ANNA OLCESE
HISTRO L’IMMORTALE
Edizioni SHALIBOO
www.shaliboo.it
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HISTRO L’IMMORTALE Copyright © 2010 Anna Olcese ISBN 978-88-6578-007-7 In copertina: immagine Shutterstock.com
Finito di stampare nel mese di Ottobre 2010
Un saggio veggente gli aveva detto: “Tre volte a un passo dalla morte, ma tre volte la tua vita risorgeâ€?‌.
Prologo
Il villaggio era costituito da poche capanne. Gli abitanti erano prevalentemente pastori e agricoltori. La vita era tranquilla, e la monotonia era rotta, raramente, dal passaggio di qualche carovana proveniente dai paesi dell’Asia e diretta alle città del Mediterraneo. Da lì negli ultimi decenni non erano passati eserciti: una fortuna, a quei tempi, visto che il risultato minimo poteva essere la razzia del bestiame da parte dei soldati affamati. Si parlava molto, però, degli eserciti di Alessandro di Macedonia, il re succeduto al padre Filippo: questo Alessandro, a quanto ne raccontavano i rari passeggeri che transitavano nel villaggio, era un giovane ma famoso condottiero, e aveva conquistato territori immensi, battendo i persiani e spingendosi fin nella valle dell’Indo. Questo mitico conquistatore non era mai arrivato nel villaggio, forse perché si trattava di una località molto piccola e piuttosto fuori mano, ma gli abitanti del villaggio ne avevano molta paura: un esercito di passaggio, non importa con quali fini, era sempre stato una disgrazia per gli abitanti. Così, quando un vecchio male in arnese e piuttosto affamato si presentò nel villaggio, gli abitanti lo portarono subito dal capo-villaggio, che per prima cosa gli chiese se sapesse qualcosa degli eserciti di Alessandro. «Puoi dormire da noi, stanotte» gli disse subito il capo, un uomo anziano dai capelli bianchi «e stasera mangerai con noi. Sei ospite, e abbiamo l’abitudine di accogliere gli ospiti con amicizia. Abbiamo solo paura degli eserciti» «Ti ringrazio» disse il vecchio «e in quanto al re Alessandro, ho sentito che si trovava, con i suoi eserciti, molto più a nord di qui. Tuttavia sono in viaggio da molte lune, e non saprei dirti se adesso sia più vicino o più lontano» La sera, poco lontano dal fuoco, il vecchio rimase a parlare con il capovillaggio. Gli domandò indicando il cielo: «Tu sai interpretare i segni delle stelle?» «No» ammise il capo «ma tu, sei un sapiente che legge i segnali degli dèi?»
«Non proprio… tuttavia le stelle questa sera mi dicono qualcosa» scrutava il cielo costellato di punti luminosi che brillavano nel buio, nonostante la luce del fuoco. Altri abitanti del villaggio stavano seduti insieme a loro. Tutti guardavano il vecchio, ansiosi. Il capo insisté «Allora, puoi dirci che cosa leggi nelle stelle questa sera?» Il vecchio socchiuse gli occhi, poi sorrise guardando circolarmente intorno a sé «Non so, ma credo che fra non molto arriverà in questo villaggio uno straniero, un uomo venuto da lontano» «Un nemico? Un uomo pericoloso?» Di nuovo il vecchio socchiuse gli occhi «No, non un nemico. Anzi, egli chiederà asilo presso di voi» «E… dovremo assecondarlo?» «Non ti so dire, questo dipenderà da voi. Ma ti ripeto, non vi sarà nemico» «E che altro ti dicono le stelle?» domandò il capo dopo un momento. «Gli dèi proteggono questo villaggio. Anche con me siete stati ospitali, e gli dèi lo sanno» Il vecchio dormì sotto una capanna di frasche improvvisata, e la mattina di buon’ora ripartì, a piedi, dicendo «Che gli dèi vi proteggano sempre. Io proseguirò il mio cammino» «E fino a dove vuoi viaggiare?» «Non so. Vado in direzione del sole che nasce. Deciderà il mio destino quale sarà la mia ultima meta»
7
La nave
Jenit Ez della famiglia Histro guardò ancora una volta l’interno della cabina di comando: tutto era pronto, i suoi quattro compagni in posizione, le luci sui pannelli indicavano che i motori erano già accesi. In quel momento Jenit Ez si sentiva euforico quel tanto che il condizionamento ricevuto gli permetteva: l’istruzione era stata lunga, accurata e precisa; non ci si potevano permettere errori o imprevisti su una nave come quella. Comunque, aveva desiderato per tanto tempo che quel momento arrivasse, e ora stava per cominciare l’avventura che dava compimento al suo sogno. «Motore laterale destro acceso e regolare» disse Elai Har, che sedeva immediatamente alla sua destra «Motore laterale sinistro acceso e regolare» disse Sahut Bat, che stava un po’ più indietro. Jenit Ez diede ancora una brevissima occhiata, prese fiato e pronunciò «Motore di supporto acceso e regolare» «Abbassare gli schermi» disse Orvar Ksi, il comandante, che stava un po’ sopraelevato rispetto al resto dell’equipaggio. «Schermi abbassati» risuonò la conferma dell’ultimo componente l’equipaggio. Seguirono una serie di comandi e conferme. Dalla posizione in cui era, saldamente ancorato al sedile avvolgente, Jenit Ez non poteva sbirciare dietro di sé. D’altronde era inutile, la nave non aveva aperture che lasciassero vedere l’esterno, e la cabina di comando ormai la conosceva come le sue tasche. «Fra cinque secondi» disse la voce del comandante senza particolari tonalità. Passarono i cinque secondi, scanditi da una serie di luci sul pannello di comando. Poi la nave si alzò senza sensibili scossoni, solo un sibilo che diventava via via più forte. “Sono dove ho sempre sognato di essere” pensò Jenit Ez rilassandosi. E infatti la sua vita si era svolta abbastanza tranquillamente, come quella di tutti i giovani del Quarto Pianeta di Rha, così si chiamava il loro sole, finché lui non aveva capito che quello che realmente voleva era imbarcarsi su una delle navi che controllavano l’immenso spazio, proteggevano le navi commerciali, davano assistenza a chi
8 eventualmente si fosse perso tra le stelle, soprattutto tenevano d’occhio con discrezione lo spazio nella direzione del Quinto Pianeta della Stella Buia (la chiamavano così non, ovviamente, perché fosse oscura, ma solo perché la sua colorazione rossastra la faceva sembrare meno splendente della luce azzurro-arancio emanata da Rha): comunque, solo da lì potevano arrivare eventuali pericoli, dato che gli abitanti dei pianeti della Stella Buia, e in particolare quelli del Quinto Pianeta, erano gente rissosa e aggressiva. Più spesso erano occupati a farsi guerra tra loro, ma era bene tenerli d’occhio. Gli abitanti dei pianeti di Rha non si fidavano di loro, perché alcune volte avevano tentato incursioni nei loro mondi. Ogni volta erano stati respinti senza troppi problemi, anche perché le conoscenze tecnologiche della gente di Rha erano di gran lunga più avanzate. Comunque i pianeti di Rha avevano costituito una flotta di navi che teneva d’occhio lo spazio circostante. Su una di queste navi era imbarcato Jenit Ez. «Potete muovervi» avvisò il comandante, e i quattro giovani si slegarono dai loro sedili stiracchiandosi con soddisfazione. Durante le operazioni di partenza, c’era comunque un certo grado di tensione, e ora potevano rilassarsi. I pavimenti della nave erano magnetizzati in modo da riprodurre la normale forza di gravità, perciò l’equipaggio poteva muoversi liberamente, anche se occorreva sempre un po’ di attenzione. Elai Har, che era comandante in seconda, mise amichevolmente un braccio sulle spalle di Jenit Ez. «Per essere la tua prima volta, è andata bene, no?» disse sorridendo: era una donna giovane e minuta, molto preparata, già alla sua quarta missione. «Mi sento benissimo in effetti» disse Jenit Ez. Senza il condizionamento subito durante l’addestramento sarebbe stato sovreccitato; ma restava comunque in un piacevole stato di tranquillità e attesa mista a curiosità «credo che questo viaggio me lo ricorderò, proprio perché è il primo» «Sarà una passeggiata» intervenne Sahut Bat, anche lui veterano con sei missioni alle spalle. «Non si può mai dire» osservò Elai Har «lo spazio è infinito... può esserci sempre qualche imprevisto» «Via, siamo vaccinati contro qualunque imprevisto» disse Sahut Bat. «Ne sono mai successi, durante le tue missioni?» domandò Jenit Ez, e Sahut Bat scosse la testa. «A quel che mi ricordo, questi viaggi sono stati tutti di una noia mortale»
9 Restarono per un po’ a fissare il grande schermo davanti a loro, che raffigurava la situazione esterna. Si stavano allontanando dal Quarto Pianeta di Rha a grandissima velocità. Passati alcuni giorni di ricognizione, avrebbero fatto il tuffo nell’Iperspazio per controllare altri soli e altri pianeti. Il comandante si alzò dalla sua postazione. «La rotta è stata automatizzata» disse «dobbiamo solo rimanere di guardia per verificare che tutto si svolga come deve, e che non ci siano interferenze. A te il primo turno, Elai Har» Passarono due giorni. Naturalmente anche il conteggio dei tempi, sulla nave, era commisurato a quello che si viveva sul Quarto Pianeta, in modo che i naviganti non subissero sbalzi nei ritmi di veglia e sonno. Dopo un’ultima ricognizione, il Comandante diede ordine di predisporre la nave per il salto nell’Iperspazio. Era il modo normale utilizzato da tutte le navi, per spostarsi velocemente da un sistema planetario a un altro. Per loro, doveva servire per prima cosa a osservare con discrezione i pianeti della Stella Buia. «Tutti ai vostri posti» ordinò il Comandante «e prepariamoci al salto» «Com’è il Salto?» sussurrò Jenit Ez a Elai Har. In verità era un po’ emozionato «ci si accorge di qualcosa?...» Elai Har sorrise amichevolmente «Tranquillo. Di solito non ci si accorge di niente, nemmeno un sobbalzo. Solo una volta, mi ricordo...» «Che è successo?» domandò Jenit Ez incuriosito. «C’era una distorsione magnetica. Sullo schermo le righe si vedevano curve e aggrovigliate... ma è passato quasi subito» «E la nave?...» «Te l’ho detto, nemmeno un sobbalzo» «Tre minuti al salto» disse il Comandante. Nonostante il condizionamento, Jenit Ez si sentiva piacevolmente eccitato. Dopo tutto, non succede a tutti di fare un salto nell’Iperspazio. Anzi, pensò con un moto di orgoglio, lui ora faceva parte di una élite, di quelli che erano in grado di navigare tra le stelle. Tutto si svolse regolarmente, come Jenit Ez aveva appreso durante l’addestramento: nemmeno un sobbalzo, come aveva detto Elai Har. Solo una vibrazione intensa e una miriade di strisce luminose che si inseguivano sullo schermo. Il comandante controllò meticolosamente tutti i segnalatori, poi sorrise «Rilassatevi per qualche minuto» disse «usciremo dall’Iperspazio in
10 vista del Quinto Pianeta della Stella Buia. Daremo un’occhiata per controllare che non ci sia niente di anormale. Comunque resteremo in zona per sei giorni» “Daremo un’occhiata” era un eufemismo per dire che la loro missione era di spiare il Quinto Pianeta per sei giorni, registrando accuratamente tutto ciò che vi succedeva: Da molti anni gli abitanti del Quinto Pianeta non avevano dato più noie, ma c’era qualcuno, sui pianeti di Rha, che sosteneva che stessero preparando un attacco. Niente di preoccupante, ma da parecchio tempo il Quinto Pianeta veniva regolarmente spiato dalle navi di Rha. La Stella Buia si chiamava, in realtà, Enghi, e il Quinto pianeta era perciò il Quinto-Enghi. La definizione “Stella Buia”, che era ormai comune fra tutti gli abitanti di Rha, alludeva alla luce rossastra del loro sole, ma conteneva anche una nota di timore verso qualcosa di oscuro e poco conosciuto. Uscirono dall’Iperspazio con la stessa tranquillità di quando vi erano entrati, e sullo schermo si materializzarono le immagini dei pianeti della Stella Buia, la cui luce dorata li illuminava. Il Comandante indicò i dati che apparivano sugli schermi secondari. «Da ora in poi cominciamo a registrare. A sinistra potete vedere i dati della velocità relativa di ogni veicolo che si alzi dal Quinto Pianeta; in alto a destra i dati di radioattività, magnetizzazione, distorsione radiante, calore. A destra ancora i rilevatori di movimento...» Man mano che il Comandante parlava, i membri dell’equipaggio annuivano: conoscevano a memoria tutti gli aspetti dei vari schermi, anche Jenit Ez che era alla prima missione. Ma fu proprio lui che notò un piccolissimo puntino rosso, proprio in fondo allo schermo. Domandò indicandolo «Che cos’è quello?» Non c’era nessuna segnalazione di anomalie, ma il puntino persisteva. Il Comandante aggrottò la fronte. «Non mi piace» disse «potrebbe essere soltanto un riflesso del diffusore, controlliamo» Niente di anormale. Secondo i sofisticatissimi strumenti di bordo quel puntino non significava assolutamente nulla. Però c’era. «Non sarà qualche nuova arma del Quinto pianeta...» azzardò Jenit Ez, e il Comandante scosse la testa. Sahut Bat iniziò anche a ridere, ma smise subito. Per un pezzo controllarono e ricontrollarono senza riuscire a trovare niente di anormale. Conclusero che doveva essere un diffusore difettoso, e il Comandante mandò un messaggio alla Centrale,
11 poi fece mettere tutta la strumentazione in automatico e disse ai membri dell’equipaggio di mettersi in riposo. A te il primo turno, Jenit Ez
12
Chi è Jenit Ez
Jenit Ez era nato sul Quarto Pianeta di Rha dalla famiglia Histro. Aveva tre fratelli e due sorelle, naturalmente non nati tutti dal padre e dalla madre di Jenit Ez: le parentele infatti, come dovunque sul Quarto Pianeta, si incrociavano: in realtà Jenit Ez era cresciuto con suo padre naturale (infatti il secondo nome “Ez” si riferiva a suo padre) e uno dei fratelli: gli altri fratelli e sorelle erano cresciuti con le rispettive madri che avevano altri compagni. La madre naturale di Jenit Ez era in ottimi rapporti con quel figlio di cui lei stessa aveva deciso il nome “Jenit”. Comunque Jenit Ez, suo padre, sua madre e i suoi fratelli e sorelle facevano parte tutti della famiglia Histro, che sul Quarto Pianeta contava qualche centinaio di appartenenti. Quando venivano presentati a estranei, tutti tendevano a dire, per prima cosa, il nome della famiglia, perché da quello ci si poteva eventualmente riconoscere subito come affini o per lo meno come abitanti della medesima zona. Gli abitanti del Quarto Pianeta erano quasi tutti della medesima razza,e i loro capelli erano verdi. Ovvero, i capelli di tutti loro erano sostanzialmente di varie tonalità di biondo, con riflessi verdi. Quelli di Jenit Ez erano di una tonalità d’oro chiaro, con riflessi di oro verde. Lui era certamente un ragazzo attraente, con un bel sorriso, e tante ragazze gli avevano fatto la corte; però lui non si era mai impegnato seriamente, e aveva dedicato tutte le sue energie a perseguire il suo intento di viaggiare su una nave interstellare. Aveva percorso tutta la carriera scolastica fino ai 22 anni, e una volta ottenuto un importante diploma aveva detto a suo padre che intendeva fare domanda per entrare alla Scuola Navigatori. Non era assolutamente facile essere ammessi, c’erano mesi di selezioni molto dure, l’addestramento era pesantissimo, e anche se uno alla fine ce la faceva a ottenere il via, non era detto che potesse imbarcarsi su una vera nave interstellare: poteva succedergli di essere lasciato negli uffici a terra anche per anni. La parte più impegnativa del suo addestramento era stata forse il condizionamento mentale che gli avrebbe permesso di parlare con chiunque avesse incontrato nella Galassia: non era semplicemente un “apprendimento linguistico”, anche perché sarebbe stato impossibile
13 imparare tutte le lingue che parlavano gli innumerevoli popoli dell’Universo. Si trattava invece di una tecnica che permetteva, a chi la sapesse applicare nel modo corretto, di capire all’istante il linguaggio del suo eventuale interlocutore e rispondere in modo adeguato. In pratica, padroneggiando tale tecnica uno era in grado, almeno teoricamente, di intendersi con chiunque. Non era stata una cosa facile, ore e ore, giorni, mesi di duro lavoro. Al Centro consideravano questa tecnica essenziale per la comunicazione, dovunque fosse capitato di andare ai navigatori interstellari. In più di una occasione Jenit Ez, stanco, si domandava perché mai si dovesse fare tutto quel lavoro per un’eventualità che poteva non presentarsi mai: poteva capitare infatti di restare a bordo di una nave senza mai dover scendere su pianeti esterni o poco conosciuti. Però gli uomini dai capelli verdi non volevano lasciare niente all’improvvisazione, e anche lui aveva accettato di buon grado di sottoporsi al duro addestramento in tutte le sue forme. Jenit Ez perciò ce l’aveva messa tutta e adesso, a ventisette anni, poteva considerarsi soddisfatto: era sul primo gradino di una carriera che, prevedibilmente, gli avrebbe dato una ventina d’anni di navigazione e altri dieci in qualche incarico a terra, con una paga più che ottima. L’ultima ragazza con la quale era stato insieme, prima di imbarcarsi, si chiamava Altei Ski, era più giovane di qualche anno e aveva lunghi capelli di oro scuro riflesso di verde. Erano stati insieme qualche mese, ma sapevano tutti e due che non poteva durare: se lui riusciva a realizzare il suo chiodo fisso – e ormai era quasi arrivato – era chiaro che non si sarebbe legato con una ragazza, neanche per pochi anni. Altei Ski lo sapeva, e non gli aveva mai fatto pressioni perché si rendeva conto che il desiderio di Jenit Ez di viaggiare su una nave stellare era troppo grande. Lui ancora pensava, qualche volta, a Altei Ski; soprattutto provava nostalgia per i momenti in cui stavano insieme, abbracciati, dopo aver fatto l’amore, momenti dolcissimi in cui si poteva rilassarsi e poi addormentarsi vicini. Ma adesso la sua vita era cambiata. Gli abitanti dei pianeti di Rha riconoscevano tutti il Quarto Pianeta come il mondo principale: sul Quarto Pianeta si trovavano tutte le centrali che governavano l’intero sistema, anche se ciascun pianeta godeva di vaste autonomie. Sul Quarto Pianeta si trovavano anche le scuole più prestigiose, e Jenit Ez si rallegrava con se stesso che la fortuna lo avesse fatto nascere dalla famiglia Histro, che abitava il Quarto Pianeta da secoli.
14 La tecnologia del sistema di Rha era talmente avanzata, che gli abitanti non pensavano minimamente di poter avere delle difficoltà, e tanto meno delle aggressioni, da parte di altri sistemi planetari. L’unico che si era dimostrato aggressivo era quello della Stella Buia, che comprendeva sette pianeti. Erano mondi difficili, che non riuscivano a stare in pace fra loro, e talvolta si spingevano in scorrerie nei sistemi vicini. Anche loro possedevano la tecnologia che permetteva il salto nell’Iperspazio, un modo di viaggiare che altrimenti sarebbe stato impossibile date le enormi distanze fra i sistemi stellari. La vita sui pianeti di Rha comunque era comoda e tranquilla. Ad ogni buon conto, il governo centrale aveva costituito una flotta di navi interstellari che avevano il preciso compito di monitorare l’intero spazio intorno al sistema, e in particolare di controllare, da lontano, che quelli della Stella Buia non preparassero aggressioni. Ci avevano provato due volte in un secolo, ma la reazione dei pianeti di Rha era stata rapida e precisa: le navi della Stella Buia erano state praticamente azzerate, e uomini e materiali polverizzati nello spazio profondo. Da un ventennio circa sembrava che i pianeti della Stella Buia avessero smesso di guardare all’esterno del loro sistema, occupati spesso in conflitti fra di loro. Così, la missione della nave sulla quale Jenit Ez era imbarcato si preannunciava di tutto riposo. Non fosse stato per quell’inspiegabile puntino rosso.
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L’attacco
Passarono tre giorni. La nave si trovava in quel momento abbastanza vicina al Quinto Pianeta della Stella Buia. Jenit Ez stava facendo il suo turno di guardia. Tutti gli strumenti erano regolari, e i pannelli trasmettevano rassicuranti segnali di normalità. Successe tutto in pochissimo tempo, forse pochi secondi: di certo non ci fu tempo di fare qualcosa: mentre Jenit Ez osservava lo schermo, il puntino rosso si allargò con una velocità impressionante: Jenit Ez stava aprendo la bocca per gridare, e la luce rossa aveva già riempito quasi tutto lo schermo. Tutti i segnalatori della nave scattarono su “massimo allarme” mentre la luce rossa si estendeva dentro e fuori l’abitacolo. «Allarme!!!» urlò Jenit Ez, o forse credette di urlare, perché era come oppresso da qualcosa che gli impediva i movimenti: intravide le sagome dei suoi compagni correre, poi il dispositivo che alzava gli schermi protettivi andò in tilt con un lampo immenso, e tutte le luci si abbassarono di colpo. «Il quinto... pianeta» ansimò il comandante «avevano un’arma segreta...» non riuscì a continuare, o meglio Jenit Ez non riuscì più a sentirlo. La nave stava diventando rapidamente un globo di fuoco. Obbedendo a un riflesso condizionato appreso durante gli anni di addestramento, Jenit Ez fece pochi passi mentre la nave sobbalzava paurosamente, e si appoggiò con tutto il suo peso contro una delle navette di salvataggio: questa gli si chiuse intorno con uno scatto. Poi tutto diventò buio, e immediatamente dopo un immenso lampo rosso avvolse tutta la nave. La navetta dove si trovava Jenit Ez fu proiettata all’esterno a velocità inimmaginabile. Dalla navetta Jenit Ez, incapace di muoversi per il terrore, vide la nave scomparire in una enorme fiammata: una palla di fuoco, senza che si sentisse alcun rumore, si estese per quasi tutto il suo orizzonte. Poi il buio. Dopo un po’, Jenit Ez riuscì a riprendersi. Era vivo, senza dubbio, ma la sua situazione era tragica. Da solo, su una scheggia di metallo impazzita nello spazio, senza sapere dove questa lo avrebbe portato, e se dopo tutto lo avrebbe portato da qualche parte.
16 “Può essere che mi faccia atterrare sul Quinto pianeta” pensò, con un brivido nel considerare che quei nemici erano assai più terribili e potenti di quanto tutti a Rha pensassero. Ma si accorse subito che non c’era niente in vista, niente intorno a lui, niente di niente, solo buio. Il piccolo schermo di emergenza era muto. Poco dopo riuscì a raccapezzarsi, e la realtà gli apparve ancora più spaventosa: era stato proiettato nell’Iperspazio. E adesso? Dalla navetta poteva fare ben poco; inoltre quel tipo di lance di salvataggio non era costruito per affrontare l’Iperspazio: forse fra qualche minuto la navetta si sarebbe disintegrata. Restò aggrappato ai comandi, mentre le immagini della sua vita gli passavano davanti: aveva sospirato il momento in cui si sarebbe imbarcato: ci era riuscito, e adesso stava certamente per essere annientato dalle forze tremende che agivano nell’Iperspazio. E non poteva fare niente per dirigere in qualche modo la navetta. Nè, tanto meno, avvertire Rha che quelli del Quinto Pianeta avevano una terribile arma, e l’avevano usata contro la loro nave... era quasi rassegnato alla sua situazione disperata, quando le righe sullo schermo scomparvero di colpo, e con un sobbalzo la navetta uscì dall’Iperspazio. Si vedeva adesso, sullo schermo, un sistema planetario sconosciuto. I pochi strumenti di bordo indicavano “Nessuna notizia”, e questo voleva dire che era lontanissimo da Rha, probabilmente dall’altra parte della Galassia. Significava anche che, se avesse avuto la fortuna di riuscire a scendere su uno qualsiasi dei pianeti, poteva trattarsi di un mondo con aria irrespirabile o dove comunque la vita per lui fosse impossibile. “Morirò” si disse quasi con freddezza “non è possibile sopravvivere...” pensò di colpo ai suoi quattro compagni: chissà se erano riusciti, come lui, ad attivare una lancia di salvataggio: e anche in questo caso, chissà dove erano finiti. Si rese conto di essere disperatamente solo, solo nell’immensità del Cosmo; vivo per non sapeva quale miracolo, ma solo. Fu di nuovo preso dalla disperazione. La navetta procedeva in direzione del sistema planetario, sempre a velocità estrema. Anche così da lontano, riusciva a capire che alcuni pianeti, quelli più lontani dal loro sole, non erano altro che palle di ghiaccio, assolutamente invivibili. La navetta proseguiva la corsa. Così da lontano, Jenit Ez giudicava che si stesse avvicinando al Terzo Pianeta di quel sole. Era sicuramente circondato da atmosfera, poiché era avvolto da un riflesso biancoazzurro. Lui comunque non aveva modo di sapere se fosse respirabile. E nemmeno di dirigere in modo che l’eventuale discesa sul
17 pianeta fosse diagonale anziché verticale, per ridurre l’impatto. Le navette erano attrezzate per atterraggi d’emergenza, ma in quel momento sembrava che nessun comando rispondesse. “Morirò” ripeté a se stesso “dopo tutto, sapevo di correre qualche rischio” si preparò all’impatto con quell’atmosfera, rassegnato a essere polverizzato insieme alla navetta dall’attrito spaventoso che ne sarebbe scaturito. Provò ancora, in un ultimo disperato tentativo, a azionare i comandi per l’atterraggio di emergenza e improvvisamente, qualcosa sembrò funzionare: con un grande sobbalzo, la navetta modificò leggermente la sua traiettoria mentre la superficie del Terzo Pianeta si ingigantiva a velocità impressionante sul suo schermo: dopo pochissimi minuti il veicolo andò a cozzare contro l’atmosfera. Jenit Ez non seppe mai in che modo miracoloso l’attrito non l’avesse semplicemente distrutto: la navetta diventò esternamente come una palla di fuoco mentre tutti i comandi impazzivano. Però evidentemente in qualche modo gli schermi reggevano, o forse la velocità non era così elevata come era sembrato. Il veicolo prese a ruotare intorno al pianeta abbassandosi via via, mentre la velocità diminuiva. L’impatto con il suolo non fu così violento come Jenit Ez si aspettava, perché nell’ultimo tratto della sua corsa, la navetta passò su una zona collinare quasi rasentando il pendio: la terra terminava in quello che sembrava un mare, dove la navetta andò a infilarsi senza deviare troppo dalla linea quasi orizzontale che aveva tenuto negli ultimi minuti. La strisciata sull’acqua provocò due lunghe ondate laterali e nuvole di vapore. L’acqua frenò la corsa del veicolo, ma non abbastanza da permettergli di fermarsi. A un certo punto le strutture principali della navetta cedettero, e il veicolo si sfasciò in una nuvola di vapore e fiammate dovute ai cortocircuiti degli strumenti. Poi il relitto cominciò rapidamente ad affondare. Anche qui, Jenit Ez non capì esattamente cosa gli avesse permesso di trovarsi fuori della navetta, nell’acqua agitata dalle ondate provocate dalla medesima, e riuscire ad allontanarsi a disperate bracciate per non essere risucchiato. Nuotò fino alla riva dove restò, stremato e senza più fiato, domandandosi come mai fosse ancora vivo.
18
Il villaggio
Mentre stava sdraiato sulla spiaggia di sabbia e ciottoli, Jenit Ez cercava di riordinare le idee. Era vivo, non sapeva come e perché, ma era lì su quel pianeta a lui del tutto sconosciuto. L’aria evidentemente era respirabile, se no sarebbe già morto. Non era ferito nonostante la paurosa avventura vissuta pochi attimi prima. Il luogo sembrava disabitato e selvaggio, e non c’era niente in vista. Restò per una buona mezz’ora sulla spiaggia, per riprendersi e asciugarsi: il sole di quel pianeta era caldo e in cielo c’erano poche nuvole. Aveva avuto una fortuna davvero incredibile, pensava, domandandosi se tutti i suoi compagni fossero morti. Probabile che così fosse. Oppure, potevano essere stati proiettati in qualche altro punto dell’Universo, magari in un posto non vivibile. In ogni caso, lui era lì da solo, completamente impossibilitato a comunicare con il Quarto Pianeta di Rha, praticamente ignaro di tutto. Benedì mentalmente la pignoleria dei suoi istruttori nell’insegnargli a capire le lingue degli altri popoli: per lo meno, se c’era qualcuno, avrebbe avuto la possibilità di farsi capire e di avere un dialogo. Si augurò che gli eventuali abitanti non fossero aggressivi come quelli della Stella Buia. Stava lì con gli occhi chiusi, e improvvisamente si rese conto di non essere solo: aprì gli occhi alzandosi di colpo a sedere, e un gruppo di persone che stavano in cerchio intorno a lui si allontanò di qualche passo, precipitosamente. Lui alzò un braccio cercando di fare gesti rassicuranti: non poteva comunicare con loro fintanto che loro non gli avessero parlato direttamente. Ma quelle persone, uomini e donne, sembravano spaventate. Restò fermo guardandoli meglio: erano abbastanza scuri di pelle, vestiti di corte tuniche di fattura rozza, e decisamente primitivi. Tuttavia erano esseri come lui, e Jenit Ez si rallegrò che quegli alieni non avessero un aspetto molto diverso da quello degli uomini che abitavano i pianeti di Rha. Certamente avevano un linguaggio, e prima o poi gli avrebbero rivolto la parola. Restò lì fermo, finché quelli, che parlottavano fra loro, gli si avvicinarono di nuovo, guardinghi. Jenit Ez non tentò di alzarsi in piedi, perché intuiva che quegli esseri avevano paura di lui e forse sarebbero
19 scappati. Fece comunque qualche gesto amichevole con le braccia, lentamente, a indicare che non aveva intenzioni ostili. A un certo punto, uno degli esseri che lo circondavano, sicuramente una donna a giudicare dalle fattezze e dai capelli lunghi, osò avvicinarglisi fino a toccarlo. Gli altri lanciavano richiami, evidentemente ammonendola alla prudenza. Jenit Ez stava sempre fermo. Lei allungò una mano ai suoi capelli, poi si mise a ridere «I tuoi capelli sono... verdi!» esclamò, e rise ancora. Finalmente poteva comunicare con loro. Jenit Ez disse «Sono un amico. Non voglio fare del male a nessuno» aprì le mani a indicare che era disarmato. Gli altri lo circondarono, curiosi. «Da dove vieni?» era la domanda più frequente che gli rivolgevano, mentre anche gli altri si azzardavano a toccare i suoi capelli: rispetto a loro, Jenit Ez era più chiaro di pelle e aveva i capelli biondi con riflessi di oro verde, mentre tutti loro li avevano nerissimi. «Vengo da...» se diceva che era arrivato dal cielo non gli avrebbero creduto. Indicò il mare «vengo da laggiù. La mia nave è andata in fondo al mare» «Tu... parli in modo strano» gli disse la ragazza che per prima aveva osato toccarlo «e i tuoi vestiti sono strani» allungò un dito verso la tuta aderente di Jenit Ez, di tessuto sottile argenteo. «Vengo da molto lontano» cercò di spiegare lui «vengo da amico» aggiunse subito. «Vieni al nostro villaggio?» gli chiese uno degli uomini che gli stavano intorno «così parlerai con il nostro signore» «Volentieri» Jenit Ez si alzò: era un po’ più alto di loro, ma non di molto. Nel complesso pensò che quegli abitanti del pianeta dove era andato a cadere erano molto simili a lui, e questo era certamente un vantaggio. Inoltre sembravano persone amichevoli, non aggressive, e questo era un altro vantaggio non secondario. Ancora una volta, Jenit Ez si rallegrò della propria incredibile fortuna: non solo era sopravvissuto alla terribile esplosione che aveva disintegrato la sua nave, ma era passato indenne attraverso l’Iperspazio con una navetta che non era stata pensata per quello scopo; era finito su un pianeta con atmosfera respirabile; la sua navetta non si era polverizzata nell’attrito con l’atmosfera, ed era andata a cadere in mare senza danni per lui. Si sentì abbastanza ottimista sulla sua buona sorte mentre seguiva il gruppo su per un sentiero scosceso.
20 Il villaggio era, agli occhi di Jenit Ez, quanto di più primitivo lui potesse immaginarsi: c’erano capanne costruite in apparenza con fango e paglia e ricoperte da grandi foglie. La più grande doveva essere l’abitazione del capo, o comunque un posto da cerimonie: era sostenuta da pali di legno rozzamente intagliati e ornata con foglie e piume multicolori. Grandi alberi circondavano l’insieme quasi a proteggerlo. Jenit Ez osservò che tutti gli abitanti erano scalzi, e si meravigliò che camminassero così disinvoltamente su pietre, rovi e rami caduti. Dalle capanne uscirono tutti gli abitanti, in prevalenza donne e bambini – gli uomini dovevano essere a caccia o al lavoro, giudicò lui – e lo circondarono con esclamazioni di curiosità, tenendosi comunque a una certa distanza. Lui doveva essere, ai loro occhi, una specie di bestia rara. Dalla capanna principale uscì un uomo anziano, anche lui scuro di pelle ma con i capelli bianchissimi. Stese la mano e subito tutti fecero silenzio. Lo squadrò per qualche minuto, mescolando curiosità a espressione di autorevolezza. Alla fine gli chiese «Che nome hai tu, straniero?» «Il mio nome è Histro» disse istintivamente Jenit Ez, ed evitò di aggiungere i suoi altri nomi per non confondere troppo il suo interlocutore. «vengo da... molto lontano. Da di là del mare» fece un largo gesto con il braccio. Il capo – Jenit Ez non dubitava che lo fosse, visto che tutti gli abitanti del villaggio stavano in completo silenzio ad ascoltarlo – gli girò intorno guardandolo, osservò la sua tuta, le sue calzature, poi lo sguardo passò ai suoi capelli. «Perché hai i capelli verdi?» domandò. «Nel paese dal quale vengo, tutti hanno i capelli come i miei» rispose lui, e aggiunse «e anche la pelle come la mia» Il capo continuava a guardarlo. Alla fine disse «Tu... sei un soldato di Alessandro?» «No. Chi è Alessandro?» domandò Jenit Ez, sinceramente stupito. «Mi hanno detto che un grandissimo re che si chiama Alessandro ha un esercito invincibile, e che sta marciando in direzione del sole che sorge» «Io non conosco questo Alessandro, devi credermi» «Mi hanno detto che i soldati dell’esercito di Alessandro hanno la pelle più chiara della nostra. Come la tua» insisté il capo. «No, no» Jenit Ez scosse la testa «io vengo da molto, molto lontano. La mia nave è andata in fondo al mare. Ti hanno detto di avermi incontrato sulla spiaggia»
21 «Questo è vero» ammise il capo continuando a scrutarlo «e in più, tu sei vestito in un modo veramente strano. Ti voglio credere e ti dò il benvenuto, Histro» «Grazie» Jenit Ez respirò sollevato. La gente di quel villaggio sembrava amichevole, e se lui era fortunato poteva restare lì qualche tempo per ambientarsi su quel pianeta. «Ma spiegami una cosa» disse ancora il capo «se è vero che vieni da molto lontano, come mai parli la mia lingua?» Era una domanda alla quale era molto difficile rispondere: come si faceva a dire a quei popoli primitivi che lui aveva pazientemente studiato e immagazzinato nel suo cervello una tecnica che gli permetteva di afferrare immediatamente il linguaggio di popoli sconosciuti, qualsiasi linguaggio, e di rispondere in modo adeguato? Non trovava le parole per spiegarlo. «Ascolta» disse alla fine «io ho... si, ho studiato: degli esseri molto più bravi di me mi hanno insegnato a capire quello che dicono gli altri, e parlare la loro lingua. Ho imparato questo modo di comunicare, ecco perché riesco a parlare con voi» «Non credo di aver capito molto» disse il capo «ma se tu hai questo potere, sono certamente gli dèi ad avertelo dato. Sei doppiamente benvenuto, Histro» Jenit Ez sorrise e disse «Grande capo, sarebbe possibile restare qui, nel tuo villaggio, per qualche tempo? Ho perso la mia nave, e per ora mi è impossibile muovermi e viaggiare» Aspettò la risposta col fiato sospeso, ma il capo sembrava ben disposto. «Certamente. Tempo fa un vecchio sapiente ci ha detto che avremmo ricevuto la visita di uno straniero, e che non sarebbe stato un nemico. Puoi rimanere con noi finché vorrai. Ti aiuteremo a costruire una capanna»
22
La carovana
Passarono tre mesi. Jenit Ez si sbarazzò ben presto dei suoi abiti, che lì erano del tutto superflui dato che faceva sempre caldo. Adottò quindi la tunica che portavano tutti, tenendo per i primi tempi i suoi stivali bassi, visto che gli riusciva difficile camminare scalzo come tutti gli abitanti del villaggio. Più tardi si costruì un paio di sandali con pezzi di cuoio, e lo informarono che i soldati del fantomatico “Alessandro” portavano sandali simili. Dal punto di vista mentale, si sbarazzò del suo nome personale “Jenit Ez” visto che tutti lo chiamavano “Histro” come lui si era presentato. Finì per pensare a se stesso solo come “Histro”. Si costruì una capanna ai margini del villaggio; più che altro, la costruirono gli abitanti per lui, dato che le sue capacità manuali erano piuttosto vaghe. L’esperienza di vivere con quella gente, priva di qualunque supporto tecnologico, era per lui abbastanza sconvolgente: veniva da un mondo avanzatissimo. I pianeti di Rha avevano mezzi capaci di viaggiare nell’Iperspazio e strumenti sofisticatissimi per comunicare, costruire, muoversi: la vita insomma era resa facile da tutta questa tecnologia. La gente del villaggio dove lui ora si trovava invece accendeva il fuoco per cucinare e per fare luce, utilizzava l’acqua di un ruscello che scorreva vicino, allevava piccoli animali bipedi e più grandi animali a quattro zampe, di cui tesseva il pelo per ricavarne rozzi tessuti per il vestiario. Tuttavia, era abbastanza ottimista: curioso per natura, pensava di aver avuto una incredibile opportunità di conoscenza nel capitare su quel mondo così arretrato. Certamente la vita era assai più faticosa di quella che lui aveva lasciato, ma per il momento non si poneva problemi. Quello che non riusciva a farsi spiegare era: che mondo era quello?... Non voleva dire agli abitanti del villaggio che lui veniva “dalle stelle”, ovvero da un mondo assolutamente remoto, perché non gli avrebbero creduto, o peggio avrebbero cominciato a sospettare di lui: ma anche i suoi ospiti, pareva che non si ponessero alcun problema e lo trattavano sempre amichevolmente. Ogni tanto si domandava se sarebbe mai riuscito a ritornare su Rha. C’era una probabilità su qualche miliardo che i suoi connazionali riuscissero a capire che lui era vivo e localizzarlo. Pensò a suo padre, a
23 sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi amici… impossibile rivederli, era chiaro. Finì per mettersi il cuore in pace convincendosi che avrebbe dovuto finire i suoi giorni su quel mondo primitivo. Non ci stava poi troppo male, considerando che i lavori più pesanti li facevano gli altri, specialmente le donne; d’altronde era giovane e non trovava grandi difficoltà nell’eseguire lavori manuali. Di salute stava bene, e una volta di più si rallegrava di essere stato tanto fortunato da finire in quel mondo remoto, che tuttavia per lui era perfettamente vivibile. Proprio “perfettamente” no: i primi tempi della sua vita al villaggio, dormiva male: si svegliava frequentemente con la sensazione che fosse già ora di alzarsi; oppure, al contrario, veniva preso dal sonno durante il giorno, o faticava a svegliarsi la mattina. Attribuiva questi disturbi al cambiamento dei ritmi di vita e non ci dava molto peso. Un altro particolare poi lo faceva riflettere, anzi lo preoccupava, e non sapeva darsi una spiegazione: una delle ragazze del villaggio aveva cominciato a fargli delle aperte avances. Lui non sapeva bene come comportarsi anche se la ragazza era carina e lui sentiva per lei una ovvia attrazione fisica. Si azzardò un giorno a parlarne con un altro dei giovani del villaggio prendendo il discorso alla lontana. «Ibal» questo era il nome del giovanotto «un giorno il capo mi ha accennato che era passato di qui un vecchio sapiente che aveva predetto la mia venuta…» «E’ così» confermò Ibal «ero presente quando lui ha detto che aveva letto nelle stelle che sarebbe arrivato uno straniero, e non sarebbe stato un nemico. Così, capisci, ti abbiamo subito offerto amicizia» «Nelle stelle!...» quale stella gli aveva trasmesso quel messaggio? La stella di Rha?... No, doveva trattarsi di un modo di dire. Continuò con l’argomento che in quel momento gli stava a cuore «senti, ho bisogno di un consiglio... io ho visto che voi giovani vivete assieme, sì, un ragazzo e una ragazza, senza particolari problemi: ma secondo te, mi è permesso di fare l’amore con una delle vostre ragazze?» Ibal aveva riso «Se parli di Ekta, abbiamo visto tutti che tu le piaci... non ti fare dei problemi, Histro: il capo non può che approvare che due giovani si amino» «Allora non serve... un rito, un legame ufficiale...» «No. Non qui da noi. Però mi hanno detto che nelle terre di Alessandro invece...» Ah, ancora con questo Alessandro, pensò Histro. Ma si accontentò per il momento di quello che Ibal gli aveva detto, e la sera fece in modo di
24 trovarsi, durante la cena che consumavano tutti insieme, vicino a Ekta. Lei gli sorrideva in modo invitante, e più tardi, con il buio, andò nella sua capanna. «Mi piacciono i tuoi capelli verdi» sussurrò lei accarezzandolo «e poi gli occhi, e tutto il resto... voglio fare l’amore con te, Histro» Histro non chiedeva altro: da tanto tempo che gli sembrava un’eternità non aveva più toccato una donna, e si dedicò con tutto il suo entusiasmo a quella nuova esperienza, su quel pianeta remoto dove la vita era primitiva ma, nei suoi aspetti fondamentali, non diversa da quella che si viveva sul Quarto Pianeta di Rha. Un giorno lo informarono che sarebbe passata di lì una carovana che veniva dal paese “dove sorge il sole” ed era diretta alle terre del mitico “Alessandro” di cui ogni tanto gli parlavano. Questo Alessandro doveva essere un grande conquistatore, perché si raccontava che avesse sottomesso interi popoli. Nel villaggio però ne avevano solo sentito parlare, e di lui e dei suoi eserciti non si era vista traccia. Perciò Histro fu molto interessato dalla notizia della carovana, e chiese al capovillaggio se credeva possibile che lo accettassero per proseguire con loro il viaggio. «Sento che devo mettermi in viaggio, grande capo» gli disse «e forse potrò avere notizie del mio paese» quest’ultima ovviamente era una bugia, ma Histro non sapeva altrimenti come spiegare la sua voglia di conoscere altre genti e altri luoghi. Quando la carovana arrivò nel villaggio, quello fu un giorno di grande festa: capitava molto di rado che passassero di lì viaggiatori e mercanti e tutti volevano approfittare dell’opportunità di vedere altra gente, farsi raccontare storie magari fantasiose, scambiare oggetti e mercanzie. La carovana, composta da almeno duecento fra cavalli e cammelli, restò al villaggio qualche giorno. Histro chiese ai capi-carovana di potersi aggregare al gruppo. «Purché tu sappia badare a te stesso» gli disse laconicamente quello che sembrava il capo, vestito di una lunga tunica, sandali e una striscia di tessuto che si avvolgeva intorno alla testa. «Io non ti posso pagare, però so lavorare. Chiedi al capo-villaggio. Farò qualunque lavoro tu mi dirai» «Sta bene. Potrai seguire la carovana fino a Larissa» «E dov’è questa località?»
25 Il capo fece un gesto, come per sottolineare la sua ignoranza «Una delle città dell’Ellade. Le terre di Alessandro» Ancora Alessandro. Tutto sommato, Histro era curioso di conoscere ed era contento che la meta del viaggio fossero proprio “le terre di Alessandro”. Si preparò quindi alla partenza con l’entusiasmo del suo innato spirito di avventura, ansioso di vedere come fosse, fuori del villaggio, quel mondo per lui nuovo. Ekta si mise a piangere quando lui le disse che sarebbe partito. Ma nel complesso non fece nessuna scena del tipo “ti aspetterò per sempre” e Histro pensò che si sarebbe consolata presto. A ben pensare, Ekta si comportava come si erano comportate le sue precedenti ragazze sul Quarto pianeta di Rha: addii con qualche lagrima, ma niente scene drammatiche, come se capissero che il destino di Histro, allora Jenit Ez, non era quello di avere dei legami stretti. “Forse sono proprio io che creo queste situazioni” pensò Histro “d’altronde, meglio così. Non riuscirei ad avere un rapporto duraturo.” La carovana partì all’alba. Si viaggiava durante le ore meno calde della giornata, con una sosta durante le ore intermedie, per far riposare animali e uomini. Era una nuova esperienza per Histro, che si prestava a tutti i lavori che gli venivano richiesti. D’altronde anche gli altri uomini non si risparmiavano. Il viaggio era lungo ma non monotono, almeno per Histro che guardava con occhi nuovi tutto quello che incontravano, uomini o paesi che fossero. La velocità era quella degli animali al passo, sconvolgente per uno che come lui veniva da mondi dove la velocità si misurava in spazi interstellari. Una volta di più, Histro si rallegrava di poter fare un’esperienza così primitiva: un mondo dove lui non avrebbe mai sognato di mettere piede. Anche in quella occasione però, notava, nel suo organismo, dei disturbi relativi al tempo: i giorni e le notti a volte gli si confondevano nella mente e in qualche momento non avrebbe saputo dire se la carovana stesse viaggiando da pochi giorni o da un mese. Gradatamente il paesaggio cambiava: mentre i primi tempi la carovana incontrava rari villaggi di pastori e agricoltori, come quello dal quale proveniva Histro, adesso la campagna era più abitata e gli incontri più frequenti. Finché la carovana arrivò a Larissa, una vera città con case in muratura. Qui gli abitanti maschi indossavano tuniche corte trattenute su una spalla da spille metalliche e le donne abiti lunghi ma senza maniche. Entrambi usavano mantelli per ripararsi dal vento fresco. Dal cambio di temperatura, che si era fatta meno calda, Histro giudicò che il
26 suo fortunoso atterraggio fosse avvenuto parecchio più a sud. Il clima comunque era sempre molto piacevole. Lui però era abbastanza spaesato: di quel posto non conosceva assolutamente niente. Una volta abbandonata la carovana, andò in giro per la città e la sera si accovacciò dietro un porticato cercando di riposarsi e possibilmente di dormire. Continuava infatti ad avere saltuariamente disturbi con il sonno. Era ottimista sul futuro perché la sua innata curiosità prevaleva sulla precarietà della sua situazione: infatti non sapeva cosa avrebbe fatto, dove avrebbe dormito né come avrebbe fatto a procurarsi del cibo. L’oscurità arrivò mentre, da dietro il porticato, cercava di rilassarsi ammirando il paesaggio collinoso dei dintorni; alla fine prese sonno. Fu svegliato di colpo da qualcuno che correva, o comunque si muoveva in fretta, e che perciò aveva inciampato nel suo corpo raggomitolato dietro il porticato. «Eh, per Eracle, ma che fai qui?...» era una voce soffocata come se chi aveva pronunciato quelle parole non volesse farsi sentire. Saltò in piedi, e il suo interlocutore, un uomo avvolto in un mantello, lo afferrò per le braccia «ma tu mi vuoi proprio rovinare! Cosa ci fai qui?» «Scusa» disse Histro rallegrandosi una volta di più di poter comunicare con qualunque straniero «stavo… cercando di dormire» «Già, lo vedo!» il tipo era mingherlino e lo guardava incuriosito «ma da dove vieni tu, con questa tunica da barbaro? Non sei per caso uno schiavo scappato…» Uno schiavo? Histro non aveva ben chiaro di cosa si trattasse. In ogni caso doveva far fronte alla situazione, e in fretta «No, no, ascoltami: è vero, io vengo da molto lontano, sono arrivato qui oggi con una carovana e adesso sto cercando qualcuno che mi dia da lavorare per poter mangiare. Capito?» «Ah, siamo fratelli!» il tipo si mise a ridere e Histro respirò «anch’io sto cercando di lavorare… nel nome di Hermes però» «Hermes?...» «Ma si, barbaro! Il dio Hermes, protettore dei ladri» «E tu, saresti un ladro?» «Diciamo che sono uno che si arrangia! Certo che tu mi hai rovinato la nottata. Io cercavo di …» Histro lo interruppe «Posso aiutarti» «Mi aiuteresti a rubare?» «Bè, diciamo che anche io ho bisogno… di arrangiarmi. Insomma, non ho da mangiare e da dormire»
27 «Affare fatto. Vieni con me, barbaro. Io mi chiamo Peios, e tu?» «Histro. Il mio nome è Histro» «Che nome strano» l’altro lo guardò bene, poi sussultò «ma per le dodici fatiche di Eracle! I tuoi capelli sono… verdi!» «Aspetta, stai calmo» Histro vide che l’altro si era allontanato di un passo «te l’ho detto, vengo da molto lontano, e dove vivo io tutti hanno i capelli come i miei» «Bah, in fondo che differenza fa?» Peios scrollò le spalle «vieni con me, Histro o come ti chiami» Non era proprio il massimo, pensò Histro, ma bisognava pur mangiare. Così seguì il ladro in diverse azioni – Peios stava bene attento a rubacchiare dove non ci fosse nessuno – e alla fine si trovò proprietario di un paio di tuniche, un mantello, dei sandali e qualche moneta. Era chiaro che non esisteva una vera e propria polizia, anche se Peios badava a non farsi vedere dalle rare ombre che popolavano la notte. «Puoi dormire da me, se ti va» disse Peios alla fine «posso darti anche qualcosa da mangiare» «Sei un vero amico» dichiarò Histro, sinceramente riconoscente «se mai mi capiterà di tornare a Larissa, ti ricompenserò» «Ah, a me bastano i favori di Hermes… e naturalmente quelli di Afrodite. Non hai una donna, tu?» «Qui a Larissa, ti ho detto, sono appena arrivato e non conosco nessuno» Peios lo ospitò nella sua abitazione alla periferia della città. Più che una casa, era una specie di ripostiglio con una piccola tettoia.«Puoi dormire qua sotto» gli disse Peios «non c’è vento, e hai una coperta» «Oh, andrà benissimo» Histro si avvolse nella coperta e si preparò a vivere qualche tempo assieme a un ladro di professione. Contava soprattutto di avere da lui informazioni su come si svolgeva la vita nelle città dell’Ellade.
28
Elèia
Peios sbarcava il lunario facendo il ladro. Lo faceva con discrezione, portando via poche cose e badando bene a non farsi mai vedere. Non era né stupido né disinformato, e fu una preziosa miniera di informazioni per Histro. Quando Histro gli domandò notizie di un certo Alessandro di cui aveva tanto sentito parlare, Peios lo guardò con sincero stupore. «Come, non lo sai? Alessandro è morto. Sarà stato un sei mesi fa. Era un grandissimo condottiero, ha conquistato territori e popoli anche a est, ma è morto troppo giovane, così i suoi generali hanno diviso l’impero, e le città dell’Ellade hanno ripreso a farsi guerra» «Raccontami di questo Alessandro e delle città dell’Ellade» Peios mise al corrente Histro delle vicende storiche del paese, mescolando fatti veri, leggende e interventi degli dèi, e suscitando in lui una forte curiosità di partire per vedere di persona le meraviglie, vere o presunte, di cui Peios gli raccontava. «Di’, credi che potrei andare da qui fino ad Atene? Quella grande città di cui più volte mi parli» «Ma, potrei sentire certi miei amici che conoscono certa gente…» Non era l’iniziativa che mancava a Peios, che in poco tempo mise Histro in contatto con dei tipi, a occhio poco raccomandabili, che avevano una “nave” (così la chiamavano) e con questa intendevano raggiungere Atene trasportando merci e passeggeri. Il capo di questo gruppetto disse subito a Histro: «Se tu non puoi pagarmi per il viaggio, posso imbarcarti a patto che tu dia una mano a remare» Remare!!?! Histro era sommamente curioso di vedere questa “nave” e non si stupì quando fu il momento di partire: il mezzo di trasporto, ormeggiato a un rudimentale molo di legno, era poco più di una barchetta, con un albero e una vela di tessuto grossolano: su ogni lato c’era il posto per cinque rematori, e in mezzo stavano ammucchiati i sacchi di merce. Peios salutò Histro augurandogli di rivederlo presto a Larissa. «E che Poseidone ti sia propizio» terminò. Histro ormai aveva imparato i nomi dei principali dei venerati in loco.
29 Partirono senza particolari problemi una sera d’estate, e arrivarono a destinazione dopo molti giorni di navigazione e dopo aver fatto un paio di scali, Histro non avrebbe saputo dire se su terraferma o isole. Gli uomini ai remi si davano il cambio, e più volte Histro si mise a remare con loro. Si rendeva conto che la sua vita sul pianeta di Rha lo aveva reso piuttosto fragile per il tipo di esistenza con cui adesso era obbligato a confrontarsi. Per sua fortuna era giovane e il suo fisico si irrobustiva velocemente. Una volta di più si rallegrò di aver avuto l’incredibile fortuna che gli aveva permesso di sopravvivere, e di visitare quello straordinario mondo arcaico. Atene fu una scoperta sconvolgente per Histro: una città non solo civile, ma splendida nell’aspetto, nei monumenti, negli abiti della gente, Una città che, pensava Histro, non avrebbe avuto niente da invidiare alle più avanzate città di Rha, non fosse stato per la totale mancanza di fonti di energia. Non c’era nessun genere di macchina o congegno che non fosse mosso dalla forza umana (qui Histro notò subito che c’era una gran quantità di schiavi per ogni genere di lavoro). Non c’erano, ovviamente, mezzi per muoversi se non le proprie gambe o i cavalli. Histro passò una settimana a girare per la città cercando di scoprirne tutti gli aspetti. Non si fermava però a parlare molto con la gente perché intuiva che, per loro, lui era comunque un tipo strano, non foss’altro che per il colore dei suoi capelli. I pochi soldi intascati dalle ruberie di Peios gli potevano bastare per mangiare, e in quanto a dormire, il clima era mite e non aveva difficoltà a dormire all’aperto. Più volte, durante la settimana, era salito all’Acropoli per ammirare i magnifici templi davanti ai quali si sentiva comunque un piccolo uomo, benché fosse figlio di una civiltà avanzatissima. Non si azzardava a parlare con sacerdoti, sacerdotesse e fedeli che andavano e venivano fra le grandi colonne di marmo. Un giorno che era salito, appunto, all’Acropoli e se ne stava davanti al Partenone in muta ammirazione, una voce di donna gli rivolse la parola «Chi sei tu, straniero dai capelli d’oro verde?» Histro sussultò perché non si aspettava un approccio così diretto: tutte le donne conosciute fino allora si erano comportate in modo piuttosto timido. Si voltò, e davanti a lui c’era una donna giovane, veste lunga bianca trattenuta da una spilla, capelli lunghi legati con un laccio, un sorriso franco e invitante.
30 «Mi chiamo Histro, signora» disse lui abbassando la testa in segno di saluto. «Histro, non è un nome greco» disse lei, poi lo prese gentilmente per un braccio, gli girò intorno «dimmi, da quale terra vieni tu?» Histro sorrise a sua volta «Da molto lontano, signora. Dove nasce il sole» Lei continuava a tenerlo per il braccio, e quel contatto gli trasmetteva sensazioni piacevoli. Si sentiva anche un po’ in imbarazzo. Domandò «E tu… qual è il tuo nome, signora?» La donna rise: la sua risata era argentina e musicale «Io sono Elèia, straniero biondo. Ma perché i tuoi capelli hanno questi riflessi… verdi?» «Sono tutti così al mio paese» disse pronto Histro, e lei gli accarezzò il braccio nudo facendolo trasalire suo malgrado. La vicinanza di quella donna gli dava sensazioni che non riusciva ad analizzare, e che superavano i condizionamenti ricevuti, se mai questi avessero ancora qualche effetto su di lui dopo tutte le incredibili avventure che aveva vissute. Provò a divagare «ma parlami di te, Eleia. Tu sei venuta qui per pregare Zeus?...» Di nuovo la donna rise «Oh, io ho molto rispetto per gli dei, ma della mia vita faccio ciò che voglio. Sono un’etéra» «Una… che?» il termine non rientrava nel suo vocabolario. «Una donna libera! Da noi le donne se ne stanno per lo più rinchiuse nei ginecei e non hanno molti diritti. Io invece posso fare ciò che voglio» «Vuoi dire… puoi andare dove vuoi, parlare con gli sconosciuti, magari sceglierti un compagno?» domandò Histro che non era sicuro di aver capito bene. La donna rise di nuovo, una risata argentina che lasciò Histro abbastanza rimescolato «Ma si, sciocco! Naturalmente non ho la fama di donna irreprensibile, ma cosa importa? Anche gli dei si scelgono compagni a loro piacimento. E d’altronde il nostro grande Pericle fu legato per molti anni ad Aspasia che era un’etéra. Non sei d’accordo?» «Io… io» per la prima volta in vita sua Histro si sentiva in difficoltà di fronte a una donna, e suo malgrado si sentiva soggiogato dal suono della sua voce: certo Eleia era bella, più che bella, ma il suono della sua voce sconvolgeva Histro più ancora che il suo aspetto. «Mi sembri turbato» disse Eleia prendendolo gentilmente per il braccio «è a causa della grandiosità di questo tempio, vero?» Lo stava sicuramente prendendo in giro, e Histro cercò di reagire «Mi devi perdonare, Eleia. Io non sono di questo paese…»
31 «Si, vedo che sei in difficoltà! Ma non avere timore, Histro. Non volevo dirti niente di male. Vieni con me, se vuoi: ti porto da un amico» Lui non chiedeva di meglio che trovare degli amici; e poi, sentiva che avrebbe seguito quella donna fino in capo al mondo. Si preoccupò di quell’improvviso sentimento “Non mi starò per caso innamorando di lei?” pensò. Eleia notò la sua esitazione. «Allora… vuoi venire?» «Certamente» dichiarò Histro buttando a mare ogni esitazione. Lei lo prese per mano e scesero dalla collina. Aveva ai piedi dei calzari dorati e scendeva con grazia leggera sulle pietre sconnesse del sentiero. Histro si sentiva in uno stato d’animo di beatitudine. Diceva a se stesso che forse stava sbagliando, non doveva lasciarsi andare così con la prima venuta. Poi, una “etéra”! Qual era il significato preciso del termine? Prostituta, cortigiana di lusso? Pensava, a tratti, che il condizionamento subito durante l’addestramento avrebbe dovuto mantenerlo in uno stato d’animo equilibrato e non soggetto a colpi di testa improvvisi; nello stesso tempo si sentiva euforico mentre scendeva dall’Acropoli tenendo per mano quella splendida ragazza. Eleia lo portò in una casa luminosa, dove alcuni schavi si aggiravano con fare discreto servendo cibo e bevande a una dozzina di uomini che discutevano pacatamente fra loro. Lo presentò a quello che sembrava il più anziano. «Eumori, ti presento il mio amico Histro» l’altro non si alzò, come era giusto data la differenza di età, e Histro chinò il capo in segno di saluto. Lo fecero accomodare con loro e subito gli venne portato da mangiare e da bere. I convitati discutevano di argomenti astratti che toccavano la filosofia, l’astronomia, la matematica. Histro rimase a sentirli ammirato delle loro conoscenze e nello stesso tempo incuriosito dalle opinioni quanto meno arcaiche che avevano in materia di cielo, luna e stelle. Riuscì a capire che tutti quegli uomini consideravano le stelle come delle luci applicate alla volta celeste; in quanto al Sole, era ovvio che la sua traiettoria nel cielo dipendeva dal carro di fuoco di Apollo, mentre la Luna era la dimora di Artemide. “Se sapessero quello che per noi è ovvio sapere” pensò d’un tratto, ma subito si rese conto che lui non poteva raccontargli le verità sul cielo e sulle stelle, perché erano troppo fuori della loro comprensione, e avrebbero solo suscitato dei sospetti su di lui. Si accorse, invece, che Eleia interveniva a tono e che la sua cultura era almeno pari a quella degli uomini presenti. Dedusse che la etére
32 potevano competere con gli uomini nelle discussioni, quindi non erano soltanto delle cortigiane. “Una donna libera” aveva detto Eleia riferendosi a sé. Notò che i presenti non avevano fatto una piega quando lei lo aveva presentato come “un suo amico” Doveva essere una donna straordinaria. Dire che Histro subiva il fascino di Eleia è dir poco. Sedendo vicino a lei si sentiva strano, e sentiva che l’attrazione che lei esercitava su tutti quelli che le stavano intorno si estendeva a lui afferrandolo potentemente. “Poter stare vicino a lei” pensava confusamente, non riuscendo a capire se lo eccitasse di più la sua voce sensuale che discuteva di tutto, oppure la tunica leggera che scendeva in morbide pieghe lasciandole scoperte braccia e spalle. Così quando, più tardi, lei lo invitò senza mezzi termini a casa sua, lui con un tuffo al cuore la seguì per le strade animate di Atene. Eleia viveva in una bella casa luminosa, con colonne bianche, e aveva una mezza dozzina di servi che provvedevano a tutto. Tutti gli ambienti erano a piano terra, e in parte davano su un cortile pieno di fiori. Per cena i servi portarono carni arrostite, gustose focacce e frutta. Eleia chiacchierava disinvoltamente di argomenti banali, ma i suoi occhi incontravano spesso quelli di Histro, come se vi si svolgesse una conversazione parallela fatta di sguardi. Fu normale che, a tarda notte, lei lo prendesse per mano portandolo nella sua camera. «Eleia» sussurrò lui mettendole le mani sui fianchi e attirandola vicino «non ho mai conosciuto una donna come te… mi credi?» «Quando ti ho visto, lassù sull’Acropoli» disse lei «ho capito subito che tu mi piacevi… Histro, il mio dono degli dèi» Cominciarono a baciarsi, mentre lui la carezzava sulle spalle e lungo il corpo. Histro non aveva mai provato un’emozione simile. Disse piano «Sono un dono dei tuoi dèi… o un giocattolo?» «Diciamo che sei un giocattolo prezioso» Eleia si allontanò di poco guardandolo, passando le mani fra i suoi capelli «Histro, è vero che io mi prendo gli uomini che mi piacciono… ma non pensare che sia solo un gioco. Non con te, almeno» «Mi piaci troppo, Eleia… ho quasi paura di approfittare della tua vita» «Eppure» Eleia si rabbuiò per un attimo «tu sei più giovane di me, un giorno ti stancherai» «Non mi stancherò mai di amarti» dichiarò lui «ti giuro che…» «Non giurare» disse subito lei «non provocare gli dèi. Cronos mi sta accanto…»
33 «Ma se mi sembri una giovane dea…» Histro cercò di scherzare. «Trentaquattro stagioni sono passate, lo sai?» Eleia sorrise «lo so che sembro più giovane, però…» «Io ti amo, Eleia» sussurrò Histro, e ricominciò a baciarla, facendo scendere la tunica dalle spalle. Sotto, non aveva altro. Si sentì preso alla gola dal desiderio «Sei tu la dea di Atene» mormorò «sei la mia dea, non voglio avere altri dèi che te…» Lei gli mise un dito sulle labbra «Sssst, non bestemmiare! Afrodite potrebbe offendersi» poi sorrise «I tuoi capelli d’oro verde mi hanno affascinato appena ti ho visto. Histro, il dio Eros mi ha trafitto con la sua freccia. E ti giuro per Eracle che non mi sono mai sentita così attratta da un uomo come con te» «Ah, Eleia…» da quel momento persero la nozione del tempo. I baci e le carezze sembrarono non finire mai, per perdersi infine in un lungo orgasmo, mentre la tiepida notte ateniese li avvolgeva nell’oscurità, accendendo il cielo di mille stelle.
34
Sconvolgimento del Tempo
Vivendo con Eleia, Histro imparò tutto quello che c’era da imparare sulla Grecia e sulla vita di quei tempi. Non si poneva molti problemi, dato che era felice con lei e si diceva che non poteva desiderare altro. Da parte sua, anche Eleia si sentiva appagata con Histro del quale si era veramente innamorata. Il suo passato di etèra era, comunque, un vantaggio, dato che si sentiva libera di partecipare a tutte le manifestazioni pubbliche. Il fatto che vivesse con uno straniero non costituiva un problema, infatti entrambi erano accettati dalla comunità ateniese fino ai più alti livelli. Giovane e forte com’era, Histro cominciò a frequentare gli ambienti sportivi: si distingueva soprattutto nelle gare di corsa, dato che era sempre stato molto veloce. Si fece anche molti amici, e la sua vita sembrava aver preso un corso regolare. Si diceva spesso che non poteva desiderare di più, perché l’amore di Eleia lo appagava completamente. A volte pensava a come era stata la sua vita precedente, e si considerava molto fortunato. Inoltre Eleia non aveva problemi di soldi, e a casa sua i servi pensavano a tutto. Nonostante l’enorme differenza fra il suo modo di vivere di “prima” e l’attuale, Histro si sentiva felice. Aveva, tuttavia, ancora dei problemi con il sonno: i tempi di sonno e veglia non si erano completamente stabilizzati, e si svegliava la notte con la sensazione che fosse ora di alzarsi. Però erano disturbi passeggeri: quando si svegliava, guardava Eleia dormire serena al suo fianco, e si riaddormentava vicino a lei. Il tempo passò veloce: mesi, anni. Un giorno Eleia, che era una donna dall’intelligenza acuta, gli disse a bruciapelo: «Non mi hai mai spiegato esattamente da dove sei arrivato, e com’era il tuo paese. Non è ora che tu me lo racconti?...» Histro rimase un momento zitto. Non era del tutto preso alla sprovvista, e sapeva che prima o poi avrebbe dovuto dire delle cose precise a Eleia; tuttavia aveva sempre esitato, nel timore di non essere capito. Pensò che Eleia aveva il diritto di sapere, e decise di raccontarle almeno una parte della verità.
35 «Vieni» la fece sedere vicino a sé, davanti al finestrone, il peplo di lei sollevato dalla leggera brezza che soffiava dal mare «ti racconterò una storia, ma non stupirti se ti sembrerà incredibile» «Ti ascolto: Tutto quello che mi dirai di te, io lo conserverò nel mio cuore» «Io sono nato in un mondo lontanissimo» cominciò Histro «un posto dove mi è impossibile fare ritorno perché troppo lontano. Una città grande, più grande di Atene, dove non c’è bisogno di accendere le torce di notte perché le strade e le case si illuminano solo con un gesto della mano» Eleia fece un’espressione come di incredulità, ma subito riprese il suo sorriso di sempre. Histro continuò «dove sono nato io, tutti hanno i capelli come i miei. E non ci sono cavalli e carri, ma veicoli che si muovono da soli,silenziosamente» «Ma come è possibile che un veicolo si muova da solo?» interruppe Eleia. «Tutto ciò che si muove o ha una funzione, è azionato dall’energia» disse Histro senza addentrarsi in spiegazioni tecniche, che non era in grado di dare e che comunque non sarebbero state comprese «si, il popolo dal quale provengo ha imparato a catturare questa energia e utilizzarla per tutte le necessità della vita…» «Mi piacerebbe» disse Eleia dopo un momento «così non ci sarebbe bisogno di avere tanti servi» Histro annuì «Nel mio paese infatti non ci sono servi, e tutti sono uomini liberi» «E donne?...» «Anche. Tutti, uomini e donne, sono liberi» Eleia era curiosa di conoscere tante cose, sul modo di vivere della gente di Rha, che Histro raccontò volentieri. Ma ebbe una breve esitazione quando lei domandò «Ma allora, dove si trova questo tuo paese?» Alla fine decise che doveva dirglielo. «Ascolta, Eleia: le stelle, quelle luci che si vedono di notte in cielo…» «Si, alcune di loro formano delle figure in cielo» «Ebbene, quelle non sono luci: sono dei mondi, come il nostro Sole. Dei mondi remotissimi. E io… io vengo da uno di quelli» «Non credo di aver capito» disse Eleia dopo un momento. Ma Histro la prese tra le braccia tenendola stretta. «E’ proprio come ti ho detto, io vengo da una di quelle lontanissime luci, che illuminano il nostro cielo la notte come il Sole lo illumina di giorno. Sono talmente lontane che non ho nemmeno idea di dove possa essere la mia patria. Sono arrivato qui sulla Terra perché il veicolo nel
36 quale viaggiavo è impazzito e mi ha scaraventato fuori rotta. Non saprei mai ritornare. Ma ti giuro, non mi interessa nemmeno, io voglio solo vivere con te tutta la vita, mi credi?» Lei gli mise le braccia al collo, restò stretta a lui «Non ho capito fino in fondo» disse «ma se, come dici, sei venuto dal cielo, allora sono proprio gli dèi che ti hanno fatto arrivare fino a me» «E così sarà» affermò Histro, poi raccontò per sommi capi la sua avventura dal momento in cui la sua nave si era disintegrata e la navetta di emergenza lo aveva proiettato fin sulla Terra. Eleia lo ascoltava come si ascolta una bella leggenda, restando sempre rilassata fra le sue braccia. Alla fine Histro disse «Solo ti prego, Eleia, non dire a nessuno le cose che ti ho raccontato: non potrebbero capire, e forse qualcuno sospetterebbe di me» «Si, sarà un segreto fra te e me» Eleia cominciò a baciarlo, e lui si lasciò completamente afferrare dall’attrazione che lei esercitava su di lui. Allontanò il peplo, allungandosi poi con lei sul sedile; infine la portò in braccio fin nella stanza più interna della casa. «Se sono stati i tuoi dèi a volere che ti incontrassi» sussurrò lui mentre giacevano abbracciati «non posso che ringraziarli mille volte» «E io altre mille… tu sei l’uomo con il quale voglio dividere la mia vita, Histro» Passò altro tempo. Un giorno Histro, di ritorno da una gara di corsa nella quale si era classificato fra i primi, si stava rilassando a casa, accudito da un paio di serve che, dopo averlo lasciato immerso in una vasca di acqua tiepida, lo stavano massaggiando con olii profumati. Pensava al tempo trascorso, in Grecia con Eleia, e si domandava se e quando avrebbe cominciato ad annoiarsi di quella vita apparentemente perfetta, quando inaspettatamente la più anziana delle due schiave gli disse «Apollo deve averti portato qualche volta sul suo carro, padrone, perché tu sei sempre giovane!» «Ah, invecchierò anch’io, vedrai» tentò di scherzare Histro. In effetti, se ci pensava, le sue energie erano sempre le medesime nonostante gli anni trascorsi: quando correva con gli altri giovani di Atene, era sempre fra i primi, e non faceva alcuna fatica. Come se la sua età si fosse improvvisamente fermata ai ventisette anni che lui aveva quando era arrivato sulla Terra. Non ci pensò per un pezzo, finché un giorno Eleia gli si sedette vicina guardandolo bene in faccia.
37 «Sai che tu sei sempre il medesimo, come il giorno che ci siamo incontrati, lassù sull’Acropoli?...» lo scrutava da capo a piedi. «Certamente, sono sempre io» Histro sorrise «preferiresti che cambiassi?» «No, certamente. Però, gli anni passano, ma tu non invecchi mai, Histro» «Invecchierò prima o poi» disse Histro, ripetendo quello che poco tempo prima aveva detto alla schiava. Ma Eleia corrugò la fronte, e Histro notò sulla sua faccia alcune impercettibili rughe. «Sono passati sette inverni da quando ci siamo conosciuti, Histro, e io non ho smesso di amarti. Ma tu… tu sei strano» «E tu sei la più bella donna dell’Ellade, anzi forse del mondo» dichiarò Histro cercando di abbracciarla. Ma lei lo tenne lontano. «Aspetta, Histro: è vero che tu sei più giovane di me, ma in questi anni sei rimasto sempre uguale, mentre io…» si passò la mano sulla faccia «io sento lo spirito di Cronos, Histro, il tempo che passa. E fra poco queste rughe che si vedono appena diventeranno più visibili, e il mio corpo non sarà più desiderabile. E tu mi lascerai» «Non dire così, Eleia: io non ti lascerò mai, lo giuro sui tuoi dèi» Histro intuiva l’angoscia che c’era dietro le parole di Eleia, e lui stesso si sentiva sconvolto perché si rendeva conto che, almeno per il momento, sembrava che Eleia avesse ragione. Ma cercò di allontanare il pensiero. Ripeté «tu sai che non è possibile: tutti dobbiamo invecchiare. Forse ognuno di noi ha dei tempi differenti. Non ti angosciare più, Eleia: la mia vita è perfetta, con te. Non potrei desiderare di più» «Che sia come tu dici» Eleia si rifugiò fra le sue braccia. Ma Histro sentiva che il suo abbandono non era più totale come una volta. Da quel giorno, l’atteggiamento di Eleia nei suoi confronti cambiò impercettibilmente. Lui sentiva il suo sguardo che lo scrutava, e da parte sua cercava, in se stesso, qualche segno dell’avanzare dell’età, senza trovarne: era sempre giovane come quando era arrivato. Gradualmente cercò di investigare su cosa poteva essere successo, e ricordò spezzoni del suo addestramento. Gli avevano detto che nel caso assolutamente improbabile di atterraggio su qualche sistema solare remoto, potevano esserci distorsioni nel tempo. In pratica, poteva passare un anno, ma per lui e per il suo metabolismo sarebbe stato come un giorno. Oppure il contrario. Avrebbe potuto, ad esempio, invecchiare molto rapidamente, oppure lentissimamente. Man mano che si rendeva conto che questa remota eventualità poteva essere successa proprio a lui si sentiva sempre più spaventato. Come avrebbe potuto
38 essere il suo futuro? Restare giovane per lunghissimo tempo, accanto a una donna che inesorabilmente invecchiava? Una sorte terribile. E adesso si rendeva conto che quei disturbi del sonno che aveva avuto fin dal suo arrivo sulla Terra e che continuava ad avere, altro non erano che segnali della distorsione del tempo avvenuta in lui. Tuttavia, cercò di non dimostrare, con Eleia, lo sconcerto che a volte lo prendeva se pensava al suo futuro. Si comportava quindi come se niente fosse. Continuava a frequentare gli ambienti sportivi, pur senza strafare. Correre gli faceva bene: durante l’attività sportiva poteva permettersi di non pensare. Era stato anche invitato a partecipare ai Giochi di Olimpia, in occasione dei quali, con suo grande stupore, le città dell’Ellade sospendevano i loro conflitti per dedicarsi solo allo sport, ma aveva declinato l’invito non volendosi esporre più di tanto. Aveva fatto amicizia con molti altri giovani. Fra questi ce n’erano due o tre che facevano parte della guardia militare permanente di Atene. Anche se la città non era in guerra, una guarnigione doveva essere sempre pronta per eventuali pericoli, o incursioni di qualche tribù barbara. In particolare, Histro si trovava a suo agio con Aldrete, un ufficiale della Guardia dal carattere sempre allegro e poco “militaresco”. Aldrete era stato più volte a trovarli, e Histro frequentava casa sua. Aveva una moglie molto giovane e due figli gemelli ancora piccolissimi. I figli! Questo era un altro argomento che Histro preferiva non affrontare nemmeno con se stesso. Certamente Eleia conosceva le pozioni che molte donne usavano pensando che le preservassero dalle gravidanze; tuttavia Histro era sicuro che lei non ne facesse uso. Perciò, l’assenza di figli in tutto quel tempo della loro vita insieme poteva dipendere dalla sterilità di uno dei due. Histro pensava che la distorsione del tempo potesse aver causato in lui sterilità, ma di questo non parlò mai con Eleia. Passò ancora il tempo. Una sera, erano andati tutti al teatro, insieme con Aldrete, sua moglie e altri amici. Si recitava un pezzo comico in cui un vecchio aveva voluto sposarsi con una molto giovane, e per questo veniva preso ferocemente in giro e alla fine dopo molte peripezie si rassegnava a rinunciare alla sposina. Tornarono a casa, E mentre si coricavano sul grande letto, Eleia disse improvvisamente a Histro «Che ne pensi della commedia di questa sera?» «Divertente» rispose lui «attori molto bravi. Una storia della vita»
39 «Si, e può succedere anche il contrario» disse lei «una moglie vecchia e un marito molto giovane» «Bè, può succedere. Ma perché me lo dici?» «Dimmi» Eleia lo tenne supino, si mise sopra di lui «cosa pensi che abbia fatto la sposina di quel vecchio, quando lui l’ha lasciata libera?» «Non so, avrà continuato la sua vita» «Si sarà sentita sollevata, no?» «Ma perché?» «Perché era innaturale, la sua situazione. E il vecchio ha fatto bene a lasciarla libera di vivere la sua vita…» Histro si girò rovesciandola di lato «Perché mi fai questi discorsi, Eleia?» «Non farci caso» lei gli sorrise «stasera voglio che Afrodite ci tenga per mano. Baciami, Histro, baciami» La sentiva più abbandonata del solito, e insieme più desiderosa dell’amore. La tenne vicinissima a sé «Ti amo, Eleia. Non ho altro desiderio che stare con te…» cominciò a baciarla, e si accorse che c’erano lagrime tra le sue ciglia «Perché piangi? La dea dell’amore ci assiste…» «Si, la mano di Afrodite è su di noi» sussurrò lei «baciami ancora» La notte durò a lungo; Eleia sembrava non stancarsi mai dell’amore. Quando si addormentarono sfiniti, Histro restò a letto a lungo. Fu svegliato dalla serva anziana, con il sole già alto. La sua espressione era preoccupata. «La padrona… non la trovo» disse la serva. Histro saltò giù dal letto avvolgendosi con un telo. Eleia non c’era. La cercarono in casa e nei dintorni, e alla fine la trovarono: era sdraiata in mezzo al giardino fiorito che costeggiava il viottolo diretto all’Acropoli. I polsi erano tagliati, e il sangue aveva inzuppato il terreno sotto di lei. La morte doveva risalire a molte ore prima. Il viso bianco era sereno. «No!» gridò Histro cadendo in ginocchio vicino a lei e scuotendola, come a voler trovare in lei ancora una scintilla di vita «No! Non questo!...» singhiozzava vicino al corpo senza vita. Eleia aveva voluto andarsene, adesso lo capiva: andarsene perché lui potesse vivere la sua vita “da giovane”. Ma il suo cuore era straziato, perché lui amava Eleia. Non poteva accettare che lei non ci fosse più, anche se capiva che lo aveva fatto per amore.
40 Dopo i funerali di Eleia, lo schiavo amministratore della casa e delle sue proprietà andò da Histro «Signore, debbo dirti che la mia padrona ha lasciato tutti i suoi averi a te» Histro, che aveva vissuto quegli ultimi giorni come in trance, sussultò «Ma io non voglio niente! Non credo di avere diritto…» L’altro allargò le braccia «Io devo solo eseguire le volontà della mia padrona». Histro incassò il denaro che era appartenuto a Eleia. In quanto alla casa, diede disposizioni all’amministratore di venderla e distribuire il ricavato ai poveri della città. La sera andò a trovare Aldrete. «Non voglio più restare ad Atene. Se puoi, fammi entrare nell’esercito di frontiera, quello più lontano da qui» Aldrete annuì comprensivo. Non conosceva le ragioni del gesto di Eleia, ma capiva che Histro doveva essere rimasto sconvolto da quella tragedia. «So che a giorni partiranno alcune navi di mercanti dirette a Neapolis. Hanno chiesto di essere accompagnate da una guarnigione. Se vuoi…» «Neapolis… è al di là del mare, no?» «Si. molti giorni di navigazione, con l’aiuto di Poseidone» «Va bene, amico. E grazie» Una settimana dopo Histro, con un gruppetto di armati, si imbarcava su una delle navi che lo avrebbero portato, attraverso il Mediterraneo, fino a Neapolis.
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Nelle selve del Nord
L’inverno era stato duro, e l’esercito di frontiera che controllava i movimenti dei barbari che si muovevano nelle foreste della Germania, aveva sofferto il freddo. Ma con la primavera tutto diventava più facile. Anche le popolazioni al di là del “limes” non avevano dato fastidi più di tanto. Un’altra primavera. E poi un’altra estate, e un autunno, e un inverno. E ancora, per chissà quanto tempo. Histro pensava al tempo, mentre si riposava nella tenda che condivideva con una dozzina di altri legionari. Ormai da molti anni faceva parte della Nona Legione, che controllava le frontiere dell’impero. Da quando lui aveva lasciato la Grecia, dopo la morte di Eleia, erano passati quattro secoli, ma il suo fisico era sempre quello di un uomo giovane. Come se dai suoi ventisette anni di quando era caduto sulla Terra ne fossero passati solo altri due o tre. Quasi immortale, per i tempi della Terra. “Pensare che chiunque sarebbe contento di avere una vita lunghissima” diceva a se stesso, a volte “e invece è una maledizione” Infatti, non poteva restare nello stesso posto, con le stesse persone, più di pochi anni, perché in caso contrario il segreto della sua vita sarebbe stato scoperto, ma in senso negativo: come spiegare infatti che lui aveva subito una distorsione del tempo? Avrebbero pensato a un intervento malefico degli dèi, e lui sarebbe diventato un sospetto. Non parliamo poi di legarsi a qualche donna: aveva avuto uno shock troppo forte e un dolore troppo profondo con Eleia per riprovarci. In tutto quel tempo perciò aveva avuto brevi e passeggere relazioni ma niente di serio. “Sono solo” si diceva spesso “sono solo in un mondo che procede, mentre io rimango al palo” avrebbe dato qualcosa per essere un “comune mortale”. D’altronde, il tempo nella sua percezione passava più velocemente che per le persone “normali”: un secolo non gli sembrava “lungo un secolo” e aveva dei ricordi molto vivi del suo passato che per un altro sarebbe stato remoto. Aveva deciso di fare il soldato, prima per l’Ellade e poi per Roma, perché non gli importava molto di vivere. Ma in tutti quegli anni non era mai stato nemmeno seriamente ferito. Una volta era stato catturato da un gruppetto di Burgundi, i quali lo avrebbero ucciso se non fosse
42 intervenuto il centurione Gaio Getulio che, arrivato fortunosamente con un gruppetto di legionari, era riuscito in extremis a salvargli la vita. Per parecchi anni, dopo quell’episodio, Histro era rimasto molto amico di Gaio Getulio, finché quest’ultimo era stato richiamato a Roma. Comunque, la sua vita continuava e a volte riusciva anche a essere sereno. I suoi capelli dal colore di oro verde non destavano stupore più di tanto. Lui ormai da tempo aveva detto di venire da una terra “al di là della Persia” senza specificare, e a volte lo chiamavano “persiano” per questo, mentre le donne lo trovavano sempre interessante. Adesso si trovava, con le legioni di Ulpio Traiano, al confine con il territorio dove scorrazzavano tribù barbare germaniche: Burgundi, Franchi, Goti, Alemanni. Avevano avuto alcune scaramucce con loro, ma non sembrava ci fossero seri pericoli. E il comandante in capo, Traiano, si era rivelato un condottiero molto capace, stimato da tutti, per primi i suoi soldati. Il Cesare di Roma, il vecchio Nerva, sembrava contare molto su di lui. Un paio di legionari entrarono nella tenda. Sembravano agitati. Histro si alzò a mezzo. «Che succede?» «Fra poco verranno a chiamarci» disse uno dei due, mentre esaminava i lacci della sua corazza appesa poco più in là «sembra che un grosso gruppo di Alemanni abbia sconfinato più a sud di qua. Forse dovremo fare una ricognizione» «Bene, prepariamoci allora» Histro controllò le proprie armi: lorica, elmo, gladio, giavellotto, scudo, pugnale. Gli era capitato poche volte di adoperarli per davvero, e non era stata un’esperienza piacevole quella di infilare una lama nel corpo di un nemico. “Eppure ormai dovrei esserci abituato” pensò “anche perché gli altri non vanno tanto per il sottile” Dopo poco, come previsto, arrivò l’ordine di partire per esplorare i dintorni e possibilmente capire se gli Alemanni avessero davvero sconfinato, dove, e quanti fossero. Il drappello era composto da quindici uomini, comandati da un centurione,. Camminarono in silenzio per qualche chilometro nella foresta in direzione sud. poi diressero verso le colline per vedere la situazione dall’alto. Sul lato opposto, la foresta cedeva il posto alla prateria e la visuale era più ampia. Arrivati in cima alla collina si fermarono disponendosi in formazione di sicurezza: la collina terminava in un cocuzzolo erboso che si raggiungeva arrampicandosi su un pendo molto ripido. FINE ANTEPRIMA CONTINUA...