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LUISA ROSSI
VIRGINIA PUÒ PARLARE
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni
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VIRGINIA PUÒ PARLARE Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-187-7 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Marzo 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Nella memoria dei vivi è riposta l’esistenza di chi non c’è più Cicerone
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San Giovanni Manzano, 27 ottobre 1917, ore sei
Sono spaventata, tramortita dalla paura. Da giorni la morbida curva del monte Colovrat è infuocata da lampi di granate, gli scoppi di mortaio tuonano sinistri, e dappertutto aleggia una malefica coltre di polvere acre. Maledetta guerra. Nella cucina stranamente silenziosa il piccolo Bruno dorme ignaro nella culla, mentre gli altri tre miei figli mi guardano assonnati dopo il brusco risveglio, nella luce pallida dell’alba: si aspettano da me un’azione qualunque che li rassicuri, anche solo scaldare il latte, come sta facendo la nonna Italia. Che invidia la sicurezza di mia suocera, quel piglio deciso di chi sa sempre cosa fare; io no, io sono riuscita a malapena a vestirmi, giusto per abitudine, tanto non devo andare da nessuna parte. Un vociare convulso sulla strada rompe il silenzio e d’un tratto tutto diventa frenetico: mi avvicino alla finestra e vedo carretti trainati da muli e cavalli, odo i mille cigolii delle larghe ruote dei carri stipati di gente. Mia suocera si agita, cerca di tranquillizzare i nipoti, corre fuori a vedere cosa succede. Invece, io resto immobile anche quando mio marito Pietro arriva di corsa a casa, in fretta e furia, gridando che c’è un carro che ci aspetta in paese, bisogna scappare, stanno scappando tutti, ma quali bagagli, via via,’ndemo, andiamo, prendi i bambini, gli Austriaci hanno sfondato a Caporetto e stanno arrivando. Mi faccio trascinare di peso sul carro, insieme alla mia famiglia e a tanti sconosciuti, e cerco di aggrapparmi, per sopravvivere, a ricordi belli, che a fatica riesco a disseppellire dalla mia memoria confusa. Ero stata felice, con la mia grande famiglia nella villa di Bueriis. Come mi mancano, papà Giuseppe e mamma Angela; sette anni, sette interminabili anni dall’ultima volta che li ho visti.
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Già. Ero andata dai miei, a Bueriis, un mese prima del parto, il 9 novembre 1910, quando era nato Guido, il mio secondogenito. Era stato un parto facile, con la mamma vicino e la levatrice Bettina, che aveva fatto nascere tutti noi. Il papà era chiuso nel suo studio a far finta di lavorare, mentre aspettava la nascita del nipote. Robis de feminis, cose di donne, pensava accigliato. Come mi manca, papà Giuseppe. Io sola conosco il cuore grande nascosto dentro quella scorza ruvida e dura di friulano che mette soggezione a tutti tranne che a me. Se mi vedesse in questo stato! Lui, tanto orgoglioso e fiero delle nostre radici che ogni santa sera, intorno al grande tavolo da pranzo, tuonava: “Ricordatevi che vi chiamate Del Ben! Vostro nonno era un notaio, non un contadino mangiarane!” Un sorriso smorto mi fiorisce sulle labbra secche. Contadini mangiarane. Sento una fitta al petto se ripenso ai lunghi pomeriggi d’agosto passati a osservare i contadini immersi fino alle ginocchia nella fanghiglia nera della palude, il capo coperto da fazzoletti annodati, a estrarre la torba che vendevano come combustibile per pochi soldi. Poi, la sera, li aspettava la sope de croz, la zuppa di rane, di cui era ricca la palude. Era stato un dramma scoprire inorridita, da bambina, che quegli scheletrini pallidi che galleggiavano, proni e con le zampe spalancate, nelle scodelle fumanti di brodo denso e scuro succhiato avidamente dai mezzadri, erano quei graziosi animaletti verdi e lucidi che mi stordivano coi loro gracidii saltellando fra i fili d’erba sulle rive dei fossi, nei pomeriggi d’estate. Come mi piaceva gustare il frico di patate fatto con le strissulis, i ritagli di formaggio avanzati! E la polenta, gialla, grande, bollente: se chiudo gli occhi, sento ancora in bocca il sapore amaro delle ultime croste di polenta bruciacchiata in fondo al grande paiolo di rame, che mi piaceva grattare e contendere ai fratelli e alle sorelle. Papà mi sgridava: “Virginia! Non fare come i contadini! Ricordati che sei una Del Ben! Tuo nonno Domenico era un notaio! E anche un patriota!” Già, chissà com’era il famoso nonno notaio e patriota, che non avevo mai conosciuto.
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E poi, chi era mai un patriota? Una volta lo chiesi a papà, che mi rispose: “È un uomo che ama la libertà, Virginia, come tuo nonno.” Poi, avrò avuto otto o nove anni, ricordo un pomeriggio in cui, girellando in un angolo remoto del giardino, ai piedi di una gigantesca quercia mi imbattei, seminascosta dal fogliame, in una statua di pietra grigia che il tempo aveva in parte ricoperto di muschio verdastro. Appoggiato a un piedestallo ovale, un leone dall’aria feroce, con una ricciuta criniera e un paio di grandi ali che arrivavano alla coda, stava saldo su tre robuste zampe, mentre una delle anteriori era alzata e piegata su un libro aperto, su cui si indovinavano incise alcune scritte in stampatello ormai indistinguibili. Una zampa era spezzata e il segno del restauro era ancora visibile. Corsi in casa a chiedere spiegazioni e papà mi disse: “È il leone della Repubblica di Venezia, simbolo della libertà. Apparteneva a tuo nonno.” Io non capivo cosa avesse a che fare il leone col nonno e con la libertà: nelle favole che mi raccontavano, l’animale era semmai simbolo di forza e di coraggio, ma mi piacque, e avrei voluto saperne di più, ma papà si mostrò evasivo, liquidandomi con: “Virginia, tu ses piciule e femine, lasse stà”, tu sei piccola e femmina, lascia perdere. E io obbedii. Chissà perché mi viene in mente questa storia, adesso; forse perché la faccenda del leone era rimasta in sospeso, e a me non sono mai piaciute le cose incompiute. Sul fatto che il nonno Domenico fosse stato un notaio, invece, non avevo dubbi: nel suo studio andavo spesso, di nascosto. Mi rivedo bambina, quando mi intrufolavo di soppiatto nell’ampia stanza. Nella penombra scarsamente illuminata da fili di luce che filtravano dalle persiane semichiuse, alzavo lo sguardo verso un grande ritratto a olio del sior Notaio, che a me bambina pareva enorme, quasi soprannaturale. Mi piaceva osservare quella figura imponente, dallo sguardo puntuto e severo, ma con un luccichio birichino: mi fissava con aria severa, ma al contempo pareva volesse dirmi di non aver paura di lui, che era diverso da come appariva nel grande quadro.
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Quella del nonno era diventata una figura familiare per me: appena potevo, scappavo nello studio in un muto dialogo col nonno Domenico, morto trent’anni prima che io nascessi, ma ancora vivo nella villa di Bueriis, dove aleggiava la sua presenza. Peccato non averlo mai conosciuto, il nonno notaio, non aver mai saputo quasi niente di lui e della nonna Caterina prima dell’autunno di sette anni fa. Era un pomeriggio uggioso come oggi: anche allora i vetri, come adesso il telone del carro, erano picchiettati da sottili gocce di pioggia; ma la somiglianza finisce qui. Stanca e ingombrante col pancione di otto mesi, mi ero seduta intorno al grande camino con la mamma e la vecchia levatrice Bettina, da sempre, insieme a sua madre Maria, con la famiglia Del Ben, chiamata in fretta e furia perché non si sa mai. “Nol stas ben, Virginia? Come sei pallida! Tu non mangi abbastanza carne, capito? A te piace il petto della gallina, ma da oggi solo la coscia: lo sanno tutti che la cjar pui sauride e jè che dongjie el uess , la carne più saporita è quella vicino all’osso!” Mi voleva bene, Bettina. Poi, non so come, la conversazione fra noi tre donne era scivolata sul nonno Domenico e la nonna Caterina, entrambi morti da tempo, ma che Bettina, memoria storica della famiglia, aveva conosciuto. Non mi era sfuggito il rapido sguardo d’intesa fra la mamma e la vecchia levatrice: sì, ormai ero una donna sposata, avevo tutto il diritto di conoscere i segreti di famiglia. Una mano ghiacciata di nostalgia mi afferra il cuore mentre, seduta sul carro traballante, mi lascio andare ai ricordi.
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CAPITOLO PRIMO: IL NOTAIO DOMENICO DEL BEN
Domenico Del Ben, nato nel 1772, era un notaio, anzi, un sior Notaio, dato che Bueriis, all’epoca, era sotto il governo della Serenissima Repubblica di Venezia. Era anche, da generazioni, un ricco possidente: era stato suo padre a far costruire la grande villa padronale con le stalle, le rimesse per le carrozze e le case della contadinanza; dietro, a perdita d’occhio, si stendevano gli orti, i terreni coltivati, i pascoli e la palude. Dietro, le case dei contadini addossate le une alle altre, con cortili interni chiusi da portici sbarrati, di notte, da pesanti portoni. Al primo piano della villa, lo studio del sior Notaio, pieno di volumi rilegati e documenti, cui si accedeva tramite una scala semplice, di legno, dato che a salirla e a scenderla, nella piccola Bueriis, non erano certo ricchi gentiluomini ma contadini, esattori delle tasse, fattori che, con i loro pesanti zoccoli infangati, avrebbero rovinato gli scaloni di marmo pregiato degli altezzosi notai di città che Domenico frequentava. Dietro la sedia dall’alto schienale di legno intagliato rivestito di velluto cremisi troneggiava un suo grande ritratto a olio, che lui stesso aveva commissionato a un pittore di Udine quando aveva all’incirca cinquant’anni. Era un quadro di grandi dimensioni, inserito in una pesante cornice dorata intarsiata così fittamente nel legno di tiglio da assumere quasi l’aspetto di un merletto. Dannazione della serva Maria che doveva pulirla ogni settimana perché il sior Notaio esigeva che fosse sempre lucida e brillante. Se gli pareva un po’ opaca, mandava a chiamare la serva, affatto intimorita dal tintinnio nervoso del campanello di bronzo: conosceva benissimo la ragione della chiamata. Infatti, giunta al cospetto del
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padrone, la scena era sempre la stessa: in silenzio, il sior Notaio la fissava negli occhi, apriva il primo cassetto della scrivania estraendone un pennellino rigido di crine di cavallo e una scatolina rotonda che conteneva cera d’api, mostrandole gli oggetti con ostentazione. Maria fingeva stupore, poi contrizione, infine rassicurava il padrone: «Scusate, Sior Domenico, ho avuto tanto da fare questa settimana! Provvedo in giornata. Domani la cornice brillerà come il sole!» Faceva un breve inchino, girava i tacchi e usciva, alzando gli occhi al cielo quando era ben sicura che lui non la vedesse, e aspettando la frase di congedo che immancabilmente arrivava: «E mi raccomando, sta’ attenta a non toccare col pennello la tela, che si rovina.» Il ritratto del sior Notaio lo raffigurava seduto sulla sedia rivestita di velluto cremisi; il braccio sinistro in grembo, il gomito destro appoggiato a un tavolino rotondo ricoperto da un pesante tappeto di broccato, su cui poggiavano due pergamene strettamente arrotolate e un calamaio con la penna, simboli del ruolo di spicco e dell’operosità del soggetto. Alle sue spalle, a sinistra una tenda rosso scuro gonfiata dal vento che si intuiva soffiasse da un’ampia finestra rettangolare, aperta su un cielo azzurro spruzzato di nuvole bianco latte, che sovrastava un tranquillo paesaggio collinare, di cui a malapena si distinguevano poche case e uno snello campanile. Severo e rassicurante il viso del notaio: le sopracciglia folte, lo sguardo diretto e un sorriso appena accennato; i capelli neri e lisci con qualche raro filo bianco, divisi da una scriminatura precisa e laterale, erano spazzolati con cura e leggermente rigonfi sulle orecchie; facevano tutt’uno coi folti basettoni, la barbetta a punta e i baffi all’ingiù. Indossava una redingote nera, una camicia bianca dal collo rigido a fascia con le punte rivolte verso l’alto, cui era annodata un’improbabile candida cravatta di pizzo di gusto settecentesco, del tutto fuori moda nel primo ventennio dell’Ottocento. Era proprio questo contrasto fra presente e passato a suscitare grande perplessità in chi osservava il quadro e ad aver provocato l’indignazione, a stento trattenuta, di chi lo aveva realizzato, il bravo
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pittore di Udine, che avrebbe preferito una cravatta di seta nera e al quale non andava giù neanche quella tenda rossa gonfiata dal vento come una bandiera, che, invece, piaceva tanto al committente. «Scusate se mi permetto, ma la cravatta di pizzo non si usa più, e la tenda rossa gonfiata dal vento è assurda! La rivoluzione francese è finita da trent’anni! Perché non facciamo un bello sfondo scuro, più serio, più moderno e adatto a voi?» Ma il sior Notaio era stato irremovibile. Nervoso perché la forzata immobilità gli provocava fitte alla schiena, zittì il pittore: «Cui croditu di sei? Chi ti credi di essere? Io ti pago, dunque fai quello che ti dico io, il pizzo e la tenda e tutto il resto.» Il pittore obbedì: era sì un bravo artigiano, ma mancava della capacità che hanno solo i grandi di entrare nel cuore della personalità di chi ritraggono, anche se ciò significa andare controcorrente. E la personalità del sior Notaio non era piatta né ordinaria, ma sfaccettata e originale, ancorata alla tradizione ma nel contempo immersa nel suo tempo; lui era un uomo serio e metodico, ma con qualche ventata di bizzarria, come dimostrò in tante occasioni, prima fra tutte quando scelse sua moglie, lasciando tutti a bocca aperta. *** La moglie del sior Notaio si chiamava Caterina Moras ed era nata nel 1807. I due si erano sposati nel 1837, quando il sior Notaio aveva sessantacinque anni e Caterina trenta. Una differenza di età abissale, anche per quei tempi in cui era normale che un ricco possidente scegliesse come sposa una donna più giovane. Nonostante le insistenze dapprima velate, poi sempre più pressanti, dei suoi genitori, che non perdevano occasione di presentargli facoltose damigelle, lui non aveva mai voluto saperne. Qualche ora nello studio a mettere nero su bianco i confini dei pascoli, a dirimere controversie sulla proprietà dei terreni, stabilire il valore di campi e bestiame sequestrati alle famiglie che non avevano onorato un debito, gli restava molto tempo libero per dedicarsi al suo
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passatempo preferito, la caccia, e, la sera, ritrovarsi con gli amici per una partita a biliardo, nel circolo della vicina Magnano. E nessuna formosa contadina sapeva o poteva dire di no alle sue voglie. Dunque, perché mai tirarsi in casa una noiosa moglie che avrebbe messo il becco nella sua vita così piena e piacevole? Morti i genitori, poi, nessuno più lo tormentava con le continue allusioni a chi avrebbe ereditato terre, vigneti, villa e danaro. Di un erede non gli importava nulla: ormai, a sessantacinque anni, quello che contava era vivere in salute gli anni che gli restavano, goderseli e basta. Suo fratello minore Massimo, ovviamente, se ne stava zitto e buono, pregustando il momento in cui, senza muovere un dito, avrebbe agguantato i beni dell’ormai anziano sior Notaio. Invece, no. *** Per il sior Notaio era stata una notte insolitamente agitata quella del 10 febbraio 1837. Che freddo. E che voglia, l’indomani mattina, di alzarsi all’alba, far preparare la carrozza, salirci con il suo assonnato aiutante di studio Michele e andare fino ad Artegna, a fare il computo dei bovini da sequestrare a un tale Giovanni Battista Moras, che non aveva pagato l’annuale tassa per l’uso del pascolo comunale. Invece si era alzato; di pessimo umore, si era vestito di malavoglia scendendo infreddolito nell’ampia cucina ancora deserta, dove la serva Maria aveva già acceso il fuoco con l’aiuto della sua figlioletta Bettina che le passava i ciocchi di abete, pescandoli dall’ampia cesta di paglia ai lati del grande camino. Bettina aveva solo sei anni, ma era una bambina sveglia, imparava subito e già sapeva sbrigare le faccende di casa e lavare i piatti nell’acquaio, in piedi su uno sgabello di legno. Il sior Notaio brontolava: «Alla mia età! Ma chi me lo fa fare di svegliarmi all’alba? Quello che ho basta e avanza, non è vero Maria?»
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Ma tant’è. Uscito da casa, lo aspettava la sua carrozza; dopo un’ora trascorsa senza quasi scambiar parola con Michele, più assonnato di lui, arrivò ad Artegna. Con sua grande meraviglia, il signor Moras, indignato per l’ingiusto sequestro dei suoi maiali, manzette e vitelli, non si fece trovare in casa e così, ad accompagnare il sior Notaio a fare la stima degli animali della stalla, comparve la figlia Caterina, dato che la moglie era morta dando alla luce l’ultimogenito, tre anni prima. Mai, nella sua lunga carriera, aveva dovuto trattare con una donna, e per giunta volitiva come Caterina, che senza ombra d’imbarazzo né di condiscendenza, ma rimanendo sulle sue, cominciò a elencare all’allibito sior Notaio i pregi dei suoi animali, per alzarne il valore. A trent’anni, Caterina era ancora nubile e si occupava del padre e dei fratelli. Per questo non si era ancora sposata, non perché fosse brutta, anche se non la si poteva certo definire una bella donna: bionda e piccola di statura, gli occhi chiari molto distanziati, un naso importante, l’ampio scialle di lana nera a coprirle il capo. Ma quello che fece subito galoppare il cuore dell’anziano sior Notaio fu la fierezza dello sguardo dritto e l’atteggiamento tutt’altro che sottomesso, comune invece alle donne del suo tempo. Caterina non si faceva comandare da nessuno e aveva un bel caratterino; di lingua svelta, parlava un dialetto stretto sì, ma non volgare, con un tono di voce armonioso e musicale. Lo credo che non l’ha voluta nessuno, pensò acido; ma la verità era un’altra. Il sior Notaio si era innamorato. Iniziò una corte serrata: il suo futuro così meticolosamente previsto gli si rivelò improvvisamente così com’era, corto e vuoto e le sue certezze andarono in frantumi. Caterina cedette, anche per le pressioni di suo padre cui non sembrò vera la fortuna che gli era capitata: indebitato com’era, accasare la figlia al sior Notaio non era cosa da discutere. E pazienza se il promesso sposo aveva trentacinque anni più della sua figliola; a qualcosa bisognava pur rinunciare, per il bene della famiglia, e, del resto, anche lei era un po’ appassita, pensava lucidamente papà Moras.
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Il matrimonio fu celebrato solo quattro mesi dopo, il 20 giugno di quello stesso anno 1837. Era una mattina limpida di sole, e il sior Notaio, vestito di tutto punto, aspettava nello studio che fosse pronta la carrozza col cocchiere che lo avrebbe accompagnato in chiesa. «Maria! Aiutami con questo fiocco, non lo vedi che è tutto storto? E tu, Bettina, cosa fai lì impalata? Lustrami bene le scarpe, devono brillare!» Agitatissimo, non stava fermo un minuto e continuava a passarsi l’indice avanti e indietro, fra il collo rugoso e l’alto colletto inamidato. «È stretto, maledizione a chel pote di sartor, a quel fesso del sarto! Ma io non lo pago! E questo panciotto, mi tira! Se mi saltano i bottoni, mi lo copo, io lo ammazzo!» D’improvviso si fermò pensieroso. «Maria, dimi la veretat, la verità. Sembro proprio un vecjo con cheste panse: le strici le strici ma e salte simpri fur! Con questa pancia che la stringo la stringo ma vien sempre fuori!» «Macchè vecjo, Sior Domenico, siete un figurino! Sembrate più giovane voi di vostro fratello Massimo, per davvero!» Il sior Notaio sogghignò. «Massimo! Voglio proprio vedere la sua faccia oggi che mi sposo.» Faceva caldo, e il sior Notaio aprì la finestra, osservando con compiacimento l’ampio cortile tirato a lucido, coi vasi di petunie bianche ad aspettare la sposa, la carrozza col cavallino grigio dal pelo liscio, bardato e infiocchettato. Il suo sguardo si spinse più lontano, verso la palude, i campi coltivati a perdita d’occhio, mentre un acre odore di stallatico gli solleticava le narici. Tutto suo, quel che vedeva. E sarebbe rimasto suo e di Caterina, che aveva trentacinque anni meno di lui e forse gli avrebbe dato un erede. Celebrate le nozze, Caterina, fra i falsi sorrisi dei parenti Del Ben, l’imbarazzo dei domestici, i commenti malevoli dei paesani e degli schizzinosi e altolocati amici del sior Notaio, entrò da padrona nella villa di Bueriis. ***
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Il malcelato disappunto dei parenti divenne presto sollievo nel constatare che, pur passando i mesi e poi gli anni, Caterina non rimaneva incinta. Dopo qualche anno, incominciarono a circolare voci insistenti su “un’affettuosa amicizia” fra la padrona Caterina e il giovane aiutante di studio del sior Notaio. Il geometra Michele Gentiloni era un trentacinquenne, primogenito di una famiglia di piccoli possidenti di Rosazzo, una località distante una quarantina di chilometri da Bueriis, e sarebbe stato destinato a badare alle vigne di proprietà e a metter su famiglia, come tutti; invece era ancora celibe e lo sarebbe stato chissà fino a quando, perché sulle sue spalle gravava il peso di ben cinque nipoti, i figli di suo fratello Enrico, morto di tisi otto anni prima. Proprio il notaio Del Ben, che qualcuno gli aveva indicato, aveva redatto il documento in cui lo si nominava tutore legale dei cinque nipoti. Un giovane uomo di poche parole e con la testa sulle spalle, che venerava il sior Notaio cui era grato perché l’aveva assunto nel suo studio, permettendogli di mantenere dignitosamente la sua ingombrante famiglia. E fedele al sior Notaio rimase, nonostante fosse evidente a chiunque il turbamento che provava quando entrava nello studio la signora Caterina, il cui fascino aveva colpito anche lui, la famosa mattina dell’11 febbraio 1837. A Caterina piaceva il giovane Michele, ma, soprattutto, desiderava più di ogni altra cosa un figlio, che il settantenne marito, con tutta la sua buona volontà, non sembrava in grado di darle. Erano passati ormai quattro anni, e ogni giorno Caterina confidava la sua angoscia alla fedele Maria; Bettina, undicenne curiosa come tutte le bambine, ascoltava attenta i discorsi dei grandi. «Fa’ dire alla Madonna una novena per me, tu che ti chiami come lei. Che cosa farò se non mi darà la grazia di un figlio? Dovrò chiedere la carità a quel mona del fratello di mio marito? Sai bene che noialtre femmine non ereditiamo niente, non contiamo niente! Ma mi, mi mi copi puitost di intrigà. Io mi ammazzo piuttosto che dipendere!»
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Una preoccupazione, la sua, condivisa silenziosamente dall’anziano marito, che ben conosceva quell’avvoltoio di suo fratello e non sopportava l’idea che la moglie che adorava finisse a fare la serva a casa sua. Il sior Notaio era stato uomo di mondo, troppo perspicace per non accorgersi delle attenzioni che sua moglie riservava al giovane Michele e del rossore che infiammava il viso del giovane quando Caterina gli rivolgeva la parola. Se ne erano accorti tutti, e aspettavano l’arrivo della tempesta, come quando, nei campi, il cielo si fa scuro, tu sai che il temporale arriverà, ma non puoi prevedere quando e se porterà la grandine o solo una pioggia forte. Invece si sbagliavano. Nessuna tempesta si addensò sulla villa: al contrario, lungi dall’infuriarsi, come chiunque altri, specie nella sua posizione, il sior Notaio finse di non vedere e di non sapere. Continuò la vita di sempre mantenendo le apparenze e continuando, faticosamente e sporadicamente, ad adempiere ai suoi doveri coniugali, sia per tacitare i pettegolezzi della servitù che per serbare, in cuor suo, qualche remota speranza di essere ancora in grado di generare. Non si sentiva per niente un vigliacco, rassicurato in ciò da un sogno che aveva fatto all’alba di una mattina di primavera del 1841, che aveva immediatamente raccontato a sua moglie e ai domestici, consegnandolo così alla memoria della famiglia nelle generazioni successive. Si era svegliato di soprassalto, con una scena talmente vivida impressa nella mente da fargli per un attimo credere che fosse realmente accaduta. Lui era inginocchiato insieme a un altro soldato, di cui non riusciva a ricordare la faccia, e faceva parte di un improbabile plotone di esecuzione (solo due uomini, quando mai?); come il compagno, imbracciava un fucile puntato verso un malcapitato i cui connotati non riusciva a distinguere, ma era sicuro che si trattasse di un ragazzo poco più che bambino. A dargli questa certezza era la risata fresca e allegra che arrotondava le sue labbra e riempiva l’aria col suo suono argentino.
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Sì, perché, incredibilmente, anziché disperarsi, il ragazzo rideva di gusto. Nessuna atmosfera plumbea, niente pianti e lacrime di disperazione, anzi: uniformi di un colore rosso squillante, aria chiara di primavera, facce distese e sorridenti. Lui guardava divertito il giovane soldato vicino a lui e si accorse che gli strizzava l’occhio rivolgendogli, a cenni, una muta domanda: a chi dei due era stato assegnato un fucile caricato a salve? Nessuno lo sapeva, così nessuno poteva avere la certezza di essere il responsabile di quell’improbabile esecuzione. Il sior Notaio, nonostante il brusco risveglio, si sentì in pace come non gli capitava da tempo, e capì subito il significato di quel sogno provvidenziale. Svegliò sua moglie, le raccontò tutto e sorrise: qui non si trattava di dare la morte a qualcuno, ma del suo esatto contrario. E lui non voleva sapere nient’altro. Fatto sta che Caterina, dopo cinque anni di matrimonio, annunciò finalmente di essere incinta e, il 9 aprile 1842, partorì l’agognato figlio maschio, cui fu impartito il nome del nonno, Giuseppe. Fuochi d’artificio in casa Del Ben, festa grande, ipocriti complimenti e inchini al vecchio ma vitalissimo sior Notaio al settimo cielo dalla gioia, sorrisi tirati del fratello Massimo, l’avvoltoio, che pensava di ereditare tutto e invece, voilà. I pettegolezzi che erano un boato diventarono sussurri e poi si spensero, minimamente attizzati dalla servitù che stava tutta dalla parte della padrona Caterina, non solo perché ne ammiravano l’intelligenza e la scaltrezza, ma anche perché non si dava arie e trattava bene tutti i sottoposti, non solo Maria che ripeteva spesso: «State attenta padrona Caterina. Dice il proverbio: Tante confidenze ‘e fas pierdi la riverenze! Chi dà confidenza, perde la riverenza!» Non le passava neanche per l’anticamera del cervello la ridicolaggine della citazione fatta proprio da lei, che era una serva. ***
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Gli anni immediatamente successivi alla nascita di Giuseppe furono, per il notaio Domenico, i più sereni di tutta la vita, già fortunata e piena di suo, ma ora davvero completa e appagante. La prima avvisaglia dei tempi burrascosi, che avrebbero rischiato di travolgerlo, avvenne alle sette di una domenica sera di inizio marzo del 1848 quando, senza essere annunciato, si presentò alla villa don Giacomo, il giovane cappellano della Chiesa di san Nicolò, con preghiera di udienza urgente. «Come? Di domenica? E all’ora di cena?» borbottò allibito e contrariato il sior Notaio rivolgendosi a sua moglie. «Sarà stato mandato dai parenti di qualche ricco moribondo che vuol dettarvi le ultime volontà» azzardò Caterina, mentre il piccolo Giuseppe, che aveva solo sei anni ma ragionava già come un adulto, obiettò: «Ma cosa c’entra don Giacomo? I parenti non potevano venire di persona?” Basta così» concluse il Sior Domenico alzandosi da tavola. «Vediamo cosa succede.» Non aveva avuto alcun sentore di nobili o ricchi borghesi in fin di vita né a Bueriis né a Magnano; invece, la personalità di don Giacomo gli faceva temere qualcosa di diverso e, ahimè, di più serio. Il cappellano era uno zelante sacerdote e tutti ne conoscevano i sentimenti liberali, di cui non faceva mistero, pur consapevole dell’occhiuta censura austriaca che arrivava dappertutto. Il Sior Domenico non era uno sciocco e sapeva benissimo chi erano i liberali, di cui apprezzava, e un po’ invidiava, il coraggio e l’entusiasmo: anche a lui gli Austriaci, che governavano in Friuli da trentacinque anni, non erano simpatici, ma, insomma, garantivano ordine e stabilità che lui stimava da sempre, ma soprattutto adesso che aveva passato la settantina da un pezzo e di tutto aveva voglia tranne che di scompiglio e di trambusto. Don Giacomo entrò nello studio in preda a un’incontenibile agitazione: non si sedette, ma rimase in piedi di fronte al sior Notaio, che alla luce fioca e tremolante delle candele che Maria aveva acceso in fretta e furia appariva pallido e ancora più vecchio di quanto non fosse nella realtà.
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«Scusate l’ora e l’ardire, ma quello che devo dirvi è importante. Di certo siete al corrente del fatto che l’ascesa al soglio pontificio del nostro amato Pio nono, quasi due anni fa, ha acceso una luminosa fiaccola di speranza in noi che amiamo l’Italia ma gemiamo schiacciati dal tallone austriaco.» Gemiamo? Tallone? Ma come parla questo prete? Si spazientì il sior Domenico che fece un cenno al cappellano perché continuasse. «So per certo che Milano freme di entusiasmo: sulle facciate delle chiese compaiono nottetempo scritte inneggianti al Papa e le repliche del Nabucco del giovane Verdi al Teatro alla Scala vengono interrotte da scroscianti battimani quando il coro intona il “Va’ pensiero”.» Uh, come la sta prendendo alla larga, pensò il Sior Domenico annuendo con aria compunta, mentre don Giacomo riprendeva fiato, e ne approfittò per riportare la conversazione sul vero scopo di quella visita improvvisa e inopportuna. «So cosa succede, caro don Giacomo, non vivo sulla luna e grazie al cielo la mia testa funziona ancora discretamente. Ma Udine non è Milano, e qui è arrivata soltanto una pallida eco del fermento di cui mi parlate.» «La valanga arriverà anche qui, statene certo sior Domenico.» Il cappellano si accasciò finalmente sulla sedia, stremato come se avesse scalato una montagna, abbassò la voce e continuò: «Io lo so, ne sono certo perché la stiamo preparando anche noi, la valanga. E abbiamo bisogno di sostenitori, di patrioti, di persone importanti che abbiano influenza sul popolo: noi sacerdoti con la predicazione, voi proprietari con la vostra ascendenza sui contadini… Mi seguite?» Lo seguiva eccome, il sior Domenico. Era arrivato al dunque, finalmente. E proponeva la rivoluzione a lui, che aveva settantasei anni, conduceva una vita prospera e tranquilla, aveva una moglie giovane e un figlio maschio che era la luce dei suoi occhi. No, grazie. Lui, la sua parte l’aveva già fatta. Giovane uomo quando i Francesi di Napoleone avevano occupato il Friuli, era scampato per un pelo dal servizio militare versando ben millecinquecento lire, se lo ricordava bene; e poi erano arrivati gli Austriaci, poi ancora i Francesi, poi ancora gli Austriaci… Non voleva dare una risposta
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drasticamente negativa però, preferiva stare un po’ alla finestra a vedere cosa sarebbe successo. Stava diplomaticamente prendendo tempo, rallegrandosi perché poco prima aveva fatto riferimento alla sua lucidità mentale ma non alla salute; sì, era proprio la salute malferma il pretesto giusto che si accingeva a tirar fuori come il coniglio dal cilindro, quando l’ultima frase del cappellano lo gelò mandando a monte i suoi propositi. «Il conte Agosti di Nimis è dei nostri. In realtà io sono venuto a invitarvi a una riunione che si terrà al castello la sera del ventisette di questo mese di marzo. Ci saranno tutti i veri patrioti della nostra zona.» La coda dello scorpione, pensò il notaio. Meno male che era seduto, altrimenti le gambe non lo avrebbero retto. Il conte Agosti! Non poteva rifiutare un invito del conte Agosti! Quel demonio di un prete l’aveva proprio incastrato, pensò schiumando di rabbia trattenuta ma sforzandosi di rimanere impassibile. E non gli importava che quel suo pensiero fosse blasfemo. Rassegnato, mormorò: «Va bene, don Giacomo, riferisca al conte che ci sarò, la sera del ventisette.» Però una soddisfazione se la tolse, benché misera. «Il Signor Conte mandi una carrozza a prendermi. Arrivederci, don Giacomo.» *** Nelle poche settimane che precedettero la riunione del ventisette marzo, il sior Notaio disdisse tutti i suoi impegni, frequentò assiduamente il Circolo di Udine per captare gli umori dei soci, si fermò a parlare coi mezzadri e con gli allibiti e intimoriti contadini. Eh sì, il fermento c’era eccome, almeno in città. Gli eventi precipitarono: il ventidue Daniele Manin proclamò la Repubblica veneta di san Marco; il giorno successivo a Udine si radunò una gran folla che urlava agitando sciarpe e coccarde tricolori; nel pomeriggio si formò una commissione per trattare con le autorità austriache, che se ne andarono il giorno seguente fra fischi e sberleffi.
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Meno male che quel giorno il sior Notaio era rimasto a Bueriis, lontano dai tumulti, non perché fosse preveggente ma perché sua moglie Caterina, spaventatissima dalla piega che stavano prendendo le cose e preoccupata per la sua famiglia, aveva con un pretesto mandato carrozza e cocchiere ad Artegna da uno dei suoi fratelli, così il notaio era rimasto a piedi. «L’avete fatto apposta. Ma come avete osato?» la investì il marito. Caterina non si lasciò intimorire, e gli rispose per le rime: «Certo che l’ho fatto apposta. Cosa vi salta in mente di fare il giovanotto alla vostra età? A me e a Giuseppe non ci pensate?» Il sior Domenico si rabbonì. Certo, capiva le sue preoccupazioni, ma non poteva tollerare che qualcuno, fosse pure sua moglie, gli impedisse di fare quello che gli andava, soprattutto alla presenza della servitù, perciò fece la voce grossa: «Non permettetevi più di mettermi i bastoni fra le ruote. So quello che faccio.» Presto il sior Notaio si accorse che il fermento c’era solo a Udine e in qualche grande cittadina della provincia. A Bueriis, come anche a Magnano, Artegna e Tarcento nulla sembrava mutato: i contadini e i mezzadri seguitavano a sgobbare nei campi, i poveracci a immergersi nel fango della palude per estrarre la torba, i cavapietre a spaccarsi la schiena sulla montagna, le donne a cuocere la polenta e a mettere al mondo figli che sarebbero stati falciati via dalla malaria, dal tifo e dalla pellagra. Che cosa poteva importare a costoro se a spremerli era l’Austria o Venezia o chicchessia? E i rivoltosi si illudevano nel pensare che gli Austriaci se ne sarebbero andati così su due piedi. Scosse la testa. Sottovalutavano, e di tanto, la determinazione del maresciallo Radetzky che, a più di ottant’anni, era ancora uno stratega abilissimo, aveva battuto Napoleone e, particolare non irrilevante, comandava un esercito forte e organizzato come quello austriaco. Cosa pensavano, gli ingenui patrioti, che Radetzky si sarebbe fatto intimorire da una sassaiola e quattro barricate? Che avrebbe tranquillamente girato i tacchi cedendo la Lombardia, il Veneto e il Friuli? Poveri illusi. No, non sapevano con chi avevano a che fare.
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Quelle poche settimane gli furono molto utili per capire come doveva comportarsi col conte Agosti: come nel suo carattere, avrebbe assunto una posizione intermedia, in attesa di vedere come si sarebbe evoluta la situazione. Finalmente giunse la sera del ventisette marzo, quando una carrozza col blasone del conte dipinta sulla portiera lo venne a prendere per accompagnarlo al castello. *** Il castello dei conti Agosti di Nimis era una fortezza nata in epoca feudale con funzione difensiva, come testimoniato dalle possenti mura esterne e dalla massiccia torre quadrata che, nello stemma araldico della nobile famiglia, era stata disegnata al centro: dorata, sormontata da tre stelle d’argento in campo azzurro e sotto la cui base si trovava scritto il motto virtus et honor, virtù e onore. Da oltre due secoli l’austero castello medioevale era stato trasformato nella lussuosa dimora patrizia dei conti che, da veri friulani, erano rimasti legati a usi e costumi rigorosi, lontani dalle svenevolezze veneziane: il salone delle feste non vedeva un ballo da tempo immemorabile, solo raramente si apriva la sala della musica per offrire un concerto a qualche famiglia aristocratica, mentre il salottino della contessa accoglieva solo le zie e le cugine che venivano a farle visita tre volte l’anno. Il Sior Domenico aveva avuto soltanto un’occasione, molti anni prima, di essere ammesso nell’ala del castello riservata agli uomini, con la biblioteca ricca di preziosi volumi e dalle pareti interamente ricoperte da decine e decine di ritratti degli antenati di sangue blu. La riunione non si sarebbe svolta in biblioteca, che era troppo piccola, ipotizzò, né nella sala del biliardo che, pur essendo vasta e piena di divanetti accostati alle pareti, per chi voleva osservare i giocatori, mal si adattava a uno scopo serio e importante qual era quello della riunione di quella sera. Lanciò una maledizione allo sciagurato cocchiere che non gli risparmiava neppure una buca dello sconnesso sentiero in salita, si massaggiò la schiena e tirò un sospiro di sollievo: finalmente era arrivato.
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Un domestico in livrea lo accompagnò nella sala riservata al gioco delle carte. Si trattava di un ampio salone rettangolare, altissimo, col soffitto decorato da un affresco con scene mitologiche racchiuso in una cornice ovale di stucco bianco; nel punto d’incontro del soffitto con le pareti correva un festone dipinto di rosso, su cui, a distanza regolare, volteggiavano putti riccioluti e grassottelli. Dal soffitto pendeva un enorme lampadario, le cui numerose candele accese illuminavano alla perfezione il vasto ambiente. Le pareti erano interamente affrescate con scene coloratissime di caccia, tanto da rendere quasi invisibili le piccole porte da cui entravano i domestici per servire discretamente i rinfreschi. Sulla parete corta di fronte a quella d’ingresso un enorme camino di pietra: ai suoi lati due alte alabarde incrociate con, nel loro punto d’incontro, un grande scudo rotondo col blasone di famiglia. Acceso per tempo, emanava un calore piacevole in quella sera di fine marzo, ancora fredda come l’inverno che si era appena lasciato alle spalle. I tavolini rotondi, ricoperti di panno verde, erano stati avvicinati a semicerchio, in maniera che i convenuti, una ventina, potessero vedere bene il padrone di casa e ascoltare il suo discorso. Il sior Domenico si sedette vicino al dottor Rinoldi, un chirurgo di Udine che lo aveva curato anni prima per una noiosa frattura e di cui accettò i complimenti per l’ottima forma fisica, nonostante la leggera zoppia, regalo del maledetto cocchiere. Il brusìo cessò immediatamente quando fece il suo ingresso il Conte. Alto, sulla quarantina, copriva la precoce stempiatura con ciuffi di capelli castani pettinati in avanti; senza barba né baffi né basette, il naso aquilino da aristocratico, un doppio mento inusuale in un uomo longilineo come lui, si muoveva nervosamente, a scatti, fissando gli astanti con aria febbrile. Era un uomo di poche parole e, infatti, il suo discorso fu asciutto e privo di retorica. «Signori, grazie della vostra presenza. Voi siete le teste pensanti, il motore di questa nostra disgraziata terra, ed è per questo che vi ho invitato qui questa sera, sicuro della vostra lealtà. Come di certo sapete, oggi a Udine si è insediato il governo provvisorio del Friuli
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presieduto dal Podestà, illustrissimo Antonio Caimo Dragoni. Gli Austriaci si sono ritirati!» Pausa in attesa dell’applauso che arrivò tiepido. «Domani voteremo l’annessione alla Repubblica veneta. La stampa è finalmente libera, noi siamo liberi!» Stavolta l’applauso fu più convinto, avviato da don Giacomo che sedeva davanti al Conte. «E adesso veniamo al dunque. Bisogna essere concreti. L’audacia non ci manca, ma Venezia è lontana e i Savoia non parliamone. Servono cittadini per formare il governo provvisorio, soldati per la guardia civica, uomini per i comitati di guerra, denaro e alloggi per il mantenimento delle truppe e dei volontari. Che tutti sappiano, in modo che volontari accorrano da ogni parte del nostro Friuli: perciò i sacerdoti predichino (e lanciò un’occhiata d’intesa a don Giacomo), i possidenti informino i sottoposti e, soprattutto, siano generosi nell’offrire denaro. Il mio segretario annoterà quale contributo ciascuno di voi si impegna fin d’ora a fornire. Viva l’Italia! Viva il nostro Friuli!» Batté le mani, imitato dagli astanti, per indicare che il discorso era finito e uscì dalla stanza. Incominciò la lenta processione verso il segretario in attesa con pergamena e calamaio; il sior Domenico, accentuando la zoppia e ingobbendosi in avanti, chiese il favore di scrivere per primo e fu senz’altro accontentato. Con la sua calligrafia nitida e inclinata, vergò sulla prima riga: Del Ben notaio Domenico: diciotto Napoleoni d’oro ed esibizione, nella sua proprietà, di un simbolo rivoluzionario che, più di mille parole, persuaderà i contadini analfabeti ad arruolarsi per la giusta causa. Salutò e si congedò, lasciando a chi continuava a completare l’elenco la curiosità di sapere cosa mai significasse quella frase sibillina, cosa diamine fosse il simbolo rivoluzionario di cui era in possesso e che avrebbe esibito. ***
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Due giorni dopo, don Giacomo si recò a casa Del Ben col pretesto di ritirare i diciotto napoleoni d’oro, ma, in realtà, curiosissimo di vedere coi suoi occhi il misterioso simbolo rivoluzionario di cui favoleggiavano tutti i convenuti nel castello del conte Agosti. Fuori dal grande cancello, prima della leggera salita che conduceva all’ingresso della villa, una piccola folla osservava una statua di pietra grigia che rappresentava un fiero Leone di san Marco. Si capiva che non era nuova, nonostante i segni di una recente ripulitura: infatti, il sior Domenico l’aveva fatta riesumare dalla cantina, in cui giaceva dimenticata da tanti anni. Tutto qui? E io chissà cosa credevo, pensò don Giacomo mentre il sior Domenico percorreva lentamente il viale d’ingresso per raggiungerlo. «Sior Notaio, francamente sono un po’ deluso. Il Leone di san Marco della repubblica di Venezia… giusto, è simbolo di libertà, ma… vedete… vi siete accorto che è un po’ zoppicante, questa zampa è rotta e malamente acconciata.» «Verissimo, don Giacomo. Ma che volete? Il povero Leone ha dormito un sonno di cinquant’anni ed è normale che nel suo risveglio sia un po’ traballante. Anche noi, quando abbiamo troppo dormito, abbiamo i passi incerti. Ma, aspettate: il Leone si sveglierà quanto prima, e il suo ruggito sarà udito da ogni parte.» Il cappellano e tutti i presenti, ammirati e stupefatti, applaudirono la sagacia del sior Notaio che, da quel momento, si guadagnò la fama di patriota. Neanche un mese dopo, il ventidue aprile, in una malinconica domenica delle Palme, il Friuli si arrese agli Austriaci e il Leone di san Marco tornò mestamente non più nella cantina da cui proveniva, ma in un angolo remoto del giardino, perché scendere le scale della cantina sarebbe stato più pericoloso che salirle con un carico così pesante e il sior Domenico temeva che il mezzadro si potesse rompere un braccio, quello sì sarebbe stato un guaio. ***
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I quattro anni che rimasero da vivere al sior Domenico furono tranquilli: il Gentiloni si occupava delle poche pratiche che il notaio aveva in sospeso e faceva da precettore a Giuseppe mentre Caterina, scampato il pericolo della rivoluzione, si era acquietata e accudiva al marito assistita dalla fedele Bettina. Il sior Notaio morì nel 1852, quattordici anni prima che Bueriis diventasse italiana. Ottantenne, si era ostinato a uscire in una gelida sera d’inverno e si buscò una polmonite che lo fiaccò nel corpo, ma non nello spirito. Lucido fino alla fine, sul letto di morte accarezzò con lo sguardo i parenti, le donne in preghiera, i vecchi amici, ma poi girò il capo verso la moglie, il figlio Giuseppe e Michele, fermando lo sguardo su di loro, per un lunghissimo momento. Tutti capirono che lui sapeva, aveva sempre saputo di lei e il Gentiloni, ma non gli importava: si congedò dalla vita grato a sua moglie per averlo accompagnato in quel suo ultimo scampolo di vita e, soprattutto, per avergli dato Giuseppe, fiero e intelligente come un Del Ben, senza se e senza ma. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO: In occasione del suo 10° anniversario, la 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio "1 Giallo x 1.000" per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2018) http://www.0111edizioni.com/
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.