L'invisibile agli occhi

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OMBRA

L’INVISIBILE AGLI OCCHI

Edizioni SHALIBOO

www.shaliboo.it


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L’INVISIBILE AGLI OCCHI Copyright © 2010 Ombra ISBN 978-88-6578-005-3 In copertina: immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Ottobre 2010


Introduzione

Talvolta i sogni si confondono con la realtà. A volte, invece, quella che sembrava una memoria certa, non è che una costruzione della mente, un artifizio o un tentativo, probabilmente, di esplorare mondi sconosciuti per mero spirito di avventura o – al contrario – di affidarsi a ciò che ben conosciamo, per non incorrere in brutte sorprese. Ma a volte ciò che si crede di conoscere, non è per nulla affidabile, mentre ciò che ignoriamo, ci accoglie come vi avessimo sempre dimorato. Un ameno luogo di villeggiatura può rivelarsi ostile, una esistenza apparentemente senza scosse, celare l’inconcepibile. Da un evento naturale come la Vita si può desiderare di scappare. Banalmente si è portati a pensare che basta che ci sia. Quindi, da questo moto perpetuo degli opposti è nato “L’invisibile agli occhi” , molte Visioni o un’unica grande Visione, ottenuta attraverso un caleidoscopio che immagino rigorosamente composto da schegge in bianco e nero. Sì, un tema che mi è particolarmente congeniale. Ringrazio chi mi ha svelato il segreto delle Visioni di molto autorevoli scrittori e mi ha aperto la porta di una stanza che io non credevo nemmeno esistesse , insegnandomi che la conoscenza non è nulla senza l’intuizione, ma che a sua volta, l’intuizione senza conoscenza è destinata ad esser raggirata. E ringrazio anche mia madre che mi sta educando al silenzio e non credevo davvero che potesse essere un bene così prezioso.

Ombra , 25 agosto 2010



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Ebano & Avorio

Che macabro trofeo porta trafitto al suo stendardo stasera, la Signora: la testa di un uomo vivo; è il giovane musicista, con gli occhi ancora accesi dalle sue melodie, le orecchie aperte a catturare suoni… lontane armonie che i suoi pensieri rincorrono, mentre il sangue, stilla dal taglio netto della sua gola su cui un fendente ha lasciato singolarmente illeso, il pomo d’Adamo che oscilla, come un metronomo, concepito da un cieco, su e giù, in un moto perenne. Le mani giacciono ancora sulla tastiera di ebano e avorio e, serpentine irrequiete, si muovono anch’esse , condannate ad un rinvio incessante. Interminabile Ouverture. Sul fondo della sala buia, si apre una grande porta a vetri in stile art decò che introduce - prigioniera degli anni che si intravedono sui vetri consumati - ad un ampio giardino di inverno, con giganteschi cactus e rigogliosi yucca che cingono un salotto in vimini. Sdraiata su una dormeuse, c’è una donna, con i lunghi capelli raccolti senza stringhe - da un lato, tali che formano, attorno all’incarnato olivastro del viso, come una sorta di stola, da cui emerge nella il collo, attraversato nella lunghezza due pieghe cave , ed il viso su cui si aprono occhi fissi, come ornati a lutto, da un pesante rigo di eye liner cenerino. L’abito che indossa è più simile ad un peplo, un cordiglio - frenato su un fianco da un fermaglio di madreperla – lo tiene. In questo strano stato di dormiveglia, la donna non avverte la presenza della Signora, che con un incedere lento e ritmato, reca, stretta tra le mani che quasi le sanguinano, la sua insegna.


6 La stanza attigua al giardino d’inverno, è una studiolo ricavato da un vecchio deposito di attrezzi. Le due piccole finestre incastonate nel muro, si aprono su un cortile, attraversato da una corda da funambolo utilizzata da Tomas, il trapezista , per i suoi esercizi quotidiani. Dallo studiolo, da quelle due finestre incastonate nel muro, tutti i pomeriggi le note di un pianoforte scendono a ricoprire di una melodia malinconica l’aria in cui il cortile è immerso. Al piano terra della Grande Casa, abita Adua, la balia; Adua è nata per fare la balia ed oltre ad occuparsi del suo unico figlio – Maurice – ha allevato molti altri figli, non suoi. Maurice è un bambino scuro di capelli, occhi azzurri come il mare di luglio; i suoi capelli sono dritti contro il cielo e porta, legato al collo con una vecchia cinta da uomo, un tamburello, ricavato dai barattoli delle conserve. Ogni volta che le note del pianoforte volano dalle finestre aperte, Maurice, sembra volerle sfidare e colpisce più forte il suo tamburo fino a che il nonno, dolcemente, non riesce a convincerlo a seguire, se non altro, una melodia. Ratta rattantanta rattantanta ratta ratta… - Ecco, Maurice, se segui un ritmo, quello che avrai non è solo rumore, sarà Musica -. - E che cos’è Musica, nonno? - chiede Maurice - La Musica è equilibrio dei suoni che sono arrivati tutti puntuali ad un appuntamento, è un’onda che si unisce ad altre onde e insieme fanno un mare speciale, un mare che non si vede, ma che si può sentire, che può cullare o chiamare alla battaglia, che può allontanarsi silenzioso o che può bussare alla porta con un colpo pieno di collera… -. Maurice non è molto convinto di aver capito, però riconosce che il modo in cui il nonno gli ha insegnato a muovere le sue bacchette sul tamburo di latta, rende molto più gradevole il suono che emette. E lasciando che il tamburo lo ostacoli dal farlo, non rinuncia, lo stesso a stringere le braccia al collo del nonno che, con una raspa, sta rifinendo una statuina di legno di castagno. Sono sempre meravigliose le statuine che il nonno crea dalle fascine raccolte nel bosco. A volte hanno forme misteriose, altre sono come i pupazzetti dei presepi. Adua arriva, trascinando due pesanti sporte per la spesa. Il suo viso è giovane, ma i capelli cominciano a tradire i segni del tempo. Da molto tempo non alleva più i bambini con il suo latte… ci venivano da fuori il paese… ora, l’unica cosa che le rammenta il suo passato, sono due enormi mammelle appoggiate quasi sullo stomaco, a malapena


7 prigioniere di corsetti e reggi seni che ogni mattina stringe attorno a quello che – un tempo – era stato il punto vita più invidiato di tutta la contea. La musica del pianoforte che piove dai piani alti, talvolta si fa più andante, talvolta sembra essersi arrestata come per un colpo improvviso. La donna si alza dalla dormeuse e, scalza, raggiunge la sala dove un giovane pianista è intento a suonare. Gli passa affettuosamente una mano sulla spalla a lisciargli la camicia, ma egli quasi non l’avverte, tanto è concentrato sui tasti bianchi e neri che sembrano sparire sotto le sue dita. Ad un tratto, dopo un affondo sulla tastiera, con un colpo secco chiude il coperchio del pianoforte e si alza come morso da una tarantola. La donna lo guarda allargando i suoi occhi già grandi, ma non dice nulla e il giovane pianista si versa da bere addossando il bacino al grande mobile bar. Il ghiaccio cade nel bicchiere e suona, ma senza melodia … è il suono freddo, conciliante ed obbligatorio, di qualcosa che è stato scelto. - Non ce la faccio più - ad un tratto dice il giovane pianista con una voce talmente bassa che si fa quasi fatica a udirlo. E sulla ù quasi inspirata, si accende l’ennesima sigaretta. - Non ce la faccio davvero più - e stavolta la ù è più decisa, è come una lama di coltello che si avventa su un quarto di bue, per straziarne le carni, per obbedire ad un eccesso di ira senza controllo, che deve sfogarsi, cercare la via d’uscita. La donna, gli si avvicina, lenta e quasi teatrale, ma non è una posa , piuttosto sembra volere rendere l’affermazione del pianista più dolorosa, sottolinearne la tragicità con i suoi occhi che sembrano inespressivi, tanto sono liquidi di lacrime. Però è difficile trovare parole che consolino… le ultime le sembra di averle tutte dimenticate nella casa degli Champes Elysèes, e poi lui, il pianista, non è facile da consolare… le sue richieste, anche se inespresse, sono sempre secche, dirette… impossibile, quindi – nelle risposte – celarsi dietro i ma, i forse… Da mesi il pianista accenna sempre le stesse note, che vagamente rammentano una sonata di Chopin, ma non c’è prosecuzione… il tema si arresta sempre sulla stessa battuta: una croma (♫ ) in Mi , la paletta fluttuante di una semiminima (♪), un Do grave…Le note sembrano armi che lambiscono pelle chiara e liscia… incredibile a dirsi quanto


8 possano diventare minacciose e, nella loro incompiutezza lo sono, via via , di più… Dal cortile, sale sempre il suono secco e indisponente del tamburo; Maurice si arresta solo ogni tanto per assicurarsi di avere sempre nella tasca dei pantaloni , tenuti su dalle bretelle scure, tappi di bottiglia di birra, appiattiti e scoloriti, che nelle sue mani diventano sesterzi romani o monili di faraoni egizi che il ragazzo scambia volentieri con i vetri colorati che il nonno gli propone come rubini o smeraldi, bottino di pirati dei Mari dell’Est. E’ un gioco a cui Maurice si presta con passione… d’altro canto il nonno riesce sempre a conquistarlo con le sue storie strane e qualche volta, specie nei pomeriggi caldi che annunciano l’estate, lo mette a sedere accanto a sé, sul sedile in pietra davanti la fontana e gli racconta di strani essere verdi che popolano il cielo, che scendono a trovare gli umani, ma senza farsi vedere… e poi gli racconta del mare e di quando a bordo del suo gozzo, solcava onde imbizzarrite come cavalle e dalla costa si sbracciavano per salutarlo e lui rispondeva con un “Ohh, Ehooo!” agitando un braccio in cielo. - Avevo tanti amici e una donna in ogni porto - racconta il nonno e con il pollice e l’indice si gratta un po’ la testa, rimasta folta di un chioma bianca. - Eh, va là - “ lo canzona Maurice - una donna in ogni porto! - e come un ometto gli batte una mano sulla spalla… … E poi, ecco di nuovo quelle note come lance di acciaio scagliati una ad una dalla finestra aperta del piano di sopra… ogni volta che la musica scende ad avviluppare con la sua malinconia lo spazio del cortile, tutto diventa improvvisamente triste e mesto; sembra perfino che ombre minacciose comincino a volteggiare, si dondolino sulle corde di Tomas, entrino ed escano senza ritegno dalle porte aperte o da finestre socchiuse, lasciandosi dietro ventate artiche Il pianista è curvo sulla tastiera. La camicia bianca infilata sommariamente nei pantaloni neri , come avesse urgenza di vestirsi … ; la donna, invece, è sempre ineccepibile fasciata da tuniche chiare ed i piedi, sebbene scalzi, appaiono chiari, come scivolasse sopra il pavimento invece di affliggerlo con passi … o come se questo altro non fosse che una nuvola che ha perduto l’orientamento ed ha deciso di stabilirsi lì, nella Grande Casa. Sui fogli dello spartito, note sono scarabocchiate … il furore in persona le ha tracciate, il furore dell’arte che erutta come lava o che irrompe come un tuono, tanto forte da destare il pianista dal lungo sonno dell’inerzia e avesse squarciato un sipario carminio di emozioni, su un


9 orizzonte nuovo; uno strappo nel silenzio effimero di una composizione che stenta a nascere. Dietro il pianoforte, come sempre, si alza una cortina di fumo di sigaretta; molti mozziconi giacciono mutilati a metà, altri si sono consumati nel capiente posacenere di cristallo rosso, rosso come sangue di ferite, o come dardi di luce riflessi su candore di camicia,quando il sole impietoso ne attraversa i lati sfaccettati. Il resto della casa è avvolto nel chiarore decadente dell’apres midi ; sul soffitto disegnati arabeschi di ombre barattati all’astuzia della luce, che si insinua dalle tende e dalle persiane accostate; dal cortile, ora arriva solo il silenzio del riposo pomeridiano; lontano è impercettibile e costante la voce della fontana. La donna riposa sulla dormeuse; un libro francese si è aperto sul petto . Nel cortile, Adua fa scorrere i fili del bucato, Maurice ed il nonno riposano uno abbracciato ai sogni dell’altro; niente lascerebbe prevedere nulla. La Signora leva in aria il suo stendardo. Il sangue è ormai rappreso, la bocca si è arresa ad un ghigno e poi ad una smorfia. Le ciglia sulle palpebre abbassate, catturano ali di polvere che gli ultimi liquori non lasciano andare via. La testa del giovane pianista, penzola ora, come pensosa, da un lato. Mille occhi inesistenti spiano dalle ante degli stipi socchiusi, dalle stecche ombrose delle persiane, dai fondi di sofà. Una marcia funebre suona il cuculo che, meccanico ad ogni rintocco, esce con la sua martingala nera a beccheggiare nel vuoto, a sbeffeggiare la morte. La Signora, incede lenta e scosta con i piedi scheletrici anse di tappeti. La musica è solo un rintocco, la luce solo un baluginare tremulo delle lampade ad olio, i fiori – nel giardino di inverno – sono come sorpresi da una gelata improvvisa. Con il suo beffardo stendardo, compie il giro completo della casa e sulla scalea monumentale ed infine attraverso i corridoi di marmi. Ovunque, porta il suo persuasivo effluvio. Quando la donna si desta, il pianista la guarda l’aria molto appagata di chi ha portato a termine un compito affidatogli e di cui non era certa la fine. Nel posacenere decine di mozziconi di sigarette restano miracolosamente in equilibrio gli uni sugli altri, sono come torri di Babele che sfidano la gravità; nella stanza l’aria è irrespirabile e il fumo si è incolonnato per uscire, infilzato da un raggio di luce, dalla persiana semiaperta dello studiolo. Il pianista stringe nella mano destra


10 un fascio di fogli bianchi, con evidenti macchie scure e note piovute sul pentagramma – sembrerebbe – direttamente dal cielo. Trionfante esclama senza sorriso: “ E’ finita!” e la donna fa per alzarsi dalla dormeuse, facendo scivolare prima uno poi l’altro, i piedi sull’ampio bukara . Allora il pianista le porge un braccio ove la donna posa una mano diafana a e smagrita, ornata da un unico grande anello, pieno di una pietra rossa. - E’ finita - ripete il pianista; il tono di voce è raggiante, ma non vi sono archi di risa sul suo viso stanco. - E’ finita - ripete la donna facendo da eco a quella gioia senza entusiasmo. Ed allora, il pianista si reca al pianoforte e comincia a eseguire la sua sonata, tutto concentrato sullo spartito, mentre la donna, in piedi, al suo fianco, sembra una colonna d’Ercole, non ancora rimossa dal suo piedistallo. Ella giace accanto a lui, immobile e regale; appena ondeggiano i suoi capelli invitati dal lento movimento della testa; un braccio posato sulla spalla magra del pianista, l’altro disteso lungo il fianco, come dimenticasse di possederlo. La tunica le ondeggia appena al soffio impercettibile dell’aria vespertina e nella stanza si percepisce una insolita quiete, ed una grande sorpresa, come quando un visitatore inaspettato e gradito, viene a farci visita. Volteggiano le dita del pianista sull’ebano e avorio della tastiera… corrono e si annodano attorno alle note e ora, nella foga della composizione, anche i suoi capelli – costretti solitamente dalla brillantina – si sono liberati in ciuffi scuri che si agitano alla luce della lampada ad olio che la governate – entrata per un momento senza che nessuno potesse avvertire la sua presenza – ha acceso con gesti consumati. Si è oramai a ridosso dell’orario di cena, ma il pianista non la smette di suonare e risuonare la sua composizione ed ogni volta fremente, cancella note e riscrive note, mentre la donna, è rimasta immobile dal suo risveglio, accanto all’uomo che sembra scosso da un delirio . Nel cortile, Maurice ed il nonno, si apprestano alla cena; Adua, dalle sue commissioni, ha riportato a casa un bel pezzo di bollito che ora giace in compagnia di patate e sedano, nella pentola smaltata. Rumori di stoviglie e di piatti echeggiano nella sera. Anche al piano superiore ci si sta preparando per la cena e nella stanza da pranzo il lungo tavolo rettangolare è imbandito come per le sere di festa. Quattro


11 candele svettano nei due candelabri e la luce trema ad ogni misurato gesto della servitù che versa, in alti calici, un luminoso vino rosso. Contrariamente al solito, il pianista non siede di fianco alla donna; stasera si è fatto apparecchiare all’altro lato corto del tavolo e lo spazio che ne risulta tra i due è immenso e quasi scenografico. Non parlano durante la cena e tra una pietanza e l’altra, il pianista accende sigarette che poi non finisce, mentre la donna sorseggia elegante pensosa il vino, stringendo il gambo del flûte. Nelle stanze attigue si sente l’andirivieni della servitù che si appresta a sua volta alla cena sistemando, nel frattempo, la cucina. La coppia resta per un tempo infinito in silenzio, ognuno prigioniero dei propri pensieri che forse vorrebbe svelare all’altro, ma che restano – invece - immobili, come presi da catene di incomprensibile quiete. Il primo a muoversi è il giovane pianista che si alza dal tavolo, spingendo la sedia dietro di sé, con un movimento brusco. La donna, allora, sembra destarsi da un sopore e quasi sobbalza e guarda il pianista in modo interrogativo, ma al contempo con una lontana, lontanissima speranza negli occhi. - Vado a lavorar - dice allora il pianista, devo finire… sai come è Soreil… se non consegno tutto entro giovedì, chi lo sente…” - Ma oggi è lunedì - risponde la donna. C’è una sottile attesa nella sua voce, l’attesa di una donna che vorrebbe attenzioni, carezze, una lusinga. - Sì, ma non sono dell’umore giusto; e poi lo sai, quando lavoro non riesco a dedicarmi ad altro - e stizzito, ma anche orgoglioso di quella sua “inclinazione” da artista, esce dalla sala da pranzo, lasciando dietro di sé un leggero spostamento d’aria che appena odora di after shave. La donna resta seduta al tavolo… le dita tamburellano sulla tovaglia di fiandra, giocherellano con le posate da dolce, ancora in ordine davanti al piatto. La cena è stata portata via quasi intatta. Allora, scostandosi i capelli, posa una mano sul collo, come se volesse sorreggerne il peso, come se la testa ci fosse poggiata sopra, leggera e inconsistente. Si alza, ma non sospinge la sedia dietro di sé; lo fa semplicemente roteando il bacino nell’angusto spazio che la sedia ha creato con il tavolo. La tunica la segue, morbida e senza fruscii. - Non ha mangiato nulla- la esorta la governante. - Non avevo fame - risponde la donna che come attratta da una forza misteriosa, raggiunge la dormeuse su cui si sdraia, sollevando, appaiati, i piedi dall’ampio bukara. Maurice, il nonno ed Adua hanno appena finito di mangiare.


12 E’ una gioia vedere mangiare Maurice… con quelle sue dita tronche e veloci, spazzola il piatto con l’ultima crosta di pane, mentre il nonno, con il suo temperino affilato, ha già ricavato dal sughero della bottiglia, una pecorella che mette a brucare le molliche sul tavolo. Adua, con le sue mani rosse di fatica e i capelli raccolti in un generoso chignon, comincia a rassettare la tavola, ma il nonno la invita a sedere, per ascoltare qualche storia. Adua, a dire il vero, le conosce tutte molto bene, ma lo stesso lo asseconda, se non altro per accontentare anche Maurice che la incita con un tifo da stadio: - A-dua! A-dua!A-dua - … e che non sembra disposto a smetterla fino a che lei non lo abbia compiaciuto. - Allora… - comincia il nonno lisciandosi appena la punta dei baffi stasera vi voglio raccontare una storia di una signora ricca, bella, ma tanto infelice che un giorno è uscita da casa e non vi ha fatto più ritorno e nessuno sa dove sia - . - Ma tu l’hai conosciuta? - Maurice è incontenibile…”Ma l’hai vista? Era davvero bella? E aveva gioielli, eh? Eh? “ e saltella davanti alle ginocchia del nonno, che sporgono magrissime dai pantaloni di fustagno. - Smettila, Maurice, fa parlare il nonno - e Adua cinge il bambino tra le braccia. - Dunque, questa donna bellissima, era arrivata qui al borgo da molto lontano, ma nessuno sapeva bene da dove … Quando la Signora attraversa le stanze ed i corridoi, l’aria diventa gelida, i fiori perdono il loro turgore. Sullo stendardo, ancora, è infilzata la testa del pianista, ormai il sangue rappreso si è fatto bruno, qualche mosca vola intorno ad essa, rapace e ingorda . Colpi di grancasse lontane strappano il silenzio – comunque ostile - . Gli specchi antichi rinnovano qualche crepa qua e là; le macchie di muffa si allargano su candidi copri divani. La Signora, stasera, è vestita a festa. Sta celebrando un matrimonio, il suo matrimonio. Anche lo sposo è vestito a festa… sotto la testa mozza del pianista, ha sistemato un bel papillon di seta nera, su ciò che resta del collo. Anche l’asta dello stendardo è ornata, come in una solenne cerimonia. Innesti di trine e pizzi neri, scivolano seducenti dall’alto; seducenti come una donna che si offre in un rendez vous occasionale, come una profferta d’amore, che non prevede amore, ma solo uno scambio ardente di carezze e baci.


13 Avanza, la Signora, tornando, come in una minuscola danza, appena sull’ultimo passo compiuto. Il racconto del nonno avanza, come una coperta calda che cinge in un abbraccio Maurice che si addormenta, alla fine, sulle ginocchia di Adua con negli occhi ancora le avventure della bellissima donna scomparsa nel nulla. - Quante volte, me l’hai raccontata da bambina? – Adua ha uno sguardo sognante. - … ed ogni volta la bellissima e triste donna scomparsa, prendeva destinazioni diverse; ma davvero qualcuno diceva di averla vista in Turchia, ambulante nel Bazar di Istanbul o al seguito di carovane di berberi, forse rapita. Ma c’è chi giura che sia l’inquilina della Grande Casa, colei che gira scalza e che si accompagna a questo giovane e infelice pianista - . - E quando sarebbe tornata? - Adua sembra provare un rinnovato interesse per quella storia; quella versione dei fatti, le manca. - Mah! Dicono quando la regione intera fu flagellata da quelle torrenziali piogge di novembre… rammenti? Fu quando Tomas scivolò dalle corde e si ruppe l’osso del collo…- . E’ di nuovo calato il silenzio tra padre e figlia; ma non è un silenzio greve, ma solo di cose già dette, sapute l’uno dell’altra, ma lo stesso avvolte dal fitto mistero che circonda le loro vite, costretti a condividere, da sempre, la solitudine di una famiglia. - Andiamo a dormire, papà - e Adua sfiora appena la spalla del vecchio che è rimasto assorto nei suoi ricordi. Il pianista è già alzato da un po’. Ha spiato l’alba apparire da dietro la finestra, come stesse osservando dal buco di una serratura. In cerca di ispirazione, probabilmente. Il lavoro notturno, benché lo abbia costretto a molte ore di insonnia, non ha portato molti frutti. Ma stamattina, non sembra preoccuparsene. Lo spettacolo dell’alba che sembra essersi concessa solo a lui, lo mette di buon umore e quando il sole si sta levando, ricco di promesse, dalle nuvole sfrangiate, il pianista decide di andare a svegliare la donna e di regalarle un attimo di tenerezza, appena uno. E infatti, arriva in silenzio nella stanza da letto della donna che dorme con i capelli fermati da una fascia bianca. Una rapida occhiata al comodino rivela al pianista che il sonno della donna è indotto dal grande numero di sedativi e sonniferi di cui da non molto tempo, fa uso.


14 Prima i sonni della donna erano quieti; al mattino gli raccontava i suoi sogni, pieni di speranze… ma da un po’ di tempo, anche i sogni sono diventati piccole opere drammatiche, riassunti di dolori, senza colore e muti. Sembra essersi spenta, adagio. Quando la conobbe era all’apice della sua carriera di cantante. La sua voce sembrava poter competere con gli strumenti stessi, sembrava elevarsi fino in cielo, competere perfino con Dio. Poi… tutto questo deve essere finito, ma quando?! Si siede sul letto, la guarda dormire e vorrebbe che quella quiete che traspare dalle palpebre socchiuse, si trasferisse ai suoi occhi irrequieti, alle sue mani, piene di tormenti, solo piene di nodi e catene. Ma poi, decide di non svegliarla… se la svegliasse, quella pace finirebbe, non potrebbe più sfamarsi con quella quiete e il suono della voce di lei, lo farebbe ripiombare in un senso di oscuro fallimento; decide quindi, di prolungarla, ma un pensiero si fa largo, spintonando gli altri, più lenti, nella testa: e se la allungasse all’infinito? E … se… la uccidesse? E quasi senza pensarci, semplicemente fa scivolare un cuscino da un lato all’altro del letto fino a posarlo, delicato e calmo, sul viso della donna, che ha appena un fremito, un sussulto. Non ha avuto quasi il tempo di aprire gli occhi. E lui non l’ha sentita quasi gridare. Le piume del cuscino hanno assorbito un dolore e non lo hanno restituito. Tra quelle piume, ora, è rimasto imprigionato un urlo. Qualche goccia di sudore scivola dalla fronte del pianista alla camicia da notte candida della donna, su cui resta appena un’impronta, un’orma impercettibile, soffocata anch’essa, dalla trama lucida della stoffa. Adua guarda la sveglia sulla dispensa. È ferma. Il nonno è fuori a fare legna e Maurice, è rimasto solo, con il suo tamburo appeso al collo, a giocare in tondo nel cortile.. Ratta rattantanta rattantanta ratta ratta… Ratta rattantanta rattantanta ratta ratta… tan, tan, tan, e poi un urlo oltrepassa il tamburo e diventa un lenzuolo di orrore che copre tutto. La governante ha trovato il corpo della signora, ancora sdraiata nel suo letto con il cuscino sulla faccia, che sembra le abbia sformato i bei lineamenti regolari. Ed ecco, quasi subito, dallo studiolo, un colpo di pistola che supera perfino l’urlo e resta appeso al nulla con l’odore della polvere da sparo. Il pianista si è sparato, con precisione matematica , al cuore. La camicia è quella della sera prima, ormai quasi tutta fuori dai pantaloni neri, ma con un’unica asola rossa appena lacera sul petto, come se un sarto


15 arrabbiato, in un impeto l’avesse strappata. I muri, i divani, i tappeti, sono ornati da piccoli gemme di sangue. L’avorio dei tasti del piano, sembra soddisfatto dei minuscoli frutti rossi… sull’ebano il sangue diventa più scuro, ma lo stesso non perde la sua trasparenza. In un attimo, tutta la vita della Grande Casa, sembra essersi estinta, come inghiottita . La Signora indossa un abito da sposa nero. Trasparenze di ricami su braccia scheletriche che elevano il suo stendardo crudele. Sullo stendardo è riapparso il capo del pianista che penzola guasto; buchi al posto di occhi, qualche lembo di pelle ancora attaccato a quello che una volta era stato il volto di un uomo, bello e tenebroso. E quelle tenebre lo hanno ripreso; nelle tenebre è ritornato e ha portato con sé, la luce dell’arte, la magnifica visione che , reclusa, è rimasta negli occhi della donna, come l’aveva, così, prima di addormentarsi. La Signora scivola sul pavimento ; un alito freddo lascia dietro di sé. Tra le mani scheletriche stringe lo stendardo; porta il suo sposo in trofeo. Una ad una percorre tutte le stanze, talvolta ritorna sui suoi passi. Inchinatevi, dunque, alla Signora!


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La prospettiva di Lou

Ridimensiono. Dissimulo. RiStabilisco. Deliberatamente retrocedere amici al rango di conoscenti. E’ un compito che mi sono imposto. Nel silenzio, cerco la mia amicizia, l’amicizia di me, il solo che non mi tradirebbe mai. Arrivo a casa in fretta, come avessi un appuntamento a cui non posso tardare. Lo faccio sempre, da mesi. Velocemente infilo la porta di casa e me la richiudo alle spalle, con la stessa sensazione che avrei se mi stessero pedinando. Chiudo subito con una mandata di chiave. Nel buio, ristabilisco un ordine ed un contatto quieto con il mio respiro, che, fino a poco, leggermente ansimava. Prima lancio la giacca con gesto elastico sulla poltrona del soggiorno e mentre mi accendo una sigaretta, con l’altra mano slaccio le scarpe, che sfilo premendo la punta dell’una sul tallone dell’altra. E le scarpe rotolano oltre il divano e si dispongono in ordine casuale sul tappeto. Fuori la città corre e grida, ma è lì dietro l’alta finestra, dietro le tende, dietro le piante che regalano a questa stanza intossicata dal fumo, un po’ di ossigeno. La città è fuori … o sono io ad essere fuori dalla città? La posizione così bassa delle mie finestre, mi offre l’opportunità di assistere all’esistenza altrui senza farne minimamente parte. E’ un lusso, in un certo senso. E quindi, rasserenato da questo pensiero, allungo i piedi sul tavolino… Poi mi sistemo come fossi in un ventre materno, ogni tanto il braccio si allunga verso il posacenere e poi, un’ultima volta per spegnere la sigaretta. E poi mi stringo le mani tra le gambe, mi chiudo come una foglia in autunno e mentre non so più se il chiarore che proviene da fuori sia del sole o lampioni, mi addormento.


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Quando mi risveglio, i polsi mi fanno male; fuori la città ha smesso di correre e gridare e solo di tanto in tanto passa qualche automobile senza semaforo. Immagino sia notte. Ogni tanto risuonano tacchi sul marciapiede, ogni tanto quei tacchi hanno una voce. La stanza è immersa in una oscurità sintetica. I lampioni proiettano ombre di pothos sul muro di fronte. Non so quanto ho dormito, non guardo l’ora, anche se il ticchettio della sveglia risuona, insolitamente rumoroso.


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Miraggi

Il treno si fermò in quella che non sembrava nemmeno una Stazione. Al limitare dei binari, a destra e a sinistra, giacevano grovigli di fili elettrici, posti come una recinzione, a salvaguardia dei ciottoli, che al mio passaggio, si mossero leggermente. Appena scesa dal treno, mi accesi una sigaretta. Mi piaceva fumare, mi era sempre piaciuto e mi piaceva perfino la mia tosse con qualche accenno di catarro e da un po’ mi ero resa conto che avevo aumentato notevolmente il numero delle sigarette, per sollecitarla e premere anche su quella voce bassa che da qualche anno a questa parte avevo cominciato a “coltivare”. La Stazione era deserta e così pure la sala d’attesa. Un basso edificio isolato, conteneva un piccolo locale adibito a bar che si apriva con due porte a vetri ornate di tendine di nylon ingrigite. Avevo voglia di un caffè e quindi, senza spegnere la sigaretta che mi penzolava tra le labbra, entrai nel locale. La grande valigia di cuoio nera mi costringeva ad una leggera flessione a destra a causa del suo peso ed appena entrata la posai a terra rumorosamente facendo picchiare i tacchetti di metallo posti sul fondo, quasi a volermene disfare, soprattutto per richiamare l’attenzione sulla mia presenza al gestore del bar. Nonostante ciò , non apparve nessuno dalla tendina in canne di plastica che separava il locale bar dal retrobottega che potevo intravedere più ampio - dal quale giungeva un intenso odore di creolina. Ne dedussi che doveva esserci qualcun altro oltre me, e quindi con la voce di mezzo tono più alta - ma sempre timidamente domandai: - C’è nessuno?! – dall’altra parte non proveniva alcun rumore, se non intermittenze di gocciolii d’acqua, simili a quelli di un rubinetto che perde. Mi ero alzata presto la mattina e cominciavo ad essere stanca e quasi come presa da un desiderio irrefrenabile: avevo bisogno davvero di un caffè, come fosse la sola cosa che in quel momento potessi desiderare. Mi dicevo che ero assurda e che avrei potuto andarlo a


19 prendere in un altro bar, ma era come una forza inspiegabile e a cui non potevo resistere che mi costringeva, in un certo senso, a volerlo ora, subito e lì, non in un altro bar… in nessun altro posto che non fosse quello. Però cominciavo a perdere la pazienza e pur sapendo di comportarmi in modo assolutamente irrazionale, lo stesso cominciai a battere con il palmo della mano aperta sul bancone di legno facendo risuonare l’anello che portavo al medio. Alla fine mi decisi a passare dall’altra parte del bancone e cominciai ad armeggiare con la macchina del caffè, una Faema che doveva avere all’incirca la mia età; non sapevo come fare, ma avevo mille volte visto i baristi preparare il caffè e riflettei sui gesti che hanno accompagnato la nostra vita un milione di volte e che ci paiono ad un tratto assolutamente sconosciuti e misteriosi. Però lo stesso provai a caricare la macchina e solo quando con una spinta richiusi il cassetto dei fondi del caffè, che non voleva proprio saperne , la tenda di plastica si spalancò e comparve un uomo alto e robusto che si asciugava le mani ad un grembiale e che mi attaccò con lo sguardo alla macchina del caffè con uno sguardo molto contrariato. - Mi scusi , ma… non veniva nessuno ed io avevo assolutamente bisogno di un caffè, ho fatto un viaggio allucinante per arrivare qui… – con un sorriso tirato, cercai di assolvermi Il barista rimase un po’ interdetto. Era certamente sorpreso e venne verso di me, fino ad entrare nello spazio esiguo dietro al bancone così che da sbarrarmi completamente l’uscita. - Mi scusi ancora, non volevo… - ma lui mi guardava senza rispondere e continuava a strofinare le mani, ormai asciutte, al grembiule, con un fare che mi sembrò anche un po’ minaccioso. Solo allora, notai che aveva infilato al dito mignolo un anello da donna, con una vistosa pietra blu. Non mi sono mai intesa molto di gioielli veri, d’oro, intendo: la mia preferenza è andata sempre per le pietre dure e l’argento, ma quell’anello era inequivocabilmente d’oro e da donna; magari forse di foggia un po’ antica, ma forse per questo più prezioso. Il panno del grembiule era confusamente segnato da striature rosa che andavano a scolorirsi in prossimità dei lati più brevi del rettangolo di stoffa legato in vita. - Si sposti – mi disse con un tono un po’ seccato – - Mi scusi ancora, ho visto la porta aperta e … - ma non potevo staccare lo sguardo dall’anello che brillava sotto i lampi della luce al neon, accesa nonostante fuori un sole grigio, ma come scolorito, inondasse tutto di un bagliore insopportabile. Il barista si rese conto


20 che la mia attenzione era rivolta al suo dito mignolo e guardandolo cercò di sfilare senza successo l’anello dal dito, con una giustificazione che sapeva un po’ di bugia: - … è di mia moglie. Ricordo di famiglia, lo lascia sempre sul lavabo, … quando fa le pulizie al locale, - sembrava scusarsi ; continuavo a non capire, ma lo stesso annuivo, cercando attorno a me un posacenere per non sostenere lo sguardo dell’uomo, poi accennai : - sì, capisco, succede anche a me -. Finalmente dentro la tazzina, cominciò a scendere il caffè che emanava intorno un aroma intenso che non riuscì però a coprire il puzzo di creolina che sembrava essersi attaccato alle pareti o ai manifesti antichi che reclamizzavano bevande ormai fuori moda. Poi il barista, con un sorriso un po’ ebete, mise sotto il beccuccio della macchina un’altra tazza dicendomi: - e’ meglio se ne prendo uno anche io – e poi aggiunse – così le faccio compagnia - . Ora, a guardarne bene il volto, notai piccole gocce di sudore che gli imperlavano la fronte e le mani che tormentavano, nell’attesa, la tasca dove aveva riposto l’anello. Quel tempo mi sembrò infinito e quando, finalmente, il barista posò la mia tazza del caffè sul bancone, lo bevvi tutto d’un fiato, tanto che la lingua si scottò per quanto era bollente. - La ringrazio, quant’ è? – e presi velocemente il portamonete dalla borsa; - Niente, offre la casa – mi disse il barista, il cui sguardo si era un po’ trasformato in sardonico. Ringrazia e feci per sollevare la valigia dal pavimento, ma il peso rallentava l’operazione ed il barista ebbe il tempo di uscire da dietro il bancone; - Lasci che le dia una mano – ed anche il suo tono di voce cominciava ad innervosirmi, però cercai di mantenere la calma. Mi sentivo come quando da ragazzina, venivo molestata sull’autobus. La voglia di scappare era tanta, ma anche la consapevolezza che avrei dovuto attendere il momento giusto per saltare giù dalla vettura, in modo da operare con un effetto sorpresa sul molestatore di turno. Però, l’agitazione era la stessa ed anche la consapevolezza che qualunque cosa mi fosse accaduta, nessuno avrebbe saputo dover cercarmi. Ogni tanto mi accadeva di aver bisogno/voglia di allontanarmi da sola. Mi accadeva in genere quando stavo male, quando avevo qualche problema che mi pressava e cercavo nel silenzio un po’ di quiete; in realtà sapevo benissimo che era una estrema forma di masochismo; la solitudine non alleviava i miei tormenti, anzi, li amplificava e mi faceva sentire ancora più sola e volutamente andavo a scovare località in cui


21 nessuno si sarebbe fermato, nemmeno se la macchina in panne lo avesse lasciato proprio nella piazza centrale. Ma era così; questa volta scelsi un Lagodalle rive desolanti di un fine novembre. Quando uscii dal locale, il barista restò a guardarmi sparire dietro le cabine elettriche a ridosso della ferrovia. Cercavo di darmi un contegno con quella pesante valigia che pesava sul mio corpo esile, ma la cinghia cominciava a segnarmi la carne e la mia andatura doveva avere un che di goffo, di cui però non mi preoccupai; avevo abbastanza vita alle spalle per non occuparmi più delle brutte figure o di passare per buffa. Quindi, continuai a camminare sul lungo viale che portava dritto alla Rocca, con un passo tra l’incerto e l’inquieto: volevo assolutamente allontanarmi il più possibile dal raggio d’azione del barista che – con la coda dell’occhio lo vidi – ora mi guardava allontanarmi ed era uscito dal bar raggiungendo le ultime cabine elettriche in disuso da chissà quanti anni. Sentivo i suoi occhi fissi dietro la mia nuca e – scioccamente – ebbi l’impulso di voltarmi, come richiamata da un istinto irrinunciabile e lui, subito con la mano, mi fece un cenno di saluto, come se avesse ordinato di voltarmi. Non so bene perché, ma ripresi a camminare più velocemente - e sempre meno agevolmente – lungo la strada larga che conduceva alla sommità del paese dove c’era l’hotel in cui avevo prenotato. La terrazza della Rocca mi accolse immersa nella nebbia di novembre e nelle luci di una giornata autunnale. Alloggiavo all’Hotel Aganòor: non era stata una scelta casuale: lo avevo preferito ad altri, perché era dedicato ad una poetessa umbra di origini armene – Vittoria Aganòor Pompilij, morta di una malattia incurabile ed il marito che non sopportò la perdita, si uccise con un colpo di rivoltella. Lo trovarono, poi, riverso sul corpo della moglie. Mi sembrava perfetto per i miei tormenti interiori, ed anche la stanza era all’altezza, con l’affaccio proprio sulle rive del lago. Mi ero ripromessa di scrivere molto in quel breve soggiorno lontana dalla città e quindi subito tirai fuori dalla valigia – oltre che il necessaire da bagno per una premurosa doccia – anche il mio quaderno nero su cui, già in treno, avevo cominciato ad appuntare qualcosa. Non potevo rinunciare a quella mia aria da scrittrice fine ottocento: mi piaceva; mi sembrava che creasse attorno a me un alone di mistero, di muta curiosità, che effettivamente constatai la sera, quando a cena, nel ristorante dell’hotel, ero l’unica donna sola seduta ad un tavolo che – per di più – invece di essere quasi al riparo dalla altrui vista, dominava la sala da un terrazzino sopraelevato dalla sala del ristorante. Questa profonda


22 contraddizione della mia natura era, a volte, fuorviante persino per me: se da una parte volevo passare inosservata fino a voler diventare invisibile, dall’altra sembrava facessi di tutto per attirare l’attenzione In effetti alcuni avventori – donne soprattutto – mi guardavano e mi indicavano con una certa curiosità e forse anche apprensione. Non era certo la mia avvenenza che le preoccupava, quanto forse quell’aria un po’ vissuta – eredità anche del viaggio e della mia sistematica insonnia – che mi conferiva un’espressione decadente… La maglia scura scollata sulle spalle, la lunga sciarpa nera arrotolata con cura maniacale attorno al collo, mi davano un’aria teatrale ed era proprio questo che volevo. Ammantavo la mia timidezza di sfrontata sicurezza. Così indossavo la maschera che mi rendesse invisibile ed al tempo stesso, visibilissima. Accompagnai la cena con una bottiglia di Rubesco del 2003 e con il dessert ordinai un bicchiere di Passito che scortò divinamente la torta pere e cioccolato che si scioglieva sulla lingua. Il mio relazionarmi confidenzialmente con il vino, attirò l’attenzione di tre cacciatori che avevano cominciato a fare, sul mio conto, battute non proprio galanti. Li sentivo benissimo, anzi forse in qualche momento dovevo anche aver dato loro l’impressione che fossi disponibile alle loro “cortesie”. Sollevai allora appena il bicchiere in segno di salute e bevvi l’ultimo sorso di Passito, poi mi alzai – perfettamente conscia del mio stato ebbro ma lo stesso ben ritta sulle gambe – e raggiunsi lenta la porta del ristorante, che subito una mano maschile mi aprì. Riconobbi solo al suo - Buonasera – la voce del barista che era seduto ad un tavolo con un gruppo di uomini vestiti di scuro a cui si era aggiunto anche uno dei cacciatori. Lo guardai appena; l’alcool credo che facesse brillare più del dovuto i miei occhi che temevo avessero preso una nota languida. L’uomo allora mi prese per il gomito delicatamente e mi accompagnò fuori. L’aria fresca di novembre mi scosse un poco e allora guardai il barista e gli dissi che non doveva preoccuparsi per me e mentre dicevo questo, feci per accendermi una sigaretta ma una fiamma mi illuminò la faccia. L’uomo , solerte, già riponeva il suo accendino e mi disse che per lui era un piacere. Restai interrogandomi un poco sul da farsi, poi piroettando sui tacchi delle scarpe – insolitamente ma volutamente troppo alti per me – mi allontanai senza salutare. Il freddo e l’umido della notte mi destarono quasi completamente e cominciai a camminare per i vicoli vuoti del paese, su cui si udivano solo i battiti lenti delle mie scarpe. FINE ANTEPRIMA CONTINUA...


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