Viva la vida

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LUCA ATTRATTIVO

VIVA LA VIDA

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VIVA LA VIDA Copyright Š 2012 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-435-2 Copertina: Luigi Pozzoli

Prima edizione Maggio 2012 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova

Per evitare ogni equivoco, dichiaro formalmente che i luoghi, i personaggi e i fatti di questo romanzo pur essendo ispirati, come lecito, dalla vita reale, appartengono al mondo della mera fantasia. L’Autore


A Fabiana, alla mia famiglia, agli amici “quelli lì” e a tutte le persone che si ostinano nei propri sogni.

È tempo che sfugge, niente paura che prima o poi ci riprende perché c'è tempo, c'è tempo c'è tempo, c'è tempo per questo mare infinito di gente. (Ivano Fossati)



PARTE PRIMA LA NOTIZIA



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1. GRANDE IN UN MOMENTO.

Una delle c ose che mi aspetto debbano succeder e prima o poi, una singolare e assoluta certezza che non so quando arrive rà, è il momento in cui mi renderò conto di essere definitivamente un adulto. Marco si er a racco mandato con un sm s che non lasciava spazio a fraintendimenti: “Mercoledì sera... 21. 30... t utti all a Cantina… vi devo parlare… è importante… niente scu se... nemmen o tu Paolo. .. niente scopate dell’ultimo minuto...” Tutti quei puntini di sospensione per di più: che nervoso. Perché poi riguardarm i un spazio co sì personale all’interno di un messaggio destinato a tutti? Perché mettermi sempre in mezzo? Come se fossi stato solo io quello che bidonava per impegni inderogabili. Davide per esempio smetteva di lavorare a un orario indicibile, si s parava 13 ore di lavoro secche a montare tubi e installare caldaie. Arrivava la sera con la faccia stravolta, bestemmia ndo tra i denti e rimuginando per le discussioni avute in cantiere con muratori, elettricisti, geometri e ingegneri vari; condannato a una vita lavorativa co me fosse una continua rissa, anche se c’ è da preci sare che Davide avrebbe l itigato pure con San Francesco se ci avesse lavorato insieme. Pollo, dal canto suo, con tutta l’ accozzaglia di corsi assurdi ai quali si ostinava a partecipare pur di sfuggire alla noia, non era certo più affidabile di me o di Davide. Da citare, solo nell’ultimo anno, c’erano: “Il Softair”, ovvero fingersi soldati e recarsi a gue rreggiare in scenari prevalentem ente boschivi m uniti di apposite ar mi spar a-pallini di pla stica; lo “Jeet Kune Do”, arte marziale di re cente affermazione appresa da Pollo con assoluta discontinuità al fine di im parare a di fendersi nel caso i soliti Ninja di passaggio lo aggredissero per un qualsiasi futile motivo e, dulcis in fundo, il mitico gruppo “Fantasy”, che frequentava pure Gianca e che, per quanto ne so, era la fusione tra una specie di r ecita e il classico gioco in scatola, una bizzarra sceneggiata i ntorno a un tavolo a tirar dadi im personando elfi, maghi, nani e chissà quale altra strana creatura. A proposito di Gianca, l’ultim o a chi udere il gruppo dei destinatari del messaggio di Marco. Beh Gianca, gruppo “Fantasy a parte”, in linea di massi ma non aveva un cazzo da fare, ma s arebbe stato certa mente capace di ritardare


8 all’appuntamento perché addormentato sul divano mentre guardava dvd di anime giapponesi talmen te sconosciuti che l’im portatore non l i aveva nemmeno doppiati, solo sottotitoli. Come si può avere una fissa del genere? Comunque alle 21.30, gi usto per rimarcare che n on m ollavo proprio nessuno per una “scopata dell’ ultimo minuto”, il prim o ad arrivare all’appuntamento sono stato io. A ruota mi hanno seguito: Gian ca, visibilmente assonnato e indiscutibilmente mal vestito; Pollo, con borsa della piscina annessa (come dimenticare l’ora se ttimanale di nuoto li bero); Davide, con la su a solita espressione im paziente e la m aglia nera; infi ne Marco, pe rvenuto con notevole distacco sul resto del gruppo. «Scusate gente ma con Sim ona abbiamo fatto una tirata dall’ospedale. I soliti ritardi sanitari, incredibili! Per fare una visita banalissima abbiamo aspettato delle ore! Ho fatto appena in tempo a riportarla a casa e sono volato qua» si è subito discolpato Marco. «Va bene, ma cos’è che ci dovevi dire di tanto importante per organizzare tutta sta manfrina?» ha replicato pe r contro Davi de, sem pre come se avesse fretta di tornare sul cantiere. Mi sono intr omesso «Zinzi, aspetta un atti mo! Sediam oci con calma e ordiniamo da bere almeno. Se ha mandato quel messaggio avrà qualcosa da dire, no? Che hai? Devi timbrare il cartellino?» «Tranquillo Davide, tranquilli tutti! Adesso vi spiego ogni cosa, datemi un attimo per mangiare un panino e vi aggiorn o sullo stato delle cose» h a precisato M arco mentre P ollo e Gianc a, co mpletamente disinte ressanti, parlavano dell’ultimo numero da collezione di Alan Ford. Ci siam o seduti f uori, nella piccola veranda mal cem entata con v ista ferrovia, a uno dei due tavolini di plasti caccia ingiallita che Silvio del bar tirava fuori da chissà quale nascondiglio in occasione della bella stagione. Con tutti i locali chic “v ista lago” ch e avremmo potuto scegliere, noi c’eravamo im bottigliati alla “Grande Cantina del fiume”, divenuta co l passare degli anni se mplicemente “La Cantina”. In pratica una s pecie d i casermone in cui si fondevano perfettamente un circol o operaio con tanto di campo da bocce, un centro di accoglienza per manente per casi s ociali e una vera e propria bisca clandestina. Era passata una vita da ch e avevamo iniziato a fr equentare “La Cantina”, precisamente da quando il coin up di “S treet Fighter II”, vero prodigio da innescare con 500 lire, si era cibato per mesi di ogni nostra paghetta settimanale. Ricordo ancora co me Gianca, unico tra tutti, l’aves se finito


9 pure con Dhalsim , quello che si allungava completamente ma era lentissimo. Come ci sia riuscito è tutt’oggi un mistero. La sera della notizia di Marco era una bella serata della seconda metà di giugno, forse il periodo p iù bello da vivere sul lago, e a com pletare i l compiacimento si avvertiva nell’ aria un bu on o dore di erba tagliata proveniente dalla zona agricola del p aese, non molto distante dal “nostro” bar. Non faceva ancora il caldo umido e insopportabile di agosto, e nemmeno il fresco inga nnevole di a prile; insomma, si stava bene anche solo con indosso una maglietta. Non appena Silvio ha fatto il suo ingresso in veran da abbia mo pensato subito di ordinare e, come spesso f acevo per accorci are i t empi, mi sono eletto portavoce del gruppo. Ho chiesto a Silvio che ci portasse quattro birre e una Coca alla spina, la nostr a consumazione standard da mercoledì sera, ma i mmediatamente Davide, quasi rivolto più a m e che a l barman, ha rettificato «Per me niente Coca Silvio, vai di vodka energy!» Subito ho pensato che quella fosse per Davide una strana botta di vita, dato che è astemio, anche se un tipo di astemio particolare. Non beve e non ha m ai bevuto n ulla, non la birra, n on il vi no, neppure i cocktail leggerm ente alcolici che non li senti nemmeno: ma la vodka miscelata a un energy drink la beve, ecco me s e la beve. Non tollera nessun’altra variante e ce rto non tolle ra la vod ka di per sé, l o farebbe vomitare, ma il fatto ch e venga miscelata con taurina e caf feina e addolcita con chissà quale sciroppo sint etico lo aiut a a mandarla giù, gli annulla gli effetti negativi. Comunque, una volta co mpiuta quella inconsueta ordinazione, la mia curiosità verso Marco e la sua convocazione ufficiale venne parzialm ente offuscata d al fatto ch e Davide bevesse alcolici di mercoledì. Tradizionalmente se li ris ervava per i weekend o per momenti molto speciali e mi veniva da pensare che Davide sapesse più di tutti noi sulla storia di Marco e su quello che ci avrebbe detto. Pe rlomeno sospettavo che avesse ricevuto qualche anticipazione. Mentre Silvio scriveva ancora la co manda, Gian ca, im provvisamente risvegliato da un letargo solo apparent e, se ne è us cito tutto d’ un colpo, come se non stesse fin o ad allora parlando d’ altro, com e se fosse assolutamente inserito nella parte c entrale della disc ussione, anche se la discussione in effetti doveva ancora cominciare.


10 Si è rivolto a Marco e ha esclamato spazientito: «Oh ma sta cosa che ci devi dire, ce la dici o no ? Cos’ è, vuoi crea re suspance? Siamo mica al “Milionario” cazzo! Dai, allora?» «Ah sì, giusto!» ha bofonchiato Marc o pri ma di ri chiamare Silvio per ordinare il panino che si era dimenticato. In effetti era un bel po’ stralunato; Marco, o meglio “Marcolino” com e lo avevamo se mpre chiamato noi, era un bel po’ fuori fase. Da sempre era stato rinominato Marcolino perché, a dispetto dei suoi anni, sembrava sempre un eterno bambino. Mezzo tedesco, dalla madre aveva er editato i capelli biondi e sottili, gli stretti occhi azzurri e la pelle bianch issima, pronta a esplodergli in rosso vivo sulle guance quando si vergognava o si arrabbiava. Gracilino com’era, ricordava un po’ DiCaprio ai tem pi di genitori in blue jeans. Co mplessivamente ha se mpre avuto un’ età indefinibile, tanto che ogni volta ch e entravam o in un local e all’estero, l’i mmancabile addettobuttafuori di turno gli richiedeva i documenti per verificare che avesse almeno diciotto anni. Per Marco questa cosa dell’età er a un punt o di forza e ha sem pre sostenuto che anche quando avrebbe passato i cinquanta o i sessant’ anni sarebbe sembrato molto più giovane. Io com unque, all’ idea di r ivedere Marco a sessant’ anni, con la barbett a bianca e la faccia da moccioso, mi piegavo dal ridere. Prima di pro nunciare qualsiasi eccezionale rivelazione Marco si è acceso una sigaretta, dando vita a una catena di accensioni em ulative tipiche dei fumatori. La catena si è ro tta una vo lta arrivata a Pollo, non perché non fumasse, bensì perché non le aveva ma i. Infatti il parassita si è girato verso me con la sua tipica faccia supplichevole da “poi le com pro” ed è rimasto a fissar mi finché non gli ho lanciato il pacchetto sper ando di centrarlo in pieno naso. «Simona è incinta. Ci sposiamo prima che nasca il bambino, perlomeno in comune, anche se Si mona ci terr ebbe tanto alle nozze in chiesa. A ogni modo, siete tutti invitati.» Marco, con rapida naturalezza e quasi con sufficienza, co me s e trattass e scherzose futilità, ha pronunciato queste esatte parole. Non so perché ma assurdamente il mio primo pensiero post ri velazione è stato di capir e se Davide l o sapesse o s e avesse intuito qualcosa pri ma di noi. Mi suscitava un enorme f astidio l’ idea che Marco gli aves se da to un’anteprima.


11 Ho iniziato a fare congiure spera ndo che i due si f ossero incontrati per caso e a Mar co fosse scap pato qualcosa nel discorso, per pura casualità; oppure Davide aveva incontrato Simona al supermercato e lei glielo aveva rivelato tra gli scaffali dei detersivi o dei biscotti, i gnara del fatto che Marco avesse fin lì taciuto la cosa; o forse Davide, che per certi aspetti era molto sveglio, lo aveva colto di su o e aveva insistente mente cerc ato conferme fino a ottenerle da Marco o da Si mona o addirittura da tutti e due. Altrimenti perchè la vodka di mercoledì? Fortunatamente il primo a pronunciarsi dopo la stravolgente notizia è stato proprio Davide «Cazzo Mar co, che botta! Proprio non me l’ aspettavo! E adesso ? Dove andrete a vivere? Ma co mprate o in affitto? E i tuoi e i suoi lo s anno? Come l’hanno presa? Comunque vi aiuteranno, vero?» Davide era uno pratico, un uom o da lavoro, uno che non faceva domande sui risvolti em otivi della notizia. Lui era attratto dalla logistica, dal progetto, dal le parti concrete. E fortunatam ente n on sapeva e non si immaginava nulla di que llo che ci a veva appena confessato Marco. Eppure quella vodka che, dopo aver ricevut o la notizia, mi sembrava bere quasi con fretta co me a volerne e liminare vel ocemente le tracc e, continuava a stuzzicarmi domande e sospetti. Marco in effetti aveva voluto dirlo a tutti insiem e, equidistante e politicamente corretto, nel completo rispetto di quello che era il suo stile. Pollo, che in certe situazioni parlav a sem pre a sproposito, ha chiesto seriamente colpito: «Cavolo, ma com’è successo?» L’ha stro ncato Davide « A parte che no n sentivo dire “cavolo” dal 1992 , ma poi, sembra che stai parlando di un incidente in macchina. Non è mica una brutta notizia! E poi cretino, come vuoi che sia successo?» Pollo in queste cose proprio non ce la faceva. Immancabile lo ha seguito a ruota Gianca: «Io lo sapevo, giuro! Cioè, non è che lo sapessi con certezza, ma me l’ero immaginato, l’avevo capito!» Gianca sapeva se mpre t utto. Ogni volta che suc cedeva qualc osa di minimamente im prevedibile, lui lo sap eva. Il bello è che lo affer mava come se fosse vero, co me se davvero leggesse il futuro. Gianca er a come quelle profezie che diventano vere solo quando succedono. Tipo le torri gemelle, ch e se vai a vedere una te rzina di Nostrada mus s copri che l’aveva predetto mille anni prima... Cazzate.


12 Avrebbe dovuto fare il m ago nelle te levisioni l ocali: 899.266.266. m ago Giancarlo risponde. Gli si metteva un turbante in testa e lui ti diceva tutto, amore, denaro, salute. Tariffa minima 3,75€ al minuto, solo maggiorenni. Tecnicamente sarebbe toccato anche a me dire qualcosa a Marco, ma non ci riuscivo, non sapevo proprio cosa dichiarare. Ero intontito o forse come al solito passivo e non m i veniva ne mmeno di simulare una felicità da convenevoli, una cosa di facciata per dare un qualche genere di segnale di presenza, di finta partecipazione, che comunque non sarebbe stata corretta nei confronti di Marco. Cercavo solo di capire, con inutile rincorsa di si mulazioni mentali, l’impatto che avrebbe avuto sulla nos tra am icizia quella notizia ma er a come avere i concetti avvolti dall’ovatta. Ovviamente ci hanno pensato gli altri a coprire il mio silenzio, rimpinzando Marco di tutte quelle domande che si fanno in questi casi. «L’avete cercato?» «Sai già se è maschio o femmina?» «E quando dovrebbe nascere?» «Ma come lo chiamerete?» Marco ha risposto dili gente come un ca ndidato alla maturità e ha chiarito con tutta calma co me, più che “cerc arlo” quel figlio, non avessero fatto nulla per evitarlo. Ha poi precisato che era troppo presto per conoscerne il sesso e che se fosse stato maschio si sarebbe chiamato Mattia, se femmina Martina o Cristina. Ha ag giunto che l’indomani sarebbe andato a firm are il compromesso per un tril ocale recentemente ristrutturato: 145.000 Euro, 440 eur o di spese condominiali annue. Un nido c he lui e la s ua futura moglie Simona avrebbero pagato per 25 anni. Poi si è fermato, quasi di scatto, anche se con la sua solita calma. Con la tem pistica infinita di Silvio, dopo aver consumato ben tre giri di birre, due c ocktail alla vodka e una Coca alla spina (Davide aveva praticato una sospettabile inversione di consum o), gli era finalm ente arrivato il panino. Io ero ancora bloccato e non avevo detto una sola parola in tutta la sera; in compenso avevo finito le tre birre con largo anticipo sul gruppo e la bocca mi si era come impastata da quanto stavo fumando. Come avev a osservato Da vide, quella di Marco che diventava padre era tutt’altro che una brutta notizia e avrei dovuto es sere felice p er il mio amico; di certo non era proprio il caso di farne un dramma. In effetti non è che fossi triste: non ero niente.


13 Non facevo che pensar e al fatto ch e da un po’ di tem po Marco stesse architettando questo scherzo, m a non mi aveva dato segnali così evidenti per prepararmi psicologicamente. Lui e Sim ona stavano insie me da 8 m esi appena e in quegli 8 mesi non è che il rapporto tra noi due fosse cambiato di molto. Avevamo continuato a fare gli scemi co me se mpre, comportandoci co me r agazzini, distruggendoci di “Long I sland” a ogni serata passata insieme, assaltando ogni creatura femminile all’arm a bianca, pure i cessi, pure essendo fidanzati tutti e due. Non era cambiato nulla e adesso cambiava tutto. Onestamente me lo chiedevo ogni tanto quando sarebbe successo, quando la vita di uno di noi cinque si sarebbe sbloccata e chi sarebbe stato il primo a levare l’ancora pe r partire verso le responsabilità vere. P erò era una cosa che posticipavo, co me gli es ami dell’ università che da april e spostavo a settembre per far sì che fossero così lontani da non esistere. Avevo sempre creduto che si diventasse adulti per gradi, che fosse co me crescere d’ altezza. Non si cres ce tut to di un colpo, succede piano, naturalmente, senza badarci troppo e fi nché non sei arrivato si procede con calma. Invece in quel momento mi sentivo co me un bam binone di ventisei anni passati, venu to su tutto di un colpo; spinto dalla forza delle co se ch e succedono senza chiederti nessun parere; una sensazione fastidiosa da paura. Probabilmente il mio era un atteggiamento esagerat o, sono sem pre stato smoderatamente teatrale negli stati d’ani mo, ma e ro fatto così e non potevo farci nulla. Sembrava ier i che io e Marco ci tr ovavamo tutti i gior ni per andare insieme in oratorio e adesso mi stava dicendo che aspettava un figlio. Marco ha finito il panino a scoltando con pazienza di padre già consu mato i nostri commenti e registrando le nostre reazion i, com presa la mia stagnante immobilità, finché la serat a non si è incredibilm ente rilassata e le discussioni sono state riportate ai soliti e collaudatissimi percorsi. Per un effetto di norm alizzazione che definirei impossibile o irreale, si è brevemente t ornati a parlare di cal cio e dell’ Inter che, anche se er a divenuta una “vincente”, l e bastava un a stagione pe rché tornasse a far ci soffrire; poi si è parlato di donne e l o si è fatto come sem pre, in m odo colorito e un po’ infantile; si è parl ato di lavoro e di Davide, che prima o poi avrebbe ammazzato qualcuno in cantiere, e si è p arlato di macchine e


14 di Gianca, che da dieci anni diceva di dover cam biare il Peugeot 10 6 rosso, ma non lo cambiava mai. Si sono fatte chiacchiere da bar come se nulla di ecl atante fosse successo, si sono fatte chiacchiere ordinarie da mercoledì sera. Consideravo assurdo che un avvenim ento del gene re aves se av uto una così veloce a ssimilazione da parte del gruppo, però era così e passate appena due orette dall’ annuncio f ormidabile di Ma rco nessuno pareva particolarmente turbato. Prima di andarsene proprio Marco si è recato alla cassa da Silvio e ha saldato per tutti. Non era un gesto da lui e la cosa ci ha parzi almente ricongiunto all’idea che quella fosse una serata decisamente eccezionale. Fatto ciò, ha salutato tutti e gli altri hanno salutato lui, anche se solo Davide lo ha ringraziato per la bevuta offerta. «Aspetta, vengo anch’io!» gli ho detto prima di salutare Silvio e gli altri. Siamo usciti insieme dalla “Cantina” che era mezzanotte passata. Faceva fre sco, quasi freddo, e Marco si è infilato un m aglioncino di cotone blu che saggia mente aveva tenuto sulle spalle fino a quel momento; io non avevo nulla con cui coprirmi. Prima che r aggiungessimo le nostre ri spettive automobili m i è fin almente venuto in mente qualcosa da dire. «Sei felice?» gli ho chiesto. «Che vuol dire? Sì, lo sono, certo che lo sono!» ha r isposto asciutto e un po’ incredulo per la mia domanda francamente stupida. Marco aveva la faccia si ncera e ser ena e, per quanto l’ aspetto non lo aiutasse, emanava una convinzione di intenti che ai miei occhi lo rendeva molto più uomo di quanto non mi sentissi io. Mi veniva da pensare che tanta serenità non gliel'avessi mai vista addosso, ma forse era una delle mie solite esagerazioni. «Ci vediamo venerdì o sabato?» gli ho chiesto senza troppa convinzione. «Non so se ci sono quest o weekend, avrò un bel p o’ da fare in questo periodo» ha risposto modesto. «Ci mancherebbe, ti capisco» ho rimediato impeccabile. Così ci siamo dati la buonanotte e ce ne siamo andati a letto. A casa, anche sotto due coperte, sentivo freddo ai piedi e nonostante fuori fosse giugno e l’ estate fo sse alle porte , avevo la sensazione che i tem pi che sarebbero arrivati sarebbero stati tutt’altro che leggeri e spensierati.


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2. IO, MONOLOGO DI ME.

Tutte le mattine la sveglia suonava alle 7.15 precise. Non è che fosse proprio una sveglia a dire il vero, usavo il cellulare, così av evo la comodità di infilarci qualche musichetta carina. Da marzo dell’anno prima avevo scelto “la gioia del risveglio” di Roberto Angelini. Non che mi piacessero t anto né la canzone n é l’ autore: se mplicemente avevo l’illusione che un m otivetto così propositivo potesse metter mi di buon umore e darmi quella “gioia” che da un bel po’ m i mancava. Non me ne voglia, ma in quel periodo se l’ avessi incontrato, il buon Angelini, l’ avrei messo sotto con la macchina. Comunque p rima ancora mi svegliavo con “Questa è la mia vita” di Luciano Ligabue, ma i risultati erano ancora più scadenti. Di fatto l’avevo cambiata per evidente incompatibilità con la realtà, perché il proble ma era proprio quello: quella non era la mia vita, non quella che volevo almeno, e la colpa non era certo della sveglia. Mi svegliavo a un orario accett abile, pisciata istituzionale e una doccia calda, fosse estate o fosse inverno, senza sapone, sem plicemente d i ripiglio. Ogni mattina mi buttavo sott o il getto d’acqua quasi bollente perché senza una doccia sarei andato a lavorare con la faccia tipo maschera di “Scream” o “Urlo di Munch”. Uscivo dalla doccia col sonno arretrato che a fatica mi si cancellava dagli occhi, m i asciugavo rapi damente, poi preparavo la colazione standard: pastone di latte freddo, cereali e cinque frollini con gocce di cioccolato, non uno di più, non uno di meno. Il rito di farm i un profumatissimo caffè con la moka l’avevo abbandonato da diverso tempo, ero passato al popol o delle cialde. La sigaretta d avanti al social network a cui ero iscritto era il preambolo di un turbi nio di azioni ravvicinate: cesso, denti, vestiti e partenza per l’ufficio. In tutto, il tem po sti mato per “l’ operazione risveglio” era di quarantacinque minuti, anche se molto spesso registravo prestazioni decisamente più rapide. Arrivavo sul posto di lavoro per le 8.10, non è che dovessi fare t anta strada; a ltro caffè dalla macchinetta, un’ altra sigaretta , accendevo il computer e via. Tutti giorni per cinque giorni a settimana. Esattamente allo stesso modo.


16 Mi sem brava addirittura che l’ avessi fatto da sempre e m i er o quasi dimenticato di aver passato periodi d ella mia facendo altro; ormai era come se fossi nato facendo quello, eppure erano passati solo tre anni. Mi consideravo una persona nella media, che viveva una vita media ricca di episodi mediocri. Avevo aspett ative co me t utti, am bizioni di felicità e di successo nella norma, sogni irrealizzabili che fa cevano capolino in qualche notte insonne, pre occupazioni risolvibili, preoccupazioni che sarebbe stato meglio non affrontare vista la loro futilità, preoccupazioni che sarebbe stato meglio non affront are considerata la loro ingovernabilità, doveri, maledetti insopportabili doveri. Vivevo le mie giornate tipo completamente immerso nel susseguirsi degli eventi, con il co mpromesso di un lavor o che evidentem ente non amavo per uno stipendio da ita liano m edio. Avevo spese previste e uscite impreviste, u n’utilitaria pagata in quarantadue com ode rate e hobby e sport da usare in modo sistematico per scappare qualche ora al giorno dalla monotonia della vita. Routine nella routine. Vivevo in un appartamento e quei qua ttrocento euro di affitto in nero valevano ses santa metri d i terra sacr a. Ci vivevo da marzo e per quanto fossero pass ati solo tre mesi, continuavo a pensare che vivere da solo fosse il più grande im pegno che avessi mai preso, la m ia più grande impresa. Ho preso tempo prim a di decidermi a lasciare il nido, un po ’ perchè forse non ne sentivo la necessità, un po’ perc hè, anche a ti rare la cinghia, non volevo appiopparmi trent’anni di m utuo con una cazzo di banca e pagare una casa due volte e mezzo il suo valore. Ho sempre nutrito un forte risentimento e sospetto verso le banche e verso tutto il sistema economico italiano in generale. Ho sempre creduto assurdo pagare così tanto il loro denaro, paga re così tanto i loro servizi, pagare così tanto i loro sorrisi quando depos iti e i loro asettici sguardi quando ti dicono che gli dispiace ma ti prenderanno tutto. Quando mio padre comprò la libreria, nonostante si trattasse di un piccolo prestito, nonostante avessero tutte le garanzie e l’ ipoteca sulla casa, per una rata saltata a momenti gli portavano via tutto. Forse è per quell’episo dio che mi son o così inviperito e sono diventato così diffidente verso le banche. Sta di fatto che mi bastava vedere quelle pubblicità in cui affer mano di “esser e differenti” o che “io conto perché non sono sol o un conto” o che “sono costruiti intor no a me”, per farmi sentire come un adolescente adescato da attempate e scafate mignotte.


17 Non mi sono mai fidato d elle banche, eppure in banca c’ero fini to come tutti. A pagare per mettere e paga re per togliere, a deposi tare e risparmiare, a cercare di ac cumulare per anticipare il mas simo possibile e accollarmi un mutuo sostenibile in un tempo sostenibile. Era diventata la mia missione: la ca sa, il m io s pazio, il m io avere, ammonticchiare, mettere via, possedere. Per tale mandato macinavo i giorni tutti uguali, mi ero dato un fine pratico per vivere, mi ero dato uno scopo per svegliarmi tutte le mattine e andare a fare quello che facevo. Malgrado tutto, vivere da solo m i piaceva e mi h a insegnato a capir e quanto fosse importante la mia famiglia. Mio fratello Enrico frequentava il quint o anno di lic eo scientifico statal e con la stess a esatta inso fferenza con cui l’ avevo frequentato io. Un diciottenne abbastanza tipico, ribelle e svogliato, j eans griffati e felpe firmate, settanta euro per un paio di scarpe di tela americ ane nell’assoluta convinzione che la spesa valesse l’ acquisto. Mi gua rdava ogni volta con occhi increduli quando gli assicura vo che negli anni '90 c ostavano diecimila lire. Non mi credeva, eppure era così. Quando stavo ancora con i m iei litig avamo spesso. Qualche vol ta gli ho mollato una sberla; una volta me l’ha data lui, m a quella volta non h o reagito. In fin dei conti, gli ho sempre voluto bene. Mia madre, s e leggeva nei m iei occhi una qualche difficoltà esiste nziale, aveva un autentico campionario di frasi da dire, un prontuario da sfoggiare in determinate occasioni con una tempestività così disar mante e se cca da innervosirmi. Una raccolt a di parole rassicuranti e di conforto, motti di incoraggiamento, perle di saggezza riciclate ad hoc e massime avvilenti e scontate del tipo “La vita si costru isce su cose concrete e sostenibili” oppure “I ragazzi di oggi non hanno niente in testa”, Ho sem pre sostenuto che ogni genitore avesse di questi colpi, considerandolo una specie di m eccanismo di tutela della prole p ronto a scattare non appena i figli smettono di essere bam bini e si avve nturano nell’interminabile adolescenza tipica delle nostre generazioni. Mia mamma del resto no n è mai st ata un genitore m olto diverso dalla media. Una mamma giovane, apprensiva e onesta, magra e in quieta, ordinata e razionale. È una bella donna mia madre e non lo dico da figlio. Mi ha raccontato che quando era una giovane ragioniera, a Milano, c’erano fior di professionisti che le fac evano la corte. Avvocati e medici facoltosi che avrebbe potut o sposare.


18 In effetti certe volte ho anche pensat o che se fossi stato figli o di un banchiere o di un architetto le mie aspettative e le mie inquietudini avrebbero avuto una dim ensione diversa, ma a esser e sinceri non me ne sono mai convinto e comunque non è andata così. Mia madre è cresciuta nella Milano da bere de gli anni '70, in un appartamento di proprietà confortevole e solido, tr a via Torino e via Lupetta. Ha vissuto con la sua famiglia unita e corretta un’ infanzia serena e impeccabile. Sempre coccolata, ultima di tre sorelle, è stata istruita e ben indirizzata. È stata spettat rice ba mbina e quindi distratta di tutta quella storia degli anni di piom bo. Ha sentito il botto di piazza fontana mentre era a scuola e udito disattenta le vic ende della questura di Via Fate ben e fratelli. Anche se si ricorda perfettamente della facci a che av eva la gente in quei tem pi, non abbia mo parlato spesso di que lle cose, quasi non l'avessero toccata poi tanto, quasi la sua gioventù fos se stata su un piano decentrato, riparato. In certe rare discussioni non ho potuto fare a meno di chiederle co me ci sia riuscita, come sia stata in grado di non curarsi di tutte quelle faccende: delle sparatorie, dei delitti e delle bom be. Ho provato io stesso numerose volte a immedesi marmi e a chiedermi come si può crescere sereni in una città dove le cose ti scoppiano a fia nco, dove sullo sfondo aleggia il terrore, ma considerando le difficoltà di oggi per prendere un banale aereo, ho capito che ogni generazione ha i suoi spettri di compagnia. In ogni caso mia madre non ha mai risposto seriamente alle mie domande, ha sempre sdrammatizzato e ridimensionato. È una donna pratica, una che non si è mai intere ssata di storia o di politica. Per lei lo scopo è stato esclusivamente quello di crearsi una f amiglia e tirar su due figli sani e tosti. Così ha fatto, ful cro incrollabile nell a gestione della casa, dei soldi e dei problemi concreti. Non viene da una fa miglia particolarmente ricca, ma dice generic amente che stavano bene e sottolinea, con orgoglio poco com prensibile, che già negli anni ' 60 la televisio ne in cas a l’avevano. Ha conosciuto m io padre venendo, da brava milanese, in villegg iatura sul lago. L’ha frequentato, amato, forse compreso; sta di fatto che lo stava lasciando ed è rim asta incinta: fregata. Vita incanal ata su due bei solidi binari, poche discussio ni, poca metafisica. C’è chi si ammazzerebbe, eppure sono sicuro che in fondo è quello che lei ha sempre desiderato. Mia madre si chiama Anna e le ho sempre voluto bene.


19 Mio padre la televisione negli anni sessanta non ce l’ aveva e, anche se l’avesse avuta, non avrebbe avuto una casa nella quale metterla. Nato a M essina il 16 aprile del 1953, è emigrato al nord il 16 agosto del 1961, ha spo sato mia madre il 16 sett embre del 1979. Da anni gioca al lotto il numero 16 in tutte le possibili salse, ma non vince mai. La sua storia è il paradigma, forse un po’ scontato, degli emigranti italiani del dopoguer ra: fam iglia num erosa con fratelli e cugini a spartirsi stessi nomi e stessi difetti, venuti su in m assa a conquistare la Lo mbardia, la vicina Am erica, in cerca di un lavoro che ieri co me ora, al sud, non c’è mai. Lui a differenza di m ia madre ha parlato spesso con me della sua vita e della sua infanzia e, anche se è un po’ ripetitivo, m i piace ancora sentire tutte le storie che racconta. Parla spes so dell’ integrazione e di quanto fu difficile farsi ac cettare da “questi qua del lago”, e dei “terroni”, che “in fin dei conti il nord l’hanno fatto loro”. Che la Lo mbardia non era l’Am erica l’ha capito in fretta il mio babbo, quando aveva dieci anni e suo padre è morto lasciando mia nonna e i sei fratelli Orlando ad arrangiarsi con la vita e con l’umidità di questo posto. Negli anni mio padre mi ha raccont ato m olte storie. Mi ha detto del freddo, della fame e delle difficoltà economiche di quando erano bambini, mi ha descrit to i m ille lavori fatti, pa rlato di quando faceva l’operaio, l’autista, il macellaio, prima che comprasse la libreria dove lavora tutt’ora. Mio padre, nel nostro rap porto ricco di un po’ di t utto, m i ha spiegato come si alleva un maiale e come si pota un ciliegio e mi ha confidato che una volta, quando suo nava l’or gano n ei “Crisalis”, si è fum ato qualche canna. Mi ha persino rivelato i segre ti di come con quistò m ia madre, la “milanese”, ma preferirei evitare di raccontare. Il suo cavallo di battaglia , la sua st oria preferita, è anche la m ia, ed è quella del bosco. Suo padre er a morto da p oco, un m ese, forse meno. Sta di fatto che un pomeriggio d’ag osto, no n so ancora per quale motivo, l ui e due suoi fratelli si erano messi ad accendere fuochi nel bosco, così, per passar e i l tempo. Li avevano trovati alle nove di sera, quasi in Svizzera. I tre Orlando, spaventati e increduli, s opravvissuti m iracolosamente al più grande incendio boschivo che il paese si ricordi. Non so co me abbia fatto mia nonna a non morire d i crepacuore quando glieli avevano riportati in quella specie di cascin a dove vivevano. Mio padre dice che era pallidissima mentre ascoltava le prem ure dell’ assistente soci ale ch e spiegava di non fare nulla ai bambini, perché il loro era stato uno sfogo di


20 rabbia e anz i, di esser e comprensiva, perché anche loro, i ba mbini, sapevano di aver sbagliato. Mio padre ride ogni volta che m i raccont a quante botte hanno preso quella sera. Ride e mi dice che, dopo tutte quelle botte, con la faccia gonfia e calda, col terrore del fuoco ancora negli occhi, quella sera lui ha smes so di essere un bambino ed è diventato un uomo. A 10 anni, davvero altri tempi. È un uomo misterioso mio padre, n on bello m a affascinante, un po’ filosofo e un po’ bambino. Certe volte ho desiderato essere come lui, certe volte m i sono giurato che avrei stravolto i m iei valori pur di non essere come lui. Tutt’ora parliam o frequent emente tra n oi. Si chiama Stefano, come suo cugino Stefano, sua cugina Stefania detta “Stefanucci a” o “Nucci a” e su o nonno Stefano e, malgrado tutti i suoi difetti, anche a lui ho sempre voluto bene. Quando Marco ci ha riuniti per darci la sua notizia eccezionale, la mia era una vita che consideravo normale, una come tante. Stavo con una ragazza: Chiara. Stavamo insiem e da cinque anni e, p er co me and avano le cose, senza slanci di nessun tipo ma senza nemmeno picchi di disagio estremo, mi ero abituato al pensiero che starci insi eme tutta la vita era tutto sommat o un’altra routine piuttosto sopportabile. C’erano m omenti in cui m i senti vo vivo davve ro: qualche weekend superlativo, qualche viaggio con gli amici, qualche incontro inaspettato. Una volta, vedendo un fil m, avevo sentito dire che in una vita i giorni che contano erano una ventina al massimo e che gli altri erano lì solo per fare volume. Sul momento mi aveva fatto sorridere e l’avevo trovato vero. A distanza di te mpo però pe nsare che l a vita fosse re almente ricca di giorni che fanno solo volume mi rendeva estremamente malinconico. Avevo quattro amici: Marco, Pollo, Gianca e Davide. Praticamente l’amicizia con loro era vecchia come i primi ricordi, risaliva ai tem pi della scuola mat erna, dei pastelli a cera e dei lavoretti con i punteruoli. Ho sempre avuto il timore che qualcosa tra noi potesse c ambiare, ma non sospettavo che sarebbe successo a breve. Mi chiamo Paolo Orlando e il 16 giugno di quell’anno avevo ventisei anni da poco, qualche certe zza spesso costruita da altre persone su quello che avrebbe potuto e dovuto esser e il mio percorso, molta inquietudine e complessivamente un sacco di confusione in testa.


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3. IDEE DELLA DOMENICA.

Pollo si è accostato al bancone del bar proprio m entre Silvio preparava un caffè espresso a due allegri signori su lla settantina, già pronti per una avvincente partita di bocce, e gli ha intimato: «Panda, dammi una birra media!» Era forse il primo vero caldo dell’anno e la pelle di ogni cliente del bar era lucida e appi ccicosa, poiché alla “Can tina” l’aria condizionata e ra una cosa ancora tutta da scoprire. Silvio, gi ustamente concentrato nel pr oprio lavor o, bagnava di sudore la solita polo blu con scritto “staff” sulla schiena. Con la faccia seria, poteva sembrare quasi scocciato, ma in realtà non lo era. Quella maglietta era un regalo dei ra gazzi che frequentavano la “Cantina” una decina d’ anni prim a di noi, ovvero prim a che si sposa ssero e costruissero famiglie scom parendo dal mondo dei bar co me q uello in favore di più corretti locali sul lungo la go, da freque ntare rigorosamente con m ogli e prole al segu ito. La m aglia blu, di ventata orm ai una divisa non autorizzata, era, insieme alla foto di una poco probabile formazione di calcio a cinque, l’unica traccia rimasta di quel gruppo. Guardavo Pollo e mi domandavo come ci riuscisse. Mi chiedevo co me potesse bere anco ra dopo la serata che av evamo appena passato insieme, l’ennesimo sabato sera alcolico. Pollo era veramente di un’altra categoria. Ha preso un grosso sorso, di quelli che a me av rebbero fatto venire l’occhietto l ucido, e si è avviato verso il tavolo dov ’ero seduto camminando sciolto e fresco come se stesse facendo una scampagnata; poi mi ha guardato qualche secondo con la solita faccia un po’ svampita. Al tavolo io sorseggiavo un dep urativo tè verde f reddo m entre Davide leggeva imperturbabile la “gazzetta dello sport”. «Tu mi devi spiegare co me cazzo fai! Sei una fo gna, dopo u na serata come i eri hai ancora il co raggio di bere? Oltretutto sei fre sco co me una rosa e non capisco co me sia possibile visto che io h o una nausea devastante! Sei davvero un gran figlio di puttana!» gli ho detto utilizzando i codici comunicativi m edi che teneva mo tra di noi. Ogni volta che mi rivolgevo a Pollo era mia abitudine insultarlo con offese di ogni tipo. Capisco che può sem brare assurdo o sgradevole, ma tra noi i dialoghi


22 erano sem pre stati così, crudi e selvagg i, e co munque lui m i risp ondeva per le rime. «Dì a tua madre che mi deve il resto» mi ha infatti risposto l ui subit o prima di iniziare il suo solito monologo da bevitore inossidabile qual’era. «Non lo sai che il giorn o dopo devi fare il richiam ino? È così che si evita il mal di testa ! È vero, è una cosa scien tifica, l’ho letto anche su “Focus”. Praticamente è il corpo che si è abituato all’alcol della ser a prima, e se i l giorno dopo non gliene dai, ti fa venire mal di testa, per dispetto tipo!» Pollo era completamente sgrammaticato nel parlare. Era uno di quelli che ogni tanto partivano con il “se io avrei”. Da piccoli io e Marco avevam o prov ato a corregg erlo m ollandogli una scop pola in testa a ogni errore, ma col tempo ci avevam o rinunciato temendo di offendere ulteriorm ente quel cervello già m olto approssim ativo. Questa cosa di citare Focus come testimone poi era proprio una bella fissa. Aveva letto 3 numeri in tutto, ma ogni volta che afferm ava qualcosa d i minimamente confutabile, recuperava Focus come alleato. Era il suo testo sacro, il suo vangelo e di fronte all ’ennesima farneticazione non ho provato nemmeno a contraddirlo. Davide ha alzato appena la testa dalla Gazzetta e ha detto: «Vogliono vendere Buffon? Sono pazzi!» Ma, ancora prima che qualcuno pote sse rispondergli per i ntavolare la solita discussione sul calcio mercato estivo, si era già rituffato nella “Gazza”. Essere stato l’autista designato della s era pre cedente gli per metteva di avere rispett o a noi una invidiabile concentrazione e lo autorizzava a ignorarci un po’. Io avevo ancora una nausea pazzesca, per nulla lenita dal cazzo di tè verde in bottiglia che sull’etichetta si prof essava naturale e rinvigorent e, ma a ben vedere conteneva solo il 18 % di estratto di tè liofilizzato. Gia nca non era ancora arrivato, probabile che stesse ancora dormendo; Marcolino non lo si vedeva da 11 giorni, da quel mercoledì dell’annuncio sbalorditivo. La do menica pomeriggio era sem pre più frequentemente un giorno da sopravvissuti. La sera prima eravamo andati in Svizzera a ballare. N on che le discoteche svizzere fossero più belle di quelle italiane, è solo che muoversi un po’ dalla provincia e dai soliti posti aiutava il gruppo a s entirsi un po’ meno frustrato. Oltretutto era opinione com une che l e ragazz e sv izzere avessero una mentalità molto nord europea: come dire, si diceva che fossero più aperte, più disponibili, più....


23 Per conto mio, dopo aver setacciato per almeno un decennio tutto il paese del cioccolato, sono in grado di sm entire categoricamente questa diceria. A me la Svi zzera faceva comunque com odo, locali nuovi, gente nuova, figa nuova, nessun occhio indiscreto. Andare a ballare era il rito di ogni sabato per gli altri, di ogni sabato in cui non vedev o Chiara per me. Non face va molta differenza il locale, la musica, il contesto. A noi tutti interessava di trovare il maggior numero di patata disponibile e poco selettiva, ma in ogni caso, male che andava, ci si annientava di Gin Lemon. Noi di sicuro non potevamo avere troppe pretese, anche se ognuno di noi nel rapporto con le donne era un po’ a sé. Davide per esempio con le donne non ci ha mai saputo fare. La sua tecnica di seduzione era di una rozzezza e di una grossolanità che poteva essere buona solo ai tempi delle caverne. Puntava una, la guardava, anzi la fissa va con una aggressività da tigre dai denti a sciabola, le si avvicinava convinto a mille dei suoi poteri e le diceva: «Ciao bellissi ma, bevi q ualcosa? Ti offro da bere splendida, poi ci facciamo compagnia?» Un approccio del genere n on l’avrei adottato neanche in un borde llo per quanto m i sarei sentito tam arro e cafone. Ma Davide era così con le donne: misogino, rozzo e inevitabilmente perdente. Fosse stato bello forse se lo sarebbe potuto anch e permettere di abbordare così, di personaggi simili ne sono piene le discoteche, ma Davide, fisico asciutto a parte, non è mai stato un adone. Solo Giancarlo era peggio di Davide. Gianca non vedeva live u n po ’ di pelo da anni ormai e quella specie d i storia che lo aveva portato ad aver e l’unico rapport o sessuale della su a vita era un ricordo datato di diversi anni. Come andò quella volta non siam o mai riusciti a saperlo, Gianca è una delle persone più riservate che io conosca. Per tutti noi era rimasto traumatizzato dopo la storia con Marina. Avevamo 15 anni e andavano di m oda le feste i n casa, quelle dove l’obiettivo era li monare duro alm eno un pa io d’ore, finché non t i veniva l’alone rosso da irritazione intorno alla bocca. Quella ser a Gianca aveva fatto il colp accio: era riu scito ad aggiudicarsi Marina, padrona di casa e festeggiata. Marina era molto c arina allora (prima che ingrassasse e finisse per so migliare a una scultura di Botero) e Gianca, dopo un pressing asfissiante, era riuscito a farl a sua. L’aveva baciata.


24 Gianca quella volta era stato il nostro er oe per tutta la sera, un re per una notte. Il gior no dopo si erano dati app untamento in stazione alle 14. 30. Pensavamo tutti che fosse per mettersi insieme perchè funzionava così, se limonavi con una alle feste in casa e ne i giorni successivi la rivedevi da solo in stazio ne, voleva dire che ti ci mettevi insie me. Niente d i serio a dire il vero, storie di un mese o due, cose disimpegnate, cose da festa in casa. Comunque alle 14.48 il nostro Gianca, otto etti di gel in testa, era già d i ritorno alla Cantina. Pensare che per l’ occasione si era messo addirittura una camicia, brutta, ma se l’era messa. Di fronte ai nostri sguardi interroga tivi si era pronunciato secca mente e con un’onestà francamente coraggiosa. «Ha detto che aveva bevuto tro ppa birra. Mi ha pure chiesto di non raccontare niente a nessuno riguardo a ieri sera, che si vergogna.» Non ricordo bene, ma forse Davide aveva perfino provato a consolarlo. Noi no, come si poteva? Io e Pollo ci er avamo guardati ed eravamo sco ppiati in una ris ata esagerata, roba da lacrime agli occhi e mal di pancia. La nostra clamorosa risata aveva contagiato presto anch e Davide e M arcolino che se n’ era uscito con una battuta co me «Beh, poteva and are peggio! Oltre a vergognarsi poteva denunciarti… o rapinarti!» E a quel punto persino a Gianca era scappato un sorriso. Probabile che la nostra ver a forza fosse sempre st ata quella: saper ridere insieme delle nostre piccole sfighe. St a di fatto che l’abbiam o preso per il culo per anni per quella storia di Marina che si vergognava e mi sa che un pochino Gianca c’era rimasto male. Con le donne invece io me la cavavo, pure troppo. Non credo fosse se mplicemente per ché ero carino: a mmetto che il m io aspetto mi facesse partire in vantaggio, ma non era solo quello. Avevo i tem pi, i modi e soprattutto capivo, gr azie a una dote ch e consideravo innata, gli sguardi delle donne. Due di picche non ricordo di averne presi di eclatan ti, forse due o tre in tutto. Ero bravo a leggere sul viso di una donna le inten zioni e calco lare di conseguenza le mie possibilità. Ero bravo a capire se ci sarebbe stata o no, dopodiché mi regolavo: senza segnali precisi, non ci provavo neppure. Era una buona tecnica perché mi permetteva di mantenere costantemente alta l’ autostima, ma ave va un li mite, una pecca: magari evit avo di provarci con qualcuna che ci sarebbe st ata. Poco m ale, con le donne non


25 avevo di che lamentarm i, sia per qualità, sia per quantità e com unque, anche se fos se andata male, ero fidanzato. Gianca una volta mi aveva definito un “traditore seriale”. Assolutamente azzeccato. Quando Gianca ci ha r aggiunti alla “Cantina”, l’abbiamo osservato scendere dal 106 r osso con maggiore difficoltà di q uella con cui avrebbe potuto farlo un vecchio dell’ospizio. Si era appena svegliato e sicuramente non aveva neppure pranzato. Si è avvicinato al tavolino di plastica bianca senza salutare nessuno tra me, David e e Pollo. P oi, riv olgendosi al gruppo, ha farfugliato: «Sapete, pen savo che, visto che, si sposa, dovremm o noi, organizzare, l’addio al celibato, no?» «Gian ma come cazzo parli? Sembri ET! Cos’è, un telegra mma? Respira, mi stai dicendo che dobbiamo pensare all’addio al celibato di Marco?» gli ho risposto. In effetti non ci avevamo ancora pensato. «Sì!» ha confermato lui in mezzo a uno sbadiglio. Davide allora ha alzato di nuovo la testa dalla gazzett a, ma con uno movimento più deciso e sc attante di quanto non avesse fatto pochi minuti prima e si è inserito nella questione. «Cazzo è ver o! Organizzi amo una super ser ata: c ena, alcol a manetta e super puttanoni dappertutto!» «Si, praticamente come venerdì scorso! Bel night di merda quello dove ci hai portato!» l’ho fermato seccamente. Davide soste neva che andare a puttane, in fin dei conti, fosse pi ù conveniente che avere una fidanzata vera e propria e motivava questa sua delicatissima convinzio ne sia da un punto di vista econom ico ch e da un punto di vista relazionale. Diceva che di sicuro una puttana te la dava alla prima sera, non do vevi portarla fuori a cena, non do vevi sopportare lagne e “ mal di testa”, né ricor darti com pleanni e anniversari. V ero è che il modello sent imentale di Davide fosse legger mente sessi sta, ma lui la pensava così e noi accettavamo le sue idee. Gianca, sentita la solita scontata pr oposta, ha guardat o Davide con la stessa espressione contrariata che avevo io e ha affermato: «Davide, ma cazzo, possi bile che dobbiam o sempre infognarci in quelle bettole? Facciam o una cosa un po’ or iginale, che ne so... facciam o un viaggio insieme, andiam o in qualche capitale europea, partia mo per un weekend lungo. Per u na volta cerchiam o di andare oltre gli alcolici e le mignotte, no?» Si era evidentemente riconnesso.


26 La pensata di partire non era male, arrivava l’ estate e i margini per allontanarci dall’abitudine del posto dove vivevamo c’erano ampiamente. Siamo stati d iversi minuti a studiare la cosa, citando le città candidate e i weekend papabili. Mi piaceva l ’idea di anda re a Madrid, non ero m ai stato nella capitale spagnola, ma Gianca sosteneva Copenaghen e Dav ide, manco a dirlo, insisteva su Praga. Improvvisamente Pollo, c he defilato rim uginava nei suoi pensieri, ci ha interrotti dicendone una buona: «Un cam per! Noleggiamo un cam per e giriam o! Il matrimonio è a settembre no? Ci prendia mo tutti la st essa settimana di ferie ad agosto e facciamo l’addio al celibato più lungo della storia!» «Mi piace!» ha esultato Gianca. Immediatamente mi sono eletto portavoce del gruppo e con solennità collaudata da molte situazioni simili già passate ho esclamato «Per alzata di mano, favorevoli?» Io, Pollo e Gianca abbiamo diligentemente accennato il gesto. «Contrari?» «Astenuti?» Davide ha fatto un ce nno svogliato senza distogliere lo sguardo dal giornale. Ancora una volta era evidente quanto preferisse le puttane. «Approvato!» Ho concluso la piccola messa in scena. Con quel sem plice sistema delle al zate di mano, p rendevamo le decisioni di grup po d a una vita. Forse era un po ’ infantil e, ma aveva sem pre funzionato. Diverso era quando, guar dando il culo di q ualche ragazza, chiamavo le “palette” e tutti ci pronunciavamo tipo giuria olimpica “8.0, 9.5, 8.5”. «Bravo figlio di Elena di Troia! Ne hai azz eccata una!» ho escla mato rivolto a Pollo con trasporto. Lui m i ha fissato con una fac cia ancora più svampita del solito e ha risposto superbo: «Visto che id ea testa di tonno? Addio a l celibato... viaggio... facciamo un “viaggio al celibato!”» E m entre Gianca lo in vitava poco gent ilmente a suicidarsi, ho p ensato a quanto m i e ntusiasmasse quell’ idea che era chissà co me riu scito a partorire. Da quel momento in poi avrei considerato il viaggio, l’addio al celibato di Marco, il nostro rito di passaggio annunciato. Concependolo già come una specie di “ulti mo atto” di una parte im portante di vita, avrei riversato su quel progetto quasi tutte le mie fantasie e le mie aspettative.


27 Mi succedeva spesso di dare un’importanza incongruente agli eventi futuri e questa volta in particol are speravo che l’ addio al celibato d i Marco avrebbe cambiato in qual che modo l ’inerzia della mia situazione troppo statica. Non avrei capito, se non molto tempo dopo, la port ata che avrebbe avuto quell’esperienza sul corso della vita di noi tutti e non avrei nemmeno mai immaginato quanto quel viaggio sarebbe divenuto indimenticabile.


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4. L’ARMADIO DA SPOSTARE.

Per avvisare Marco della nostra idea pe r il suo addio al celibato gli ho telefonato sul cellulare. L’aveva lasc iato in giro perché ha risposto Simona. Ci siam o salutati e quando le ho detto che cercavo il su o uomo, lei ha gridato: «Amore è per te, è Paolo!» Sentire Simona che chiamava Marco mi ha fatto ven ire in mente quando da piccolo telefonavo a casa sua. Lo chiamavo quasi tutti g iorni, sol o per ricordargli che lo aspettavo in piazzetta alle due e mezza per andar e insiem e in oratorio. Di solito rispondeva sua mamma e con fiero accen to ger manico gli inti mava di prendere la comunicazione: «Marko, teleffono!» Facendo il p aragone sul modo di ris pondere, h o riflettuto su quanto Simona e la madre di Marco potessero essere donne diverse tra loro. «Ciao Marco.» «Oh Baracca, che c’è?» «Nulla di che. Oggi sei libero?» Quando Marco ha risposto, sono rim asto vago e non gli ho detto nu lla del viaggio che avevamo deciso di i ntraprendere in su o nom e, né di come anche a Pollo potessero venire in m ente idee buone, né di Davide che aveva tanto i nsistito su Praga co me destinazione. Ho solo chiest o se nel tardo pomeriggio fosse occupato e se potesse venire a darmi una mano per spostare un grosso arm adio che ave vo recuperato da m io zio. Lui è sembrato sorpreso di sentirm i per telefono ma non ha fatto altre domande e mi ha assicurato che sarebbe passato verso le sei e mezza. Alle 18.25 aspettavo Marco bevendo un a birra fredda sul divano, a petto nudo: uno spettacolo. Quando Marco f osse arrivato, gli avrei annunciat o di come avevamo conc epito il suo addio al c elibato e solo in s eguito mi sarei fatto aiutare per spostare il nuovo gigantesco armadio. Il problema del mobile da traslocare non era esclusivamente dato dal peso, avrei potuto f arlo strisciare e in qualc he modo ce l’avrei fatta a spostarlo, ma l’avevo piantato in mezzo al salotto, proprio dove io, mio padre e m io zio l’ avevamo frettolosamente l asciato senza p ensare di fini re bene l’impegno. D’altronde adempiere a un lavoro di casa in m odo approssimativo era una caratteristic a peculiare dello stile Orlando.


29 Oltretutto, per portare l’armadio in camera dovevo fare due scalini e ci passava a pel o dalla porta: già l ’appartamento dove vivevo non era una reggia, con un arm adio a quattro ante piantato in soggiorno d iventava comodo e abitabile quanto un igloo. Alle 18.29 Marco ha suonato il campanello: tedesco inside. Il suono del cam panello ha interrotto l e mie consid erazioni riguardo a come, di solit o, nelle fest e di addio al ce libato si ricer chi sempre l’effetto sorpresa. No n si dice mai allo sposo dove lo si porterà, quale sarà il programma, quali saranno i lim iti dell a festa e dell a trasgressione. Nel nostro caso era un po’ dura. «Marco prenditi una settimana di feri e a fine ago sto che ti do bbiamo portare in un posto.» Davvero improponibile come richiesta. L’effetto sorpresa era salt ato e la co sa non mi turbava per nulla visto che non l’avevo mai amato molto il famigerato effetto sorpresa. Polemizzavo da solo, pensando a quanto non mi piacessero le feste a sorpresa, e i regali a sorpresa, le finte facce sorprese di chi non si aspett ava la sorpresa e ch e davvero non ci poteva credere: che sorpresa! Tutto preso dall’ assurda urticante sovrastruttura ch e mi stavo f acendo, appena è entrato in casa mi sono rivolto secco a Marco senza neppure salutarlo. «Andiamo via. In cam per. Fine agosto. Per il tuo addio al celibato. Prenditi ferie, mi spiace, niente sorpresa.» Lui pacato co me sempre ha risposto: «Ma sei scemo?» E in un baleno sono rinsavito. Gli ho accennato l’ idea di Pollo con maggiore cal ma e senz a nessuna distorsione personale, gli ho raccontato di co me avessim o intenzione di organizzare la cosa e gli ho offerto una birra. Mentre sorse ggiavamo le birre, com odi e rilassati, ho fornito a Marco i dettagli che ritenevo necessario comunicare. «Prendiamo un camper a nolo, tra l’altro ce ne sono di bellissimi.» «Tutto sommato ci viene anche a costare meno di una vacanza classica.» «Poi non credo che Sim ona ti farà dei problem i, sono gli ultim i colpi, dai.» Parlavo solo io, eccitato dallo spirito goliardico, dal cam eratismo che le esperienze c omuni co me quella ci avevano sem pre regalat o, ma preoccupato di non ritrovare nelle modalità di ascolto di Marco un consenso immediato al progetto che avevamo concepito.


30 Marco ha preso un sorso di birra, fatto un piccolo sbuffo per eli minare il gas nello stomaco e ha chiesto: «E dove si andrebbe?» Non se mbrava dispiaciuto, né preoccupato di eventuali reazioni di Simona. Semplicemente pareva meno coinvolto di q uanto lo fossi io, ma non era certo una novità. «Niente estero. L’organizzatore dei viaggi all’ estero sei tu, qui si parla di tutt’altro genere di esperi enza. Pigliam o il camper e ci giriamo l ’Italia, tutta la penisola, tutta la costa» ho risposto convi nto, manco fossi un venditore di aspirapolvere davanti a un cliente scettico. Le diverse volte in cui avevam o vi aggiato insie me, Marco e ra sempre stato il perno della m acchina logistica. Era l’unico a conoscere l’ inglese, l’unico che s apesse chiedere dove a ndare, l’unico che sapesse do mandare dove tornare. Parlava davvero bene, sciolto e fluent e. A lui il com pito di prenotare vol i e ostelli, di individuare gli spazi da visitare e quelli d a vivere, di chiedere informazioni di varia natura e, in generale, di s ostenere qualsiasi conversazione al di fuori del gruppo. Viaggiando con noi Marco ricopriva un ruolo di pri missimo val ore e sosten eva un co mpito che diventava tragicam ente arduo q uando Pollo, conv into che per parlare l’inglese bast asse buttare qualche “is” nel discorso, chiedeva di tradurre cose assurde come: “ Chiedi della birra a caduta” o “Chiedi se nel fritto di mare c’è il Pangasio del Vietnam”. Faceva morire Pollo quando articolava parole in quello che sostenev a fosse inglese. «Italianssss i s italianssss, is biutifulsss girlsss, is cic hens!» Spendere duecento “S” per dire a una ragazza che l ei era una bella topa, che lui era italiano e si chiamava Pollo. Io l’ inglese non lo parlavo: mai studiato, neanche alle medie. Ciononostante ero abbastanza sveglio e, dopo un prim o giorno di ambientazione, ero perlomeno in grado di chiedere quanto necessario per sopravvivere. Mi esprimevo perlopiù utilizzando frasi delle pubblic ità e titoli o pezzi di canzoni. Una volta, a Barcellona, ho convi nto una ragazza canadese a venire via con me dicen dole “Life is now”. Era titubante, non sapeva se mollare le amiche e io l’ho buttata sullo slogan. Mi ha fatto un pompino esagerato. Marco, a ogni m odo, do po il prim o resoconto che avevo fatto no n sembrava particolarmente entusiasta, ma senza pensarci su troppo ha detto «Ma sì, facciamo anche questa!»


31 Finita la birra e finite l e parole sul viaggio è scattata “l’operazione armadio”. Marco non è mai stato fam oso per la sua forza fisica. Basso e gracilino com’era, fosse stato un pugile avrebbe fatto parte de lla categoria “mezze pippe”. Malgrado ciò, l’armadio in salotto dava decisamente l’impressione di voler rimanere lì ben piantato se nessuno l’ avesse incoraggiato a spostarsi e io non avevo altro assistente disponibile nell’immediato se non lui... Ci siamo messi ai due e stremi dell’armadio. Ho dato tutte le disposizioni necessarie su come afferrare il mobile e ho spiegato di inclinarlo prima da una parte per sollevarlo. Fatta la pr esa, ci siamo dati un cenno di s guardi per sincronizzarci poi: 3... 2... 1...! Appena data la spinta, ho avvertito il lato di Marco cedere, ma non ho avuto il tempo di dire nulla. Il mio am ico Marco, che senza o mbra di dubbi o non possedeva nel patrimonio genetico la forza degli eroi nordici com e Sigfrido, non avev a retto il peso del mobile e in effetti era ri masto con la testa schiacciata tra le ante del pesante armadio e il muro del corridoio. Con voce concitata decisamente non adatta a lui, ha gridato: «Cazzo Paolo, levami sto coso di dosso, mi sta sfondando il cranio!» E quando l ’ho liberato, aveva la faccia tanto rossa che, abbinata alla polo beige che aveva indosso, sembrava un cerino svedese. Sorpassato il disagio, ci siam o fatti grasse risat e e ogni volta che riprovavamo l’operazion e uno dei due veniva fermato dalla risata impulsiva dell’ altro che ripensava a q uanto goffo fosse quanto appena successo. Alla fine però siamo riusciti a portare l’armadio in camera. A lavoro finito ho aperto il frigo e ho preso le ultime due birre in bottiglia. Avevo comprato il cartone da sei la sera prima. Per rilassarci al massimo ci siam o trasferiti sul balconcino del piccolo appartamento in affitto, nulla di che: vista strada pro vinciale. Ho fatto a Marco un mezzo gesto per brindare con le bottiglie, poi ho tentato di dare un colpo sul collo della bottiglia, lo scherzo che fa uscire un mare di schiuma e ti fa spre care mezza birr a. Lui ha schivato veloce mente e ho subito realizzato che quello scherzo riusciva solo con un tonto come Pollo. Ci siamo accesi un sigaretta. «Sabato dovevi esserci! Assurdamente pieno di gnocca in Svizzera! Mi sono preso il numero di una che sembra la Canalis.» «Sì?» Ha detto lui.


32 «Gianca sembrava la molla magica per co me b arcollava, era pieno davvero cazzo, non so nemmeno come abbiamo fatto a riportarlo a casa!» «Sì?» «Pollo è riuscito a rubare dei free dr ink dal bancone del bar! Se ti dico quanto abbiamo bevuto non ci puoi credere!» «Sì?» «Davide a momenti fa rissa. Poi dovevi vedere, c’ erano due che lesbicavano. Avranno passato 20 m inuti a strusciarsi su di m e e ho anche pensato di poterle tim brare tutte e due insieme, ma forse ero troppo concio. È andata in nulla.» Di nuovo, parlavo solo io. Ho bombardato Marco di resoconti, ri costruendo nei dettag li la serata, le facce, le espr essioni alticce, gli i mprobabili abbordaggi. Mi illudevo che fosse un buon modo di renderlo ancora parte attiva del gruppo e, i n qualche modo, volevo prov asse un fondo di stupida invidia per la nostra libertà e spensieratezza, per la nos tra assoluta mancanza di responsabilità. Volevo che pensass e di es sersi perso molto e forse, in un certo senso, era come se volessi insinuare in lui dubbi per la scelta di serietà che aveva deciso di compiere. Speravo che un poco se ne pentisse. Marco però non era u na persona invi diosa già di suo e no n sem brava sentire la mancanza delle serate come quella che, troppe volte, il giorno dopo, ci erano sembrate comunque insoddisfacenti. Dopo l’ennesimo “Sì?” cortese, ha so rriso in un m odo che poteva essere di benevola co mprensione; poi, cre do senza vo ler e ssere v eramente critico, ha lanciato una battuta. «Paolo, scusami la sincerità, ma a te piace ancora tutto questo? Non senti la mancanza di altro? Non senti una specie di dovere dentro di te? Non senti il bisog no di spi ngerti un p o’ sotto la superficie? E di n uovo, scusa se mi per metto, m a tu e Chiara per quale assurdo m otivo state ancor a insieme?» Tutto quanto detto non come fosse una predica, non era da lui, non era il tipo. In un primo momento quella di Marco mi è sembrata solo onesta curiosità, quasi volesse capire se solo lui aveva avvertito il desiderio di stabilità e d i serenità o se, vicini all’età considerata buona, anche i suoi amici, e in quel caso io, volessero di più. Poi le sue p arole mi hanno un po’ spiazzato e len tamente suscitato un piccolo sgomento interiore.


33 Non ho m ai sopportato quelli che disp ensano m orali, le persone che si permettono di definire cosa sia giusto e cosa non lo sia. Mi ha sem pre mandato in bestia qualcuno che si sen tisse tanto illuminato da indicare la strada. Probabilmente era solo perché ero quasi sempre convinto di avere buone ragioni per comportarmi come mi comportavo. Il parere di Marco però mi interessava, eccome se mi interessava. Lui poi non s i era mai espresso nei miei riguardi ostentando una qualche superiorità morale e, fino ad allora, l’avevo sempre sentito solidale con il mio modo di vivere e d’i mprovviso mi sentivo come tradito. Ero sempre stato convint o che su certe cose foss imo dalla stessa parte, che fossim o complici delle nostre piccole marachelle, delle nostre piccole miserie. Non lo eravamo più e questo bastava a d alimentare quel senso di distacc o che avevo già percepito al bar dopo l’annuncio clamoroso. Ho fatto in modo d i non sembrare turbato, continuando a tenere una posa stravaccata e svogliata; la parte di quello che non crescerà mai perchè non vuole, perchè si diverte, perchè gli va bene così. Marco invece, lette le perplessità, ha ca mbiato leg germente il piano del suo discorso. Quasi deluso ha rin carato la dose, iniziando la frase co n maggiore convinzione, più appassionato. «Paolo, lascia perdere che rie mpi quella ragazza di c orna più di quante ne ha un cesto d i lumache, lascia p erdere che quando hai le palle gir ate non la sopporti e la tratti co me fosse una deficiente qualunque, lascia perdere tutto. Ma qua nto tempo è che non ti sento parlare di qualcosa di bello in cui rientri lei? Quanto te mpo è che non chiami prima lei per raccontarle qualcosa di im portante ch e ti è succe sso? Quanto te mpo è che speri di scoprire che abbia un al tro per avere una buo na scusa per ch iudere? Quanto tempo è che ti condanni in qu ella storia? Va bene, certi weekend saranno pure isole felici, ma tu vuoi da vvero questo? Isole di vi ta in un mare di noia e adattamento? E per quanto pensi di poter andare avanti?» Malgrado fosse la prima volta che Marco mi confessava cos’era arrivato a pensare di me, le sue considerazi oni non suonavan o nuove, anz i, erano perfettamente sovrapponibili a pensieri già fatti da me stesso in momenti lontani dalla felicità sintetica, ottusa, incurante e quasi ostentata dell e serate passate a non pensare a nulla. «Non credev o fosse così evidente» ho ammesso non trovando altra risposta possibile; ma Marco non si è curato tropp o di ferirm i a quel punto, era probabile che da diverso tempo volesse affrontare quel tipo di discorso. Placido, aveva a spettato il momento adatto per parlar mi e quel momento era arrivato. Ha sempre avuto il dono di dire quello che va detto nel momento adatto.


34 «Mi sa che prima o poi ti toccherà pensarci! Prima o poi ti toccherà fare i conti con quello che vuoi davvero, lo dico per te.» Era l’ unica persona al mondo da cui a vrei accett ato di sentirm i dire “lo dico per te” e quel pomer iggio è stata la pri ma e u nica volta in cui ha usato quella frase nei miei confronti. A qualsiasi a ltra persona che mi avesse detto “ lo dico per te” avrei risposto volentieri «Cazzo vuoi? Tu dì le cose per te, che le mie per me, me le dico da solo!» Fortunatamente non l ’ho mai fatto, mi ha sem pre salvato un discreto autocontrollo, perchè di persone che “ dicono cose per te” è p ieno il mondo. «Non so... È chiaro che certe do mande me le faccio, ma adesso è un periodo i n c ui no n voglio pensare a nulla, h o b isogno solo di ferie, di partire, di svuotarm i la testa. Il viaggio per il tuo addio al celibato è perfetto, è l’ unica cosa a cui ho voglia di pensare » ho risposto, fermamente intenzionato a troncare la discussione. Marco allora ha sorriso e mi ha domandato ironico: «l tuo unico pensiero in questo è il mio addio al celibato? Un po’ pochino non credi?» Poi riguardo la mia vita privata e le mie aspettative, Chiara, l e frustrazioni, i tradim enti, non ha detto n ient’altro “per me”, anche perchè credo che si sentisse sufficientemente sicuro di aver acceso la miccia con il minimo sforzo. Ha concluso aggiungendo « Dai Paol o, non volevo esagerare, forse hai ragione tu, conviene scrol larsi lo stress di t utto l ’inverno prim a di fare nuovi programmi!» Per il resto, seduti sul balcone a prende re un po’ d ’aria d’estate, p artendo dall’armadio di ciliegio arrivato finalmente in camera mia, siamo finiti col parlare di arredamenti in generale. Arredare il mio bilocale non era stato un grande sforzo. Più della metà dei mobili che avevo in casa erano di re cupero: la cucina bianca con ante lucide sembrava nuova, ma l’aveva in garage zia “Nuccia”; l’armadio di ciliegio appena arrivato era di un am ico di zio Francesco; il materasso era di quelli che vendono alla televisi one, l’ avevo ordinato a una piazza e mezzo (costava meno); il frigorifero me lo avevano regalato i miei; l a televisione della sala era ufficialmente un dono di Enrico, m a dietro a quel regalo c’erano i miei di nuovo. Il mobile specchiera d el bagno, il tavolo della sala-cucina e il divano bordeaux in pelle rigenerata er ano prodotti di poco costo di fabbricazione svedese.


35 Marco e i suoi racconti mi facevano rifl ettere su quanto arredare una ca sa per una famiglia fosse un’operazione invece molto più complessa. Non aveva in tenzione di fare cose straordinarie, di rie mpire l e st anze d i oggetti di design o di compare cristalliere costose dove mettere bicchieri, piatti e vassoi talm ente belli da essere inutilizzabili. Sem plicemente voleva, insie me a Si mona, rendere lo spazio arm onioso, ca pace di contenere e incentivare l’entusiasmo di una giovane famiglia. Mentre mi parlava, utilizzava parole come sicurezza e utilità, vantaggio e garanzia, pregio e adat tabilità e non c’è voluto molto perchè la conversazione si spostasse verso articol i sempre più distanti da me e dal mio concetto di arredo. In pratica, in poco m eno di dieci minuti siam o arrivati alle valutazioni su carrozzine e seggioloni. Assurdo come stessi mo trattando un tema i mpensabile fino a 15 giorni prima. Ha rivelato entusiasta di aver tr ovato in co mmercio un do ndolo-culla meccanico che don dolava il pargol o al suono ripro dotto delle o nde del mare, poi ha aggiunt o di volerlo comprare assolutam ente non appena sarebbe nato suo figlio. Prima che se ne andasse gli ho chiesto s e volesse fermarsi a mangiare un piatto di pasta. Io e lui, una cosa veloce. Non poteva, aveva chissà quale impegno responsabile verso terzi. L’ho ringraziato per l’armadio (anc he se non è che fosse stato così incisivo) e ci siam o rimessi a ridere ripensando alla scena di lu i con la testa schiacciata contro il muro. Sulla porta di casa Marco ha chiesto: «Allora? Hai poi iniziato a scrivere qualcosa sul serio o no? Baracca!» Mi chiam ava Baracca storpiando il cognom e del m io romanzier e preferito: Alessandro Baricco. Succedeva raramente che mi soprannominasse così; solo quando eravamo soli e nessuno poteva sentirci e chieders i di cosa stessim o parlando. Solo Marco sapev a del mio desiderio di scrivere un romanzo e dei miei mille tentativi falliti per farlo dignitosamente. «Eh no, sono stato un po’ preso» ho risposto. «Lo sai tu cosa aspetti a farlo! Secondo me hai semplicemente paura! Ah, ma prima o poi ti scatta quella cosa e vedrai che arriverà il momento in cui ti mettera i a scrivere a una velocità che ne mmeno conosci! Devi solo lasciarti un po’ andare e sono sicuro che arriverai a catturarla la tua buona storia! Comunque oh, s i intende, s ono fatti t uoi! Dai scap po, ciao Baracca!» ha chiuso prima di uscire.


36 Sono rimasto da solo a far e i conti co n le parole di Marco, perfettamente parallele alle delusioni che da tempo covavo. Brutto affare, all’ora di cena non avevo nessuna fame e solo alle 22.30 mi sono deciso a prepararm i un panino veloce. Non sono uscito, ero incomprensibilmente stanco. Mi sono m esso a letto fissando l ’armadio e pensando alla nota di novità che portava in quella camera così piccola da essere diventata velocemente familiare. Ho guardato un po ’ di tv e mi sono a ddormentato. Prima di chiu dere gli occhi, ricordo di aver sol o immaginat o il sollievo parziale che avrebbe potuto donarmi in quel momento l’esser cullato dal suono delle onde del mare sdraiato su di un maxi-dondolo meccanico.


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5. IL CORAGGIO DELLE PROPRIE SCELTE.

Marco aveva solo m esso in luce que llo che da molto te mpo covavo nell’ombra di me stesso. Dopo tutta q uella discussione m i ripe tevo, considera ndola u na br uciante priorità da risolvere, una delle sue domande: «Io e Chiara per quale assurdo motivo stiamo ancora insieme?» Ho passato u na giornata da fuggitivo, usando il lavoro come mezzo per scappare dai dubbi e dalla presa di coscienza della situazione, ma non ci sono riuscito. Era il prim o venerdì di luglio, in iziava un weekend che avrebbe dovuto essere entusias mante e il tem po tene va botta: se mbrava non volesse rovinare il clima perfettamente estivo ch e portava la gente fuori dalle case a invadere le gelaterie del centro e la passeggiata sul lungo lago. Mi sono preparato per uscire, ma non sono uscito, di nuovo. Finito di lavorare mi ero fatto un a doccia solare come tutti i venerdì d’estate, ave vo già tirato fuori la ca micia bianca a maniche corte, i pantaloni leg geri di cotone beige, e pensavo di mettere gli infradito che avevo com prato l’an no pr ima. Dovevo farmi la barba, ma davanti allo specchio, prima di spruzzar mi la schiuma sulle mani, mi sono sentito così indolente e così scarico da rinunciare. Ho rimesso l a cam icia e i pantaloni ne ll’armadio nuovo di cilie gio, ho preso il cellulare e ho mandato un messaggio a Pollo avvisandolo che non sarei uscito. Da quando Marco si era m esso con Sim ona, Pollo era diventa to il m io riferimento per saper e dove ci si trovava, dove si andava, cosa si faceva. Pollo non mi ha risposto, probabilmente ha pensato che fosse uno dei miei “bidoni” per una “scopata dell’ultim o minuto” o come di consueto non aveva credito nel cellulare. Sono andato a letto presto, con la barba da fare e con do mande a pungermi insieme alle zanzare. Mi sono rigirato diverse volte nella “piazza e mezzo” e ho lasciato la tele visione acces a senza ascoltarla, sperando di addormentarmi. Mi sono alzato e ho fu mato una si garetta senza neppure us cire sul balconcino, ho bevuto acqua direttame nte dalla bottiglia presa nel frigo, mi sono fatto un panino con lo speck, ho fumato di nuovo , mi sono messo su internet a girare per i l solito social network, ho fumato un’ultim a sigaretta e sono tornato nel letto.


38 Non ricordo come, ma alla fine mi so no addorm entato sperando che la notte cancellasse un po’ di inquietudine. Ci sono dell e volte in cu i vado a lett o con problemi irrisolvibi li che al mattino mi sembrano stupidaggini. Non possiedo un vero e proprio sonno risolutore, semplicemente certe volte dormendo sdrammatizzo. Il mattino dopo però le domande erano ancora tutte lì e mi avevano punto ben sette zanzare. Per questo motivo dopo colazione mi sono fatto la barba con la carogna sulle spalle e mi sono riempito di tagli: sembravo Freddie Krueger. E pensare che da adolescente a mavo sbarbar mi, mi faceva s entire un ometto. In ef fetti, ho inizi ato a farm i la barba che la barba ancora non ce l’avevo neppure. Era il periodo dei baffe tti di peluria, quelli che, insieme ai foruncoli sulla fronte e all’ odore di selvaggina, rappresent avano il peggior nemico di ogni adolescente. Siccome in seconda media avevo già i miei bei giri di femmine, prima che i peli nemici comparissero avevo già iniziato a combatterli. Ho fatto una guerra preventiva al mio sviluppo. Nel periodo nelle medie poi, mi lavavo in continuazione, mischiando tre o quattro ti pi d i bagnoschiu ma e mi rad evo con raso i usa e getta prodotti dalla famosa azienda delle biro. Una volta, per potenziare l’effetto rinfrescante, ho aggiunto del dentifricio alla miscela di bagnoschi uma che ado peravo per la doccia e mi ci sono lavato tutto, compreso il pisello. Adolescenti di tutto il mondo, non fatelo. Passati gli entusiasmi adolescenziali, ero arrivato a considerare la rasatura un obbligo sociale noioso e frustrante, una cosa da fare contro voglia. In settimana mi radevo solo di mercoledì, col rasoio elettrico: non veniva benissimo ma ci mettevo un attimo. Quel pomeri ggio era sabato, ero “di turno” con Chiara, e la la metta er a una prem ura che nonostante tutto le concedevo ancora. Non mi piaceva “pungerla” e prima che arrivasse mi so no ar mato del mio potente rasoio deciso a fare un lavoro da certosino. Nelle pubblicità i rasoi assomigliano alle ar mi di Mazinga: “5 lam e! Controllo ed energia infinita! Turbo vibrazione! Fascio di luce potenziante e pulsante!”. Dunque presa l’ arma di distruzione di massa in mio possesso m i sono sbarbato. Appena ho fi nito di m assacrarmi la faccia mi sono fatto la docci a e mi sono vestito.


39 Erano già le undici e m ezzo e ho m esso sui fornelli l’acqua per l a pasta. Chiara stava per arrivare e l’ aspettavo come avrei potut o aspettare un processo penale. Io e lei non ci vedevam o spesso, non tanto per nost ra scelta, quanto più una conseguenza delle circostanze, anche se ammetto che a me andava benissimo così. Studiava medicina a Pavia e a novembre di quell’anno si sarebbe laureata; poi avrebbe i niziato la specializzazione . Appena iniziato a scrivere la tesi aveva preso contatto con l’ambiente universitario d ella nostra provincia, l’intenzione era di avvicinarsi: a cas a sua, ai suoi spazi, a me. Una volta mi aveva confidato di av er deciso di voler diventa re cardiologa quand o aveva solo quattordici anni e suo nonno era m orto di infarto . A Chiara piaceva molto mostrare quanto alla base del suo futuro da medico ci fosse una vocazione sincera. C’eravamo conosciuti tramite amici comuni, niente di sensazionale, lei era al prim o ann o di università, io al terzo della mia l aurea breve. E ravamo usciti qualche volta in gruppo: gente dell’università, amicizie disincantate, cinema di do menica, aperitivi in corso, gite fuori po rta, roba del genere. Scoprendo di piacerci, c’ eravamo legati non senza perplessi tà sulle possibilità di creare un rapporto durevole. Tuttavia aveva funzionato e i primi due anni insieme li avevamo vissuti davvero b ene. Dei primi temp i ricordo le partenze di lei per tornare a Pavia. Avrei voluto dirle: «Parto con te amore mio, ti raggiungo e vengo a stare dove stai tu.» Anche se non l’ho mai fatto. Finché il nostro rapporto è diventato stanco. Non ho memoria del momento preciso in cui ho smesso di provare quello che provavo, credo però che sia succ esso progressiva mente, a piccole dosi, come un vaccino un po’ crudele. Non credo che qualcuno avesse delle vere proprie colpe in questa cosa. Certo, Chiara non era u na ragazza p erfetta: era capricciosa e un po ’ indolente, a volte snob, e dal canto mio ero persino arrivato a considerarla una persona sostanzialmente noiosa e non particolarmente dotata, anche se non l’ho mai rivelato a nessuno. Cinico, vede vo in lei dif etti che su altre persone non avrei considerato nemmeno. Troppe volte avevo sentito dire da uomini in crisi che la loro donna, compagna, m oglie, er a praticamente perfetta e che se il rap porto non aveva funzionato era perchè erano stati loro quelli “sbagliati”. Vivere la st oria con Chiara mi ave va insegnato che si curamente i o “giusto” non lo ero, ma anche che neppure lei lo era; piuttosto era il “noi”


40 a non funzionare da parecchio tempo ed era urgente che prendessimo delle decisioni. A dire la verità, più ci pensavo e più mi era difficile capire per quale assurdo motivo stessimo ancora insieme, eravamo così diversi. Scavando, frugando nei p osti più sinceri di m e, avevo capito da diverso tempo quanto fosse l’ abitudine a te nerci insie me. Da molto avevo abbracciato l ’idea che nel tem po ogni rapporto dive ntasse così. Mi ero abituato, m i ero om ologato ai tanti uo mini “Giocatori tristi che sono innamorati da dieci anni con una don na che non hann o amato mai” di cui parlava Francesco De Gregori. Vero è che qualche anno prima, con uno slancio di onestà verso lei e verso me st esso, a vevo provato a las ciarla e le avevo s velato, sicuro di un coraggio che non mi facevo, di non amarla più. Lei era scoppiata in lacrime e aveva pianto in u n modo mai visto, una disperazione e un dolore che mi tagliava, mi feriva dentro. Avevo cercato di consolarla, ma più m i avvicinavo a un distacco definitivo più avvertivo la colpa di volerla abbandonare. Pe nsavo che senza di me non ce l’avrebbe mai fatta e ho ipotizzato persino che lontana da me non avrebbe più voluto vivere. Il coraggio che mi aveva acco mpagnato fino a quel m omento si era dissolto in nulla e quel giorno, in quel momento, avevo sentito la responsabilità per la sua vita. L’avevo baciata, l’avevo stretta, l’av evo lenita e avevo giurato ch e non ci saremmo mai più persi. Ad appena un’ora dalla ritirata avev amo fatto l’ amore e nell’ arco di un paio di mesi eravamo tornati a essere quelli di sempre. Tutto si era messo a posto, tutto era tornato nella nostra abitudine. Non si dovrebbe mai credere di essere indispensabili per la vita di un’altra persona: è un grosso sbaglio. Tradivo Chiara regolarmente, sem pre e solo storie di sesso co n donne comunque meno interessanti di lei. L a tradivo come se volessi farle espiare la co lpa di avermi tenuto legato a sé con l’ar ma dell’ affetto, lo facevo co me se ade mpissi a una m issione cinica e spietata. Ogni tanto succedeva che mi s entissi vigliacco o sporco e, per lisciar mi i peccati , avevo iniziato a convinc ermi che ac cettare di es sere vile, traditore, disonesto, fosse una cosa che rendeva uomini, fosse un passo di crescita. Chiara quel sabato di luglio è arrivata che mezzogiorno.

mancavano dieci minuti a


41 È entrata in casa guardandosi in giro come un’ estranea: non si er a ancora abituata al mio appartamento. Rispetto a me era molto meno abbronzata e molto più serena: la vita universitaria che conduceva era di quasi completa dedizione verso lo studio, ma non dava l’idea di esserne stanca. Indossava pantaloncini bianchi a mezza ga mba, una canotta un poco aperta sul decolté e degli infradito co modi, bianchi anche loro, che aveva mo comprato in vacanza a Rodi. Era bella senza dover fare un solo sf orzo per esserlo e co mplessivamente e manava un’ immagine abbastanz a lontana dalla tipologia di ragazza che ritenevo lei fosse. Aperta la porta, ci siamo dati un frettoloso bacio sulle labbra. Le ho chiesto: «Trovato casino a tornare?» Lei ha risposto solo «Pensavo peggio.» Erano quindici giorni che non la vedevo, ma non ho aggiunto altro e sono andato verso i fornelli per buttare la pasta. Cucinare mi è sem pre piaciuto. Sono convinto di esser e anch e bravo, anche se la critica da pareri discordanti. Diciamo che sono un po’ pasticcione, soprattutto nei primi piatti. Quando faccio un sugo apro il frigo e speri mento: ci butto un po’ di tutto nei miei sughi. Sperimentare abbinam enti im probabili mi ha regalat o piatti gustosissi mi come la c arbonara con la salsic cia pic cante o la pasta “pat ate speck e scamorza” o le mitiche penne “zucchin e, rucola e g amberetti”. E ccedere nella creativi tà mi ha anc he portato a flop clam orosi e posso dire con assoluta cert ezza che la salsiccia fre sca messa a bollire con la pastina produce una schiuma giallastra e vomitevole. Qualche anno fa, visto che i m iei er ano partiti per le vacanze portandosi Enrico, avevo invitato la banda a mangiare da me. Mentre cucinavo avevo chiesto a Davide di recuperare dal ba lcone della salvia. Stavo per esibirm i in uno spettacolare “trito verde” d’ avanguardia: bas ilico, salvia, menta, olive, rucola. Davide la salvia non la tr ovava e av evo do vuto pro vvedere di p ersona a reperirla, se nza di menticare, da ve ro perfezionista, di sottolineare l’inefficienza del mio amico. Salvia e lavanda, per quanto mi riguarda, si somigliano moltissimo. È solo che una delle due scatena coliche devastanti, tanto che il fenomenale “trito verde” da me proposto aveva co ndannato tutti a uno spietato avvicendamento continuo al cesso.


42 Quel pom eriggio f ortunatamente avev o considerato che Chiara, dop o il viaggio in macchina, non avrebbe a pprezzato funambolici accostamenti e avevo optato per un classico: linguine al pesto. Riassumendo quel pranzo potrei raccontare sem plicemente che ho preso dal frigo una bottiglia di Verdicchio, ci siam o messi a tavola, abbiam o pranzato e ci siamo lasciati. Quella picco la discussione con Marco il gior no prima aveva sm osso irrimediabilmente il mio torpore e, m entre pranzavam o, non facevo che pensare a quanto non avrei voluto che Chiara fosse lì con me. È feroce da raccontare, ma lei prendeva una forchettata di linguine e io cercavo di ricordarm i in che modo era diventata un im pedimento al mio benessere, un dovere da espletare pur di non s convolgere l e nostre traiettorie sentim entali. Lei si versava del vi no e i o, scoppi di piccole cariche esplosive, ripensavo alle bugie, alle copertu re, alle o missioni su cui si fondava la nostra relazione. Lei parlava dell’ esame di neurofisiologia e io cercavo di rico rdarmi quanto allenam ento mi fosse servito per imparare a disporre i muscoli facciali in una posa neutra, dalla quale non trapelasse nulla, nessuna incertezza, nessuna disarmonia. Quando ha term inato un lu ngo di scorso sulla com petizione tra specializzandi, una tiritera che mi ero perso quasi co mpletamente captando solo parole qua e l à, si è purtroppo accorta del la mia disattenzione e si è fermata bruscamente domandandomi scocciata: «Oh ma mi stai ascoltando?» Ho cercato di fare una rapi da sintesi del le parole memorizzate sparse, ma non ri uscivo veram ente a recuperare il senso di q uello mi stav a raccontando, così ho rinunciato al tentativo. «Scusa, ero sovrappensiero.» «Vedo, non mi ascolti.» «Non è che non ti ascolto, pensavo ad altro.» «Sì, dai, meglio non dir niente. Del resto, se non mi ascolti nemmen o dopo due settimane che non ci vediamo è evidente che quando parlo per te è irrilevante. Non ti dico più niente, tanto è aprir boc ca a vanvera per te.» Ed è rimasta zitta. «Oh bella, se i nervosa? G uarda che se sei stanca pe r il viaggio o per lo studio o per i cazzi tuoi, non è che puoi venire qui a prendertela con me!» ho replicato scocciato. Sul momento ero davvero convinto c he esagerasse, o che co munque dovesse porsi diversamente nei miei confronti.


43 Nel parlare c on lei poi, esibivo la durezza e la spiet atezza di chi si sent e superiore, autonom o. Colpita dalla mia reazione, Chiara è rimasta in silenzio e non ha nemme no bevuto più vino, quasi non volesse prendere che lo stretto necessario da me. Abbiamo finito il pranzo come estranei allo stesso tavolo di un ristorante ma per quant o avesse ragi one nel dire che non l’ ascoltavo più da molto tempo, non mi sentivo in dovere d i recuperare il di alogo o porgere delle scuse. Pens avo anzi a quante volte aveva reso anche miei i suoi problemucci con colleghi di studio, assist enti di ricerca, docenti, compagne e a miche. Mi sentivo più che giustificato per esser mi comportato in quel modo sgarbato. In fond o p oi credevo che co me sempre la tensione tra noi s arebbe lentamente sfumata e che l’aria si sareb be normalizzata. Invece C hiara ha depositato il suo piatto nel lavello ed è scattata con una carica inaspettata. «Senti Paolo, se non ti i nteressa la mia vita, se un giorno vu oi s tare da solo e non hai voglia di vedermi dimmelo, almeno mi risparmio la strada.» Aveva la voce piena di amarezza. Con collaudata imprecisione ho tentato di rabbonirla. «Ma no Chiara, figurati se non m i interessa quello che ti succede. Già non ci vediamo mai , se poi ogni volta che ho la testa per aria ti devo avvisare di stare a casa finisce che ci incontriamo ogni sei mesi. Non preoccuparti, è che ho anc h’io i m iei c azzi sul lavor o. Capisco la tua delusione, ma t i assicuro, ora ti ascolto! E se non vuoi pi ù ritornare sulla cosa, cam biamo discorso. Pensiamo al we ekend, che vuoi fare? Lago? Mercatini? Dimmi tu!» Non che mi interessasse seriamente appianare la co sa. Mi se mbrava solo che recuperare toni più amabili richiedesse minor sforzo rispetto all’intavolare una discussione ragionata sulle m otivazioni che di fatto m i avevano reso la vita di Chiara quasi del tutto priva di interesse. «Appunto! Non ci vediamo mai e quando mi vedi non mi ascolti neppure, vedi? Stai già parlando di altro» ha però ribadito lei. Avrei potuto compiere un ulteriore passo, forse l’u ltimo e il decisivo per chiudere la q uestione, perché la voce d i Chiara si era già ammorbidita e, nonostante non mostrasse spiragli di riconciliazione, sapevo che la tregua, volendola, non era lontana. Era entrata in casa mia d a quarant a minuti e già stavam o litigando; del resto la cosa non mi sorprendeva. Ho fatto per dire qualcosa che la cal masse del tutto, poi però ne ho detta un’altra.


44 «Chiara ma tu sei ancor a felic e con me? Cioè, ma noi sti amo bene insieme?» Non ho frenato in tempo. Di solito le nostre litigate si proiettavano rapide come slitte lanciate verso dirupi di dist acco definiti vo ma, pr ima del salto, uno dei due azi onava i freni. Questa volta nessuno aveva frenato. Non so nemmeno dire perchè le ho posto quella dom anda, non volevo, non era mia intenzione andare così o ltre. Incredibile co me quelle parole siano uscite dalla mia bocca: vomito incontrollabile, rigetto di coscienza. Al contrario di quello che mi aspettavo, Chiara non si è minimamente scomposta e ha iniziato, quasi cal ma, un lungo discorso su cose ch e avrebbe voluto dirmi da tempo. Si trattava di questioni che pensava, ne era sicura, di aver risolto da s ola. Stati d’animo che aveva soffocato per tanto tempo, ma ancora latenti. Come non succedeva da mesi, ascoltavo con attenzione. Non avevo mai pens ato prima di allo ra che fosse capace di co nfidarmi certe cose, così simili alle mie am arezze; non credevo neppure le potesse pensare. Frustrazioni, ansie, recriminazioni e delusioni perlopiù. Non avevo colto quello che era arrivata a pensare di noi. «No che non sono felice. Come potrei esserlo? Sono c osì stanca di fingere che tu non sei un problem a e ch e il nostro rapporto n on è così compromesso. Lo è Paolo, è andato! D obbiamo decidere di noi, perché così non posso più andare avanti» ha ammesso. «Cosa dobbiamo fare? Cosa vuoi che dica?» «Dimmi quello che vuoi, ma dillo con tutto te stesso.» «Non so, cosa si dice in casi come questo?» «Vedi?» «Cosa?» «Non hai neppure la capacità di ammettere che è finita.» L’impronta teatrale delle sue parole non era voluta, era data dalla consapevolezza di una co ppia che ter minava il c ammino. Asp ettative, progetti condivisi, ipotesi sul futuro, prospettive comuni: tutto in frantumi. Chiara mentre parlava aveva gli o cchi lucidi e velocemente lo sono diventati anche i miei. Con le lacrime a coprirci il volto , c’è stato un m omento, una frazione di secondo, in cui ci siamo avvicinati e avremmo potuto lo stesso baciarci. Quello deve esser e il punt o di non rit orno, il m omento preciso i n cui si decidono le sorti di una storia, almeno credo. L’esperienza di qualche anno prim a ha im pedito che cad essimo in u na nuova trappola dell’abitudine; sapevamo tutti e due di avere l’anima ormai


45 inquinata uno dall’altro e con la voce rotta, un po’ ridendo per la stupidità della domanda, un po’ pia ngendo per il va lore della risposta, ho chiesto a Chiara: «Dunque ci stiamo lasciando?» E lei piangendo un po’ più forte ha risposto «Sì.» Chiara è tornata a casa sua. Prima di uscire, con gli occhi gonfi in due, ci siamo dati un bacio. Non so co me dirlo, ma quello era già un bacio diverso, un bacio consapevole dell’addio. Sono rimasto sul divano, in mutande e a torso nudo, una birra in mano. Mi venivano in mente un sacco di cose, pensavo a me e a Chiara a Rodi l’anno prim a, al capodanno in m ontagna, alle mille litigate per nulla, a cosa avrebbero detto i su oi e i m iei quando avre bbero saputo che ci eravamo lasciati, al suo compleanno, che sarebbe stato tra un mese e dopo anni l’avrebbe festeggiato sola, a quella volta che avevamo fatto l’amore a Firenze, alla prima volta che avevo cucinato per lei e a quando, p rima di dormire, l’abbracciavo. Ho pensato a immagini sparse per una buona mezz’ora. Era strano perché, appena rim asto solo, iniziavo i mmediatamente a rivalutare tutto il percorso fatto insie me. Avre i voluto essere g ià abbastanza distante per stilare un bila ncio realistico, l ontano dalle euforie degli inizi e dalle amarezze della fine, ma non era così. Il mio stato d’anim o oscillava tra l a delusione per il falli mento e l’impotenza. Perché una storia che finisce è inevitabilmente un fallimento. In più consid eravo, amara consuetudine, quanto non f ossi stato capace di decidere. Non avevo scelto, non avevo avuto il coraggio e con vera codardia maschile avevo m esso Chiara nella condizione di f arlo per me. Certo, avevo alzato un polverone e fatto doma nde cruciali, l’ avevo trascinata in mesi e mesi di rapport o asettico e senza scam bi, ma l’idea di poter essere stato così machiavellico non mi piaceva affatto, anzi, mi urtava l’orgoglio. Ragionando, ho realizzato che avrei dovut o mettere le mani sulla mia vita prima o poi, ma la cosa mi faceva una paura cane e co me sempre mi sono messo in sosta, posticipando ogni sbilanciamento sul da farsi.. Ho finito la birra e ho pianto a dirotto. In un m omento i ndefinito del gi orno mi sono add ormentato sul divan o; quando mi sono svegliato ho pianto ancora.


46 Fortunatamente, piangendo e dormendo, è arrivata sera. Non sono uscito; serate sovrapponibili le mie, familiari stati di indolenza e di abbandono, forse tristezza, si curamente atte sa. Poi però, dormendo definitivamente, ho smesso di piangere.


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6. TERAPIA D’URTO.

Anche la domenica sono rim asto a casa. Ho passato tutto il week end tra letto e divano, nutrend omi di affettato e surgelati e guardando tanta, troppa televisione. La barba mi è cresciuta con una velocità insolita, tanto che, se avessi fatto pass are qualche altro giorno senza r adermi, sare i diventato uguale a Tom Hanks in Cast Away. Mia madre ha chiam ato domenica mattina per chiederm i se io e Chiara volessimo pr anzare da lor o: non le ho raccontato nulla, ma ho declinato l’invito dicendole che ave vamo deciso di andare all’outlet di Serravalle e che saremmo partiti prima di pranzo. Non ci sono mai stato a Serravalle, però è la mia scusa preferita. Quando mi invitano a fare qualcosa che proprio non mi va dico sempre: «Mi spiace tanto m a vado a Serravalle per acquisti.» Poi se qu alcuno mi chiede «Cos’hai preso a Serravalle?» Rispondo che «Non ho trovato nulla, tutta robaccia.» Passo sempre per lo stupido che si fa centocinquant a chilo metri per non comprare nulla ma non mi importa, è una scusa che regge. Ha chia mato anche Pollo dom enica per chiedere s e Chiara and ava via presto e potevamo mangiarci una pizza insie me noi due. Ha anche parlato di un noleggi o camper co nvenientissimo, un posto d ove aveva co mprato la roulotte u n suo colleg a e dove pot evamo essere sicuri di m etterci in buone mani. Anche a Pollo non ho detto nulla, non mi andava di dire niente a nessuno. Generalmente non sono una person a riservata ma in quell' occasione desideravo riparami da tutto il tessuto sociale che av evo intorno. Vedevo casa mia come una grotta e mi sentivo sicuro quanto più ero lontano dalle opinioni altrui. Ho spiegato a Pollo che non potevo, senza giustificarmi, e gli ho dato carta bianca per il noleg gio del m ezzo dicendogli che , se per lui andava bene, andava be ne per tutti. Il ti mbro di voce di Pollo ha perso entusiasmo, ma non ha fatto particolari co mmenti e non ha vol uto sapere altro. Ci sono delle cose che non si dovrebbe ro mai fare q uando si esce da una storia: io le ho fatte tutte. Una vena di masochismo che mi port o dentro da se mpre, soste neva l a convinzione che se avessi sofferto di brutto subi to sarei stato meglio


48 prima. Ho sperato di “gua rire” il prima possibile e p er la terapia mi sono rivolto alla “Dottoressa Musica” selezionando dal l’archivio m usicale il meglio in mio possesso per l’istigazione al suicidio. Alle quattro del pomeriggio osservavo, ben disposte sul tavolo della sal a, tutte le foto con Chiara, ascoltando Massi mo Ranieri in “ Perder e l’amore”: una combo devastante. Ho pass ato nello stereo di verse canzoni che consideravo terapeutiche e non m i stupiva la facilità che avevo nel trovare titoli adatti al mio stato d’animo, anzi, mi compiacevo di consid erare quanto la fine di una storia d’amore, fosse ispirazione comune per autori a volte diversissimi. Preso da tutta l’em otività che trova vo nella m usica, m i sono messo al computer e ho provato a scrivere qualcosa. Ormai erano mesi che scrivevo, lo facevo quasi ogni sera. Iniziavo una pagina di un racconto che parlava dell’Africa o di un grup po di am ici o di un barist a di quar tiere, inquadravo l ’ambientazione, delineavo i personaggi e l ’intreccio che avrebbero creato le loro azioni, iniziavo la stesura con una frase che per qualche motivo m i sembrava più adatta di altre, andavo avanti un pezzettino e... cancellavo. Non mi sono mai considerato qualcosa di pi ù che u n amatore del gesto; riten evo che scrivere fosse qualcosa di poetico, oltre a essere un formidabile modello di auto-analisi. Mi dispiaceva non avere traccia alcuna di tante piccole costruzioni fatte con le l ettere, ma mi entusiasmava l’ idea che partendo ogni v olta d a un fogli o bianco sull o scherm o, avrei avuto infinite possibilità di creare qualcosa di nuovo. Inoltre ripre ndere con dedizione u n percorso già iniziato avrebb e significato escluderne altri e m i avrebbe portato alla scrittura vista co me impegno, promessa, mentre io volevo scrivere solo per scappare un po’. Ero persino arrivato al punto di scriverci su questa cosa: La fuga, la stori a di un rom anziere che lavora ogni notte e cancella ogni mattina, Penelope di un libro che non leggerà mai. Un personaggio del genere sì che lo farei suicidare. Quella domenica pomeriggio ho scritto tanto e non ho scritto nul la, come al solito. Mentre scrivevo, mi sono ricordato dell’ironia di Marco che mi chiamava Baracca e che forse davve ro pensava che non avrei mai scritto niente. Non mi dava fastidio l’idea che Marco mi considerasse incapace di portare a t ermine qualcos a, piuttosto mi s eccava essere così co nsapevole di quanto avesse ragione. Co munque dopo aver riletto l’ inizio di una storia che parlava di una città dove la gente è infelice perchè n on può morire, ho cancellato il tutto con de terminazione con un solo di to e sono uscito sul balcone a fumare.


49 La musica selezionata r iempiva anc ora l’ appartamento e co priva il sottofondo di cicale, d’ estate e di cald o che arrivava dalla stra da. Una canzone descriveva meglio di altre la fine del per corso, la deriva del viaggio che aveva mo f atto io e Chiar a. L’ ho ascoltata diverse volte di seguito e più tardi, andando a letto co me un pension ato alle sette di sera, ripensavo alle parole del testo e mi sentivo un po’ più leggero. Ci si sceglie per farcelo un po’ in compagnia, questo viaggio in cui non si ripassa dal via. Alle 20.00 già dormivo. Lunedì mi sono svegliato alla solita ora per andare al solito lavoro e, come una maledizione, ho scop erto che quella sar ebbe stata la cla ssica giornata “Malpredi”. Era una cosa che aveva mo inventato io e Marco al liceo: le gi ornate “Malpredi” erano per n oi le giornate sfigate, quelle che, dove ti muovi ti muovi, fai u na cazzata. Quando picchi col ditone del piede contro la gamba della sedia, magari appena sveglio; quando ti accorgi che hai finito il dentifricio e non ne hai in casa; quando nell’uscire dal parcheggio di casa, manovra fatta un milione di volte, righi la macchina. Il nome è i n onore del grande professore di filo sofia della q uinta B “Vittorio Malpredi”, uomo noto alle cronache per la sua goffaggine, capace di sporcarsi almeno una volta a settimana bevendo il caffè, unico al mondo in grado di m ettere sotto il preside facendo retro marcia. Uomo glorioso. Nella mia giornata Malpredi di lune dì sono riuscito nell’ordine a: 1) scatenare un principio di i ncendio in casa, accendendo il fornello grosso senza badar e alla pres enza sullo ste sso di un an golo di t ovaglia; 2) spezzare la chiavetta della casella di posta nell’ apposita serratura; 3) dimenticare sigarette e badge a casa, arrivandone sprovvisto al lavoro. Al lavoro poi , la congiura cosmica ha lasciato spazi o a una piaga ancora più insi diosa: il pettegole zzo. È incredibile com e le persone con cui condividi il posto di lav oro indi viduino i tu oi stati d’an imo e i tuoi momenti di d ifficoltà con fenomenale intuito. L’azienda dove lavoravo io poi era un centro di addestramento per segugi specializzati. Col m orale in pessi mo stato ero andato al lavoro solo per dovere di servizio, cercando di non dare nessuna avvisaglia della crisi interi ore che mi stava tormentando. Prim a di entrare mi ero dato una re gola di sopravvivenza per la giornata: non far trasparire in nessun modo e per nessun motivo quel momento di disagio. Sicuro di riuscire, ero convinto di poter si mulare le stesse movenze e gli stessi at teggiamenti di ogni


50 giorno con disinvoltura costruita. Al limite, sarei sembrato solo un po’ più silenzioso del solito. Il primo inco ntro della mattina l’ho fa tto davanti all’atrio. Ho incontrato Gianna, la p anterona dell’ufficio acqu isti. Gianna l avorava lì de ntro da molto più tem po di me ed era una cinquantenne no n bella, ma tenuta e lucidata co me un’ auto d’ epoca, con una vita s essuale piuttosto discuss a. Con i capelli nerissi mi, ri cci e gli oc chiali di plastica rossi, ri cordava la signorina Silvani di Fantozzi ma leggermente in meglio. Stava bevendo il caffè ai distributori aut omatici e, appe na sono entrat o, mi ha salutato con un sorriso largo di denti ingialliti dai tannini e dalle sigarette. Sono certo di averle risposto sem plicemente «Ciao Gianna» in m odo frettoloso per divincolarmi dallo sguardo che già mi sem brava curioso, poi mi sono avviato verso l’ufficio. Eppure non ho fatto in t empo a chiamare l’ ascensore che lei è passata accanto a me per osservarmi. «Paolo, ma che faccia scura, hai dormito male? Sei arrabbiato o ti è morto il gatto? Ah questi giovani di oggi...» «Brutta troia coi denti gialli che ti sei fatta scopare da cani e p orci qui dentro, m a che cazzo vuoi da me? Perché non ti i mpicchi invece di rompermi i coglioni ?» avrei vol uto rispondere, ma in effetti mi sono limitato a un più banale «No, niente di che, ho solo sonno.» Prima che l a porta dell’ascensor e si chiudesse t ra noi venendom i in soccorso, Gianna mi ha regalato un’altra delle sue perle. «Eh si, questi ragazzi, come si dice: alla sera leoni al mattino coglioni!» Tentato dal decapitarla con le porte scorrevoli dell’ascensor e, ho invece sorriso per inerzia e l’ho salutata di nuovo. Gianna era sola la prima. Nell’ordine: Mirella del centralino, Patrizia della contabilità, il dottor Pigozzi e per fino Paolona delle pulizie mi hanno ris ervato commenti sul mio modo di comportarmi, per loro chissà perché anomalo. «Oh, ma che hai?» «Tutto bene Paolo? Sei strano oggi.» «Ma sei malato, vuoi una mano?» Sembravano tutti sinceramente preocc upati e io subivo quella curiosit à malcelata e condita da s orrisi rassi curanti, quei piccoli movimenti di conforto, quelle posture aperte di disinteressata disponibilità, con la stessa insofferenza che avrei potuto provare di fronte a un tea m di a ssicuratori intenti nel propormi una polizza vita.


51 Intuendo qua lcosa dal mio m odo scar so di m ascherare le cose, tutti volevano sa pere, tutti e rano curiosi di capire cosa mi turbasse e, sopratutto, tutti non vedevano l’ora di dire la loro. Io com unque resistevo trincerandom i dietro l ’esecuzione dei soliti gesti, ovvero tenendo aperta la f inestra della contabilità or dinaria e giocando a Spider col computer. Finché a un tratto si è ape rta di scatto la porta dell’ ufficio ed è entrato in scena il mio incubo. «Ciao Orlando! Mi hanno detto che sei arrabbiato. Oh, io allora ti lasci o stare, sennò mi mangi!» Prendeva servizio il peggi ore di tutti: F rancesco De Ponti. Dopo tre anni in aziend a ero arri vato a provare per quella persona un’assoluta, totale, incondizionata ostilità. Non sopportavo nulla di lui, non la sua stem piatura larga e i suoi capelli fini, m ossi e unti; non la su a falcata appesantita e oscillante di quando camminava per i corridoi; non il timbro meschino e piatto della sua vo ce, né il suo modo di vestire poco creativo e barocco, né l ’odore di sugo con tr oppa cipolla che emanava. L’avevo soprannominato, sfruttando le iniziali congeniali, FDP. In effetti Francesco De Ponti era davvero un gran FDP. Una delle persone più ser vili, fintamente modeste e arriviste che ho mai conosciuto. Uno che ave va fatto quel poco di carriera solo gr azie alla sfacciata quanto falsa disponibi lità verso i superiori. Tanto bravo a prodigarsi ve rso l’ alto, quanto capace di trasfor marsi in un incredibile bastardo verso i subalterni. In ditta i rapporti tra me e FDP erano ben definiti: compiti sovrapponibili, una posizion e paritaria nell’organigramma azienda le, condivide vamo lo stesso uffici o, la stess a grande scriv ania di for mica bianca, l a ste ssa fotocopiatrice. Null’altro. Ciononostante, all’inizio della m ia ca rriera lavorativa avevo su bito la natura dom inatrice e il fastidioso vizio di delegare gli im pegni che si prendeva solo per com piacere il Dottor Pigozzi. Fortunatamente, nel tempo, mi sono fatto duro e impenetrabile. Credo che nu trisse una smisurata invidia per il mio naturale magnetismo verso le donne, nonostante fosse sposato e sua moglie fosse pure una bella donna; stronza come lui, ma bella. Quando è entrato quella mattina, avre i vol uto r ispondere alla t esta di cazzo con cui mi toccava di dividere l’ufficio che, se fossi stato veramente arrabbiato, il fatto che lui venisse a stuzzicarmi in quel modo, dicendo con quel sorrisin o falsissim o « Sennò m i mangi» sarebbe stato la causa della sua immediata morte per mia mano.


52 Invece ho dato un ulteriore strappo al rotolo della pazienza e ho risposto: «No, no, tranquill o Francesco, mai mangiato nessuno. Com unque non sono arrabbiato.» E mi sono rimesso sul computer. Nelle ore della mattina che passavano lente come mai, la discrepanza tra i pensieri e le azioni si al largava. Avrei dovut o co ntinuare a v estire le riflessioni a mare con co perte di sorrisi, ma alle u ndici e un quarto ho irrimediabilmente co mpromesso la settimana. Non sopportavo più gli occhi di FDP che mi studi avano aldilà della nostra scrivania co mune. Il bastardo alza va continuamente la test a dai pochi fascicoli sulla sua parte di banco, incessantemente e con occhi maligni e sfuggenti. E quando ha chiesto « Paolo beviam o u n caffè? Così mi racconti cosa ti turba!» l’ho guardato duro e gli ho risposto con franchezza. «Senti Francesco, in questo weekend mi sono lasciato con Chiara. Lo sai, erano cinque anni che sta vamo insieme e, norm almente, m i ci vorrà un attimo per riprenderm i. Del resto è tutto un perio do un p o’ inc asinato. Sono sol o u n po ’ sbattut o, chiedo sol o un po’ di silenzio e solo og gi. Facciamo una tregua dalla nostra cont inua rivalità, solo per oggi, e che rimanga tra noi per favore.» «Ok, capisco!» ha risposto senza far trapelare segni di compiacimento. Per la pri ma vota FDP mi è addirittura sem brato capace di esser e “normale”. Alle cinque e mezza, ora in cui uscivo solitamente dall’ufficio, perfino Kamil, operaio a contratto presso l’ impresa edile che stava ristrutturando il terzo piano, cingalese, in Italia da 15 giorni, 18 parole di italiano in tutto, sapeva che io e Chiara, la mia fidanzata da cinque anni, c’ eravamo lasciati. Desideravo solo che FDP e il virus Ebola si incontrassero. Per l’intera g iornata, mano a mano che la notizia girava, chiunque si è sentito in dovere di venire a marcar visita pur di regalarm i perle di saggezza mai sentite prima d’ora. «Morto un papa... Si chiude un porta... Non era que lla giusta... Magari è una cosa reversibile... Sei giovane... Le donne sono tutte puttane... Per me ha un altro... Adesso però puoi divertirti....» Un incubo. Volevo solo lavorare, in silenzio, ma ho ascoltato tutti, per tutta la giornata, senza mai dare segni di insofferenza. È stato un esercizio di auto controllo durissimo. Tornato a casa, dopo la doccia, ho chiam ato Susanna e ci si amo dati appuntamento al solito posto.


53 Susanna era sola: era il mio rifugio, il mio peccato originale, la mia fuga. L’avevo conosciuta tre an ni prima, quando lavorava per il period o estivo in un bar: caschetto biondo, corpo so ttile, seno leggero m a presente, collo da baciare. Dieci anni più vecchia di me, un marito che lavorava all’estero e due figli. All’inizio aveva praticam ente fatto tutto lei: mi aveva cercato, sedotto, reso schiavo. Le prim e volte, quando avevo avuto bisogno di lei ero andato di rettamente a casa sua, ma non appena Michael, il pr imo dei suoi figli, era stato abba stanza grand e per capire, aveva mo iniziato a frequentare i m otel. Ci tr ovavamo se mpre nello stesso posto, davanti a un’area industriale ormai dimessa, e ricordo che l’aspettavo in macchina come fossi u n cri minale, cercando di riconoscere i l momento del suo arrivo dai fa ri delle m acchine che pas savano. La v oglia di compiere il peccato, il di sgusto per non riuscire a fer marsi. Quando arrivava non ci salutavamo neppure, sol o un cenno prima di partire. Ognuno con la propria auto e i propri pensieri. Nessuno sapeva di noi, neppure Marco. Consideravo gli incontri con Susanna come su un piano distaccato, parallelo alla mia vita, ma lo stesso lontano. Io e lei ci incontravamo in una dimensione inviolabile. Susanna non era per me solo una be llissima donna che dim ostrava meno degli anni che aveva; di lei vedevo le fragilità e la solitudine, di lei stimavo la capacità di rimanere in piedi comunque, in tutte le sfaccettature dell’esistenza, di lei appre zzavo la solidità delle intenzioni e l’ assoluta assenza di pentimento quando prendeva una decisione. Con lei ho fatto tutto il sesso che ho desiderato. Tutto quello che non ho mai osato chiedere a una donna l’ho ch iesto a lei. No n ci siam o mai dati regole, niente filtri, nient e convenzioni. Ci si amo scaricati il p eso dei reciproci malumori sulla p elle. Scopando selvaggiamente, ci siamo leniti le ferite per tre anni. Pensando alla nostra situazione, m i ricordavo q uanto a vent ’anni m i disgustasse p ensare che so tto l’ apparenza di un a mbiente normale , in un contesto normale, nella vita de lle persone normali, potesser o esser e sepolte a mbiguità e m iseria, segreto e desolazione. Ora che mi sentivo immerso in quella obiettività, come un personaggio di American Beauty o di Ey es wide shut, il disgusto mi era diventato tollerabile, persino familiare. Ho provato d iverse volte a troncare con Susanna, forse per Chiara, forse per quel residuo di educa zione cattolic a che mi faceva sentire la colpa come un peso insostenibile sull’ anima, probabilm ente perché ho sem pre saputo che era una cosa sbagliata, intrinsecamente sbagliata.


54 Ogni vo lta che la vedev o m i giura vo che sarebbe stata l’ ultima e le comunicavo la decisione come fosse inc ontrovertibile. Lei m i rid eva in faccia, consapevole che sarei tornato. Tornavo da l ei giurandomi di nuovo che sarebbe stata l’ultim a volta, un circolo vizioso di sesso e incontri a fari spenti, bugie e sensi di colpa, del quale ero vittima e responsabile. Quella sera q uando l ’ho chiam ata non le ho detto m olto al telefono, h o solo aspettato che rispondesse con impazienza quasi rabbiosa. «Stasera puoi?» le ho detto subito. «Sì.» «Solito posto?» «Ok...» «Allora a dopo...» «Paolo...» «Dimmi.» «Fammi male stasera.» «Ok.» «Ciao.» «Ciao.» Susanna amava essere picchiata, picchiata forte. Non la capiv o molto co me cosa e all’ inizio mi i mbarazzava, epp ure nel tempo avevo forse compreso co me qu ella foss e un a sua for ma di autopunizione e, anche se non mi sentivo troppo a mio agio, la picchiavo forte. Anche quella sera l’ho picchiata con violenza, proprio come piaceva a lei. Non appena si è chiusa dietro di no i l a porta della cam era del m otel, abbiamo iniziato una danza brutale composta da baci dati con foga e prese irruente, strette ossessive e schiaffi, m orsi dolorosi e odore di sesso, sudore sulla fronte e sospiri di piacere, poi di dolore, poi di piacere ancora. Abbiamo scopato com e cani, um idi, selvaggi, disabitati dalle nostre anime. Non le ho neppure detto di Chiara, né di Marco che si sposava, né di FDP, che avrei voluto vedere morto. Non ho dovuto raccontarle le delusioni, mi è bastato scaricargliele addosso nel nostro ballo crudele. Sono m orto con lei, dentro e sopra il suo corpo, e solo dopo qualche minuto di t otale assenza h o preso cogn izione di m e e mi sono rivisto in quel letto di motel con Susanna inerme a fianco. Di nuovo eravamo divisi, ognuno nella propria vicenda. Mi sono acce so una sigaretta e gliene ho offerta una. Credo di non averla neppure guar data negli occhi, perchè mi sentivo com pletamente lontano


55 da lei e da tutto quello c he era appena succe sso, quasi estraneo a quel nostro brutale battesimo. Guardavo dri tto e davanti: la moquette co me non si usa più sull e pareti della stanza, la televisione a scherm o piatto di marca sconosciuta, gli specchi sparsi in abbondanza, ma senza un reale criterio. Mi sono alzato e mi sono infil ato già fuggi tivo sotto la doccia. Son o tornato in camera ancora bagnato con l’asciugamano fissato alla vita. «Susanna questa è l’ultima volta.» «Lo dici sempre.» «Lo so, ma stavolta è diverso.» «Anche questo lo dici sempre» «No, davver o, cerca di capir mi. Stanno accadendo tante cose in questo periodo: fatti ed effetti che rischiano di stravolgere completamente il mio modo di ved ere le cose e di vivere . Sto cam biando, voglio cam biare, le persone che mi stanno intorno stanno cambiando...» Lei mi ha lasci ato parlare senza sco mporsi, sem brandomi quasi comprensiva, per assurdo quasi materna. Avevo la sensazione che stess e comprendendo perfettamente il senso delle mie parole, nono stante io stesso ne fossi così asso rbito da non riuscire a traccia re un discorso limpido. Ho concluso quel tormentato monologo con una specie di ammissione di colpa e una vera dichiarazione di intenti. «Cosa ho f atto negli ultim i anni p er esser e migliore? Come sono cresciuto? Cosa voglio davvero per me?» Lei si è accesa un’altra sigaretta, questa volta prendendola dalle sue. «Lo so che ti sem bro ridicolo e non pre tendo che tu mi dia ragione, ma voglio pensare che posso migliorare. Sei stata per me la fuga da un rapporto che non sapevo gestire, scappare da t e er a co me pren dere un sorso di vita, ma non mi basta più.» Dopo qualche minuto di silenzio nel q uale ha finito la sigaretta, Susanna ha preso a rivestirsi con la solita eleganza di donna . Non sem brava n é delusa né arrabbiata. «Spero che tu sia capace di mettere in prati ca tutte que ste bell e motivazioni» ha replicato laconica e leggera. Da subito mi è stato chiaro qua nto non ci fosse tra ccia di quella comprensione che mi era se mbrata, quanto non esistes se nessuna maternità nel suo m odo di ascoltar mi. Di fatto davanti a m e avevo solo una donna troppo stanca di sentire le sol ite chiacchiere giustificative degli uomini, ora quasi frustrata dalla mia presenza. Ho aggiunto un po’ imbarazzato:


56 «Susanna non volevo…» Ma lei mi ha ferm ato, già più decisa. «Non serve che tu dica altro, te lo ripeto, mi auguro per te che riesca nei tuoi progetti.» Da quella sera io e Susanna non ci saremmo più visti. Ogni tanto avrei voglia di sapere co me sta, magari rivederla per poter appianare le cose e cancellare quel brusco addio, m a in effetti non servirebbe a nessuno dei due. Appena salit a sulla macchina, Susanna ha messo i n moto e si è girat a verso me. L ’ho osservata, vestita be ne e così si cura nella sua bell a macchina appena lucidata. Anche se turbato per tutto quel distacco im provviso ho sorriso e le ho detto a mezza voce: «Auguri Susanna.» Lei forse non ha nemmeno sentito ed è partita di scatto, tornando alla propria vita. Il giorno dopo al lavoro mi sentivo com e un naufrag o, lontano anni luce anche dalle più se mplici certe zze. P robabilmente l’ atteggiamento di assoluta co mpostezza for male adottato aveva stroncato il desiderio di pettegolezzo di quasi tutti; inoltre FDP era in trasferta e questo dimezzava di fatto i miei problemi di sopravvivenza in quel posto. Nel tardo pomeriggio, appena rientrato, mi sono cambiato e sono andato a correre. Correre per me è una forma di me ditazione. Succede che quando ho un problema, quando le i nquietudini m i assillano, quando sem plicemente la giornata m i ha scari cato, mi inf ilo pantaloncini e canotta, accendo il lettore Mp3 e faccio una lunga corsa. Di solito sparisco per un paio d’ore sulla spinta dei passi che mi portano a raggiungere i miei santuari, certi luoghi pressoché sconosciuti che ancora si trovano da queste parti. Prediligo la corsa di f atica, fatta di a ccelerazioni a te mpo di musica, di sprint in salite taglia-gambe e di lunghe pause di contemplazione. Non sono religioso e di certo sarò esagerato, ma associo il mio modo di correre a quei riti di fede dove prima della riflessione bisogna purificarsi con il sacrificio e la fatica. Quanto sono suggestionabile. Comunque quel m artedì sono uscito a correre per rilassar mi un po’ . Era una giornata come ce ne sono sol o d’estate: pioveva, poi spuntava il sole, poi c’era vento, poi pioveva col sole.


57 A dire la verità, mentre tornavo a casa dall’ ufficio scrutavo il cielo sperando piovesse un pochino, così, per arricchire la teatralità della scena. Sono cadute gocce gran annego.

di co me pan ini, puttana miseri a: a momenti

Non è durato molto il temporale, il tempo di raggiungere la spiaggia dove vado a fare stretching ed era già finito. Appena arrivato in quella spiaggia mi sono sentito meno solo. Vedere il lago scuro e verdastro che si agitava mi metteva una pi acevole soggezione e l’odore di bagnato che emanano le foglie dopo la pioggia, le nuvole nere e le nuvole bianche che si mischiavano in un collage gommoso sullo sfondo del le Prealpi, gli uccelli d’ acqua che sent endo i passi volavano via... boh, mi sono sentito leggero e mi è venuto da ridere per il peso che avevo dato a piccole vicende personali come quelle. È difficile spiegare quanto aiuti sentirsi infinitesimali rispetto al mondo. È come quando guardi le stelle e pensi a quanta distanza c’è tra te e loro, a quanto sia irrilevante e invisibile la tua posizione nell’uni verso. È molto lontano dalla logica del “tutto ruota intorno a te” dei nostri t empi, è l’esatto opposto, è co me r iconoscere la propria leggerez za di fro nte all a vita. Per que sto forse risulta m olto co mplicato riuscirci. Quella volta in particolare mi è servit o m oltissimo essere capace di sentir mi così minuscolo. Quel martedì per di più, nel tardo po meriggio di lu glio, tornand o a casa sudato e bagnato di pioggia ho incontrato la “ragazza che ride”. Mi capitava spesso di incrociarla per strada: lei con la sua corsa, io con la mia. È curioso co me tra perso ne che corrono ci siano s guardi di co mplicità e condivisione: è com e se si fosse tutti m embri di un ordine comune, è un po’ come i motociclisti che quando si i ncrociano si salutano anche se non si conoscono. La ragazza che ride l’avevo chiam ata così perché quando ci incontravamo mi sorrideva sempre con una freschezza naturale, ben lontana dai sorrisi di attrazione tra un uom o e una donna. Di lei sapevo solamente che si chiamava Al ice Boffi, c he aveva 3 anni meno di me e ch e avev a frequentato l e scuole medie con m io cugino Carlo Stefano, il q uale mi aveva passato per caso le prime due informazioni. Non avevo abbastanza confidenza con lei per chiamarla Alice e quando ci imbattevamo uno nell’altra la salutavo dicendole: «Ciao ragazza che ride!»


58 Lei, divertita dal nomignolo, rideva di più, ancora più fresca. Nei nostri incroci, quando la sua figura sco mpariva alle mie sp alle, mi giravo per vederla allontanarsi. Perch é oltre al so rriso s magliante, la ragazza che ride aveva anche un gran bel culo. In effetti, avrei potuto anche chiamarla “ragazza bel culo” ma non credo che salutandola avrei ricevuto sorrisi. Invece chiamandola così mi beccavo i sorrisi e pur e il bel culo. Sono rientrat o a casa pen sando quant o fosse piacevole non conoscer e ancora qualcuno pur vivendo in un paesello come questo. La sera alle 20.00 mi ha chiamato di nuovo Pollo. «Oh ma sei morto?» «No, mi sa il contrario.» «Eh?» «No, niente, mi sono lasciato con Chiar a. Ero un po’ sbattuto, ma sono in fase di netta ripresa.» «Cosa?» «Dai, fa il bravo, quando ci vediamo ti spiego.» «Passo da te!» «No, lascia stare. Ho voglia di starmene ancora un po’ sulle mie. Niente di morboso, no n credere, voglio so lo un po ’ di tempo per m e, così, per riflettere. Quando sono a posto ti chiamo io.» Non è che volessi star da solo per pi angermi addosso, solo che mi sentivo così contemplativo, così vicino a una nuova fase di me, da volermi chiudere in una silenziosa metamorfosi. Pollo comunque ha capito al volo. «Ok, ti lascio stare, ti lascio riflettere, che te rifletti più di uno s pecchio porca troia. Ricordati però che dobbia mo trovarci per organizzar e questo cazzo di viaggio.» «Dammi un paio di giorni e poi facciamo tutto.» «Va bene, ma sei sicuro che non vuoi parlarne?» «Vai tranquillo. Ciao testa di cazzo!» «Ok, ciao bestia! Oh, ma vai dai tuoi stasera?» «No, perché?» «Allora passo io da tua madre.» Ho provato a rispondere, ma Pollo aveva già attaccato. Pure quello scemo sapeva fregarmi. Man mano che pass ava l a s erata in s olitudine, ho iniziato a sentire il desiderio di parlare con q ualcuno. Avevo voglia di raccontare come mi sentivo, di e ssere ascoltato e di far vedere l’ entusiasmo nuovo che provavo dentro. Avrei vol uto vedere M arco per parlare di tutto. Non solo


59 di Chiara, ma anche di me e di com e mi sentissi st rano, e di lui che si sposava e io non l’avevo ancora metabolizzato, e di noi, amici da una vita, di quanto desiderassi che non ci perdessimo mai. Ho pensato di chiamarlo, ma poi ho rinunciato. Come si fa a descrivere il terremoto che hai dentro senza essere ridicolo? Ho tolto dal frigo l’ tovaglia ho cenato. FINE ANTEPRIMA. CONTINUA...

insalata giĂ l avata e senza ne mmeno mettere la


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