La giusta strada

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Gea Ceccarelli

LA GIUSTA STRADA

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LA GIUSTA STRADA Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2010 Gea Ceccarelli ISBN: 978-88-6307-310-2 In copertina: immagine fornita dall'Autore Finito di stampare nel mese di Settembre 2010 da Digital Print Segrate – Milano


A Miulli.

“Ma c’è amore un po’ per tutti e tutti quanti hanno un amore sulla cattiva strada” Fabrizio De Andrè, “La cattiva strada”



Prologo

Non esiste “la prima volta che lo vidi”, perché, a quel tempo, in quel momento, egli mi era totalmente irrilevante. Conoscere un professore in più, equivaleva, più o meno, a conoscere un nemico in più. Da sempre esiste questa contrapposizione e sempre continuerà a persistere. L’insegnante è la bestia. E’ il pensiero che ti sveglia la notte per ricordarti che non hai finito di studiare. E’ la penna rossa che ti bolla con un due, certezza e incubo, identità che ti vogliono affibbiare. E’ l’interprete di un’ora di lezione, durante la quale declama idee non sue, venditore di concetti usati. L’insegnante lo si teme. E quindi lo si rispetta. L’insegnante lo si disprezza. E quindi lo si odia. Non lo si ama mai, l’insegnante. L’insegnante non è un uomo, non è una donna, è un’entità a sé, un groviglio di nozioni secolari con cui si imbottiscono generazioni e generazioni. Non essendo una persona, l’insegnante non ha nome. In sua presenza ci si rivolge a lui/lei con “Prof”. In sua assenza si dà libero sfogo alla fantasia, assegnandogli nomi talvolta originali, più comunemente volgari. I nomignoli possono essere abbreviativi del cognome, insulti, feroci prese in giro su difetti che essi presentano, fisici e caratteriali. Comunemente i più frequenti sono “Lo stronzo” o “La troia”. Ma si spazia fino a “Bradipo zoppo”, “Funghetto marcio”, “Mortisia”. “Nemico” in ogni caso. Il fatto che con quel nemico condividerai anni e anni, ti porta a non prestare molta attenzione al vostro primo incontro. Questo è il motivo per cui non serbo alcun ricordo della prima volta che vidi Sassi. Era la prima volta che a un insegnante non era stato assegnato un crudele soprannome, la prima volta che ci si riferiva a lui con il suo nome. Possibile che non avesse neanche un difettuccio su cui costruirci storie assurde? Sassi non sembrava avere difetti troppo evidenti, ma neanche pregi per cui chiamarlo “Figo” o giù di lì. Era una persona normale. Sui sessanta anni, non troppo alto, non troppo austero, non troppo sportivo. Una coroncina di capelli bianchi in testa, occhi vispi e vivaci


dietro le lenti, naso da insegnante. Mi era insignificante, almeno finché non mi parlò. Ritenevo che il problema fosse il seguente: la maggior parte dei professori non sbroglia mai il tuo filo dalla matassa della classe. Non ha nessun rapporto con te, tu non esisti, se non quando ti chiama per un’interrogazione. Il mattino che Sassi mi apostrofò con una battuta, “Ti sei dimenticata di asciugarti i capelli, stamane?”, lo considerai per la prima volta. Lui aveva appena affermato la mia identità, rivolgendosi a me, ero improvvisamente un individuo singolo! “No. Si chiama ‘gel’. So che per Lei è un concetto difficile da comprendere”, risposi, alludendo alla sua corba pelata. Fervida insolenza e sfacciataggine feroce! Miravo a provocarlo, a farlo urlare, volevo che mi buttasse fuori dalla classe, mi urlasse contro per la mia maleducazione. Volevo cancellare quel suo slancio umano e dimostrare che era e sarebbe sempre stato un nemico. Nemico. Nemico. Nemico. Ma i nemici sorridono?


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Uno

20 dicembre Aveva poco meno di vent’anni. Capelli scuri e lunghi, mossi, ribelli, forse da tagliare un po’, giusto per eliminare quelle doppie, triple, quadruple punte. Alta, con due occhi nocciola, con un taglio allungato, belli, con lunghe ciglia. Una bocca morbida. Si guardò allo specchio e finì di truccarsi, sorridendo a se stessa. Perché ci sono anche mattinate così, quando tutto appare andare per il verso giusto, quando il sole ti bacia gli occhi nel sonno scivolando sulle lenzuola fresche e profumate. Quando ti alzi di corsa ed esci, perché il tuo unico desiderio è quello di vivere, vivere a pieno, senza se, senza ma. Solo respirare quel senso di libertà, a volte un po’ pungente, a volte piccante, ma sempre unico ed irripetibile. Ecco, Alex si sentiva così quel mattino. Strano, perché era una pigra domenica invernale, a pochi giorni da Natale. E lei sia considerava dannatamente tediose le domeniche, sia detestava il periodo natalizio. Perché le lasciava appiccicata addosso una sottile pellicola di malinconia, di nostalgia per qualcosa che era sparito, che non c’era più, che era stato rimpiazzato da una falsità ed un’ipocrisia al limite della sopportazione. Le lucine di Natale cos’erano se non l’intermittenza dei rapporti umani? Tanti colori, uniti assieme, eppure… Eppure qualche lucina stava in alto, appoggiata ai piedi della stella, altre stavano in basso, toccavano il terriccio umido e potevano solo illuminare il pavimento. Sì, c’era una sorta di scala gerarchica anche nel Natale, una discriminazione. Nascosta dall’ipocrisia del perbenismo, del “tutti assieme e felici”. Celata da un pugno di neve, un pacchetto infiocchettato, un biglietto d’auguri che servirà, il 26 mattino, ad accendere il fuoco. No, ad Alex tutto questo non era mai piaciuto. Quindi tentò di non pensarci, di credere che fosse ancora estate, nonostante il sole pallido e il freddo pungente che le colpì il volto non appena aprì la finestra. Velocemente s’infilò sotto braccio il chiodo, la sua inseparabile giacca, afferrò uno zainetto in pessime condizioni da fianco al letto e uscì dalla sua stanza, lasciando lo stereo acceso, con una canzone rock che faceva vibrare le casse. “Lithium”, dei Nirvana. Di fronte a lei, in cucina, c’era suo padre, che tagliuzzava qualche verdura per qualche soffritto per


8 qualche sugo che lei non avrebbe comunque mai mangiato. Gli si avvicinò, un bacio sulla guancia e si rovesciò mezza caffettiera in una tazza, scolandosela subito dopo. - Ti farà male tutto quel caffè, prima o poi, soprattutto amaro. Ti distrugge lo stomaco.Suo padre era bello, nonostante la sua età, e di mattina sembrava fresco, come se la rugiada gli si appoggiasse sulla pelle. Alex sorrise, nascosta dietro alla ceramica della tazza. – Sono una ragazza viziosa. – Lui, in tutta risposta le scoccò un’occhiata in tralice, tra un gambo di sedano e una carota. - Lo so. E lo sa anche tua madre.Così dicendo indicò lo studio, dove la madre stava compilando qualche documento, seduta al tavolo, borbottando tra sé. Alex si affacciò allo stipite della porta: - Ciao ma’.Laura non sollevò lo sguardo dai fogli. - A che ora sei tornata stanotte?- Boh, verso le quattro.- Alle sei sono venuta a vedere in camera. E non c’eri.- Ero in bagno.Prima che la donna potesse ribattere, Alessia s’infilò nella porta e fece per andarsene. Ma la voce di suo padre la bloccò nuovamente, proprio quando la mano stava per toccare la maniglia dell’uscio. - Alex. Si voltò lentamente. - Sì?- Io mi rendo conto che per una donna intellettuale, politicamente attiva, ci siano cose più importanti da fare, come organizzare insurrezioni nell’allevamento d’acari che è diventata la sua stanza, ma oggi riusciresti a lavare tu i piatti senza farlo fare al tuo povero padre, anche se non ha propriamente le tue stesse idee in merito?La ragazza assunse un’espressione pensierosa. - Facciamo che se li lavi tu, io m’iscrivo al tuo partito?- Davvero?- Un barlume di speranza si era acceso negli occhi d’Alberto. - Certo. Così posso farvi saltare tutti in aria.Una risata della madre la raggiunse. E la spinse a continuare. - Sai che figata, pa’… BUM!- e imitò l’esplosione con i pugni chiusi, spingendoli verso l’alto. Lui le lanciò dietro lo strofinaccio. - Sparisci! Tanto una come te, nelle nostre file, non ce la vogliamo!-


9 Rise, di una risata fresca, salutò con la mano e sparì lungo le scale. No, non le aveva mai dato fastidio avere un padre lontano dalla sua ideologia, anzi, lo trovava molto più divertente. In fondo Alessia credeva nella libertà dell’uomo, a prescindere dall’etichetta politica. Una volta in cortile si tirò su, fin sopra il naso, il colletto del dolcevita nero che indossava, lo riabbassò, si appoggiò una sigaretta sul labbro inferiore e se la accese. Era una bella giornata, con un cielo limpido, ma il sole era ancora troppo debole per scaldare. Uscì dal cancello calpestando i pochi millimetri di neve rimasti, inzaccherandosi tutti gli anfibi, bagnandosi l’orlo dei jeans strappati e coperti di scritte, frutto di un pennarello indelebile nelle tediose ore di latino. Un po’ le mancava il liceo. Ma le cose erano andate a modo loro, oltre ogni previsione. Bocciata, un po’ per svogliatezza, un po’ per un carattere poco diplomatico, aveva preferito non iscriversi più a scuola. Studiava da privatista, seguita da alcuni suoi ex professori e alternava lo studio alle sue altre attività. La politica in primo piano. Presidente di una consulta giovanile, coordinatrice di un circolo politico, si dava da fare per migliorare, o illudersi di farlo, il mondo in cui viveva. Collaboratrice in un giornale locale, solo per arrivare ad avere la tessera da pubblicista, che le avrebbe fatto comodo. A scadenze regolari incontrava gli insegnanti, a cui ripeteva le lezioni. C’era la giornata per storia e filosofia, quella per matematica, quella per scienze, quella per lettere. L’insegnante di lettere era un suo professore del ginnasio, Sassi. Era la persona che Alessia stimava maggiormente. Le ore passate assieme a lui erano le più belle della giornata, durante le quali, tra una versione e una pagina di letteratura, si parlava della società, si scambiavano idee, si discuteva animatamente di tutto. Non era solo un insegnante di lettere, ma di vita. Quando, fino all’anno prima, frequentava il liceo, capitava spesso che a metà lezione lei si alzasse e uscisse, andasse nelle classi del ginnasio e ascoltasse le lezioni di Sassi, giocando con lui e scherzandoci assieme. Qualche compagna di classe sovente la prendeva in giro, poiché parlavano come amici e poi si salutavano dandosi del Lei. La ragazza si fermò davanti ad un tabaccaio, comprò un pacchetto di Benson rosse e un biglietto del pullman, dopodiché uscì, attraversò la strada e attese l’arrivo del bus che l’avrebbe portata a Chivasso, una cittadina vicina, dove andava al liceo e dove abitava Sassi. Lei viveva in un paesino di duemila anime, in cui non esisteva neanche la scuola media, un piccolo angolo di paradiso che si stendeva dai morbidi seni delle colline torinesi fino al ventre del Po. Le piaceva Cavagnolo. Alla


10 fine era un bel posto, con un unico difetto. Non era in Toscana, non era al mare. E a lei mancava tanto la Toscana, sua regione d’origine. Sognava di tornarci un giorno o l’altro. Sognava di poter tornare a vivere a Pisa, di andare al mare a Marina, sognava le notti passate al “campo”, un appezzamento di terreno che i suoi parenti comprarono e adibirono a ritrovo per le serate estive. Lì c’era anche una casetta, e diverse volte lei vi era andata in ferie con gli amici, arrangiandosi alla bell’e meglio. Sorrise a ripensarci. Sul momento, in realtà, erano situazioni tragiche. Non avevano docce e dovevano andare nelle spiagge libere per lavarsi, distanti più di venti chilometri. Non avevano spazio per cucinare se non un fornello. Non avevano letti e dovevano dormire in terra, con la paura degli insetti. Ma erano tutti assieme, e quello bastava. Controllò l’orologio, che segnava le dieci meno un quarto. L’autobus era in evidente ritardo, di venti minuti buoni. Si sedette a terra, sul marciapiede, regina di quel rettangolo di spazio non intaccato dalla neve e perciò asciutto. Su quel lato della strada, alla fermata, non c’era la panchina, ma quantomeno la tettoia sì, che aveva protetto la pavimentazione. Sfilò fuori dalla tasca dei jeans il cellulare e veloce digitò un messaggio a Stefano, il suo migliore amico da sempre. Solo per dargli il buongiorno. Dopodiché se lo rificcò in tasca, proprio mentre, a pochi metri da lei, dal bar stava uscendo un ragazzo che lei conosceva bene. Massimo. Fece finta di niente, si voltò, colpita dall’imbarazzo, con la certezza che anche le punte dei suoi capelli si fossero improvvisamente colorate di un bel rosso acceso. Lui la notò subito e le si avvicinò. - Ciao. Quando Alessia tirò su la testa, fingendo sorpresa, se lo trovò a pochi centimetri. Biascicò un “ciao” poco convinto, con una voce che sembrava non appartenerle. - Aspetti il pullman?- E’ in ritardo.- Ti faccio compagnia.Così detto si sedette a terra accanto a lei. Un forte istinto la colpì, quello di scappare, perché Massimo era l’unica persona che la riusciva a mettere in soggezione, con cui non riusciva a essere se stessa. Ventiquattro anni, afro-americano, alto, di una bellezza particolare e travolgente, con due occhi profondi e nerissimi, che trattenevano in sé l’inizio e la fine del mondo. Si conoscevano da un paio d’anni, difficilmente potevano definirsi “amici”, ma lei n’era stata innamorata


11 fino a qualche mese prima, fino a quando nella sua vita non era comparso Matteo. Massimo, però, aveva da poco scoperto della sua infatuazione, solo dopo una serata da ubriachi in cui lei gliel’aveva confessato. Da allora l’imbarazzo, già esistente, era aumentato a dismisura, e lei tentava, ogni volta che lo incontrava, di fuggire. Stavolta non poteva. - Come stai?- le domandò, cercandole gli occhi con i suoi. Alex scostò lo sguardo. – Bene.- Non sono più riuscito a beccarti per parlare. Ma le ricevevi le mie telefonate?Le riceveva, certo, ma le rifiutava tutte. Leggeva il suo nome sul display e lasciava squillare fino a che, dall’altra parte, Massimo non riattaccava. Un comportamento infantile, ma a volte le serviva anche questo. - No, non le ho ricevute.-, mentì. Poi prese fiato. – Di cosa mi dovevi parlare?Semaforo rosso. Una fila di macchine si fermò davanti a loro, nella corsia opposta. Una mamma al volante cercava di far stare buoni i due bimbi, seduti dietro, che si rotolavano sui sedili prendendosi a pugni. - Avevamo un discorso in sospeso, riguardo a quello che mi avevi detto.Verde. Le macchine ripartirono, veloci, dirette chissà dove. Per il resto della giornata Alex si sarebbe chiesta se i due bimbi sarebbero infine riusciti a trovare un accordo e se la mamma sarebbe riuscita a evitarsi un esaurimento nervoso. - Non ne possiamo parlare poi, Massimo?Lui le appoggiò una mano sulla gamba. - No. Ne parliamo adesso.Proprio in quel momento, dalla curva, sbucò il pullman per Chivasso. - Mi dispiace, è arrivato il bus.Si alzò velocemente, facendo scivolare la mano del ragazzo a terra. Alzò un braccio, facendo segno all’autista di fermarsi. Massimo rimase qualche passo indietro. - Senti, ci becchiamo prossimamente, in questi giorni ho un po’ di casini. Ti prometto che ne parliamo, ma sappi che è una cosa ormai chiusa.Lui sorrise, scuotendo la testa. - Non ci credo che ne parleremo, ma va bene.Alessia salì sul mezzo, facendogli solo più un segno di saluto con la mano.


12 Finse di timbrare il biglietto, in modo tale da poterlo riutilizzare al ritorno, inserendolo nell’obliteratrice e sfilandolo subito, in maniera da far scattare il meccanismo e far sentire all’autista il rumore. Dopodiché si andò a sedere verso il fondo, accanto al finestrino, nella zona più vuota del pullman. Non le piacevano le persone e detestava, perciò, prendere i mezzi pubblici nelle grandi città, come quando andava a Torino. Tutti schiacciati. Lei preferiva andare a piedi a quel punto. Però, per arrivare a Chivasso, sull’autobus, salivano circa dieci persone. C’era tranquillità. Appoggiò lo zainetto sul sedile accanto al suo e la testa al vetro del finestrino, sentendo le vibrazioni del mezzo sulla propria fronte. Si era comportata da stupida, ma non aveva più importanza. Fuori sfrecciavano paesaggi che lei conosceva bene, che aveva visto troppe volte negli ultimi anni. Gli stessi cartelli degli stessi paesi, gli stessi negozi, gli stessi alberi e le stesse colline. La assalì la solita paura. Paura di restare bloccata lì per sempre, di essere costretta a vedere e vivere le stesse cose, invecchiare convinta che il mondo fosse quello. Non voleva, non voleva diventare come una di quelle anziane che vedeva spesso, affacciate ogni ora alla finestra ad osservare sempre e solo la solita strada e il solito spiraglio di cielo. No, lei voleva viaggiare, vedere il mondo, conoscere ogni singolo dettaglio di questa terra. Voleva conoscere tutte gli abitanti d’ogni metropoli, città e paese e odiarli o amarli. E sapeva che tutto questo, in modo così enorme, non l’avrebbe mai potuto fare. Perché non le sarebbe bastata una vita. Forse per questo leggeva tanto, perché in ogni libro lei poteva vivere una vita diversa e conoscere cose, persone e luoghi nuovi. Ma questa sua impotenza, questo limite dell’uomo la sconvolgeva, la terrorizzava. Immersa nelle sue riflessioni, perse la nozione del tempo e dello spazio e la riacquistò solo quando, sotto di lei, vide scorrere il Po. Erano sul ponte di Chivasso, era quasi arrivata. Si tirò su, massaggiandosi la tempia che pulsava, per le troppe vibrazioni ricevute contro il vetro, e si stropicciò leggermente gli occhi con le dita. Una mano poi tirò indietro i capelli mentre l’altra premeva il pulsante di prenotazione per la fermata. Si alzò, recuperò lo zaino da sotto il sedile in cui era finito, evidentemente a colpa di una frenata troppo brusca, e si diresse alla porta. Il pullman si fermò, in via Po, e lei dovette puntare la gamba sinistra per resistere al principio d’inerzia. “Avevo pure preso nove in quella verifica di fisica.”, pensò, riportando a galla un ricordo un po’ amaro.


13 Scese dall’autobus ritrovandosi davanti ai giardinetti, dove alcuni bambini giocavano a lanciarsi palle di neve sotto gli sguardi preoccupati dei genitori o dei nonni, che evidentemente stavano già pensando a quando avrebbero dovuto lavare i vestiti dei piccoli. Alex era indecisa se svoltare in Corso Ferraris o andare dritto fino a piazza della Repubblica. Controllò l’orologio. Erano le dieci, aveva ancora mezz’ora di tempo prima di dover andare da Sassi, e decise di andarsi a prendere un caffè in via Torino. Quindi sarebbe andata dritto, fino piazza della Repubblica. Il sole sbucava da dietro il duomo e illuminava le panchine della piazza, mentre, ai fianchi del piazzale, si allungavano come braccia le due via Torino, quella “al di qua del Duomo” e quella “al di là del Duomo”. Ovviamente era solo una, ma tale accorgimento serviva per i ragazzi che facevano gruppo e s’incontravano lì, nel corso principale, sotto i portici, per fare le “vasche”. Anche Alex, fino a qualche anno prima, scendeva tutti i giorni a Chivasso per quest’inutile pratica, che non ha nulla d’interessante e nessun motivo portante, se non quello del “cazzeggio con gli amici” cosa che, tra l’altro, si potrebbe benissimo fare comodamente in casa senza dover macinare chilometri avanti e indietro, incastrandosi puntualmente minimo venti volte i tacchi delle scarpe nei sampietrini. Seduti sulle panchine stavano gruppi di anziani che tentavano di godersi il poco sole che quell’inverno parco offriva, mentre, nel centro della piazza, un via vai di gente correva in tutte le direzioni, colpiti dalla frenesia natalizia, dall’orgasmo consumistico del comprare, comprare subito, comprare ora, comprare il regalo migliore per i propri figli, nipoti, pronipoti. In alto, tra due palazzi che costeggiavano il piazzale, si tendeva una decorazione natalizia, come un arto che si allungava a unire chi non si era mai potuto avvicinare. Alex lo guardò, soppesando per l’ennesima volta la dose d’ipocrisia natalizia che scorreva nelle vene di chiunque, in quei giorni. Pensò, per un istante che sarebbe stato bello tagliare una volta per tutte quell’arteria, vedere l’organismo morire dissanguato per poi rigenerarsi puro. S’infilò nel primo bar che incontrò sulla sua strada e si sentì subito fuori luogo. Era un locale elegante, con alle pareti una tappezzeria beige decorata, velluti in ogni angolo, ai tavolini uomini e donne di mezza età vestiti in modo ricco, che parlavano a voce bassa. Le sembrava di essere stata improvvisamente catapultata nel ‘700, in un “Caffè”, luogo d’incontro per borghesi. Inevitabilmente le salì alle labbra la canzone del Lolli, “Borghesia”


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Di disgrazie puoi averne tante, per esempio una figlia artista oppure un figlio non commerciante, o peggio ancora uno comunista ... Sempre pronta a spettegolare in nome del civile rispetto sempre fissa lì a scrutare un orizzonte che si ferma al tetto. Sempre pronta a pestar le mani a chi arranca dentro a una fossa e sempre pronta a leccar le ossa al più ricco ed ai suoi cani. Se la cantò tutta, sussurrando, mentre il barista la guardava con aria infastidita. - Desidera?Alessia sollevò lo sguardo: - Andarmene.E uscì.


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Due

-La politica a te ha dato alla testa, Alessia.Sassi stava seduto con lei al tavolo. Indossava una camicia azzurro pallido su un paio di pantaloni blu scuro. Era un uomo pieno di risorse, che sapeva ridere e far ridere. La sua vita era l’insegnamento, nonostante tutto, lo adorava e lo si capiva a primo acchito. - Professò, guardi che è vero!Lui si calò leggermente gli occhiali e la guardò con un’aria buffa, scettica e ironica assieme. -Come possono le lucine di Natale esser paragonate a uomini?Vedendo poi che Alex aveva già la risposta pronta, la bloccò immediatamente. - No, non mi dire niente, non voglio neanche saperlo. Dimmi piuttosto l’aoristo di βαινω1.- εβην 2 − rispose sicura la ragazza. Poi riprese:- Il discorso è questo. Le lucine sono disposte in ordine piramidale e… - Alessia, sono disposte in ordine piramidale perché l’abete è piramidale.La ragazza non si diede per vinta. –Allora dovremmo addobbare un faggio!- A dicembre? Mai sentito parlare dei sempreverdi?- Potremmo festeggiare il Natale a giugno!Non aveva senso, lo sapeva benissimo, ma ormai era scattato il gioco: contestare ogni risposta del professore, anche le più logiche. - Eh, tanto è inutile continuare con te. - Sassi si arrese, enfatizzando il concetto con anche il gesto delle mani. -Ok, Natale a giugno e Capodanno il primo luglio. Adesso, però, finisci la versione.Alex continuò a sorridere, mentre traduceva l’Apologia di Socrate. Sassi intanto preparava tracce di temi che avrebbe poi fatto fare l’indomani in qualche classe del ginnasio. Lei, tra un vocabolo greco e l’altro, le leggeva. “La Provvidenza nei Promessi Sposi” “Il progresso nel mondo odierno” “I rapporti umani e discriminazioni tra classi nel periodo Natalizio”. - Prof, ho finito.1 2

Baino Eben


16 Gli porse il foglio, su cui aveva tradotto tutta la versione in maniera abbastanza corretta. Sassi lesse con attenzione, rilesse, e lesse ancora una volta, mentre Alex giocava con una penna. La stanza in cui si incontravano per le lezioni era accogliente e calda, semplice, che rifletteva l’animo del professore. Qualche quadro appeso alle pareti, una libreria che ricopriva un’intera parete, ricolma di libri mescolati alla rinfusa, la scrivania e un PC portatile, unico, assieme al cellulare dell’insegnante, soldato della tecnologia contro cui Sassi combatteva. - Prof, piglio un gelato mentre lei corregge.- Vai.Alex entrò in cucina, ampia e profumata di pulito. Aprì il freezer e ne tirò fuori un contenitore di gelato da un chilo. Melone anguria. Afferrò due ciotole dalla credenza sopra il lavandino e sistemò al loro interno due porzioni di dolce. Afferrò due cucchiai, le ciotole e fece ritorno nello studio. Appoggiò sopra il tavolo il gelato del professore e si accomodò accanto a lui. - Certo che gelato alle 11 di mattina…- Sono una persona vogliosa.-, si giustificò. - Senti, vogliosa, la versione andava bene. Fai attenzione solo al genitivo assoluto.Le restituì il foglio, che lei piegò e si infilò in tasca, mentre lui aveva già attaccato il gelato. - Come vanno le cose in casa?-, chiese poi l’uomo, ricordandosi degli ultimi discorsi avuti con l’alunna. Discorsi di una ragazza stanca, ma tutto sommato forte. Alex si fermò un attimo, scrollò le spalle e buttò lì un “bene”, poco convinto, poco sincero. Il professore non insisté, solo la guardò intensamente, finché la ragazza non cedette. Appoggiò la ciotola sul tavolo e si lasciò andare. - Con mia madre le cose ultimamente vanno bene, a parte quando ci becchiamo perché entrambe nervose, mentre mio padre…Il silenzio la spinse ancora a continuare. - Con mio padre è sempre tutto uguale, non so cosa fare, come fare.Si fermò. Non sapeva davvero cosa dire. Il rapporto con suo padre era stato sempre molto strano, ma lo amava. L’aveva conosciuto tardi, all’età di quattro anni ed era sempre stato distante. All’inizio lei ne aveva sofferto, aveva lottato per trovarlo, senza mai riuscirci. Ora tra di


17 loro esisteva un baratro che li separava e il ponte che cercavano di costruire, adesso, era molto instabile. - Sii te stessa.-, le rispose l’insegnante cercando, inutilmente, di risolverle le ansie. Non funzionò e Alex si agitò. –Lo sono sempre stata e non gli è mai andato bene. Ed io sono stufa. Vorrei solo alzarmi domattina e andarmene via, fuggire. Solo che, dicono, ci voglia molto coraggio ad abbandonare tutto.L’uomo appoggiò gli occhiali sulla scrivania, lentamente. - Io credo che, a volte, ci voglia molto più coraggio per restare.Non si convinse, Alessia. Lo guardò, ma non accennò a dargli la soddisfazione di dire “Ha ragione”. - Non lo so.- ammise – Forse. Forse è coraggio, forse è paura. Ma non mi interessa, sa? Sono solo stanca.Sassi la osservò, intensamente, come se volesse, attraverso gli occhi, scrutarne l’anima. Poi scosse lentamente la testa, che riluceva del sole filtrante dalla finestra. - Lo so. Ma ricorda che quando si fugge, alla fine, si torna sempre al solito posto. Pensa a Colombo.- Cristoforo Colombo non stava fuggendo,- obiettò Alessia con stizza, e tantomeno è tornato al solito posto.L’uomo sorrise, un sorriso accondiscendente, ma anche di sfida, lui sapeva benissimo cosa voleva. Voleva discutere un po’, far ragionare la ragazza. - Sei sicura che non stesse fuggendo?Silenzio. Silenzio pesante. Silenzio di attesa. - Stava fuggendo,- continuò il professore. – Fuggiva dai dettami di una società che non accettava, un contesto storico molto tradizionalista. E no, non è tornato, fisicamente, al solito punto, ma ha sbagliato. Si è trovato in un posto che non voleva. Di fronte ad un imprevisto capace di cambiare la storia.La ragazza scattò in avanti, come posseduta dall’istinto. Poi si ricordò la regola che stava cercando di imparare: riflettere, non lasciarsi dominare dagli impulsi, e si ricompose sulla seggiola. Con voce avvelenata si rivolse all’uomo che le stava di fronte. - Colombo non ha scoperto proprio un bel niente, professò.- sibilò.Questa è l’ipocrisia dei bianchi.- Poi sorrise, proprio come aveva fatto Sassi pochi istanti prima, con lo stesso atteggiamento di sfida - Non mi dica che non c’hai mai pensato.L’uomo non sembrava per niente turbato, continuò a guardarla, tranquillo, sereno, soddisfatto.


18 - Mi illumini, Fiorentini.Il Lei, altro segno del duello di idee. Alessia si accomodò meglio sulla sedia, tirò fuori dalle tasche una sigaretta e un accendino. Non se la accese, ci giocherellò un po’ con le dita. - L’America, il Nuovo Mondo, è stato trovato dagli Indios, Inuit che attraversarono l’oceano tramite lo Stretto di Bering. Si studia alle elementari. Arrivarono in quelle terre molto prima del sciô belandi.Spiegò Alex. - Loro hanno trovato quella terra, loro l’hanno coltivata e amata come una madre, spiritualmente e fisicamente. Hanno seminato, hanno raccolto i figli che essa offriva loro. L’hanno rispettata sempre. E poi…E qui si bloccò. Perché la infastidiva pensare a quelle ingiustizie, anche se lei non era presente, anche se erano trascorsi cinque secoli da quelle stragi. Ma lei era colpevole, portava addosso il sangue di innocenti, per il solo fatto di essere nata nella parte sbagliata del mondo. - E poi?- la spinse a continuare Sassi. Alessia si accese quella Benson, ormai consumata fra le sue dita, incurante del fatto che il professore non sopportava l’odore del fumo. - E poi il niente. Nel vero senso della parola. Arriva l’europeo, l’uomo civilizzato, distrugge tutto, violenta quelle terre, ne strappa dall’utero i figli, incurante dei cicli naturali, non la rispetta, la tortura, stermina le popolazioni che avevano creduto nella madre terra, stermina chi non crede nel Cristo, e pretende di essere stato lo scopritore.Tirò una lunga boccata di fumo, la spirò lentamente dal naso, poi riprese. - Io non credo che possano essere definiti realmente civili. Hanno usurpato e rubato, distrutto e ucciso. Tutto questo sotto il nome di “colonizzazione”, suona così bene, non trova? Erano molto moderni, facevano come i nostri politici. Nascondevano barbarie sotto un bel nome, che non faceva paura.Sassi in tutto ciò la fissava, imperturbabile. L’unico gesto che compì fu quello di aprire un cassetto di un mobile vicino alla scrivania e tirarne fuori un posacenere. - Il problema è che tutto ciò è continuato per secoli. Tuttora c’è colonizzazione, nel mondo nuovo, ricco, stupendo. Il Paradiso in terra, l’Eden del consumismo, oggi come allora. “Sogno americano”, “colonizzazione”, non si tratta forse della stessa cosa?Il professore fece un cenno di diniego con il capo. La ragazza spense furiosamente la sigaretta nel posacenere, sollevando qualche scintilla e


19 facendola vibrare in aria, per poi spegnersi, lentamente, raggiungere l’apice e morire subito dopo. Quello era il senso della vita, d’altronde. Fuoco e cenere. - Sei una ragazza intelligente, ma dimentichi sempre quello che vuoi dimenticare.Alessia sollevò un sopracciglio, incuriosita. - Proprio come Colombo. Sai, uno scrittore un giorno disse che “l’ammiraglio era uno di quegli uomini che possono trarre soltanto le conclusioni che vogliono e partì per quell’ultimo viaggio ancora pienamente convinto di essere arrivato dove in realtà non era arrivato e di avere fatto ciò che in realtà non aveva fatto”. Proprio come te. Inoltre aggiunge: “Il navigatore genovese riuscì in ciò che nessuno aveva fatto prima di lui: tracciò una rotta che avrebbe messo definitivamente in contatto l’Ovest e l’Est e diede inizio al grande scambio colombiano che avrebbe rimescolato l’alimentazione, la tecnologia, l’arte e la mentalità del pianeta”Alessia sorrise. Lo conosceva quello scrittore. - Prof, anche Lei non è da meno. Si è forse scordato che Least HeatMoon scrisse anche, nello stesso libro, che “le forze messe in moto da alcune iniziative nell’altro mondo avrebbero portato al più grande genocidio della storia dell’umanità” e che “la Terra non ha alcuna ragione di piangere per Cristoforo Colombo”?Sassi si arrese. – Touchè, Fiorentini.- Sempre.L’uomo scosse la testa, poi consultò l’orologio. - Ti fermi a pranzo?- domandò. Alessia declinò l’invito, rimettendo i libri di greco nella sua borsa. –No, grazie, vado che ho promesso a mio padre di lavare i piatti.Sassi l’accompagnò fino alla porta, la salutò con allegria, richiuse la porta e tornò nello studio. Si accese lo stereo da cui partì, neanche a farlo apposta, “Cristoforo Colombo” di Guccini. Si sedette tranquillo alla scrivania, sollecitato dalla musicalità della canzone, con la coppa tra le mani. Ora poteva finire il gelato senza farselo andare di traverso.


20

Tre

Sdraiata sul letto sfatto, con le ginocchia piegate e la schiena appoggiata al cuscino, Alex si fumava comodamente una sigaretta con un Guccini di sottofondo. Il cantante emiliano era una delle poche cose a cui lei non avrebbe rinunciato mai. Le dava forza, la faceva commuovere e la divertiva. In un periodo nel quale tutti i cantanti suonavano musichette orecchiabili ma prive di significati, per lei Guccini rappresentava il massimo aspirabile. Alessia non stava facendo niente di particolare, se non guardare gli anelli di fumo sollevarsi verso l’alto e distruggersi a pochi centimetri dal soffitto. Gliel’aveva insegnati a fare Stefano, dopo una settimana di allenamento. “Il prossimo passo”, le disse, “sarà insegnarti a fischiare!”. Battaglia persa in partenza. Come diceva Bennato: “Sì, già lo so che non so fischiare, e quel che peggio è non ho mai cercato d’imparare.” La ragazza scosse la testa, mentre lasciava cadere la cenere della sigaretta nel porta cicche appoggiato al comodino. Dalla stanza accanto si sentirono urla e botte contro il muro. Erano i suoi due fratelli, Enea e Zaccaria. Enea aveva nove anni, un cucciolo, piccolo e dolce, ma anche tanto vivace e astuto, capace di farti fare quello che voleva. Giocava a calcio, era la sua grande passione ed era molto sveglio e permaloso. Zaccaria aveva, invece, un carattere molto più complicato, probabilmente anche grazie ai suoi tredici anni adolescenziali. Poteva passare da momenti in cui era insopportabile per i suoi atteggiamenti, a momenti in cui cercava dolcezza. Spesso troppo istintivo come lei, era capace di mandarti a quel paese solo per una frase sbagliata e per orgoglio non chiedeva scusa. Non ti parlava per giorni e poi rompeva il silenzio con una battuta arguta, come se nulla fosse successo. Era molto legata a loro, era stata sempre una seconda mamma e lo sapeva. Si domandò che cosa stessero facendo, per provocare tutto quel chiasso. Si alzò dal letto e picchiò un pugno contro il muro della sua stanza. - Oh, datevi una calmata!-, urlò. In risposta ricevette un suono sordo che fece tremare un quadro appeso al muro. Bum. Un pugno, dalla loro parte.


21 - Ok, Morse. Piantatela o telefono a vostra madre.- Laura infatti, in quel momento era al lavoro Il frastuono parve svanire immediatamente, ma Alex sapeva che era una quiete solo temporanea. Le minacce duravano poco. Rassegnata all’imminente caos, decise di godersi quei due o tre minuti di pace. Si rituffò tra le coperte e si accese un’ennesima sigaretta. Dopo di che, con tranquillità, si sfilò il cellulare dalla tasca dei jeans e compose proprio il numero di Stefano. Squillò per poco, prima che Ste le rispondesse - Dimmi.- Niente, stamani ti ho mandato un messaggio. Non hai risposto. Ero preoccupata.Uno sbadiglio attraversò l’etere fino a raggiungere l’orecchio di Alex. - Scusa, mi sono appena svegliato, non ho letto il messaggio.La ragazza soffocò una risata, pensando al suo amico in uno stato di post sbornia. - Sai che ore sono?Nessuna risposta. - Sono le cinque e mezzo, di pomeriggio.- Ok. Senti, mi richiami tra un po’? Vado a farmi un caffè e la doccia. E riattaccò. Alex lasciò cadere il cellulare tra le lenzuola. Era tipico di Stefano svegliarsi così tardi. I due ragazzi si conoscevano da tredici anni e tra loro esisteva un rapporto fraterno. Infatti lui aveva vissuto per diversi anni a casa della ragazza, a colpa della sua turbolenta situazione famigliare. Cresciuti insieme, erano diventati inseparabili e anche se, talvolta, passavano mesi prima che si vedessero o sentissero, quando si trovavano uno davanti all’altra sembravano passati dieci minuti dal momento in cui si erano salutati. Il fatto che lui abitasse in luoghi diversi ogni mese, che spesso cambiasse casa, lavoro e numero di telefono la lasciava sempre un po’ sperduta. Ma quando avevano intenzione di vedersi davvero, ci riuscivano sempre, in un modo o nell’altro. Stefano inoltre era un ragazzo complicato, intelligente, ma che si lasciava troppo facilmente trascinare. Abbandonato a se stesso, era fuggito da casa a sedici anni, e non c’era mai più tornato, neanche nei periodi nei quali viveva vicino a sua madre. Sovente capitava che lui suonasse alla porta di Alex con una faccia un po’ sbattuta ma sorridente, e lei, senza neanche farlo parlare, gli preparava il letto, nella sua stessa stanza. Si bevevano un caffè assieme e poi andavano a nanna, lasciando le spiegazioni al giorno successivo. Spiegazioni quasi


22 sempre uguali, del tipo “Mi hanno cacciato da lì, sono senza lavoro, ospitami qualche giorno.” Secondo Stefano loro due alla fine erano uguali e opposti: lui voleva una casa dove poter tornare, una famiglia; lei voleva invece fuggire. Entrambi non potevano avere ciò che desideravano e l’unico modo di sopravvivere era il confrontarsi. Alex osservò per un po’ le foto appese alla bacheca della sua stanza, foto che raccontavano la sua vita, e in molte compariva anche lui. La loro comunione, compleanni, natali, giorni qualsiasi. Le fotografie per la ragazza avevano una valenza strana. Odiava farsele, ma una volta che le aveva in mano non poteva fare a meno di contemplarle per ore. Forse l’unico da cui accettava ben volentieri di farsi fotografare era Matteo, il suo ragazzo, che desiderava diventare fotografo. Si conoscevano da molto tempo, ma solo da due mesi si era accesa tra loro quella scintilla che ti fa capire che tutto ha un senso, che il mondo alla fine, per quanto buio, può essere ancora bello. All’inizio non si consideravano molto, poi, ritrovandosi casualmente in chat, cominciarono a parlare e discutere, fino a vedersi sotto una luce diversa. Erano uguali in tutto, potevano parlare di tutto, stavano veramente bene assieme e velocemente, nel cuore di Alessia si scolpì il suo nome cancellando quello di Massimo. La ragazza controllò nuovamente l’ora, erano le sei meno dieci. Sempre la stessa domenica triste. “Pomeriggio spompo di domenica, ma come fanno gli altri a stare su?” canticchiò a bassa voce mentre si alzava per andare alla scrivania ad accendere il suo computer. Bravo Liga. Stefano sarà stato ancora sotto le coperte, alla faccia del caffè e della doccia, mentre Matteo stava sicuramente in biblioteca a studiare per gli esami. “Che palle.”, pensò amaramente. Si connesse a internet e cercò in chat se c’era qualcuno d’interessante con cui scambiare due parole, ma c’era solo Vale, per altro segnata come “Non al computer”. Spense tutto e andò a cucinare. Chissà se Matteo sarebbe venuto a cena. La giornata, cominciata bene, stava terminando in modo impensabilmente noioso.


23

Quattro

Matteo suonò il campanello alle sette e venti. Gli aprì Laura, in jeans e maglione scuro, sporco di farina. - Vieni, Alex è in camera.-, lo invitò ad entrare. Il ragazzo salutò in soggiorno i fratellini della fidanzata che si stavano sfidando alla play station e il padre, seduto sulla poltrona con davanti una settimana enigmistica. Al suo “ciao” rispose un coro noncurante di saluti, ciascuno troppo preso dalle proprie occupazioni per badare al ragazzo. Laura scosse la testa rassegnata e tornò in cucina a finire i preparativi per la cena. Matteo bussò alla porta della ragazza, e subito lo raggiunse la voce bassa di Alex. “Avanti.” Stava sdraiata a letto con il libro di filosofia davanti. Non appena lo vide entrare fece cadere il libro a terra. Ora Kant la osservava dal pavimento impolverato. Lei si mise in ginocchio sul materasso e allungò le braccia. - Ciao amore!-, esclamò sorridente. Lui le stampò un veloce bacio sulle labbra e si sfilò lo zaino, appoggiandolo ai piedi del letto. Poi si sedette accanto a lei e le passò una mano fra i capelli. - Come va?Lei arricciò il naso, in una smorfia buffa. – Così così. Tu?- Distrutto dal troppo studio.- e si lasciò cadere sdraiato in mezzo alle coperte. Lei non si lasciò sfuggire l’occasione e gli salì sopra a cavalcioni. - Positivo allora!- Sorrise, baciandogli le labbra. - Più o meno.- La strinse a sé. Doveva parlarle al più presto, dirle ciò che lo stava tormentando da giorni. E non ne trovava il coraggio. Alex , intanto, infilò la mano tra i suoi riccioli scuri, fissandolo negli occhi marroni striati di verde. – Senti, possiamo parlare un attimo?Lei si staccò, per nulla preoccupata. – Adesso ceniamo, poi ci buttiamo nel lettone, ci guardiamo un bel film e mi dici tutto quello che vuoi, ok?Un sorriso raggiante. Difficile da sostenere. Matteo annuì, poi lasciò che lei si alzasse e lo tirasse per un braccio, costringendolo a rimettersi in piedi.


24 Uscirono dalla stanza, spegnendo la luce e chiudendosi la porta alle spalle. Matteo si diresse alla tavola con Alberto, mentre Alex si riunì in cucina con la madre per iniziare a portare i piatti da servire in tavola. Dopo che tutto fu esposto sulla tovaglia, dopo che i bimbi si sedettero ai loro posti smettendo di litigare riguardo un fallo inesistente su Fifa e dopo che tutti ebbero nel loro piatto un antipasto da gustare, si sedettero e cominciarono a cenare. Laura servì subito a Matteo una porzione di carbonara, suscitando l’indignazione dei piccoli, che presero a sbraitare riguardo alle priorità: -Prima si dovrebbero servire i bambini-, protestò Zaccaria, appoggiato ben presto da Enea. Alberto ci fece una battuta sopra, come suo solito, mentre Laura li metteva tutti a tacere con un’occhiataccia. -Che fate stasera?-, chiese poi ai due ragazzi. Alessia fu la prima a rispondere. –Guardiamo un film-. Strinse poi la mano a Matteo, sotto il tavolo, lontano dagli sguardi indagatori di Alberto, uomo all’antica e non proprio bendisposto nei confronti dei fidanzati della figlia. E, tanto per avvalorare la sua caratteristica, fu lui a prender parola. -In camera tua, Alex?Uno sguardo imbarazzato. –Beh, sì papà.-Non potreste guardarlo qui in soggiorno con tutti?- La gelosia paterna iniziava a diventar pesante. Laura salvò quindi la situazione rispondendo ad Alberto. –Piantala, vorranno stare un po’ da soli in paceIl padre della ragazza evitò di sottolineare che era esattamente quello che lo preoccupava e prese a pugnalare la sua pastasciutta con la forchetta. I bimbi se ne accorsero e fecero in modo di esasperare la situazione. –A noi basta che non facciate tutto il casino dell’altra volta-, saltò su Zac. –Non siamo riusciti a dormire neanche dieci minuti, tra tutte quelle urla-. Enea gli diede manforte: -Già. E poi ricordatevi di mettere a posto i vestiti, se pulite i cassetti. Non come l’ultima volta che li avete lasciati tutti a terra, assieme a quel palloncino.Alessia e Matteo li trucidarono con gli occhi, mentre Alberto sbiancava visibilmente. Laura capì il gioco dei figli e, un’altra volta, calmò il marito: -Ti stanno prendendo in giro.-, lo rassicurò. –E poi, anche se fosse, Alessia è adulta e vaccinata, e non voglio che diventi una vecchia zitella frigida.-, finì, con tanto di occhiolino. Tutti scoppiarono a ridere di gusto di fronte a quell’uscita, tranne il padre, che però tradì uno sguardo divertito. –Non se ne parla. Fino al matrimonio mi auguro che mia figlia sia pura. E adesso cambiamo discorso, questo mi farà morire.-


25 Alessia alla prima parte della frase quasi non ci credette. Insomma, sapeva che il padre era un po’ austero, ma non credeva fino a questo punto. Era sul punto di dirgli che lei non era più vergine da tre anni, ma si trattenne e la buttò sul generico. –Stai dicendo che una persona non può essere libera di vivere la sua sessualità come vuole?- , chiese, appoggiata dallo sguardo della madre, emancipata e sicuramente poco incline al marito padrone, tant’è che in ogni documento lei figurava come capo famiglia. - Sto dicendo che fino a che non sarai sposata dipenderà dal mio volere, dopodiché a tuo marito.- Tu sai che io non mi sposerò mai, vero, papà?- Affari tuoi. Non sei mica la prima ad arrivare vergine alla morte. Pensa alle monache.Alessia scoppiò a ridere. –Io non sono una monaca e non lo sarò mai. Non mi sposerò mai e non mi farò comandare né da un padre né da un marito.-, sottolineò. - E, soprattutto, vivrò la mia sessualità come mi pare e piace.Alberto apparve sconvolto da quello che gli aveva appena dichiarato sua figlia. Laura s’intromise. – Ha ragione Alessia. Perfettamente. Non siamo nel medioevo. La donna non è un oggetto da passarsi così. Se vuole andare a letto con qualcuno, è libera di farlo. Alessia ringraziò mentalmente la madre. Con lei aveva sempre parlato di tutto, dal sesso alla droga, senza inibizioni di alcun genere. Il padre non fu d’accordo, e fece per ribattere, ma il caos che si generò subito dopo lo costrinse a rimandare la discussione. Zaccaria, infatti, si era alzato di colpo, trascinandosi dietro la tovaglia e facendo ruzzolare a terra diversi bicchieri e piatti. Enea scoppiò a ridere, Laura si mise a urlare inferocita e Alberto lanciò qualche bestemmia, con conseguente critica di Alex “piantala di bestemmiare!” Ormai la situazione era degenerata. Nessuno capiva più niente. Qualcuno cercò di tirare su dei cocci, tagliandosi. Qualcuno cercava cerotti per chi si era ferito. Qualcun altro ancora era alla ricerca della scopa e della paletta per spazzare il pavimento. In tutto ciò, infine, uno squillo di un telefono interruppe il vociare isterico dei presenti. Era quello di Alex. Non ebbe tempo di controllare il nome, cosa strana per lei che non rispondeva se non conosceva il numero, e rispose. – Pronto.- Pronto. Sono io.La voce era quella di Stefano, ma pareva arrivare da migliaia di chilometri di distanza. Ed era strana, ricoperta da un forte frastuono di sottofondo. Questo la bloccò dal dirgli “ti richiamo”.


26 - Tutto bene?-, domandò incerta. - Sì, - biascicò lui. – bene.- Ti sento strano, dove sei?La ragazza si sentiva gli occhi della famiglia tutti puntati addosso. Perciò si voltò, scavalcò i cocci e si chiuse in camera, seguita da Matteo. Si sedette alla scrivania, mentre il fidanzato si accomodò sul letto, fissandola preoccupato. - In giro. Non ti preoccupare. Volevo solo salutarti, non ci siamo più sentiti.Alex non capiva, non era da lui e in più aveva una voce strana, strascicata. – Ma sei ubriaco? Tutto a posto?-, domandò. - Sì, ci sentiamo poi. Ti voglio bene.- e staccò la comunicazione. La ragazza allontanò il telefono dall’orecchio e ricompose immediatamente il numero di Stefano. C’era qualcosa che non andava. Rispose una voce femminile. Una voce metallica e fastidiosa. “Il telefono della persona chiamata potrebbe essere spento o non raggiungibile” - Perfetto.-, sussurrò tra i denti. Matteo si alzò dal letto per avvicinarsi, si mise in ginocchio davanti a lei, posandole una mano sulla coscia. - Beh?- Ha staccato.- rispose lei. – Mi sembrava ubriaco perso.Il ragazzo si tirò su. –Dai, ha vent’anni. Se la cava.- Sì, lo so. Ma sai com’è lui…-iniziò Alex, ma una mano sulla bocca la frenò. - Certo. Adesso però andiamo di là, che abbiamo mollato tutti in mezzo a quel casino.Quando tornarono in soggiorno trovarono già tutto pulito, ma i volti dei famigliari di Alex erano scuri, adirati, infastiditi. Lei si erse in difesa. - Ero al telefono. -, spiegò, ma nessuno parve darle retta. Si risedettero a tavola, ma neanche uno dei presenti riprese a mangiare. Il silenzio si fece pesante, troppo per i gusti dei due ragazzi. Si alzò prima lei, afferrò la mano di Matteo e lo condusse fuori dalla porta, verso la notte. Matteo fece solo in tempo a salutare velocemente con una mano, prima di essere trascinato via con foga dalla ragazza.


27

Cinque

“Notte scura, notte senza la sera, notte impotente, notte guerriera…” La luna appariva sfocata dietro quell’enorme goccia appoggiata al vetro del finestrino. Una goccia che vibrava, si muoveva, trascinata indietro dallo spostamento d’aria dovuto alla velocità della macchina. Scomparve, travolta dalla strada da percorrere, lasciando una scia come di lumaca lungo tutto il vetro. Matteo, mentre guidava, inserì un cd all’interno dell’autoradio. Alessia guardò le dita del suo ragazzo toccare lievemente i tasti, alzare il volume, scegliere la canzone con cura, tornare sul volante, abbandonarlo, perdersi nei suoi capelli. - Ti calmi?-, domandò a bassa voce. - No.- Alessia era testarda, troppo. La discussione poteva finire lì, Matteo sapeva che non sarebbe riuscito a farle cambiare idea. Ma la ragazza voleva motivare, soprattutto a se stessa, la sua agitazione. - Conosco Ste da dodici anni, so distinguere ogni sua sfumatura nella voce. E ho un brutto presentimento, ok?Matteo annuì, nel buio dell’abitacolo, mentre la sua mano abbandonava i capelli della ragazza e andava a cambiare le marce. Alessia lo guardò, assorto nella guida. Era un bel ragazzo, con i suoi riccioli scuri e gli occhi di un colore indefinibile, nero in quella notte. I fari di qualche macchina che correva nella corsia opposta, gli illuminavano il volto per pochi, brevi, istanti, riflettendosi sulla sua barba e sulla pelle. Per un attimo la sua immagine si sovrappose a quella di Massimo, quella mattina. Chissà perché. Cancellò quel pensiero con un gesto della mano e tornò a guardare l’asfalto, fuori. Asfalto nero, bagnato da acqua nera sotto un cielo nero. Colore uniforme, versato da qualche dio pittore sulla tela dei suoi giorni. Pensò che alla fine il buio era la situazione che lei prediligeva. Dolce, che ti avvolgeva come un abbraccio, scaldandoti anche nella solitudine. Il buio che affinava i sensi, che faceva paura e seduceva. Sì, l’oscuro era ciò che lei preferiva. Tirò fuori il cellulare dalla borsa, mentre Matteo entrava a Torino. Il cartello li sovrastava, informatore di un luogo che a quell’ora e in quel contesto appariva un po’ come Avalon, nascosto in se stesso, irraggiungibile. Digitò il numero di Stefano. Rispose una voce femminile e profonda.


28 - Pronto.- Passami Stefano.-, intimò Alessia, senza badare ai convenevoli. Di sottofondo si sentiva nuovamente il caos, botti, urla, musica troppo forte. - Stefano non vuole parlare con te!- rispose ancora l’altra. - Tu passamelo lo stesso.Risata. Fredda, fastidiosa. - Dai a me.- sussurrò Matteo mentre le sfilava il cellulare dalle mani. Se lo portò all’orecchio, mentre con l’altra mano teneva il volante. Accostò, poi prese a parlare: - Ciao, non so chi tu sia, ma sarebbe meglio che mi passasi Stefano.La voce del ragazzo forse infastidì l’altra, che prima si mise a urlare qualcosa d’incomprensibile, finché non cadde il silenzio totale. Matteo pensò in un primo momento che fosse caduta la linea, poi la voce di Stefano apparve, come luce tra fumo. - HeyAveva ragione Alessia, Ste aveva una voce strana, confusa. - Dove sei?- In giro.- Dove in giro?Per un attimo Matteo temette che l’altro riattaccasse, quindi aggiunse velocemente un “dimmelo, per favore”. - In giro, in centro.- Ste, di preciso.- Che ti frega?Il ragazzo fece leva su Alessia. –Alex è preoccupata, vuole chiamare la polizia, quindi dimmi dove sei, così ti vede e si calma.Evidentemente la minaccia della polizia smosse qualcosa in Stefano, che subito rispose. -Ai Murazzi.- Arriviamo.Non lasciò a Stefano il tempo di rispondere e riattaccò. Riconsegnò il cellulare tra le mani della ragazza e al suo sguardo incuriosito rispose con la meta del loro viaggio. Rimise poi in moto e in breve arrivarono in centro. I due ragazzi scesero in Piazza Vittorio. Alessia guardò un attimo il fiume, nero anch’esso, scorrere veloce e incurante vicino a lei. Non aveva portato l’ombrello, si stava infradiciando, i vestiti le si incollavano addosso ed aveva freddo. Si avviarono verso il Po e camminarono per qualche minuto. Infine Alessia riconobbe Stefano qualche decina di metri più avanti, lo indicò a Matteo e insieme si diressero verso di lui.


29 Era assieme a un gruppetto di ragazzi, stavano spaccando delle bottiglie di birra per poi spaventare i passanti con i cocci. Due, in particolare, minacciavano i passeggiatori di spingerli nel fiume. Alex, senza esitare si accostò all’amico e gli mise una mano sulla spalla. - Stefano.Il ragazzo si voltò verso di lei. Aveva un occhio tumefatto. - Alessia!- e l’abbracciò. –Come stai?- Che cosa ti sei fatto in faccia?-, domandò cercando di rimanere il più calma possibile. Una voce alle sue spalle la raggiunse. La voce che le aveva risposto al telefono, qualche minuto prima. - Non s’è fatto niente, chi sei, sua madre?Alessia si voltò lentamente. Era una ragazzina piccola di statura, all’apparenza fragile, dall’età indefinibile. Bionda, pallida, vestita completamente in nero. Il trucco pesante sugli occhi rossi e gonfi. Il volto allungato, strascicato in una sottospecie di ghigno. - Non l’ho chiesto a te.La ragazzina scoppiò a ridere. – Cerchi grane, allora!- esclamò, con una vena preoccupante di euforia nella voce. Alessia fu attraversata da un brivido lungo la schiena, lo stomaco le si contrasse, ma non diede segno alcuno della paura che stava provando. Cercò con una fugace occhiata Matteo, ma era impegnato con i due che minacciavano di spingere la gente in acqua. Pensò che stessero discutendo. In tutto questo Stefano rideva, esaltato, mentre osservava la scena con altri tre ragazzi, anche loro sorridenti. - Io non cerco grane. Voglio solo parlare con Stefano.- Stefano era con noi, non c’era motivo di venire qui, tesoro.Un tuono fece vibrare il silenzio. Poi la bionda riprese. – Come ti chiami?- Alessia.- Ok, Alessia. Lui sta con noi e tu te ne torni a casa con il tuo fidanzatino, ok?La ragazza provò a contare fino a dieci, seguendo il consiglio di Sassi, mantenere sempre la calma. Non ce la fece. Prese per il braccio Stefano. – Muoviti!- e si mosse per andarsene. Due ragazzi le si misero davanti, bloccandole la strada. Si sentì in trappola. “Merda.”


30 - Senti, bellina. Non hai capito. Lui sta con noi, non è difficile da comprendere.-, riprese l’altra. In quel momento Matteo, che evidentemente si era liberato dai due, comparve alle spalle della bionda. - Stefano- domandò, - vuoi venire a farti un giro? E’ tanto che non ci vediamo.- La sua voce era calma, tranquilla. Il ragazzo guardò per un attimo i suoi amici. -In effetti sono un po’ stanco ed è tanto che non sto un po’ con Alex. –, rifletté Sul volto della bionda si dipinse un’espressione di disappunto. Richiamò il ragazzo. - Stefano, abbiamo appena iniziato a divertirci.-, lo esortò, - Resta con noi…Quell’invito lasciò il ragazzo confuso. Iniziò a guardare prima una e poi l’altra ragazza, come se quella scelta comportasse il suo futuro. Soppesò attentamente la situazione, infine abbassò il capo. -Senti, noi ci vediamo presto.-, dichiarò alla bionda che, in risposta gli lanciò un’occhiataccia. Stefano si avvicinò quindi a Matteo. La bionda non demorse e si piazzò di fronte ad Alex. Questo non parve turbare minimamente la ragazza, che la superò scivolandole al fianco per raggiungere il suo fidanzato. La teppista non si lasciò sfuggire l’occasione. - Stronza.-, sibilò con rabbia. - Salute.-


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Sei

21 dicembre - Cosa ti ho dato per oggi, che non ricordo?Studio di Sassi, il giorno dopo. L’orologio al muro segnava le quindici meno venti. Dalla finestra proveniva il rumore fastidioso di clacson e insulti lanciati verso chissà quali pedoni. Alex si accomodò meglio sulla seggiola. - Tucidide.- Perfetto.Cadde il silenzio. Alex aspettava, tranquilla, che il professore cominciasse la sua interrogazione con qualche domanda lunghissima e astrusa, la cui risposta, a dispetto della formula, era semplicissima. Era già preparata. Ma la domanda tardava ad arrivare. Alzò lo sguardo verso Sassi, con espressione impaziente. Trovò lo sguardo dell’uomo che la scrutava, anche lui in attesa di qualcosa. - Che?- domandò lei. - Che che? Mi aspettavo un’infinità d’insulti per il povero Tucidide e non me ne dai neanche un assaggio?Alex era un po’ stanca, la sera prima aveva fatto le ore piccole e la mattina alle otto era in piedi per pulire, prima che la madre la strigliasse. - Perché dovrei insultare quel pover’uomo?- Perché credeva che fosse meglio un’illusione di democrazia, che i cittadini pensassero di avere il potere mentre il vero potere lo aveva in mano solo PericleLa ragazza ci rifletté un attimo, prima di rispondere. – Sì, ho letto. – commentò – Ma alla fine è quello che facciamo anche noi.Sassi apparve deluso. Si aspettava una giornata di discussione. Alla fine gli piaceva litigare con Alex, non è vero che solo i professori insegnano. Anche loro imparano, e spesso imparano molto dai confronti con i propri studenti. - Mi sa che c’è qualcosa che non va. O non hai studiato.- Ho studiato.-, replicò piccata lei. - Allora, cos’è successo?-


32 Alessia sbuffò, spostò i fogli verso il bordo del tavolo e, nello spazio ora libero, appoggiò i gomiti, prendendosi la testa tra le mani. - Stanotte sono corsa a Torino.-, iniziò. – Assieme a Matteo. Vede, mi aveva chiamato Stefano…S’interruppe, per controllare che Sassi la stesse seguendo. E il professore lo stava facendo. - Aveva una voce strana, e sembrava stare in un posto affollatissimo. Io mi sono preoccupata: sono troppo protettiva nei suoi confronti.- Era vero. Lo era sempre stata, fin da quando erano piccini. Lui era quello da difendere e lei quella che lo proteggeva. Poco importava che lei peccasse di superbia: era uno dei suoi difetti migliori. - L’ho richiamato quando ormai eravamo in centro e mi sono fatta dire dove si trovava, usando anche minacce. Non voleva dirmelo. Alla fine stava ai Murazzi.- notò poi il volto corrugato del professore, al solo nominare quel quartiere. -Non faccia quella faccia, prof!-. I Murazzi non erano proprio un luogo raccomandabile. Si trovavano nel centro di Torino, lungo il Po. Lì vi erano locali acclamati e locali meno. Alex era una frequentatrice abituale di questi ultimi. - Scusa Alessia, continua. Non ho saputo trattenermi.- Ho notato.-, sottolineò indispettita. Poi riprese: - Siamo andati lì e stava girando con un gruppo di ragazzi un po’ così, e so che lei starà pensando “da che pulpito!”, ma era molto peggio delle mie, di compagnie. E lui non era proprio in buone condizioni.Si fermò, si accese una sigaretta. Come il giorno prima Sassi aprì il cassetto e tirò fuori un posacenere. Sorrise, la ragazza. Un sorriso storto, in qualche modo sbagliato. - Grazie- Che aveva?- Era completamente fuori di testa, come se fosse ubriaco, ma era diverso.- Uno spinello?-, ipotizzò l’uomo. Alex scosse la testa. - Macché!-, sbottò. - Professò, quanti anni sono che non si fuma una canna? Quella rilassa, mica agita!Sassi rimase un attimo colpito dalla frase della ragazza. Un po’ perché aveva ammesso di farsi qualche tiro, un po’ perché l’aveva smascherato. Ebbene sì, anche lui, ai tempi andati, fumava. Ma erano gli anni 70, era un contestatore, si arrampicava alle barricate. Forse per questo stimava Alex. Rivedeva in lei i miti di un’epoca tramontata. E questo era anche il motivo per cui cercava spesso di allontanarla da


33 quegli stessi miti in cui lui aveva tanto creduto. Era destinati a finire, come tutto. - Quindi?Alessia scosse una mano in aria, quella con la sigaretta, facendo cadere la cenere a terra, come a dire “Quindi che?” - Niente. Ce lo siamo portati via, è venuto a dormire da me. Matteo l’ha cambiato, perché, tempo di arrivare a casa era in uno stato pietoso, non si reggeva in piedi.- spiegò. -E sempre Matteo gli ha trovato in tasca una bustina con coca e un mare di soldi.Cadde nuovamente il silenzio nella stanza. Sassi sembrava riflettere, con gli occhi semichiusi, fissando un punto lontano, che probabilmente non esisteva. - Bel guaio.- commentò, amaro. - Bella merda, si dice.- Bel guaio.Alessia lasciò perdere. - E ora?-, continuò l’insegnante. - Ora sta da me.-, assicurò lei. -Non si ricorda molto, mi ha chiesto solo chi l’aveva svestito, gli ho risposto che ha fatto tutto da solo.Il professore contemplava la punta accesa della sigaretta. – E Matteo? Non gliel’ha detto?- Matteo stamattina mi ha lasciata.Sassi apparve sinceramente dispiaciuto. - Cosa vuol dire?-, domandò. Ad Alex parve una domanda stupida . - Vuol dire che me lo voleva dire ieri sera, poi il casino l’ha bloccato. Mi ha telefonato stamane.Alessia aveva sollevato gli occhi al cielo prima di rispondere, segno chiaro d’insofferenza, ma, nonostante questo, era tranquilla, forse troppo. Era apatica. – Mi dispiace.- Professò, non si preoccupi.Nuovamente il silenzio, sempre nei momenti più imbarazzanti, complice di chissà quale rossore sulle guance. - Com’è successo?La ragazza sbuffò, alzandosi in piedi. Prese a camminare avanti e indietro per la stanza, la testa bassa. “E in fondo pensi ‘ci sarà un motivo’ e cerchi a tutti i costi una ragione… eppure non c’è mai una ragione…” La ragazza trattenne le lacrime. Le faceva solo rabbia. Tutto. E le faceva male.


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“Ti senti un nodo nella gola, ti senti un buco nello stomaco, ti senti un vuoto nella testa e non capisci niente” -E’ successo e basta.-, riprese. -“Non ti amo più, ti voglio bene come a una sorella, mi dispiace, restiamo amici.” Le solite stronzate.- si risedette, con un sorriso amaro sulle labbra. –Sa, io non vado a letto con mia sorella, non dico “ti amo” a mia sorella. Evidentemente per Matteo funziona così. – Sassi rifletté qualche secondo, prima di commentare la situazione. Sapeva dei problemi che attanagliavano Alessia in quel periodo e sapeva anche che non era il massimo sentirsi abbandonare da un fidanzato. Non si erano mai visti, ma l’insegnante era a conoscenza di molte cose di Matteo. Alessia gliene parlava sovente. Frequentava l’università, voleva diventare fotografo, era dolce, paziente, comprensivo. Certo era che aveva visto la ragazza in condizioni peggiori. In fondo, in quel momento, Alessia gli dava solo l’impressione di essere stanca e ferita nell’orgoglio, ma non nel cuore. - Bel guaio.- commentò infine. - Bella merda, professò- Bella merda.-


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Sette

Quella sera, si sedette sul letto morbido e pulito, gustandone la comodità, si sciolse la coda dei capelli e afferrò la sua Eko nera, a pochi centimetri da lei. Se la appoggiò sulla coscia e iniziò con un re. In breve le sue dita partirono con il giro della “Canzone del sole”, di Battisti. Lo usava sempre per sciogliere le mani prima di iniziare a suonare la chitarra. Aveva imparato, da sola, un anno prima. Per curiosità. Suo padre, la chitarra, la sapeva suonare benissimo, per professione, ma non le aveva mai insegnato. E un giorno lei s’impuntò. Andò a riprendersi la sua Eko dalla stanza del padre, una guida elementare e, lentamente, iniziò a imparare. Tuttora non sapeva molti accordi, ma improvvisava e li sostituiva con altri, riuscendo così a restare abbastanza fedele alle melodie. Quando ormai le dita presero a correre veloci, cambiò e iniziò a suonare “Cumuli”, di Pezzali. Proprio in quel momento Stefano aprì la porta. Lei lo intravide dal riflesso nello specchio appoggiato alla parete e subito si girò. Posò la chitarra sul letto, accanto a lei, e indicò all’amico di accomodarsi sulla poltrona. - Hey.Stefano le rispose con un cenno di saluto. Aveva l’aria stanca di chi, preoccupato, non riesce a dormire la notte. I capelli, solitamente biondi e pettinati, apparivano come un ammasso di paglia gettata alla rinfusa, e sulle guance iniziava a farsi vedere la barba non rasata. L’occhio era ancora in pessime condizioni, livido e circondato da un alone giallognolo laddove, nella notte, Alex gli aveva passato una pomata curativa. - Come va l’occhio?- domandò la ragazza. - Meglio di stamane.-, fu la risposta secca. Alessia si accomodò. – Non vuoi parlarmene ancora?Quella mattina, infatti, la ragazza aveva provato ad avere un dialogo costruttivo con l’amico, ma nessuno dei due aveva veramente la testa per parlare di cose serie. La mente di Alessia era occupata da quel “non ti amo più” di Matteo, la testa di Stefano da un pacchetto sparito inspiegabilmente dalle sue tasche, assieme a 630 euro. Una volta finito


36 il caffè nelle tazze, era finita anche la loro conversazione e se n’erano andati. - Diciamo che è solo una rissa finita male.-, tentò di spiegare lui. La ragazza annuì, spingendolo a continuare. - Ce le siamo prese, tutto qui.Alessia soppesò la risposta. Stefano non aveva ancora capito, dopo tutti quegli anni, che lei sapeva leggere benissimo ogni suo sguardo e che riusciva a capire quando stesse mentendo. Forse era per il tremolio impercettibile nella voce, forse perché si toccava il naso come se temesse che si mettesse improvvisamente a crescere, forse perché lo conosceva e basta. - Eri il solo tra tutti a essere pestato, Ste. Non mi contar balle. Il ragazzo fece un segno con la mano, come a dire di lasciar perdere. Poi indicò lo strumento musicale: – Cosa stavi suonando?Lei si accorse del tentativo di cambiar discorso, ma anche stavolta gli era andata male. - “Cumuli”.- Non la conosco.Alessia riprese in mano la sua chitarra e lentamente dalle sue mani iniziarono a scivolare fuori note delicate. Sì, quel poco che aveva imparato lo aveva imparato bene. Poi con il tempo forse ti ho perso un po’ Ti vedevo in giro a sbatterti Mi chiamavi solo per prestiti Ti guardavo in faccia e non eri tu. Cumuli di roba e di spade Per riempire il vuoto dentro di noi, Cumuli di cazzi tuoi Per riempire il vuoto nei cazzi tuoi, Cumuli di roba e di spade Per dividere le linee tra voi Cumuli di brutte storie Il vecchio figlio di puttana dov’è? Come se ce ne fosse bisogno, spiegò poi al ragazzo il senso della canzone.- E’ di Max Pezzali. E’ la storia di due amici che si conoscono da tanto. Uno dei due prende una brutta strada, frequenta un brutto giro e finisce nei guai. Ma l’altro gli sta vicino finché non torna tutto a posto. -


37 Stefano la squadrò, scettico, con un sorriso stanco sulle labbra. L’espressione probabilmente gli tirava la pelle dell’occhio, perché ebbe un fremito di dolore non appena la indossò, ma non ne tenne molto conto. - E’un messaggio subliminale?- Probabile.Il ragazzo scosse la testa. - Non mi sono svestito da solo, vero?Alessia non seppe mentire. Guardò un attimo fuori dalla finestra, dove il cielo si stava già iniziando a scurire e la neve cominciava a scendere, implacabile e silenziosa. Intravide, nella finestra della casa di fronte, un abete decorato. Per l’ennesima volta l’assalì la voglia di eliminare il Natale. Poi tornò a guardarlo in quegli occhi chiari, verdi. – No, ti abbiamo spogliato noi.Lui rimase impassibile. Non un muscolo si mosse, se non quelli della bocca mentre chiedeva – Dove?- Nel cesso. L’abbiamo gettata nel cesso.- E i soldi?Alessia non rispose. Abbassò gli occhi a terra. Stefano si alzò, le si accovacciò accanto, e tenendole il mento con una mano, la costrinse a riguardarlo negli occhi. - Dove, Alex?- Li ho dati in Chiesa.Il ragazzo si lasciò cadere seduto. - No, sono 630 euro. Non l’avresti mai dati via, tantomeno alla Chiesa.Si era agitato, scuoteva un braccio come per cancellare le parole dell’amica dall’aria. - Tu odi la chiesa!-, urlò, per convincersene. Alessia si alzò dal letto. Era più bassa di lui, nonostante il suo metro e settantacinque. – Sì, odio la Chiesa.- ammise. -Ma erano soldi sporchi.- E tu che ne sai?- l’aggredì lui, con rabbia e nervosismo. Alessia, altrettanto infervorata, gli urlò contro: - Perché ti conosco!- Fottiti!Se ne andò dalla sua stanza, sbattendo la porta a vetri. Alex lo guardò fuggire, senza muovere un muscolo. Poi si lasciò cadere sulla seggiola. Raccolse la custodia della chitarra e rimise a posto il plettro, nella tasca interna, in mezzo a spartiti, corde e banconote. Tante banconote. Per un totale di 630 euro. Le guardò con rabbia e la colpì un vago senso di malessere al fondo dell’anima. Come qualcosa di sbagliato. Come se il mondo si fosse improvvisamente scosso per dirle


38 “hai fallito”. Alessia era una persona, nonostante le apparenze, emotiva. Forte, sicuramente, ma emotiva. Aveva sofferto molto in passato e molte cicatrici le bruciavano ancora la pelle, e lei era stanca. Stanca di dover pensare a tutti fuorché a lei stessa, stanca di non riuscire mai a dire “basta, me ne frego”, stanca di dover rincorrere situazioni che non le appartenevano. Ma era l’unica a saperle controllare, per le redini. E metteva sempre gli altri avanti a sé. In quel momento si sentì sola contro tutti, e crollò. Pensò a suo padre malato, con cui non era mai riuscita a creare un rapporto, pensò ai rapporti difficili con la madre, grande amica e peggior nemica, pensò ai suoi fratelli per i quali sopportava tutto, pensò a Stefano, pensò a Massimo, pensò alla scuola che le mancava, pensò alla situazione economica, pensò a suo nonno, mancato anni e anni prima ma sua stella luminosa, pensò al Natale felice che lei non aveva mai conosciuto, pensò a Matteo. Che l’aveva abbandonata. Che lei non aveva mai amato, ma di cui si era fidata. E lui l’aveva lasciata sola. Ferita nell’orgoglio. E la colse. Improvviso, su quest’ultimo pensiero. Cadde a terra, con un dolore nero che le scorreva nelle vene, che le impediva di respirare, che la piegava in due, scossa da singhiozzi che tentava di trattenere invano. S’infilò le unghie nella carne, sperando di lenire il dolore emotivo con un dolore fisico, e voleva urlare, ma quell’urlo che l’avrebbe salvata, che avrebbe lacerato il buio, il silenzio e il dolore, inciampava nei denti senza saper uscire. Il dolore vero funziona così.


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Otto

22 dicembre Si svegliò la mattina dopo, quando il sole era già alto. Controllando sul display del cellulare, scoprì che erano le undici, aveva dormito più di dodici ore. Si accorse di aver ancora indosso i vestiti del giorno prima, comprese le scarpe. Sentiva le sue palpebre pesanti, si voltò verso lo specchio e vide solo una maschera nera di trucco sfatto nel pianto notturno. Afferrò una salvietta, lentamente cancellò quelle lacrime nere rimaste incise sulla sua pelle. Era strano. Si sentiva purificata da quella salvietta, le stava togliendo i segni di un dolore. Cancellato il nero, rimase solo il colore della sua pelle e un profondo rosso nei suoi occhi. Aveva dei begli occhi, e li stava rovinando. Si stavano spegnendo, perdevano la loro scintilla. Si cambiò in fretta e si mise un paio di occhiali da sole. Uscì dalla stanza, evitando accuratamente di incrociare Stefano in corridoio e in pochi istanti si ritrovò in strada. Camminò a lungo, riflettendo e studiando la situazione del suo amico. Maledicendolo per la sua idiozia. Perché lo stava facendo? Perché si era ficcato in una situazione del genere? Qualcuno avrebbe potuto giustificarlo, dicendo che era colpa della famiglia, considerandolo un disadattato, ma lei no. Lei provava solo rabbia e frustrazione. Avrebbe voluto far qualcosa. Doveva far qualcosa. Non importava come. Senza accorgersene si ritrovò nel paese accanto. Aveva fatto più di quattro chilometri, camminando soprappensiero lungo la statale. Non aveva voglia di farne altrettanti per tornare indietro. Non aveva voglia di tornare indietro e basta. Vide un pullman giungere all’orizzonte e si sbrigò ad arrivare alla fermata, qualche metro più avanti. Era un pullman che si dirigeva verso Chivasso, o Torino. Alzò la mano e la vettura si fermò di fronte a lei, spalancando gli sportelli. Salì e tirò fuori il biglietto del giorno prima. - Ferma a Chivasso?-Ho capito.Stranamente erano in cucina, non nello studio spazioso. Aveva un forte mal di testa e la luce che entrava dalla finestra e si schiantava sui mobili


40 chiari la infastidiva. Per un attimo si domandò come mai quando arrivava a casa di Sassi, sua moglie era sempre assente. Poi cancellò il pensiero, aveva cose più importanti da dire. Niente di scolastico, almeno quel giorno. Il professore era intento a preparare una caffettiera, dandole le spalle. Cos’hai capito?-, domandò solo. Alessia si spostò leggermente, facendo slittare la sedia, quel tanto che bastava per non aver i raggi del sole dritti in faccia. Non aveva mai vissuto un inverno più gelido e splendente. La neve, ammucchiata ai bordi delle strade, faticava a sciogliersi e pareva giocare a riflettere le luci. -Ha mai letto ‘Il diavolo e la signorina Prym’ di Coeho?- L’uomo versò il caffè in due tazze e tornò al tavolo, portandole in mano. Ne porse una alla ragazza. -No, non l’ho mai letto.-, ammise dopo essersi seduto a sua volta. Lei sorseggiò un goccio di caffè, posò la tazzina nel piattino e riprese. Parla di un uomo che è stato profondamente ferito dal destino. Vuole convincersi che il mondo è tendenzialmente cattivo, per darsi pace, così istiga un delitto in un piccolo paradiso terrestre, promettendo oro in cambio. E’ un romanzo in cui la lotta tra il Bene e il Male diventa padrona.-Dev’essere bello.-E’ tremendo. Arrivati a un certo punto del libro, non si capisce più chi abbia ragione e chi torto.-Lo si capirà alla fine.-No, non si capisce.-, assicurò la ragazza. -Però mi ha fatto riflettere. E capire altre cose.Ora Sassi appariva più curioso. -Cosa?-Che Dio è sia Bene che Male.- Sollevò lo sguardo verso l’insegnante, per sentirsi dare della blasfema. Non accadde. Riprese, più convinta. -I peccati non esistono. Almeno, non esistono più.-Con che criterio affermi ciò?-, domandò lui. -Con il criterio della logica.-, rispose Alex. -Vede, prof, i peccati sono relativi. Tutto è relativo, anche le leggi che parevano immutabili, come i Dieci Comandamenti. Prenda quello che intima di non ammazzare.Finì il caffè, mentre fuori un qualcuno urlava a un qualcun altro di fare attenzione. -Non ammazzare perché è sbagliato. Spezzare una vita è sbagliato. Eppure anche i più buoni mangiano carne. Ammazziamo bestie, convinti che non possano avere un’anima. Facciamo la stessa cosa con i


41 criminali. I criminali sono cattivi, non sanno distinguere il giusto dallo sbagliato, non hanno un’anima. La pena di morte. Per molti è giusta.-Mi dica, dov’è la differenza tra ammazzare per piacere e ammazzare in nome di qualcos’altro, spesso in nome di Dio?- domandò sarcastica, per poi riprendere implacabile: -Dipende tutto dalle convinzioni sociali. Ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Ma alla fine, se togliamo il velo, ci rendiamo conto che niente è giusto e che niente è sbagliato. Che non esiste il Bene e il Male, quindi non esiste Dio. Esistono il destino e la natura. Sono quelli Dio, un’essenza a cui siamo debitori per la vita.Sassi era diffidente. -Non mi prenda per atea, forse sono solo panteista. Io credo che esista una scintilla di divino in ogni organismo presente sulla terra. E siamo gli unici a non accorgercene. Troppo rinchiusi in dogmi, in convenzioni sociali. Possiamo rendercene conto solo nel momento in cui siamo liberi.-E quando siamo liberi?-, domandò il professore. -Siamo sempre sottoposti al bombardamento della società!-Siamo liberi solo nel momento dell’orgasmo sessuale. Siamo veri, siamo Dio, Bene e Male infusi assieme.-Cosa cerchi di dire?La ragazza sbuffò. -Che il mondo è una montatura, professore. Che una persona può odiare e distruggere, ma essere buona e viceversa.-E quindi?-Quindi niente. In virtù di questo, aiuterò Stefano. Ma prendendo la strada sbagliata. Farò del bene attraverso il male.-, terminò poi. Cadde un silenzio pesante. Fu Sassi a riprendere la parola: -Attenta a non perder di vista la giusta strada.-Ci ritornerò, proprio come Dante che per arrivare in Paradiso superò l’Inferno.-Tu non sei Dante.-No. Sono Dio.-


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Nove

23 dicembre Era ferma, immobile, davanti una casa fatiscente. La osservò più da vicino, notando le crepe e le macchie di umidità sui muri, dove la vernice era saltata via, arresa a tanto. Una casa che dava l’aria di essere sporca, una di quelle che solo a guardarle si sente l’odore di fumo, muffa e di chiuso. L’odore di vite condotte male, nella povertà e, spesso, nella delinquenza. Ne aveva viste tante, purtroppo. E aveva visto l’indifferenza della gente a quell’effluvio, quel tapparsi il naso ormai incondizionatamente. Incappucciata nella sua felpa nera, con l’i-pod che suonava ininterrottamente “Cirano” di Guccini, diede un’ultima occhiata all’edificio che le stava di fronte. Poi attraversò la strada con il rosso, mentre il nevischio che cadeva dal cielo plumbeo la colpiva leggermente, e si decise a suonare il citofono, laddove non vi era una targhetta, sfilandosi le cuffie dalle orecchie. Le rispose una voce gracchiante che le domandava chi fosse. Alessia rispose con il suo nome, ma la sua coscienza si pose la stessa domanda: “Chi sei? Chi sei diventata?” Scacciò i pensieri con un gesto della mano, allontanandoli momentaneamente. Avevano la cattiva abitudine di tornare spesso, quando meno ce lo si aspettava. La porta si aprì con un sonoro “click” e lei la spinse, ritrovandosi immediatamente in un atrio sporco che dava in un esofago di scale. Gettò una rapida occhiata ai fogli a terra, alle cassette della posta rigurgitanti chissà quante bollette e pubblicità, al tappeto che un tempo doveva coprire le scale e dare una parvenza di ordine e calore. Ora non era altro che una seconda pelle del pavimento, maculata da mozziconi di sigarette e strappi più o meno regolari. Salì, senza farsi troppe paranoie e raggiunse a piedi il secondo piano, dove, sul pianerottolo, trovò ad aspettarla un ragazzo. Era in boxer e canottiera, scalzo, pallido e con due occhi rossi e cerchiati. -Ciao bambolinaLa sua voce era diversa da quella che le era giunta dal citofono. Se possibile, era ancora più sgradevole. E quel “bambolina” le mosse


43 qualcosa dentro, un istinto che conosceva bene, un impulso che le stringeva lo stomaco. Poteva rispondergli male, poteva tenergli testa. “Coi furbi e prepotenti da sempre mi balocco…” Invece non lo fece. Non gli tenne testa. Scese a un compromesso con se stessa. Salutò con un cenno della mano ed entrò nell’appartamento del tizio, senza aspettare che lui la invitasse. Del resto dubitava che lui l’avrebbe fatto. Cercò di usare la sua impulsività nel dimostrarsi sicura di fronte a lui per ottenere ciò che voleva, in realtà era solo a disagio, un po’ spaventata. L’alloggio di quel ragazzo era un mosaico di inutilità e cianfrusaglie che si espandevano come un cancro lungo tutto il perimetro della casa. In un angolo, in particolare, faceva la sua comparsa un televisore vecchio modello, a cui era collegato un videoregistratore. Sullo schermo scorrevano le immagini di due ragazze nude. Un porno. Alessia scostò lentamente lo sguardo, indifferente alla libido, sconcertata dal fatto che il tipo avesse lasciato la televisione accesa, incurante della visita. Non la spense neanche quando notò la smorfia di Alessia. Anzi, ne parve divertito. Poi la invitò ad accomodarsi nello stanzino che fungeva da cucina. La ragazza smise di guardarsi intorno per non vomitare di fronte alla pila di piatti e pentole sporche, che si arrampicavano verso il soffitto, sfidando la legge di gravità. Si sedettero a un tavolino e lui la squadrò attentamente. Cosa che fece anche Alessia. Notò i particolari nel volto del tizio, quelli che non aveva notato subito. Aveva gli occhi chiari, capelli biondi, unti, che gli arrivavano alle spalle. Spalle cascanti e pelle vistosamente viscida. L’impressione era tutta a suo sfavore. -Mi aspettavo un maschio.- sottolineò lui con l’ombra di un sorriso sulle labbra sottili e lunghe. Appariva come un serpente, subdolo e malsano. Lei si limitò a scrollare le spalle, noncurante, sperando che quel penoso argomento finisse lì. Speranze vane. -Perché Alex è un nome da maschio, nel caso non lo sapessi.Rassegnata, gli dedicò una risposta, cercando di non apparire troppo arrogante. -Alex non è un nome. E’ un diminutivo. Di Alessandro, Alessio, Alessandra, Alessia. -E nel tuo caso?-


44 -Il mio caso non ti dovrebbe interessare.Scomparve il sorriso e, per un istante, Alessia ebbe paura. Forse non avrebbe dovuto rispondergli in quella maniera. Lo vide poi stiracchiarsi sulla sedia, tirando indietro le braccia, e si rilassò. -Allora. Me la dai la roba?-, chiese, spostandosi una ciocca dei suoi capelli scuri dal volto. -Chi mi dice che non mi fai scherzi?Lei soppesò la domanda qualche secondo, indecisa sulla risposta. Poi optò per la verità. -Nessuno.- Sibilò. -Potrei essere un’infiltrata. Potrei andar a parlare subito alla polizia. Potrei tante cose. Ma fino a prova contraria, io ho i tuoi 630 euro e una raccomandazione di Stefano. -Le raccomandazioni di Stefano hanno la particolarità di contare poco.-, obiettò lui. Urla orgiastiche dall’altra stanza, provenienti dal televisore. Il sesso in quella maniera non le piaceva. Lei era convinta che l’attività sessuale fosse importante, bella, ma che dovesse essere sempre basata su un sentimento, anche solo di rispetto o stima. Il piacere fine a se stesso non era piacere. Era obbligo. Non credeva al sesso come peccato, non credeva a chi diceva si trattasse di una tentazione contro Dio. Come aveva spiegato a Sassi, credeva invece in un Dio non austero, un’energia che era solo piacere e che era quindi anche sesso. Talvolta si sentiva un’eretica a pensare queste cose, ma ricordava alcune civiltà che per evocare Dio utilizzavano riti a sfondo sessuale. E non capiva perché nel terzo millennio il sesso rimanesse il tabù per eccellenza. “Certo colpa del moralismo bigotto e del retaggio che ci portiamo alle spalle.”, pensò. “Un retaggio medievale, in quanto prima del Medioevo la visione dell’eros era molto più tollerante e naturale. “ Riportò a galla le altre nozioni che conosceva, al riguardo. Negli anni settanta c’era stata la svolta, anni di rivolta, di contestazioni, anni in cui si erano fatti largo i primi movimenti femministi. Alessia non era femminista, ma la scoperta della sessualità della donna le pareva un gran traguardo. Quel “Dio me l’ha data e guai a chi me la tocca”, il togliersi il marchio “Donna oggetto” dalla fronte. Riteneva anche che la situazione fosse poi fuggita di mano. Le donne non erano riuscite a mantenere l’equilibrio acquisito. Lo avevano portato alla degenerazione. C’erano così, da una parte, donne succubi, che chinavano la testa alla parola “sesso”, che nascondevano la loro femminilità.


45 E poi, dall’altra, quelle che affermavano la loro libertà sessuale nel modo sbagliato, donandosi a chiunque, pensando di essere padrone di se stesse e rivelandosi solo più schiave. Entrambe le situazioni per la ragazza erano sbagliate, e una rafforzava l’altra. “Il sesso dev’essere unione, non utilizzo.”, pensò ancora, mentre le urla si spegnevano lentamente in gemiti. ”Deve essere lovely sex.” Si ricordò poi dell’obiezione della serpe. Si decise a rispondere. -Ma i soldi contano, vero?Si accese una sigaretta, mentre attendeva la risposta del padrone di casa. Vedendo che tardava ad arrivare proseguì, giungendo al fulcro della questione. -Tu mi prendi ed io ti restituisco i soldi. Altrimenti chi s’è visto s’è visto e io mi compro un bel PC nuovo. A te la scelta.Ancora silenzio. Ancora sguardi scrutatori. Ancora neve fuori dalla finestra. Le sembrava di impazzire. “E al fin della licenza io non perdono e tocco…” - Perché lo vuoi fare?“Non perdono, non perdono e tocco…” - Si chiede a un malato perché s’è preso il tumore?La risposta aveva evidentemente spiazzato il ragazzo, che rimase in silenzio per qualche secondo, soppesando l’intera discussione. -Qua i soldi.- Decise infine -Sul tavolo in soggiorno c’è una busta. Vendila. Il 20% è tuo.-


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Dieci

“Non va proprio liscia, non va così liscia, tra noi che chiediamo che ora è. E c’è un’altra strada, e c’è un’altra via e un altro bar che chiude e un’altra voglia di fortuna.” -Perché lo vuoi fare?La stessa domanda. La stessa fottutissima domanda. Ma stavolta l’interlocutore era una persona conosciuta. E l’ambiente attorno a lei era lindo, colorato, famigliare. La sua stanza, la sua tana, dove lei si rifugiava spesso a dimenticare. Chi le stava seduto di fronte era Stefano, che la guardava, tra il curioso e lo scettico. Lo osservò negli occhi, nei suoi occhi chiari, verdi, striati di dolori trascorsi, velati dalla debolezza e dall’immaturità esasperata che quel ventenne riusciva a dimostrare. A lui avrebbe saputo mentire? “E allora, bambina, c’è poco da dire se non che mi troverai qua, cambiato per niente ma neanche scontento…” Doveva. Doveva mentirgli, doveva fargli credere di essere convinta, doveva riuscirci. Le pareva assurdo che lui non capisse, che davvero credesse a quel cambio radicale, che lui accettasse quello stupro ai suoi valori, lui che la conosceva da così tanti anni che… No, non importava. Non ci doveva pensare. Doveva farlo e basta. “Fottuto dal dovere, e pensare di dover avere” Fece in modo che dai suoi occhi sgorgasse qualche piccola lacrima, in modo da simulare un pianto, un dolore che non c’era, che era stato distrutto dalla rabbia crescente. Ringraziò mentalmente i tre anni trascorsi in una compagnia teatrale, che le avevano insegnato a fingere. Il teatro è una finzione consapevole, una presa in giro autorizzata. Come il cinema, come la letteratura. Ricordò con un senso di commozione quando, con la compagnia, misero in scena uno spettacolo per bambini, in cui lei ricopriva il ruolo di una scienziata strampalata. Dopo gli applausi non erano stati pochi i bimbi accorsi a chiederle come aveva fatto a inventare il “rimpicciolitore universale”, come si costruiva o se poteva usarlo contro qualche mamma. I bambini credono. Noi li illudiamo.


47 - Perché sì, Ste.- cominciò. –Perché sono stanca. Ho bisogno di cambiar vita. Bisogno di cambiare, di dimenticare. Scordare tutto, scordare questa merda.- Si prese una pausa, qualche altra lacrima scivolò lungo le guance, facendosi strada sulla pelle, per fermarsi poi sul mento e precipitare a terra. – E’ come se corressi da una vita intera e non mi fossi mai mossa. Ogni volta che mi avvicino a un traguardo, qualcuno decide di spostarlo più in là, lontano dalla mia portata. Non ce la faccio più. Non sopporto più tutte queste ipocrisie, non sopporto più la mia situazione famigliare, non sopporto vedere la delusione di mio padre, la rabbia di mia madre, non sopporto sentirmi costantemente sbagliata. Non sopporto sapere che anche Matteo mi ha abbandonata, non sopporto vedere che la mia vita va in tutte le direzioni tranne in quella che vorrei io. Lottare non serve a nulla.Era stato un crescente di singhiozzi, di rabbia, di pianto. Era parsa sincera. Non era stato difficile. Quelle stesse cose le aveva pensate mille volte, nelle sue notti insonni, nella sue crisi solitarie, nel suo io. Se l’era ripetute come una nenia prima di addormentarsi per anni interi, con singulti soffocati per non farsi sentire. Non voleva mostrarsi debole, non voleva che altri sentissero la sua sofferenza, non voleva neanche condividerla. Lei non voleva suscitare compassione o pietà, voleva farcela da sola. Ora, rivelare i suoi pensieri per giustificare una scelta che non sentiva propria, le pareva un tradimento. Quella scelta infatti non era sua, non le era mai passato per la testa di abbandonare veramente, di arrendersi, di darsi alla droga, allo spaccio. Erano sotterfugi per vigliacchi. Alex era molte cose, ma non vigliacca. Perché nella sua natura non esisteva la resa, esisteva la debolezza, la stanchezza, ma non il mollare. Non sapeva abbassare la testa, non voleva neanche. Non voleva, perché significava morire. Voleva dire uccidere se stessa. Esistono diverse specie di persone. Alessia non badava molto alle classificazioni e non sapeva che ne apparteneva a una in particolare. Quella delle persone che si distruggono per altri, perché in quella distruzione sono vive. Vivono per gli altri e non possono farci nulla. Talvolta odiano quella loro condizione. Talvolta vorrebbero sentirsi libere da responsabilità che non appartengono loro, ma non possono, perché quella stessa libertà le ucciderebbe. Alessia poteva abbandonare la sua situazione famigliare da un momento all’altro, arrivare ad afferrare quella libertà che sognava ogni


48 notte. Poteva allontanarsi, sparire da quello schifo. Salvarsi, dopo vent’anni di vessazioni. Ma avrebbe vissuto con il rimpianto di aver lasciato soli i suoi fratelli. E no, non sarebbe stata libera. Quella libertà l’avrebbe schiacciata. Anche questo era il motivo per cui voleva salvare Stefano. Doveva salvare se stessa dal rimpianto di non aver fatto nulla, di averlo lasciato solo. Guardandolo negli occhi, l’immagine di quel ventenne si sovrappose al suo volto di bambino. Quando aveva dieci anni e cadeva in cortile, si sbucciava il ginocchio e piangeva. Lei gli si avvicinava, si faceva cadere a terra per tagliarsi a sua volta il ginocchio, si rialzava e gli diceva: “Vedi, io non piango”. Poi lo tirava su e andavano a disinfettarsi, insieme. ”Non è cambiato niente.”, pensò. - Ok. Allora, se sei sicura, stasera andiamo.Stefano aveva parlato come se fosse la cosa più naturale del mondo e Alessia rimase agghiacciata. - Stasera?-, domandò solo. - Beh, sì. Se hai già parlato con Cristian, non vedo che problemi potrebbero esserci. Prima inizi, prima impari.“Cristian”, era quello il nome della serpe. Alessia non aveva avuto modo di procedere con le presentazioni, le era sembrato superfluo con una persona del genere. Ora sapeva il suo nome e, in futuro, poteva tornarle utile. - Cristian è il capo?-, chiese. - Diciamo di sì. Lui dipende da qualcun altro, più in alto, qualcuno che gestisce i traffici. Lui riceve la roba a casa e la smista tra di noi, in modo che la vendiamo. Per ogni dose che piazziamo in giro, ne abbiamo una a disposizione, e veniamo pagati secondo una percentuale che varia dal 20% al 40%. Queste cose non te le ha spiegate?Alessia scosse la testa, confusa da quelle novità. “Qualcun altro più in alto.” Doveva capire chi fosse il gran capo. Tutta quella storia le piaceva sempre meno, si stava delineando una piramide troppo vasta. Contro chi si sarebbe scontrata, alla fine? Poi si affacciò il problema più prossimo. -Stefano, non potremmo rimandare di qualche giorno? Stasera non me la sento.Lui sorrise e le accarezzò la testa. Alex dovette trattenersi dal fuggire a quel contatto. - No. L’appuntamento è per stasera. Preparati, perché i primi giorni saranno difficili.-


49 Detto questo, si alzò e uscì dalla stanza, afferrando dal tavolo uno dei due sacchetti pieni polvere bianca che, poco prima, avevano posato, vicini. La porta non sbatté. Quel silenzio rimbombava nelle orecchie di Alessia. Non lo sopportava, lo trovava assordante. La lasciava sola con tutti quei pensieri nocivi, con quell’ansia atroce. Si era cacciata in un guaio più grande di lei e doveva restare lucida, doveva riuscire a riordinare le idee e tenerle sempre a mente. Doveva capirci qualcosa. Si domandò se stesse facendo la cosa giusta. “Ma alla fine, se togliamo il velo, ci rendiamo conto che niente è giusto e che niente è sbagliato.” Come aveva fatto a essere così stupida? E ora poteva forse tornare indietro? Aveva sottovalutato la situazione, senza pensare che il momento della verità sarebbe giunto così presto, così velocemente. Si alzò dal letto e si diresse alla porta finestra che dava sul terrazzo. L’aprì e immediatamente venne investita da un’aria fredda, che le pungeva il viso come tanti spilli infilzati nella pelle. Incurante, si sedette a terra e fissò gli occhi contro il cielo, ormai già scuro. Mancava poco all’ora di cena, quando si sarebbe ritrovata a tavola con i parenti e con Stefano, di fronte agli occhi indagatori della madre e a quelli ingenui e adoranti dei suoi fratelli. Sfilò il cellulare dalla tasca e cercò il numero di Sassi. “Crea nuovo messaggio”. “Non posso più tornare indietro.”


50

Undici

Il viaggio fino a Torino le era parso infinito, come la strada che compie un condannato a morte lungo il patibolo. Il treno si muoveva troppo lentamente e Alessia aveva sentito il bisogno impellente di fuggire, di tornare a casa, mentre Stefano tentava penosamente di farla ridere. Probabilmente scambiò il suo nervosismo per impazienza, quando invece si trattava di pura e semplice ansia, paura del salto nel buio cui stava andando incontro. Era combattuta tra la speranza che il viaggio non finisse mai e il bisogno che terminasse il prima possibile, per mettere la parola fine a tutta quell’agonia. Ogni secondo pesava come un macigno sulle sue spalle, la schiacciava a terra dolorante. Una volta arrivati alla stazione di Porta Susa, presero il tredici e giunsero fino a Piazza Castello. Alessia ebbe troppo poco tempo per soffermarsi sull’immagine del piazzale innevato, quasi romantico, quasi malinconico, quasi natalizio. Quasi ipocrita. Il mondo in cui lei viveva, era la patria del “Quasi”. E a lei, a lei senza mezze misure, a lei e ai suoi estremi, quell’avverbietto da nulla proprio non piaceva. -Siamo quasi arrivati.-, la rassicurò Stefano. Se avesse potuto sentire i suoi pensieri, si sarebbe evitato quell’uscita. Lei si limitò a prender nota del “Quasi” e annuire lentamente, senza degnarlo di uno sguardo. Si stava lasciando condurre in alto mare. Le sarebbe poi spettato il compito di riportarli indietro salvi. Se ce l’avesse fatta. ”Ce la devo fare.” Arrivarono infine al lungo Po e lei si concedette un istante per osservare la Gran Madre, poco più avanti. Non le piaceva particolarmente, ma aveva un suo fascino. E poi regnava incontrastata sul quartiere più costoso e più bello di Torino, quella chiesa; meritava almeno un’occhiata. Studiò la posizione delle lucine di Natale blu, poste a ornamento dell’architettura. Una violenza all’arte. Scosse la testa e, con la coda dell’occhio, notò che Stefano stava picchiettando i tasti del cellulare, scrivendo un messaggio. Alzò la testa dal display e la intimò: - Vieni. Ci stanno aspettando giù.Giù. Quanto giù? Avrebbero toccato il fondo? Sarebbero riusciti a risalire?


51 Domande metaforiche nella testa di Alex. Presero la piccola discesa che portava ai Murazzi, “un quartiere” sul Po, un marciapiede con locali da una parte e il fiume dall’altra. Un passaggio tra due mondi che tra di loro non avevano proprio nulla a che fare. Poche centinaia di metri e i locali si fecero più radi, come i lampioni, come le voci. Ci misero dieci minuti ad arrivare nel luogo prefissato, lontano dal centro della movida. Si fermarono. Alessia, sul momento non vide niente. Il buio sembrava aver inghiottito il mondo. Solo il rumore del debole sciabordio del fiume, a pochi passi da lei. Poi, dal nulla, comparve una figura. Si avvicinò a Stefano e i due si salutarono fraternamente. Avvicinandosi, Alex notò che si trattava di un ragazzo non troppo alto, nero, dai capelli rasati. Si presentarono. Il nuovo arrivato si chiamava David, veniva dalla California. - Adesso arriva anche Federica.- assicurò. Alessia registrò quest’altro nome e attese. Poco. Un paio di minuti dopo, infatti, la raggiunse alle spalle una voce già sentita. Una voce bassa, profonda, quasi maschile. Si voltò e davanti a sé, a pochi centimetri, rivide la bionda di qualche sera prima. Anche lei la riconobbe e non si evitò una battuta infelice: - Guarda chi c’è! La stronza!Stefano e David intervennero prima che Alessia aprisse la bocca per rispondere alla frecciata. –Dai, Fede, piantala. E’ dei nostri.La ragazza li squadrò velocemente, incuriosita. – Ha parlato con Cristian.- aggiunse David, come se fosse una garanzia che valeva più di mille parole. La curiosità lasciò spazio alla delusione, sul volto di Federica. Ma non per questo lasciò in pace Alessia. Ferma di fronte a lei, senza staccarle gli occhi di dosso, bevve un lungo sorso della birra che stringeva in una mano. - Sai cosa me ne frega che tu abbia la benedizione di Cristian? Un cazzo.- Il tono di voce non era irato, era piuttosto canzonatorio, beffardo. Spiacevole. Alessia non si lasciò intimidire, e non abbassò lo sguardo da quella che si stava dimostrando sua rivale. “E’ che un tot di gente fraintende ancora il mio modo di pormi…” - Non me ne frega un cazzo che tu “sia dei nostri”- riprese – perché mi stai sulle palle. Non mi fido di te, che solo qualche giorno fa venivi a farci la paternale, e per questo farò in modo di farti sloggiare il prima possibile. – Dopodiché abbassò lo sguardo sulla giacca di jeans di


52 Alessia, un vecchio regalo di Matteo. – Carina. D&G?-, domandò, mentre la birra contenuta nella bottiglia si riversava tutta sul tessuto. Alessia si scansò rapidamente, ma il danno era stato fatto. Mal sopportava l’odore della birra, le dava la nausea. Inoltre quell’indumento era una delle poche cose di marca che avesse ed era un ricordo a cui teneva. – Troia.-, sibilò verso l’altra, che stava ridendo, a pochi passi di distanza. Fu un errore. Federica smise all’istante di ridere e si lanciò addosso ad Alex come una furia. La sorpresa e la velocità di quell’aggressione lasciarono la ragazza spiazzata, confusa, senza tempo di reagire. Improvvisamente si ritrovò a terra, schiacciata tra le lastre di granito bagnato della pavimentazione stradale e il peso dell’avversaria. Una fitta feroce alla nuca le fece capire di aver sbattuto, durante la caduta. Federica, vedendo Alessia in difficoltà, non perse l’occasione per infierire su di lei. Si mise a cavalcioni sul suo corpo e le infilò le lunghe unghie dipinte di nero nella carne sotto gli occhi, facendone sgorgare sangue. La ragazza trattenne a stento un grido, mentre l’altra, furiosa, la intimava di ripetere come l’avesse chiamata, come si fosse permessa. Alessia tentò di divincolarsi, ma lo spavento e l’assurdità della situazione giocarono a suo sfavore. Dovette impegnarsi e tentare più volte, prima di riuscire a scivolare sotto il corpo che la sovrastava. Tentò di tirarsi su il più in fretta possibile, ma ancora una volta Federica fu più veloce. La prese per le spalle e la buttò nuovamente a terra, nuovamente sotto di lei. Le afferrò la testa tra le mani e prese a sbattergliela più volte al suolo, provocandole ogni volta una fitta di dolore simile a una lama nel cervello. L’istante dopo il contatto con la pavimentazione, Alessia vedeva tutto rosso. Una volta. Due volte. Tre volte. Alex sentiva qualcuno urlare, probabilmente Stefano e David, e si chiedeva perché non intervenissero, perché lasciassero che quella bestia la massacrasse in quel modo, per nulla poi, perché non mettessero fine a quel dolore. Le scoppiava la testa, un ronzio continuo imperversava nelle sue orecchie, sentiva il sangue scivolarle sulle guance al posto delle lacrime, là, dove la troia l’aveva ferita, la troia, la troia, la troia…


53 L’ultima fitta coincise con un pensiero nitido, terrorizzato. “Mi ucciderà!” “Tanto ne muoiono cinque come me ogni sabato sera…” Non voleva morire e quel pensiero le diede la forza di reagire. Staccò le sue mani dalle braccia dell’avversaria, pregando che il tempo le bastasse, che il colpo successivo non avvenisse quando non poteva contare nemmeno sulla resistenza dei suoi muscoli per ammortizzare la botta, e appoggiò i palmi sulle spalle della ragazza. Mentre quella si tirava indietro per darsi la spinta, Alessia ne approfittò. Raccolse tutte le sue energie rimaste e la spinse via, facendo leva sulle braccia. Per un istante sentì i muscoli bruciare, pensò che non ce l’avrebbe fatta, che adesso sarebbe arrivato l’ultimo colpo e le avrebbe aperto la testa in due. Un istante e pensò mille cose. Il suo cervello a terra, i suoi occhi fissi nel vuoto, l’immagine di una morte insensata. I suoi fratelli, i suoi genitori, Stefano, Sassi…”Ma cosa c’entra Sassi?” ”Professore, non ho studiato” “Perché?” “Perché mi hanno uccisa…” Poi vide Federica cadere a terra, poco lontano da lei e capì di avercela fatta. Cancellò ogni altro pensiero, caricò la gamba e le tirò un calcio in piena faccia, per evitare che si rialzasse subito. Si tirò su rapidamente, cercando di non badare al dolore, e corse contro il muro. Ci si appoggiò contro, respirando affannosamente, osservando l’altra ancora a terra. Possibile che non si fosse ancora rialzata? Il dolore stava aumentando gradualmente, tenere gli occhi aperti le costava sofferenza, vedeva sfocato e la lucidità di pensiero stava venendo a meno. La stanchezza la sopraffece, scivolò a terra e l’ultima immagine che vide fu quella di Federica ancora a terra, a pochi passi dal fiume nero. Poi il buio.


54

Dodici

Camminavano velocemente, a passo sicuro, lungo il marciapiede, incuranti della gente che sfilava loro vicino, talvolta spintonandola. Stefano li vide arrivare quando erano ormai a pochi passi di distanza. Se ne stava appoggiato contro il muro di un edificio, in una traversa di piazza Veneto, senza riuscire a togliersi dalla testa il pensiero di Alessia riversa a terra, nel sangue. Cos’avrebbe potuto fare? Il panico gli aveva bloccato la capacità di giudizio. Lui doveva essere da un’altra parte, e doveva starle lontano per evitare implicazioni giudiziarie. Non aveva chiamato i soccorsi, in quanto, appena raccolto il telefono della ragazza per farlo, aveva chiamato un uomo. Stefano gli aveva quindi spiegato la situazione, pensando che fosse meglio di un’ambulanza, ed era fuggito poco lontano, assieme a David. Appena lasciati i Murazzi, si erano divisi ed era corso al luogo dell’appuntamento. Adesso che erano arrivati, doveva sforzarsi di apparire sereno e professionale. Con rimpianto cancellò l’immagine di Alessia e si concentrò sulle due figure. Li odiava, semplicemente. Odiava loro, il loro modo di parlare, di vestirsi, di camminare. Odiava persino i nomi stupidi con cui erano conosciuti: Spello e Calco. Stefano riteneva più adatti “Cip” e “Ciop”, visto anche il loro livello mentale. Non che lui fosse una cima, lo ammetteva, ma in confronto a quei due energumeni si sentiva un genio. Non avevano cervello, ma compensavano con i muscoli. Doveva dir loro grazie, se qualche sera prima s’era ritrovato carne tritata al posto di un occhio. Alzò una mano, a segnalare la sua presenza, e si avviò in un’altra stradina, un vicolo cieco in cui l’avrebbero seguito. La mancanza d’illuminazione, se non un lampione che spargeva nell’oscurità una lucina fioca e debole, faceva sì che quel luogo fosse poco frequentato da gente bene. “Quella di cui io non faccio parte.” Come previsto, pochi secondi dopo, apparvero nella stradina e si affiancarono a lui.


55 Uno era alto, dalle spalle ampie. Gli occhi, piccoli e ravvicinati, e il naso sottile e lungo, gli davano l’aspetto di un topo cresciuto troppo. Indossava una felpa nera sgualcita in più punti, una giacca di pelle nera e jeans strappati e stretti, anch’essi neri. Unico punto di colore erano le scarpe da ginnastica, blu. “Che accostamento del cazzo”, sorrise Stefano. L’altro aveva più colori addosso, ma gettati alla rinfusa, come un mosaico di stili e gusti diversi. Un paio di pantaloni rossi, un maglione giallo stinto, scarpe verdi. A completare il tutto, una sciarpa arancione su cui ricadevano i lunghi spaghetti che si ritrovava come capelli. Era meno alto dell’altro, meno muscoloso, ma più veloce e sadico. Una volta gli aveva premuto una moneta da due euro sul polso, dopo averla resa incandescente con un accendino. Adesso Stefano aveva l’Alighieri tatuato perennemente, sotto il polsino che teneva sempre addosso. - Vedo che il tuo occhio si è rigenerato alla perfezione.-, sottolineò il primo, il topo, ironizzando sul colore giallognolo che Stefano ancora presentava. – Se ci scappa, magari stasera vediamo di riportarlo in condizioni più consone.Stefano sentì lo stomaco rivoltarglisi all’interno, tanto l’odio e il disprezzo erano forti. - Piantala, Calco. Non vedi com’è nervoso stasera, il nostro amichetto?, lo riprese il secondo. Il ragazzo voleva sbrigare la faccenda il più velocemente possibile. Tirò fuori dalla tasca il pacchetto e lo mostrò ai due. – I soldi.-, richiese. Calco estrasse dalla giacca diverse banconote che ficcò poi in mano a Stefano, mentre Spello ritirava il pacchetto. Lo aprì davanti a Stefano e fece scorrere la polvere sul palmo della mano, setacciandola. L’altro non gli staccava gli occhi di dosso. Quando ebbe finito l’operazione, Ste notò l’espressione d’ira furente dipingersi sul volto dei due. – Che cazzo è questa merda?- domandò Spello, lanciando la polvere a terra, mentre l’altro schiacciava al muro il ragazzo. Stefano sentì il braccio dell’avversario premuto sulla gola e gli mancò il respiro. – Non lo so.- cercò di rispondere, ma dalla sua bocca non usciva che un rantolo insensato, grottesco. Un pugno gli arrivò dritto sul naso e sentì immediatamente il dolore acuto accompagnato da un fiotto di sangue caldo. - Dove cazzo è la nostra roba?Non lo sapeva davvero, Stefano. Non ne aveva idea. Era sicuro che fosse quella, la loro roba.


56 Vedendo che non riusciva più a parlare, Calco diminuì la presa e lo fece cadere a terra. Guardarono quel ragazzino stringersi il collo, in preda al dolore, e sputare il sangue che dal naso gli si raccoglieva in gola. Spello si abbassò alla sua altezza. - Dov’è?Stefano alzò lo sguardo e puntò i suoi occhi chiari in quelli dall’altro. – Non lo so. Chiedetelo a Cristian.-, rispose. L’altro si rialzò e si avvicinò al compare. Parlarono tra di loro pochi istanti, prima di rivolgere le loro attenzioni nuovamente a Stefano. -Ascoltaci. Se la roba non arriva da noi entro una settimana, il capo non sarà per nulla contento e a pagare sarete voi.Calco rincarò la dose: - “Pagare” implica che ci sarà molto sangue. “Voi” implica che tu non sarai risparmiato.- Dopodiché, dopo aver assestato un calcio nello stomaco del ragazzo ed essersi ripresi i soldi, si allontanarono, con lo stesso passo veloce e sicuro. FINE ANTEPRIMA CONTINUA...


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