Feci i primi dieci gradini e mi resi conto che al peggio non c’è mai fine. Il rompipalle del piano di sotto mi aspettava fuori la sua porta come un segugio in mezzo al pianerottolo, con le mani sui fianchi. Indossava una vestaglia rossa a scacchi e due moppine per ciabatte. Mi venne quasi da ridere ma riuscii a trattenermi. «Enzo per favore, l’aspirapolvere non la passare dopo le due, lo sai che devo dormire» disse con voce stridula. Giuro, non ci vidi più dalla rabbia. Quello già mi stava sul cazzo. “Mò basta” pensai. «M’è rutt’ ‘e palle» gli dissi «in casa mia faccio quello che mi pare.» Scattai come una molla. La mia voce rimbombava nella tromba della scale come un tuono che annuncia la tempesta. Infatti… il


13 tizio questo voleva sentire, aveva voglia di litigare, glielo leggevo negli occhi. Guardandomi con fare minaccioso mi disse: «Sei un maleducato!» e si fece rosso in viso mentre agitava l’indice della mano destra, teso teso. Aveva gli occhi stretti come le asole di una giacca. Non ci vedevo più dalla rabbia, stavo per attaccare; quando mi viene la scippacentrella4 divento davvero una bestia e comincio a menare. «La prossima volta che sali sopra, ti butto dalle scale» gli gridai contro agitando il pugno. «Famme vedè si sì ommo» rispose lui provocando. Aveva il petto gonfio, il mento alto. Io una voglia tremenda di prenderlo a schiaffi. Attratti dalle urla, uscirono i vicini, poi la moglie del vestagliato per spartire, perché data la reciproca antipatia, la situazione poteva degenerare. Sicuramente saremmo giunti alle mani. Il fatto è che il mio vicino è un vero nacchennella5, un tipo insopportabile, a metà strada fra ‘na capera6 e ‘nu femminiello, tutto apparenza e poca sostanza. Il suo sport preferito è rompere le palle a tutti i condomini, al sottoscritto in particolare. Appena sente il minimo rumore si affaccia al balcone, e con la sua voce effeminata chiama il mio nome o quello di mia moglie pregandoci gentilmente, ma con l’acidità tipica di una donna con il mestruo, di non fare troppo rumore perché a casa sua si sente tutto, ma proprio tutto, e così dicendo agita in aria il palmo della mano. La grottesca imitazione di una vecchia zitella.

4 Fissazione, presa di posizione. Ostinata determinazione. 5 Fanfarone, uomo di poca sostanza che bada solo all’aspetto fisico. 6 Donna che taglia i capelli in casa, nota per essere dedita al pettegolezzo.


14 La discussione durò pochi istanti, il tempo di scambiarci reciproche minacce e parole non proprio eleganti. Poi ci allontanammo guardandoci in cagnesco. «La prossima volta ti rompo» fu la mia ultima promessa. Scesi le scale velocemente rischiando di inciampare. Avevo un sacco di tensione da smaltire. Le mani mi sudavano, avrei dovuto sfogarmi. Mi immaginavo la faccia del vestagliato, io che lo prendevo a schiaffi. Mi immaginavo la rissa, le botte, i pugni, gli improperi e le parolacce. Solo così riuscii un po’ a calmarmi. Poi entrai finalmente in macchina, ancora scosso dalla cartella esattoriale e dalla lite col ricchione. Inserii la chiave d’accensione, un gesto automatico, istintivo, avevo fretta. Ma il motore si mise a tossire come un vecchio asmatico e non ne volle proprio sapere di mettersi in moto. Niente, fu tutto inutile; la batteria era andata a farsi fottere, ovviamente. Era il leitmotiv della mia vita: i guai arrivavano sempre a braccetto come un’onda anomala che ti investe con violenza e ti fa male. Dominai il mio impulso di bestemmiare, chiusi gli occhi e strinsi i denti. “Non mollare” pensai e guardai in alto sbattendo le mani sullo sterzo. La rabbia mi montava dentro come panna. Nel mentre il minchione mi osservava dalla finestra divertito, con il faccione verde di bile e di rancore. Mi mostrò il dito medio, con un ghigno sardonico che avrei spaccato volentieri a forza di pugni. Io ricambiai accennando un sorriso falsissimo. «Vai a farti fottere» fu il mio labiale. Poi presi il telefono e chiamai il meccanico.


15 «Giggì vienimi a pigliare. Porta una batteria nuova, la macchina mi ha lasciato a piedi, non vuole partire. Sono ancora a casa, fa’ presto.» Giggino il meccanico era un omino piccolo, scuro, brutto e pelato, indossava sempre la stessa tuta verde arancio della TOTAL, puzzava costantemente di olio motore e sigarette di contrabbando. Aveva un divorzio alle spalle, un fegato spappolato da curare, un gatto rognoso da sfamare. Faceva schifo solo a guardarlo, ma nel complesso era ‘nu bbuono guaglione7. Da ragazzo aveva avuto piccoli guai con la giustizia. Furtarelli, un paio di scippi, pessime compagnie. A diciotto anni si fece sei mesi con la condizionale nel carcere di Secondigliano. Brutta esperienza, ma sempre meglio di Poggioreale che è un vero inferno. Una volta uscito decise di farla finita con la vita criminale, di mettere la testa a posto e imparare un mestiere. Andò a lavorare per senza niente da don Pasquale, l’unico meccanico del paese. Un vero animale che gli insegnò tutti i trucchi del mestiere, soprattutto come imbrogliare sui pezzi di ricambio usati e spacciarli per nuovi. Faceva affari d’oro, quel rinale8. «Quanto ti devo?» gli chiesi quasi rassegnato quando ebbe finito. «Damme cient’euro, giusto pecché si tu» e così dicendo mi diede una pacca sulla spalla, divertito. A me ‘sta frase mi ha sempre fatto andare in freva9. “Che significa ‘pecché si tu’?” pensai, e già mi stavo alterando.

7 Un bravo ragazzo. 8 Vaso da notte. 9 Innervosire.


16 «Giggì, pecché songo io ti do novanta euro, se era un altro te mannava affanculo. Città Mercato la stessa batteria la vende a sessanta euro. M’e pigliato pe’ strunzo?» gli dissi serio. «Viciè» disse lui «la manodopera me la vuoi dare? Ti sono venuto pure a prendere con la macchina, ‘a prossima vota te lascio a ‘ppere10.» Era il suo modo di giustificarsi. «Giggì nun me fa incazza’» lo rimbeccai «sennò ti tolgo altri venti euro. Pigliati i soldi e vai a cagare.» Di solito io e Giggino scherziamo amabilmente perché ci conosciamo da tempo. Io faccio finta di trattare sul prezzo ma alla fine mi faccio sempre fare. Che devo dire, me metto scuorno11. Però quella mattina il meccanico si rese conto che facevo sul serio, che mi giravano le palle e nun tenevo ggenio ‘e pazzià12. Capito l’antifona si congedò senza protestare ulteriormente, prese i soldi, fece finta di contarli, poi girò i tacchi e facendo ‘a faccia amara disse: «Vabbuò, chesta vota te faccio ‘o sconto.» Lo vidi sparire nella sua Passat rossa, vecchiotta ma tenuta bene, meccanica perfetta, carrozzeria da rivedere. Insomma, la macchina di un meccanico. «Vabbè Viciè» mi dissi «così deve andare oggi, così è scritto, non ti intossicare.» Altri novanta euro. La sfiga cominciava ad accanirsi, era giunto il tempo di svoltare. Decisi di esorcizzare il momento grattandomi i gioielli. Era un gesto blasfemo, ancestrale, antico come il mondo, retaggio di una cultura popolare, superstiziosa e universale. 10 A piedi. 11 Vergogna. 12 Non avevo voglia di scherzare.


17 “Nunn’ è overo ma ci credo” mi dissi; nel dubbio, meglio abbondare. Misi in moto e feci per andare via. Ero in ritardo, dovevo aprire il negozio; accelerai. Uscii dal portone di casa facendo bene attenzione al traffico e alla circolazione. Imboccai il corso principale, accesi la radio, sistemai lo specchietto. Era una bella giornata chiara, il cielo limpido, poca gente per le strade nonostante le festività natalizie. Di colpo, all’intrasatto13, una gatta nera mi si parò davanti. Immobile, mi fissava con i suoi occhi gialli, intensi e profondi. Inchiodai all’improvviso e una Fiat Panda vecchio tipo mi tamponò sfondando il portellone posteriore della mia Modus verde. L’urto fu secco, forte, rumoroso. Sentii i fanali andare in frantumi e mille pezzettini di plastica colorata si sparsero sull’asfalto. Meno male che avevo messo la cintura, altrimenti avrei sicuramente sbattuto la testa contro il parabrezza. Scesi dall’auto ancora frastornato per verificare i danni. La Panda, distrutta in tutto il suo avantreno, era guidata da un marocchino, nu povero maronn che non aveva né arte né parte, e figuriamoci l’assicurazione. Appena mi vide uscì dall’auto con le mani in alto, manco avessi una pistola, si gettò in terra, in ginocchio, giunse le mani e supplicando mi disse: «Per piacere no chiamare polizia… io clandestino, senza soldi, no assicurazione. Io fare aggiustare la machina. Io ti giuro.» «Puozze passà nu guaio int’e mutande» gli dissi augurandogli una permanente disfunzione erettile.

13 All’improvviso.


18 Mi misi le mani nei capelli e non potevo credere ai miei occhi, lì c’erano almeno mille euro di danni! “Mamma che malaciorta, devo farmi proprio benedire da un prete ricchione!” pensai amaramente. Poi guardai il marocchino, la sua maschera di cera, il suo sguardo da cane bastonato. Giuro, lo avrei preso a calci. Subito un capannello di curiosi si avvicinò alla scena del delitto. Passanti, negozianti, donne che andavano al mercatino del lunedì, tutti intenti a impicciarsi dei fatti miei. Colsi finanche una signora annotare i numeri delle targhe. Diceva che li avrebbe giocati al lotto. «‘Na volta ho fatto un terno» si pavoneggiava fra la gente. «Anch’io li voglio giocare… quanto si vince?» si intromise una vecchierella «‘na cosa e sorde14 mi serve proprio, mio marito ha perso o’ posto. Sono giorni che compro gratta e vinci ma niente, non ho vinto neanche i soldi per il latte.» È curioso come la gente affidi alla promessa di facili guadagni le proprie speranze. Ti piace vincere facile? La scritta campeggiava fuori al tabacchino di zio Gianni e veniva ripetuta in televisione come un mantra. “O’ssaje ca nun se vince niente?” pensai amaramente. Intanto fra la folla si fece largo un signore occhialuto, piuttosto alto, fisico asciutto, cappotto color cammello e una copia di un quotidiano sotto il braccio. Arrivò nei pressi dell’auto e si fece spiegare l’accaduto dai passanti. Poi improvvisò un piccolo comizio.

14 Una gran quantità di soldi.


19 «Eccoli qui, gli immigrati che vengono in Italia, ci fottono il lavoro e girano in auto senza l’assicurazione. Se questo marocchino ammazzava qualcuno, chi pagava?» La gente gli fece capannello intorno. «Bisogna chiudere le frontiere, subito!» continuava e molti si misero ad applaudire, qualcuno annuiva, altri gridavano: “Bravo!” «Avete visto quanti cinesi? Questi ci vogliono colonizzare! Aprono negozi appresso appresso!» Ormai era un’apoteosi. “Mò che ci azzeccano i cinesi?” pensai ma non mi volli far coinvolgere nella discussione. Sia chiaro, io i cinesi li schifo proprio, ma in quel momento avevo altri problemi che mi aggrovigliavano la testa. Il tempo passava e avevo un sacco di cose da fare. “Vaco e pressa” pensai guardando l’orologio, poi dissi: «Mò ci mancava solo il tamponamento, il magrebino ‘e chitebbivo.15» Sbattei la porta e andai a controllare se c’erano altri danni. A un certo punto si avvicinarono i vigili richiamati da una signora che abitava nel palazzo di fronte. «Circolareee» gridavano all’unisono per farsi spazio fra i curiosi. Alla loro vista il marocchino si alzò in piedi e, animato da improvvisa linfa vitale, si mise a correre dandosi alla macchia. Alcuni cercarono di fermarlo ‘ngopp a botta16, qualcuno si fece scappare una malaparola, ma il nordafricano fu più lesto di un

15 Chi ti è vivo; imprecazione a mo’ di insulto. 16 Sulla botta, un modo di dire che significa immediatamente.


20 capitone e sgusciò dalle mani degli assalitori, svoltò l’angolo e parve evaporare. Scomparve nel nulla. Qualcuno gli corse dietro qualche metro, si diede da fare per trovarlo. Molti bussarono ai citofoni, controllarono sotto le auto in sosta, nei negozi, nei vicoli, negli androni e nei portoni. Niente, completamente eclissato. «Se n’è fujuto int’e saittelle17» giurò sull’anima della moglie morta un vecchio col bastone «l’aggio visto con l’uocchie meje.» Rimasi cornuto e mazziato, visto che oltre al danno dovetti passare almeno un’ora dai vigili fra deposizione, testimonianze e verbali. «Com’è successo il fatto?» mi chiese uno di loro con voce da sbirro. «Niente, ho frenato per evitare un gatto - o forse era un cane, non so - e il marocchino mi ha tamponato.» Un agente scriveva incerto al computer e l’altro faceva domande assurde. «Lei è il fratello di Nunzio, il parrucchiere?» «No, sono il cognato.» «Appena lo vede me lo saluti.» «Come fosse già fatto.» “Porta pazienza” mi dissi “addà passà ‘a nuttata.” Finalmente mi fecero andare. Un tizio che puzzava di sudore mi si avvicinò prendendomi sotto braccio. «Dottò, metteteci una pietra sopra, il risarcimento dei danni ve lo potete scordare.» 17 Se n’è scappato nelle fogne.


21 Era un uomo sui sessanta, corpulento, che indossava occhiali da sole con la montatura spessa. Un tipo vintage, con pochi capelli pieni di forfora. La cosa insopportabile era che mentre parlava mi metteva le mani addosso. Erano mani sudate, piene di anelli, viscide come salamandre. Francamente mi faceva ribrezzo e un po’ mi faceva pure girare le palle. Poi, prendendosi eccessiva confidenza, si avvicinò come se volesse rivelarmi un segreto inconfessabile, e abbassando la voce mi sussurrò nell’orecchio: «Se volete, posso ingiarmare18 na’ bella lettera, con tanto di testimoni falsi. Quello mio cugino fa il perito assicurativo. In un paio di mesi avete pure i soldi.» «Vi ringrazio per l’interessamento, ma preferisco evitare» risposi secco, e così facendo mi liberai dalla presa. Il tipo sembrò risentito perché aveva perso un bell’osso da spolpare. Mi misi al volante e lo vidi ancora immobile nelle specchietto retrovisore. “Chissà quante me ne sta dicendo, tutte all’ossa soje.” Mi sentivo ancora scosso, mi tremavano le mani, la testa girava forte. “Queste intossicate finiranno per ammazzarmi” pensai “ho bisogno di bere qualcosa.” Fortunatamente la macchina era ancora in grado di marciare. Misi in moto e telefonai a mia moglie. «Amore, marò che giornata… mi hanno tamponato, un marocchino, poi ti spiego. No sto bene, non ti preoccupare. La macchina? È distrutta? No, cammina, tutto a posto. Non ti 18 Organizzare.


22 preoccupare ti ho detto, sono stato dai carabinieri, ho sporto denuncia. Eh, mò vado a lavorare.» Accesi la radio, davano Hotel California; una canzone che a me ha sempre portato sfiga, tanto per cambiare. Che ci crediate o no, tutti gli episodi nefasti della mia vita sono legati a questo brano. In una giornata normale avrei spento la radio, o al massimo avrei cambiato canale. “Cchiù nera da mezanotte nun po’ venì” pensai, e la lasciai andare. Alzai il volume, mi misi a cantare. Welcome to the hotel California, such a lovely place, such a lovely place… Glenn Frey, leader degli Eagles, era appena morto, il DJ aveva dato la notizia. “Pace all’anima tua” pensai in tono solenne. Così guidai fino al bar il Timone, un posto alla moda, divanetti in pelle e musica chillout a palla. Politici locali, piccoli imprenditori, guappi di cartone, professionisti e sparapose si riunivano in quel locale, facevano affari, public relations, alleanze, magagne varie. Non vi dico cosa diventava in campagna elettorale, nu burdello. Entrai disinvolto senza badare a nessuno, non avevo voglia di socializzare. Qualcuno abbozzò un sorriso ma feci finta di non capire. «Un rum di quello buono, Zacapa etichetta nera, per piacere. Grazie » mormorai alla barista. «Subito… con ghiaccio?» Feci segno di no con la mano. «Liscio, doppio.» “Basta che ti dai una mossa” dissi poi fra me.


23 Bando all’avarizia; sei euro per un rum di livello sono spesi bene. Ne avevo bisogno. Me ne stavo aggrappato al bancone pensando a come fare. Mi servivano troppi soldi e avevo anche un grosso assegno da coprire. Se continuava così, solo Don Salvatore mi poteva aiutare. Sasà ‘a canaglia faceva lo strozzino, lo sapevano tutti, e come tanti suoi illustri colleghi frequentava il Timone. Anche quel giorno marcava presente, a pochi metri da me; stava mangiando un cornetto e due pizzette. “Che faccio, mi presento? Che gli dico?” Mi servivano quattromila euro entro due giorni. Senza contare i danni alla macchina e la rapina di Equitalia. Se non avessi mandato affanculo Giggino, avrei potuto chiedergli di presentarmi Don Salvatore. Giggino lo conosceva bene perché il vampiro gli aveva prestato ventimila euro per l’avvocato. “Azz Giggì, l’avvocato Panzani Taverna è più strozzino d’a’ canaglia.” Praticamente, fra interessi e capitale, aveva un debito a vita col maledetto criminale, cambiali a loop, un’esistenza da riscattare. “Fanculo” pensai “mo faccio a faccia tosta, quando buono buono me manna a chillu paese. E che me ne fotte!” Decisi di passare all’azione. Bevvi lo Zacapa tutto d’un fiato. Fu un gesto coraggioso e quasi mi misi a piangere. Poi mi avvicinai al delinquente con un certo timore reverenziale. Era un tipo senza scrupoli con il quale non si poteva scherzare.


24 Se non pagavi le rate alla scadenza prestabilita, minimo ti veniva a spezzare le gambe fino a casa e ti appicciava19 la macchina. Non parliamo poi degli interessi che applicava. Non ci volevo neanche pensare, l’assegno non lo potevo coprire e non avevo alternative. Da mia sorella, poi, non ci potevo più andare, le dovevo ancora millecinquecento euro e non avevo il coraggio neanche di telefonarla per un saluto, figuriamoci per un prestito. Feci per abbozzare un sorriso porgendogli la mano, quando delle urla mi fecero sobbalzare. «Levate a’ nanze, levate a’ nanze!20» Due tipi con casco integrale avevano fatto irruzione nel bar. Accento slavo, giubbini di pelle e fucili semiautomatici. Don Salvatore, da buon figlio di puttana, fiutò il pericolo; aveva capito di essere il bersaglio di quel commando. Fece di tutto per scappare; prese una donna per farsi scudo, ma lei si mise a gridare, un suono agghiacciante, gutturale. Era bionda, bona direi, finanche sexy. Don Salvatore la sollevò con un braccio e lei cominciò a scalciare con tutte le sue forze. Gridava come una matta. A’ canaglia estrasse una pistola calibro nove e cominciò a sparare, lesto come un gatto. Colpì uno dei due assalitori al petto e lo fece stramazzare a terra. Una pozza di sangue scuro macchiò il pavimento bianco; sembrava un cuore, cremoso e denso come cioccolata calda. Il panico oramai si era impadronito del locale. Tutti scappavano, molti cadevano in terra, molti li calpestavano. Io mi nascosi sotto

19 Incendiava. 20 Togliti dalle scatole.


25 un tavolo ed ebbi paura di morire. L’altro sicario fu più lesto, caricò il fucile e sparò a sua volta senza pensare. Colpì la donna al ventre e la mano di don Salvatore. Lo squarcio fu profondo, immane il dolore. La donna morì sul colpo, a’canaglia cominciò a barcollare, senza una mano, la faccia bianca; stava per crollare. Lo slavo caricò di nuovo, fece due passi e poi sparò ancora. Il colpo quella volta andò a segno, squarciò la testa della vittima; materia grigia, ossa craniche dappertutto. Mi sentivo male. Scese il silenzio nel locale. Chi era rimasto si nascondeva sotto ai tavoli, dietro al bancone, nel cesso. Chiuso in un angolo, qualcuno cominciò a pregare. Lo slavo si diede alla fuga trascinandosi appresso il corpo del compare. Forse era ancora vivo, forse era meglio non farlo arrestare. Una macchina nera li stava aspettando col motore acceso che continuava a ringhiare. Un tipo barbuto con un grosso foulard sulla faccia si agitava come un ossesso, aprì la porta e cominciò a sbattersi perché aveva una voglia matta di tagliare al corda. «Vi dovete sbrigare!» sbraitò con la voce grossa. Lo slavo salì in auto lasciando a terra l’altro che probabilmente era già morto. Rimase lì in mezzo alla carreggiata con le braccia aperte, la pancia scoperta, una grossa ferita al ventre; un buco rosso, scuro, dai contorni irregolari. L’auto fuggì sgommando. Stridore di gomme, segni scuri sull’asfalto, fumo bianco. Don Salvatore era seduto sul pavimento, la schiena appoggiata sul bancone, la faccia distrutta dal colpo di fucile. Faceva impressione, lo fissai solo per un attimo.


26 Con un abbraccio mortale cingeva a sé la bionda che era stata bona e sexy ma in quel momento era semplicemente morta. Il bar assomigliava a una zona di guerra: puzza di polvere da sparo, nebbia da fumo, sangue dappertutto, morti, paura e violenza. Alcuni cominciarono a filmare, altri scattavano foto ai cadaveri, molti si connettevano ai propri contatti e improvvisavano dirette su facebook. In lontananza si sentivano le sirene della polizia, molta gente cominciò ad arrivare. Le donne affacciate al balcone raccontavano alle amiche cosa era successo. «Io ho visto tutto. Che impressione, sembrava un film; m’aggio miso ‘na paura!» disse Marisa, ma se ne pentì subito. «Ma perché, che cosa è successo?» le chiese la signora del piano di sopra. «Signora Sofia, hanno acciso a uno into o ‘ bar Timone. C’è stata ‘na sparatoria… ma io mi faccio i fatti miei» e così dicendo se ne rientrò in casa sbattendo le persiane. Il cadavere della canaglia era lì, a pochi centimetri da me, lo potevo quasi toccare se solo avessi voluto. La giacca era aperta, un grosso rotolo di banconote colorate richiamò la mia attenzione. “Ma che stai pensando? Pare brutto, fa’ attenzione, tu mica sei un ladro” prese a dire la mia coscienza. “Che te ne fotte, chillo era ‘na belva, nu vero ommo e mmerda. Pigliati i soldi, tanto non sono i suoi” replicò il mio istinto di sopravvivenza. “Mors sua, vita mea” mi dissi e fui contento. La mia coscienza rimase muta, priva com’era di argomenti convincenti.


27 Quei soldi mi avrebbero consentito di pagare i debiti, mi sarei salvato nu piezz’ 21. E poi sarebbe stato reato rubare dei soldi già precedentemente rubati ad altri? Sarei stato un novello Robin Hood o un ladro al quadrato? Era lecito prendere soldi che avevano fatto piangere molte persone? Avrei riscattato tanta sofferenza alleviando la mia? Non sapevo cosa fare ma mi dovevo sbrigare. Erano ancora tutti scossi e sotto i tavoli, nascosti. Nessuno badava a me. Fra pochi istanti sarebbero arrivati i poliziotti, la scena sarebbe stata sigillata e buonanotte ai soldi, buonanotte ai sogni di gloria, buonanotte a me e alla mia carriera di piccolo imprenditore. Pensai a Giggino, almeno il suo debito sarebbe stato estinto. Forse. Con un gesto lesto della mano affondai le dita nella tasca della giacca della canaglia e presi il rotolo di banconote. Erano sporche di sangue, erano profumate, morbide come il seno di una donna bellissima. “Le laverò con l’ace gentile” pensai. Stavo delirando. Non potei fare a meno di incrociare gli occhi della bionda, che era sexy anche da morta. Accidenti, aveva gli occhi spenti sembravano di vetro - che guardavano il soffitto, l’infinito, un cielo artificiale fatto di luci intermittenti, colorate di natale. Sembrava una madonna innocente, la bocca aperta, un’espressione di stupore impressa sul suo volto. Era bella, troppo per morire. Chissà se quelle labbra avevano fatto in tempo a dire ti amo un’ultima volta. Chissà se avevano dato un ultimo bacio, chissà cosa o chi avevano lasciato. Chissà, già. 21 Un pezzo; in un colpo solo.


28 “Fanculo” pensai “occhio e croce ci sono diecimila euro.” E me li misi in tasca, quella stretta dei pantaloni. Mi ingrossavano il pacco. Forse era troppo evidente, avrebbe potuto destare sospetti. Mi girai, ero osservato. Questa volta non stavo sbroccando. Piccoli occhietti verdi da zoccola mi stavano scrutando, nascosti dietro a un sorrisetto falso, sottile, infame. Incrociammo lo sguardo come due moschettieri che si stavano studiando. Il piccolo uomo annuiva, mi fece un segno con la mano come per dire “ci vediamo fuori, con calma, ci mettiamo d’accordo.” Il tipo era basso, snello, asciutto, non troppo forte a primo acchito, ben vestito, ben pettinato. Due baffetti neri da sparviero sotto al naso lunghissimo. L’unica cosa che ne rovinava l’immagine da impresario delle pompe funebri era una piccola ferita sulla fronte, un profondo graffio sanguinante che tamponava con un fazzoletto bianco. C’erano due iniziali ricamate sul bordo: FP. “Figlio di puttana” pensai senza smettere di fissarlo. Mi alzai di scatto, non volevo correre il rischio di restare altro tempo lì dentro, non volevo essere interrogato o - peggio schedato dagli sbirri. Cercai di nascondere il viso, c’erano sicuramente delle telecamere. “Speriamo di non essere stato ripreso, mi sa che ho fatto una grandissima cazzata.” Mi avvicinai all’uscita senza dare nell’occhio, l’ambiente era ancora concitato. C’era gente che scappava, altri che entravano a curiosare. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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