Massimo Bernardi
LETTURISTA PER CASO Strade, luoghi e incontri nella provincia emiliana
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LETTURISTA PER CASO Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-430-7 In copertina: Immagine fornita dall’Autore
Finito di stampare nel mese di Aprile 2012 da Logo srl Borgoricco - Padova
a Gabriele e Cristina, senza i quali non partirei mai per quel viaggio da Carpi in poi
Se sto fermo, non ho idee. Se parto, i pensieri arrivano e le cose accadono. Paolo Rumiz, Ăˆ Oriente
Ma dimmi, cosa c’è di piÚ bello del sole al mattino? un contadino che ho incontrato
In fondo non appartengo a nessun luogo, ne sono solo attraversato. Come diapositive proiettate su un muro.
Introduzione
LA VITA TRASVERSALE
È curioso che tra tutti i possibili mestieri del mondo io nella vita faccia proprio il letturista, l’uomo che legge i contatori della luce, dell’acqua e del gas. È un lavoro insolito, atipico, fuori dagli schemi. Molti non sanno nemmeno cosa significa fare il letturista oppure ne hanno un’idea soltanto vaga. C’è chi non lo considera un vero e proprio lavoro ma un lavoretto per studenti universitari o tutt’al più un hobby per pensionati. Quella del letturista è una professionalità anonima, misconosciuta e priva di prestigio, che non ha mai trovato spazio né sui giornali né tanto meno sui programmi televisivi. In una ideale classifica delle figure più prestigiose occuperebbe inesorabilmente uno degli ultimi posti. Nessun bambino sogna di diventarlo da grande e nessuna mamma si augura di vedere il proprio figlio ridotto così, specialmente se laureato. Di solito noi letturisti siamo sgraditi o quantomeno malvisti, un po’ come i testimoni di Geova, perché ci presentiamo a domicilio a rompere le scatole a qualsiasi ora del giorno. Ci riconoscono all’istante dal nostro inconfondibile aspetto: casacca arancione fosforescente abbinata a pantaloni bicolore verdi e grigi, scarponi tecnici sporchi di fango, tasche e borselli da cui sporgono grossi mazzi di chiavi e inquietanti ganci da macellaio. Per non parlare delle nostre facce poco rassicuranti accompagnate spesso da piercing, tatuaggi e barbe incolte che ci fanno sembrare delle bestie, gentaglia rozza e ignorante che passa le giornate ad aprire pozzetti dell’acqua e nicchie del gas e che nella vita non sa far altro che leggere dei numeri e digitarli sul letturino, quell’aggeggio elettronico che sembra un cellulare in formato gigante. I nostri amici, per un equivoco di fondo, tendono a snobbare la nostra categoria con frasi spregiative, del tipo: «Non fate niente da mattina a sera e vi pagano pure bene», «Vi imboscate sempre nei bar», «Siete peggio degli statali», dalle quali trapela anche una certa invidia priva di fondamento. In realtà, che ci crediate o no, andare a leggere i contatori non è né così banale né così scontato come potrebbe sembrare. Tutt’altro. Il letturista non è un lavoro per tutti e per farlo bene servono alcuni requisiti. Per prima cosa devi saperti gestire in autonomia e avere una
certa flessibilità mentale per affrontare situazioni di volta in volta diverse. Serve una buona conoscenza del territorio, perché ogni giorno ti possono spedire in missione in un posto nuovo e devi innanzitutto saperci arrivare senza perderti. E non si tratta solo dei comuni più grossi ma anche delle frazioni sperdute in Appennino che a volte sono isolate dalle frane o delle valli depresse nella Bassa nascoste da una coltre di nebbia eterna. Quando poi arrivi in zona devi trovare il quartiere giusto, le vie giuste, le singole case, anche quando i numeri civici sono sballati o non esistono proprio. Poi ti conviene sempre organizzare la giornata a seconda di com’è fatto quello specifico giro di letture, decidendo con quale ordine procedere per ottimizzare i tempi: la campagna è meglio farla al mattino, le zone industriali negli orari di ufficio, i palazzoni da otto piani all’ora di pranzo quando è più facile che la gente sia in casa e così via. Trovare i contatori poi richiede una certa dose di intuito perché molte volte sono imboscati nei posti più impensabili e a te che li cerchi sembra di stare in una caccia al tesoro perpetua che ricomincia ogni giorno. Si nascondono negli anfratti dei sotterranei, tra le tubature delle centrali termiche, in mezzo alle damigiane di vino, dietro le lavatrici o sotto i lavelli delle cucine. Ma anche nelle stalle e nelle porcilaie, in mezzo alle siepi o ai fossi oppure in luoghi speciali con una loro poesia: tra il sesto e il settimo filare di peri, sotto la grande quercia che piantò il nonno alla fine della guerra e via dicendo. Ostacoli di varia natura li rendono spesso inaccessibili. Si va dai rovi pieni di spine alle gigantesche anfore in terracotta piazzate proprio sopra, dai nani da giardino ai rottami industriali, dai vecchi divani sfondati alle cataste di acqua minerale, fino ai rottweiler incazzati messi di guardia e pronti a sbranarti se ti avvicini troppo. Per leggere un contatore devi essere disposto a tutto, perché ti possono capitare situazioni estreme che richiedono forza, agilità e coraggio: puoi essere costretto ad arrampicarti su un muro, scavalcare un cancello appuntito o saltare un canale pieno d’acqua. A volte devi scendere in uno scantinato buio di una casa disabitata, calarti dentro un pozzo o salire su una scala di legno marcio rosicchiata dai topi. Altre volte devi camminare in equilibrio su un cornicione, strisciare sul fondo di un angusto cunicolo o scavalcare una montagna di rifiuti. Capita di passare tra ruderi di case abbandonate e cortili incolti che sembrano giungle, attraversare cucine così sporche che ti lasciano addosso strati di sudiciume e odori di ogni genere. Non è affatto un lavoro rilassante. Ci sono giornate che passi interamente a guidare in mezzo al traffico, altre
dove entri ed esci di continuo dalla macchina con l’incubo di dover trovare ogni volta un parcheggio. Ci sono giri di letture in cui devi salire le scale in decine di condomini senza ascensore e altri giri che ti costringono a camminare lungo file interminabili di villette a schiera suonando i citofoni di porta in porta. Sei sottoposto al tempo meteorologico senza alcun filtro e devi affrontare le avversità delle stagioni: le piogge primaverili, la canicola estiva, l’umidità e le nebbie dell’autunno, il freddo invernale che ti entra nelle ossa. Per non parlare del fango e della sporcizia sopra i contatori dell’acqua nei pozzetti, della polvere, delle ragnatele e dei nidi di vespe dentro le nicchie del gas, più tutti i piccoli contrattempi con cui hai che fare ogni giorno. E infine devi avere pazienza, tanta pazienza con tutti quegli utenti anziani e soli in casa che nella stragrande maggioranza dei casi sono diffidenti e prima di aprire la porta ti fanno il terzo grado per capire chi sei. Con gli arroganti che ti fanno pesare di aver violato la loro privacy o che ti mandano direttamente a quel paese. Con quelli che protestano per le bollette del gas troppo alte e ti intrattengono dei quarti d’ora a lamentarsi del governo e della società. E con i tanti vecchi che si sentono soli e trovano in te una valvola di sfogo. Se gli dai un minimo di confidenza ti fanno accomodare in salotto, ti offrono da bere e cominciano a raccontarti tutte le loro disgrazie. A questo punto spero di aver fatto un po’ di luce sulla misteriosa figura professionale del letturista. Ho spezzato più di una lancia a suo favore perché in questo mestiere così anomalo, estremamente vario e ricco di imprevisti, io ci credo. Forse ci sono finito un po’ per caso, senza cercarlo ma assecondando passivamente il corso degli eventi. Ma mi piace pensare esattamente il contrario, che cioè dietro l’apparente casualità di questa scelta ci sia un'imperscrutabile regia e io non sto facendo altro che recitare un copione scritto apposta per me. Quella che sento verso il mio lavoro non è soltanto una generica attitudine ma una specie di vocazione. L’ho già detto e lo ribadisco, trovo curioso che tra tutte le scelte possibili io vada proprio a leggere dei contatori. Il mio percorso di studi, lungo e brillante, avrebbe dovuto portarmi da tutt’altra parte. Verso la ricerca scientifica, le analisi di laboratorio o tutt’al più l’insegnamento. Ma, laurea in biologia a parte, avrei potuto incanalare uno dei miei tanti interessi verso un’altra strada comunque più gratificante. Oggi potrei essere, che so, un fotografo che scatta di preferenza nei siti abbandonati di archeologia industriale oppure un giornalista specializzato in cultura locale, un archivista di documenti antichi e vecchie carte geografiche, un esperto di cambiamenti
urbanistici, un sociologo che studia le mutazioni in atto nella popolazione, uno sceneggiatore in cerca di location per le sue storie, un esperto del paesaggio o, meglio ancora, una guida turistica. O chissà cos’altro. Non voglio dilungarmi oltre, potrei diventare noioso elencando tutto quello che avrei potuto essere ma non sono. La cosa strana è che proprio in quanto letturista sento di poter vivere, anche se marginalmente e in piccole dosi, tutte queste mie potenziali strade alternative. Perché nel mio lavoro c’è un valore aggiunto che lo rende speciale: quello di poter vivere una vita trasversale, ricca di piccole ma significative variabili quotidiane che la rendono interessante. Ogni giorno mi trovo ad avere a che fare con una situazione diversa, quasi sempre nuova. Ho la mia bella porzione di territorio da percorrere in lungo e in largo, casa per casa, strada per strada, angolo dopo angolo. Nel mio procedere di porta in porta ho modo di conoscere un luogo nella sua totalità, sviscerandolo da ogni punto di vista. Posso vedere le cose con gli occhi di ciascuno dei suoi abitanti, cogliendo lo scorcio esatto di ogni cortile, finestra o balcone, da tutte le prospettive possibili. Istante per istante vivo dentro scenari nuovi, incontro volti diversi e scopro tante piccole curiosità che alimentano la mia fantasia. In questa continuità spaziale le distanze geografiche sembrano dilatarsi a dismisura, perché i posti dove vado sono molto più ricchi di contenuti di quel che può sembrare a un passaggio veloce e distratto in automobile. Bisogna scendere a piedi e camminare in ogni direzione per assaporare davvero ogni cosa e scoprire i dettagli meno appariscenti, il “dietro le quinte” nascosto dalle facciate. Essere letturista significa poter vivere giorno per giorno esperienze multiple, toccare luoghi e realtà molto varie: dalle campagne con case sparse ai quartieri residenziali ad alta densità abitativa, dai capannoni delle zone artigianali alle piccole borgate di montagna. Significa interagire con comunità e con persone che hanno una loro specificità locale legata al posto in cui vivono, venire a contatto con i loro usi e costumi, le specialità culinarie, le inflessioni dialettali che sfumano gradualmente l’una nell’altra. Stando sempre in giro con la macchina ho acuito la mia innata tendenza all’osservazione. Il viaggio quotidiano verso il luogo di lavoro è una specie di film già visto qualche tempo prima, perché i giri di letture periodicamente tendono a ripetersi. Tuttavia piccoli dettagli riescono ogni volta ad alterare la percezione d’insieme: una casa ritinteggiata in un colore diverso, una nuova rotonda al posto di un incrocio, l’insegna luminosa di un negozio che prima non c’era, una strada sbarrata dai lavori in corso. Attraversare le strade e i paesaggi è un continuo esercizio
della memoria che si rinnova, che muta da una stagione all’altra, che mostra i segni delle trasformazioni urbanistiche nelle periferie in espansione, negli edifici pericolanti abbattuti, nelle ville antiche che cambiano pelle e ringiovaniscono. Le strade urbane, come pure gli stradelli di campagna, le borgate dei paesi e le più piccole frazioni comunali, sono un affascinante sovrapporsi di strati temporali dove convivono uno accanto all’altro diversi stili architettonici, diversi materiali edilizi, diverse realtà sociali e un infinito intreccio di storie. Sono un inguaribile nostalgico del tempo che fu, qualunque esso sia. Non c’è elemento o dettaglio che non mi riporti a un’altra epoca, che non mi suggerisca una visione diversa della realtà che ho sotto gli occhi. Di un rudere sopravvissuto ricostruisco mentalmente come doveva apparire in origine e come poteva essere il paesaggio intorno. In prossimità dei cavalcavia o delle tangenziali cerco di ricostruire a occhio i tracciati delle vecchie strade interrotte o deviate per fare posto alla viabilità moderna: spesso esistono ancora, anche se declassate a stradelli minori o piste ciclabili. Mi piace imbattermi casualmente in qualche segno superstite del passato, che sia un palazzo nobiliare o un bosco residuo, una corte di campagna o un piccolo cimitero. Mi piacciono i giardini incolti delle ville abbandonate dove cresce selvaggiamente un po’ di tutto e quei cortili interni con le serre e i gazebo nascosti dai rampicanti. Mi piacciono i cancelli arrugginiti, i balconcini liberty, gli affreschi scrostati, le cappelle votive, gli archi, i portici. Mi piacciono gli argini, la visione rialzata dell’orizzonte che hai salendoci sopra e provare a riconoscere da lontano i paesi, i campanili, gli acquedotti. Mi piace immaginare dove possa portarmi un treno che mi sfreccia davanti o dove stiano andando tutte quelle macchine che sfilano in autostrada nelle due direzioni. Con la scusa di rilevare i loro consumi, ogni giorno entro in punta di piedi nelle vite degli altri. Sono incursioni minime, giusto il tempo di entrare in casa e trovare il contatore. Poi mi congedo e passo alla porta successiva. Ma quei pochi istanti sono pur sempre un’immersione nel privato, un tuffo nel microcosmo di una famiglia. Attraverso le loro stanze, respiro gli odori di casa, osservo gli oggetti e gli arredi, assorbo come una spugna i mille segnali che mi circondano e riesco a farmi un’idea, sia pure sommaria, di chi siano le persone che ho davanti, che interessi o affetti possano avere, quali sogni nel cassetto. Le foto dei nipotini sui calendari, per esempio, raccontano di nonni affettuosi che hanno fatto tanti sacrifici e ora vivono di piccole cose, come il sorriso di quei bimbi. Seggioloni, giocattoli sparsi e tappeti colorati parlano della grande avventura di crescere un figlio, tanta gioia per mamma e papà ma
anche stanchezza e fatiche domestiche che si moltiplicano. Poi ci sono le camere degli adolescenti, con i poster degli ultimi gruppi rock e le cartoline di viaggio di un InterRail con tutte le città attraversate. Oppure le cucine con i piatti sporchi impilati sui fornelli macchiati dal sugo della cena precedente, perché alla sera si è stanchi e si crolla davanti alla TV e domani è un altro giorno. Mi capita di entrare in case così piene di oggetti che sembrano moderne Wunderkammer dalle atmosfere esotiche o d’altri tempi. I souvenir sui ripiani, le vecchie foto di famiglia, le stampe di quadri famosi ma anche la luce particolare in un angolo della stanza o il rintocco di un pendolo sono come delle finestre emozionali per entrare in contatto con le storie degli altri, con il loro vissuto. Anche i dettagli più insignificanti sono capaci di suscitarmi in qualsiasi momento un ricordo, una reminiscenza che in qualche modo rendono speciale quel momento. A volte resto colpito dall’eccessivo disordine o dalla sporcizia, altre volte dall’impressionante numero di libri sugli scaffali o di piante e fiori stipati in ogni angolo del balcone. Trovo appartamenti vuoti dove è appena finita una relazione e ognuno è andato per la sua strada, mentre in altri giovani coppie stanno riverniciando le pareti per andare a viverci. Mi imbatto in arredamenti di ogni tipo: dal vecchio stile anni Cinquanta con luci basse e carta da parati a quelli ultramoderni e asettici come ambienti ospedalieri, dalla pietra finto rustica di una seconda casa alle mille soluzioni IKEA, fino agli interni etnici con suppellettili arabe o indiane e i tipici odori speziati delle cucine orientali. Passo indifferentemente attraverso tutti gli stili architettonici, le epoche e gli status sociali, poiché mi capita di andare a leggere i contatori tanto nelle mega ville con parco e piscina privata quanto nei tuguri malsani degli immigrati più poveri. Vado nei palazzi del centro con gli studi notarili aristocratici ma anche nelle cascine fatiscenti lungo i canali di campagna e nelle ex porcilaie trasformate in laboratori clandestini per squadre di operai cinesi ridotti in schiavitù. Al di là degli ambienti di vita, entro in contatto diretto con le singole persone. Ogni volta che mi viene aperta una porta e metto piede all’interno è un po’ come sbirciare dietro le quinte di un teatrino: nulla di eccezionale, anzi spesso la scena è monotona e ripetitiva. Spesso si tratta di una persona anziana che mi squadra sospettosa dall’alto al basso, indecisa se farmi entrare oppure no. Magari la persona anziana è sullo sfondo, afflosciata su una sedia o sdraiata sul letto e chi viene ad aprirmi è la sua badante, donnona dell’est tutta d’un pezzo. Ma qualche volta assisto a quadretti domestici più piacevoli e anche divertenti. Quando
suono alla porta colgo le persone alla sprovvista, prendendole in un frammento della loro giornata che può essere banale ma anche interessante. Una volta mi è capitato di interrompere un'accesa partita di calcio internazionale alla PlayStation tra ragazzini africani e asiatici, che poi mi hanno seguito incuriositi per vedere cosa andavo a fare nel loro balcone. Un’altra volta sono entrato in un salotto nel bel mezzo delle prove generali per un concerto d’archi di un gruppo musicale tutto al femminile, ricevendo poi l’invito per andarlo a vedere. Ho assaggiato l’aceto balsamico che una signora prepara ogni anno a Natale per i suoi famigliari. Con uno studente che faceva colazione ho rivisto su MTV un video degli anni Ottanta che mi piaceva tanto. Ho trovato due anziani coniugi che hanno voluto illustrarmi la storia di ogni singolo pezzo della loro collezione di cristalli di Murano. Ho assistito incredulo alla sfuriata di una figlia verso il padre con imprecazioni varie e volo di ciabatte. C’è stata perfino una donna che mi si è presentata alla porta stringendo nel pugno un coltellaccio da cucina perché, si è giustificata, “di questi tempi non si sa mai”. E potrei continuare con molti altri aneddoti curiosi. Chi però ne cercasse di più spinti rimarrebbe deluso, perché le avvenenti signore in vestaglia trasparente che ti accolgono ammiccanti sono solo leggende metropolitane che circolano tra i colleghi. Spesso poi basta un gesto, una battuta, un semplice scambio di parole perché la persona che ho davanti mi faccia quasi sentire uno della famiglia. È vero che le persone anziane sono diffidenti e prevenute verso gli sconosciuti ma basta che si instauri quel minimo di fiducia e subito si trasformano in nonne affettuose: ti fanno sedere sul divano, ti offrono caffè e biscotti e cominciano a chiacchierare del più e del meno. A volte ci si ferma al tempo che fa o ai malanni di stagione, altre volte si va più nel profondo. Escono fuori le storie dei figli, i ricordi giovanili, il mondo di pensieri che hanno dentro. Il loro bisogno di uscire per un po’ dalla solitudine incontra il mio desiderio di ascoltarli, ed è una cosa che fa bene a entrambi. Nel mio lavoro godo di una certa libertà. Per raggiungere il luogo di lavoro posso scegliere la strada che voglio, non necessariamente la più rapida. Il dedalo di stradine minori offre molte varianti possibili, per non parlare delle deviazioni panoramiche che allungano i tempi offrendomi in cambio monumenti, riserve naturali, siti archeologici e quant’altro. A piedi poi, tra una lettura e l’altra, mi capita di camminare in posti inusuali. Non solo asfalto e marciapiedi ma anche giardini di ville antiche, terreni agricoli con i filari di frutta, boschi golenali, aree industriali dismesse, binari abbandonati, passaggi impervi o
inaccessibili. La curiosità mi spinge verso gli angoli più insoliti dove non passa mai nessuno, andando a calpestare metri quadri di territorio praticamente inesplorato. In ogni momento posso fermarmi a guardare una vetrina o le riviste esposte in edicola; posso dare una sbirciata dietro il muro di una proprietà privata, scattare foto agli intrecci dei rami in un parco pubblico; farmi una cultura sugli avvenimenti storici di un paese leggendo le targhe commemorative disseminate sotto i suoi portici e perfino entrare in una chiesa a pregare, se ne ho voglia. Poi ci sono i bar, i negozi, le sedi municipali, le piazze con le bancarelle dei mercati. Luoghi da attraversare per un attimo origliando frammenti di dialoghi, scrutando nei volti della gente il loro umore e le aspettative per la giornata. Così il mio lavoro non è più soltanto leggere dei numeri sui contatori ma è anche prendere parte silenziosamente a un palcoscenico di vita reale, a un meccanismo che cambia e si rinnova di continuo. Basta poco perché una giornata qualunque prenda una piega diversa e diventi a suo modo unica e irripetibile. Basta poco, quel poco che si è disposti a cogliere con i sensi. E anche un po’ con il cuore. Queste pagine raccolgono le impressioni di viaggio quotidiane come in un diario di bordo della mia vita lavorativa. Si riferiscono a una stagione ben precisa che va dall’autunno 2008 all’inverno 2009, anche se non mancano riferimenti a periodi precedenti e successivi. Teatro delle vicende sono le province emiliane di Modena, Reggio Emilia, Ferrara e Bologna e parte del mantovano. Sono appunti sparsi e frammentati che non hanno alcuna pretesa di rigore scientifico ma solo l’intento di risvegliare interesse verso i tanti luoghi del nostro territorio che spesso attraversiamo con noncuranza. E conservare un ricordo delle tante persone che ho incontrato e degli aneddoti che li vedono protagonisti. Scrivere questo libro è stato un po’ come scattare tante istantanee sulla mia realtà di ogni giorno, che a distanza di pochi anni potranno già apparire datate, superate dal naturale evolversi delle cose e talvolta rese irriconoscibili dalle rapide trasformazioni del paesaggio urbano. La lenta gestazione dell’opera, dalle prime note scritte in presa diretta su un taccuino fino alle stesure successive al computer, ha dilatato gli spazi della narrazione, arricchendoli di pensieri, digressioni e citazioni di ogni genere. La mia tendenza a divagare verso l’inconscio ha fatto il resto. Il risultato non è una cronaca congrua e lineare ma piuttosto un racconto ridondante dove le cose, i luoghi, i riferimenti tornano a più riprese, si sovrappongono e sfumano l’uno nell’altro. Come in un lungo viaggio atemporale che ritorna su se stesso, si avvita a spirale e scava tra le pieghe della memoria e delle percezioni confondendo paesi, strade,
giorni e stagioni. In quel fazzoletto di terra emiliana che percorro in lungo e in largo tutti i giorni c’è ancora abbastanza spazio per fantasticare.
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1. MAI DUE VOLTE NELLO STESSO FIUME Modena, quartiere Madonnina
Tra tutti i giri di letture che mi possono capitare, ce n’è uno che si ripete sempre uguale: quello dei mensili. Arriva puntuale come un ciclo lunare nell’ultima settimana di ogni mese. A differenza di tutti gli altri quello è il mio giro e guai a chi me lo tocca. Non è una mia paranoia, anche i miei colleghi sono gelosi del proprio giro di mensili e non farebbero mai cambio con un altro. Col tempo ci si affeziona alle proprie abitudini, alle certezze che gli altri giri nuovi o fatti molto tempo prima non sono in grado di offrire. Anzi, spesso i mensili sono attesi dai letturisti come una liberazione dopo settimane di giri faticosi, magari in zone industriali a sollevare pozzetti pesanti o in qualche località sperduta in montagna dove trovare i contatori è un’impresa. I miei mensili sono alla Madonnina, quartiere storico a ovest del centro di Modena, sulla strada per Reggio Emilia. Partendo dalle immediate vicinanze del centro arrivo fino alle ultime laterali di Via Barchetta, oltre le quali la tangenziale ovest segna il confine tra territorio urbano e campagna. È un giro abbastanza vario che mi porta di volta in volta dentro condomini popolari di dieci piani, in giardini di villette liberty, pizzerie, forni, negozi, uffici dell’anagrafe, garage sotterranei, scuole e campi sportivi, oltre a tutta una serie di capannoni diffusi capillarmente in questa ampia porzione della città. Di questo giro conosco alla perfezione ogni dettaglio: la posizione dei contatori, le strade per arrivarci, la sequenza delle case che incontro. Ma anche come sono fatti gli ingressi, i cortili, gli androni delle scale, le facce di quelli che mi verranno ad aprire la porta. È come un film che rivivo ogni trenta giorni sempre uguale a se stesso e a cui mi sono ormai assuefatto. Per l’ennesima volta mi muoverò meccanicamente da un contatore all’altro, sapendo già cosa mi aspetta dietro ogni angolo. È un copione già scritto, dove però c’è sempre un margine di variabilità. Nella mia libertà di letturista posso cambiare l’ordine delle letture o la sequenza delle vie e anche saltare da un isolato all’altro, in modo da capitare in un certo posto sempre in momenti diversi della giornata. Poi di mese in mese c’è il procedere delle stagioni che ciclicamente trasforma la percezione della luce, dei colori, di tutto il paesaggio. E
18 posso sempre confidare in qualche piccolo imprevisto, in quelle leggere variazioni sul tema che potranno rendere queste giornate a mensili in qualche modo diverse da tutte quelle passate e da tutte quelle che verranno. In fondo è vero, non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume. Neanche ripetendo sempre lo stesso giro. La prima lettura è il contatore della luce al cinema Nuovo Scala. Uno dei locali storici della città, piccolo gioiello di architettura liberty che ha conservato intatto il suo fascino d’altri tempi. Niente a che vedere con l’anonimo Raffaello in cemento e vetroresina, né con la mastodontica multisala Victoria da poco inaugurata. Questo è un Nuovo Cinema Paradiso nostrano rimasto fermo agli anni Dieci del Novecento e proprio per questo ormai fuori dai giochi. L’apertura del Victoria a poche centinaia di metri da qui, dove accorriamo entusiasti a vedere i nuovi film in 3D, ha praticamente segnato la sua fine. L’ultima volta ci sono venuto con mia madre in una sera d’estate, proiezione all’aperto de La cena per farli conoscere di Pupi Avati. Pessimo audio, praticamente inascoltabile. Sedie piccole e scomode. Ma il cortile a misura d’uomo racchiuso dal muretto, con tutti quegli alberi intorno, aveva un suo perché. Al Nuovo Scala ci si arriva svoltando in Via Gherardi da Via Emilia Ovest. La sua facciata elegante si individua già da lontano a chiudere la prospettiva delle palazzine a tre o quattro piani tutte ravvicinate, con un effetto scenico simile alla basilica di San Pietro in fondo a Via della Conciliazione. Davanti al cinema una graziosa piazzetta con i sampietrini offriva una manciata di posti auto per i primi spettatori, mentre tutti gli altri dovevano per forza arrivare qui a piedi dopo aver lasciato la macchina nei dintorni. Sulla facciata dell’edificio, tra capitelli e motivi floreali, un lungo cartellone ormai tutto rovinato e sbiancato dal sole lascia appena intravedere lo slogan pubblicitario di qualche stagione fa: ALDO GIOVANNI E GIACOMO IN "CHIEDIMI SE SONO FELICE". Qui il tempo si è fermato e la domanda resta come sospesa, irrisolta. “Felice” è una parola grossa, meglio non abusarne. Mi accontento di sentirmi sereno, tranquillo in questo lunedì mattina di inizio mensili che sa di già visto.
19 Parcheggio a lato di Via Zucchi e la attraverso a piedi, lontano dalle strisce pedonali. Quasi un suicidio, considerando che qui sulla doppia corsia le macchine vanno sparate come fossero in tangenziale e tutte quelle piante nella semicurva tolgono molta visibilità. Ma anche stavolta passo indenne e raggiungo i garage sotterranei del grande complesso tra Via Zucchi e Via Marianini, dove tra uffici e banche ho un bel po’ di contatori da leggere. Torno alla luce e vado dritto verso il bar Forno di Levizzano. Un omone seduto al tavolino fuori dal bar mi vede e mi riconosce: «Vade retro, Satana!» esclama sorridente e mi fa segno di chiedere all’interno. Dietro il bancone suo figlio, con il solito automatismo, prende il mazzo di chiavi che mi occorre: una che apre il cancelletto del cortile, una per la porta d’ingresso del condominio e un’altra ancora per accedere allo stanzino dei contatori. Altro che San Pietro. Poco più avanti trovo la pizzeria Eccociqua, dove in passato ho avuto un problema con il gestore. Per un malinteso avevamo finito per litigare e il tipo era andato su tutte le furie, minacciandomi: «Chiamo la tua ditta, ti faccio licenziare!» Per qualche mese in quel locale non ho più voluto metterci piede. Poi si sa, il tempo aggiusta tutto. Adesso quando entro per leggere il proprietario mi saluta amichevole e si ferma a scherzare con me, si fa per dire, sui costi esorbitanti delle bollette, come se non fosse successo nulla. Piccole rogne come questa a noi letturisti possono capitare. A qualche collega è andata anche peggio: mani addosso per futili motivi, querele da parte degli utenti e perfino giorni di sospensione dal lavoro. Non è sempre facile instaurare buoni rapporti con la gente e comunque noi dobbiamo stare attenti perché siamo sempre dalla parte del torto. Siamo noi gli intrusi che entrano nelle loro proprietà private e dobbiamo soppesare ogni minima azione. Un utente particolarmente bastardo che ce l’ha con noi potrebbe telefonare alla nostra ditta sparando la balla più assurda: che gli abbiamo sfasciato la casa a colpi di machete, abusato della nonna o massacrato il gatto. Ebbene, noi ne dovremmo rispondere. Non sembra ma il nostro è un mestiere pieno di insidie. Entro nel supermercato Coop della Galleria Cialdini. Allo sportello del servizio clienti per l’ennesima volta la commessa sembra cadere dalle nuvole. Ogni fine mese le chiedo semplicemente la chiave del locale caldaie, mica la luna. Parte alla ricerca della famigerata chiave come se fosse una missione impossibile, neanche ne avessero un arsenale.
20 Basterebbe poco, magari farci un segno sopra per riconoscerla subito. La donna stamattina si dilunga più del solito, mentre aspetto farei in tempo a fare la spesa. Finalmente mi impossesso dell’agognata chiave e posso proseguire il mio giro. Scendo al piano interrato e attraverso il parcheggio coperto fino all’ingresso del locale caldaie. Anche questa volta, nell’ultimo stanzino in fondo dove c’è il contatore dell’acqua, mi sovviene quel pensiero ricorrente che mi inquieta: e se qualcuno passasse adesso a chiudere la porta? Chi mi verrebbe a cercare? Torno all’aperto, un breve tratto a piedi mi porta in un ambiente molto diverso. È una bottega di antiquariato e restauro all’angolo tra Via Zucchi e Viale Storchi, che si sviluppa in profondità con mobili antichi, credenze, tavoli, specchi, lampadari e statue accatastati con un certo disordine. Percorrendo il lungo corridoio fino al cortile interno respiro gli intensi odori di vernice e di colle di cui il locale è saturo. Dietro la bottega si apre uno scorcio curvo con un angolo verde in primo piano, quasi un piccolo bosco di alberi secolari, e a seguire una lunga prospettiva di case vecchie addossate l’una all’altra. È Via Cavo Cerca, antico canale oggi coperto che scorre alle porte della città. La strada ricalca l’andamento curvilineo delle acque e ha ancora un suo fascino, con le case ormai decrepite anch’esse ricurve e i loro cortili angusti, trasandati, circoscritti da reti metalliche arrugginite con l’erba lasciata libera di crescere ovunque. Un pezzo delle Modena che non c’è più che resta appartato, quasi nascosto dalle due arterie del traffico tra cui è racchiuso. Un angolo dimenticato dove passano solo i residenti e qualche letturista curioso. In Via Cesari e nelle strade limitrofe è quasi impossibile trovare un parcheggio. La gente accorre fin dalla prime ore del mattino e i posti auto diminuiscono in fretta fino a scomparire. Troppe cose, troppi servizi concentrati in questo isolato: l’anagrafe, gli uffici comunali, i negozi di elettronica, il supermarket, la INAIL, la ACER, la Confesercenti, le banche. E in fondo alla strada, di fronte alla ferrovia, c'è pure Cose d’altre case, il classico mercatino dell’usato che occupa gli spazi di un ex capannone industriale. Per me farci un giro all’interno è ormai un piccolo rito mensile. Ignoro gli scaffali pieni di chincaglieria, evito il reparto abbigliamento e mi dirigo sicuro verso il piccolo angolo dei libri usati. Non sempre ma qualche volta riesco a scovare qualcosa d’interessante: una carta geografica dell’ex Jugoslavia con i nomi delle città ancora sovietici, un libro che descrive metro per metro le mura di Ferrara
21 oppure un atlante del mondo anteguerra con vecchi e incomprensibili confini di stato. Vi si trovano anche manuali, fascicoli, fumetti, cataloghi di mostre o edizioni rare di romanzi, tutte anticaglie dimenticate a lungo nei solai che i nostri tempi postmoderni hanno riscoperto e valorizzato. Già che ci sono vado anche al piano di sopra, reparto HI-FI ed elettronica. Stavolta però non mi perdo tra le copertine dei 45 giri o in mezzo alle collane di film in VHS. Vado subito a cercare una mini TV da campeggio, di quelle in bianco e nero da 7-8 pollici che funzionano senza antenna. Per anni ne abbiamo avuta una in cucina e adesso che si è rotta io e mia moglie ne sentiamo la mancanza. Era poco più di una radio, con i canali da cercare manualmente ruotando una manopola. Ci faceva una compagnia discreta e non invadente a colazione e dopo cena, alleviando la routine dei piatti da lavare. Purtroppo in giro, nei negozi specializzati, non ho trovato niente di simile. Solo mini TV satellitari al plasma con GPS e navigazione Internet. Produrre oggi una mini TV in bianco e nero a manopola è un concetto anacronistico, fuori da ogni logica di mercato. È già un oggetto da modernariato. E allora la vengo a cercare qui, l’unico posto dove potrei ancora trovarla. «Al momento non ne abbiamo ma prima o poi qualcosa arriva sempre» dice il commesso. Attendo fiducioso. Per la terza volta consecutiva non posso leggere il gas del Cose d’altre case perché proprio sopra la nicchia del contatore c’è un grosso nido di vespe pronte a colpire, ed è meglio evitare. Ecco un altro dei rischi del mestiere, che ha il suo picco durante la bella stagione. Non c’è letturista che in primavera e per tutta l’estate non si porti con sé in macchina una scorta di bombolette spray contro gli insetti, per ogni evenienza. Ma esiste un modo più semplice per ovviare al problema. Prendo il letturino e in corrispondenza di quel contatore scrivo una nota: “gas illeggibile causa nido di vespe”. Per fortuna possiamo sempre giustificare una lettura mancata, purché ci sia un motivo valido. Ecco allora spuntare, a seconda dei casi, le note più varie: “lapide troppo pesante”, “coperchio del pozzetto incastrato”, “macchina parcheggiata sopra”, “non mi aprono”, “nessuno sa dov’è”, “strada impraticabile per neve/ per fango/ per frana”, “cane libero”, “utente stronzo” e chi più ne ha più ne metta. Passo davanti a un magazzino di accessori elettronici. Sul cancello c’è un foglio di carta con un curioso messaggio scritto in stampatello rosso, che mi strappa un sorriso: “LA MALEDIZIONE DELLA PIANTA! MORIRANNO DI TUMORI CHI L’HA RUBATA, I SUOI GENITORI
22 E TUTTI I PARENTI”. Peggio di un malocchio, non vorrei proprio essere nei panni di quel ladro. È la mattina delle scritte curiose, infatti sulla bacheca di un condominio poco più avanti trovo un altro avviso con tanto di disegno a fumetti: “IN QUESTA CASA DI NOTTE SI DORME!” E sotto, più in piccolo, c’è un ulteriore commento scritto da un’altra mano: “HAI RAGIONE, SI DORME E NON SI USANO NEANCHE I TACCHI! GRAZIE”. C’è molto da imparare sugli usi e costumi della gente da questi semplici foglietti condominiali, dai post-it appesi sulle bacheche, dai messaggi che spuntano per strada sui cancelli o sopra i pali della luce. I sociologi sono avvisati. Questa porzione della città compresa tra Via Emilia Ovest, Via Zucchi e la ferrovia ha ancora un’aria dimessa, un basso profilo fermo agli anni Settanta. È una cartolina un po’ consumata della Modena industriale, operaia e laboriosa dell’epoca pre-terziaria. Capannoni e condomini spartani, spazi vuoti di degrado, demolizioni in atto, fabbriche metalmeccaniche che sopravvivono e altre che hanno chiuso i battenti già da tempo. La Fritz Hansberg sembra un mastodontico relitto sovietico, con quei grandi capannoni a botte color verde pisello stinto e gli infissi delle vetrate tutti arrugginiti. Vi si progettano e costruiscono macchine per anime e impianti di formatura destinati alle fonderie. Tra quando entro a piedi sotto la sbarra d’accesso e quando esco passa un buon quarto d’ora. Devo leggere cinque contatori, due dell’acqua e tre del gas, dislocati il più lontano possibile l’uno dall’altro. La prima volta trovarli fu una specie di caccia al tesoro, mentre adesso potrei procedere a occhi chiusi. Cammino nel cortile interno e a metà strada l’immancabile cane spuntato fuori da chissà dove mi ringhia addosso nervoso. Ma è un cane da caccia, fa solo un gran baccano e non è pericoloso. Entrando nel capannone principale avverto quella solita strana sensazione. Gli ambienti sono molto grandi ma non c’è quasi nessuno, interi reparti sono deserti con tutte le macchine ferme. Da una radiolina arriva una canzone anni Ottanta dei Depeche Mode che rimbomba tra i larghi spazi vuoti. Oltrepasso la macchina del caffè e gli armadietti degli operai con i poster di Max e le vignette umoristiche, avanzo lungo i reparti fino a quello della verniciatura. L’operaio con la mascherina mi vede e mi fa cenno di passare, interrompendo per qualche istante il suo lavoro. Il contatore dell’acqua è imboscato in un angolo in fondo alla stanza. «Segnane meno, sennò la ditta chiude un giorno prima» scherza con una punta di
23 amarezza. È solo un modo per attaccare pezza e sfogarsi un po’ con me. Dice che a lavorare sono rimasti in cinque, tutti gli altri operai sono in cassa integrazione da un anno e mezzo. Da ben prima che cominciasse la crisi. E presto scatterà la cassa speciale anche per loro. Lì dentro non c’è futuro ma a quarant’anni passati non sanno proprio dove andare. «Noi qui facciamo di tutto» dice orgoglioso guardando il mio letturino. «Anche le parti interne del tuo strumento.» Mi saluta e torna a verniciare i suoi pezzi. Esco dal capannone pensando a come tutte le cose sono collegate tra loro per vie che neanche immaginiamo. In Via Casoli ho tre letture nella casa della famiglia Plattner. Un cognome insolito che fin dalla prima volta, per assonanza fonetica, mi ha fatto venire in mente la signora Blutner dei Pianoforti di Lubecca, una ballata nostalgica di Vinicio Capossela. E allora ogni volta che suono quel citofono mi scatta un curioso automatismo, roba da psicanalisti. Mi sembra di sentire la melodia metallica dei rotopiani, dei rulli e della fisarmonica giocattolo che accompagnano il ritornello della canzone, insieme a tutti gli altri bizzarri strumenti musicali utilizzati da Vinicio in quell’album: signora Blutner/ non stia a pensare/ quello che è stato/ non tornerà/ se ci hanno dato/ tutti all’incanto/ ora all’incanto/ ceda il suo cuor… La signora Plattner è mamma di Riccardo, un bimbo di pochi mesi che ha circa un anno in meno di mio figlio. Di volta in volta, prendendo quel minimo di confidenza che consente di andare oltre il “buongiorno, arrivederci”, abbiamo cominciato a parlare di Riccardo e Alessio, quasi a volerci scambiare un minimo di esperienze, a confrontarci sulla loro crescita e i loro progressi. È diventato una specie di appuntamento periodico, quasi un gioco a distanza dove la signora Plattner nei miei aneddoti su Alessio vede il futuro di Riccardo un anno dopo mentre io ascoltando i suoi rivivo le tappe di Alessio un anno prima. Sono come due bimbi sfasati nel tempo, vite parallele che vanno avanti per conto proprio e si incrociano nei nostri racconti una volta al mese, per pochi minuti, nelle stanze oscurate e un po’ retrò dei Plattner. Entrando nella Casa del Tortellino in Via Costa respiro dei buoni odori: la pasta fresca di giornata e il ragù fatto in casa. Come ogni mese il premuroso signor Fontana, preoccupandosi per me più del dovuto, mi fa le solite due domande: «Sai dov’è l’interruttore della luce? Sai dov’è il contatore dell’acqua?» Come se fosse sempre la prima volta. La moglie
24 invece mi guarda un po’ in cagnesco. Non che sia cattiva, è che probabilmente vedendomi mi associa all’istante alle bollette da pagare. Una volta in uno spiccato accento bolognese mi chiese delle spiegazioni sulla bolletta della luce, perché non si capacitava di quella cifra folle a tre zeri. Noi letturisti siamo sempre un po’ i parafulmini sui quali la gente scarica le proprie lamentele. Ma come gli ambasciatori non portiamo pene, leggiamo solo dei numeri e togliamo subito il disturbo. Alla INAIL chiamo il centralino per farmi mandare giù qualcuno con le chiavi. Un paio di minuti dopo scende il solito tipetto brizzolato in giacca e cravatta, magro come un chiodo, gli occhiali su un viso scavato. Mi apre l’inferriata per accedere allo strettissimo cortile interno dove si trova il contatore del gas, letteralmente tappezzato di mozziconi. «Guarda quante cicche, ‘sti stronzi…» commenta amareggiato alzando lo sguardo verso i cinque piani di finestre degli uffici, quasi a voler cogliere qualcuno in flagrante. Sembra un professore di liceo che vuole sorprendere gli alunni mentre fumano di nascosto nei bagni. Di certo questi impiegati non danno un grande esempio di civiltà. Altro appuntamento fisso di Via Costa è la vetrina vintage della tabaccheria. Guardandola mi sembra di fare un tuffo direttamente nella mia infanzia. La proprietaria infatti ha un figlio della mia età e ogni tanto va in cantina a scovare i suoi vecchi giocattoli e mille altre cianfrusaglie, che poi mette in vetrina a prezzi irrisori. Adesso, per esempio, ci sono delle cornici con le foto dei personaggi famosi degli anni Ottanta: Madonna, Michael Jackson, Luca Barbarossa, Lorenzo Masini, Gullit, più una serie di macchinine e un Monopoli d’annata dai colori ormai stinti. Tempo fa ci ho trovato pure i mitici Trasferelli di quando andavo alle elementari, gli antenati degli attuali Stick & Stack: sono disegni panoramici su cartoncino ognuno con un tema diverso, con tante piccole figure da inserirci sopra ricalcandole con una penna a sfera. Tra i tanti mi ricordo la battaglia di Stalingrado e quella di Solferino e San Martino, l’assalto a Fort Alamo, il circo con i pagliacci e la pista di Formula Uno. Nei miei pomeriggi di bambino ci perdevo delle ore, arrivando a costruire improbabili scenografie con i personaggi trasferiti a caso, usando non il buon senso ma la fantasia allo stato puro: le auto di Formula Uno sulle nuvole, i soldati piccoli in primo piano e quelli grandi sullo sfondo… Non potevo resistere ai Trasferelli a un euro l’uno e infatti ho svuotato la vetrina. Non li ho presi per me ma per Alessio. Quando sarà il momento spero che li scopra e ci si appassioni, proprio come ho fatto io trentacinque anni fa.
25 Pausa caffè nel bar sotto il cavalcaferrovia Cialdini. Uscendo alzo lo sguardo e scopro una fila di palloncini di tutti i colori sospesi in cielo sopra il capannone del Brico appena inaugurato. Le due gru a destra e a sinistra continuano incessanti a costruire i piani di nuovi grandi edifici sulle ceneri delle ex Vinacce. L’isolato dove è sorto il nuovo multisala Victoria è in piena espansione, con un rapido effetto indotto che fa spuntare come funghi discount, fast food e negozi alla moda per lo shopping. Sono pronto per la lettura più impegnativa di Via Costa, quella del gas intestato alla ACER: Azienda Casa Emilia Romagna. Arrivarci è una specie di percorso a ostacoli di un videogioco, con una serie di passaggi obbligati. Prendo l’ascensore fino al terzo piano, percorro il lungo corridoio di uffici fino in fondo, prendo la chiave nera dalla bacheca dell’ultimo ufficio, salgo per le scale al quinto piano, apro il portone con la chiave, attraverso un locale con turbine e impianti elettrici e finalmente esco sul terrazzo. A questo punto tra me e il contatore del gas ci sono solo pochi metri. Ma per arrivarci devo mettere i piedi su una tavola di legno che galleggia sopra una poltiglia scura composta da acqua piovana, catrame ed escrementi di uccelli e dove non di rado spunta qualche cadavere di piccione. Sulla tavola di legno barcollo ma per fortuna non cado. Faccio un balzo sull’unico punto secco del pavimento e non appena arrivo alla distanza sufficiente per leggere le cifre sul contatore le digito in fretta sul letturino e innesto la retromarcia. Via subito, prima che qualche volatile appollaiato sul cornicione pensi bene di farmi un regalino sulla testa. Rifaccio tutto il tragitto al contrario fino all’uscita e mi sento proprio come l’omino di un videogioco. Con questa lettura ho finito la via, ho superato il muro. Sono come la scimmietta a cristalli liquidi del Donkey Kong Junior, il giochetto elettronico della Nintendo che spopolava nei primi anni Ottanta. Un oggettino tascabile con una tecnologia antidiluviana per gli scanzonati ragazzi di oggi ma a cui sono molto legato. Lo tenevo nascosto sotto il banco alle scuole medie e fu la valvola di sfogo che mi salvò tante volte dalla noia delle lezioni. Ecco, sono l’eroica scimmietta e ho afferrato al volo tutte le banane. Con un salto ho aperto la gabbia di Donkey Kong Junior conservando ancora intatte le mie vite. Ho fatto il massimo punteggio, ho stabilito il nuovo record. E il gioco continua.
26 Dopo Via Costa proseguo in Via del Murazzo, una delle strade in assoluto più squallide e degradate della città. Alcuni condomini popolari si alternano a case singole e a capannoni con piccole attività artigianali. Altri, dismessi, sono stati abbattuti. A lato della strada, per un buon tratto, si apre infatti un grande spazio vuoto recintato che da qualche tempo è tornato a uno stadio selvatico, con grandi pozzanghere di acqua stagnante dove sguazzano indisturbati i germani e una fitta trama di canne e pioppi che crescono rigogliosi. Davanti alla sede del carro attrezzi si trovano spesso auto incidentate, bruciate o senza ruote. Ovunque regna la sporcizia. Non è solo una mia impressione, perché giorni fa sul Resto del Carlino ho trovato la lettera di un abitante che denunciava questa situazione critica invocando il repentino intervento del comune. Vado a leggere nel solito condominio al civico 28, dove risiedono solo famiglie di colore. Anche stavolta, richiudendola, l’anta superiore dell’armadio dei contatori rischia di crollarmi addosso. Una giovane donna scende di corsa le scale e mi ferma mentre sto per uscire. È esasperata, non riesce proprio a capire perché debba pagare bollette del gas così alte. Provo a spiegarle che oltre ai consumi ci sono delle altre spese fisse e che anche per noi italiani è la stessa identica cosa. Ma lei non pare convinta. «Noi neri vogliono che torniamo tutti a casa» conclude nel suo italiano imperfetto ma molto chiaro. All’angolo tra Via del Murazzo e Via Costa c’è Hello! Food Store, un discount multietnico gestito da personale africano. La responsabile però è una ragazza cinese che parla benissimo la nostra lingua. Una volta mi ha trattenuto a lungo facendomi mille domande su acqua, luce e gas, spaziando a trecentosessanta gradi da un argomento all’altro. Non c’è niente da fare: da qualunque paese provengano gli utenti stranieri ci chiedono spiegazioni e rassicurazioni: vogliono saperne di più o anche solo sfogarsi, proprio come le vecchiette italiane in pensione. Interpellano noi letturisti perché siamo le uniche persone che vedono, mentre l’azienda fornitrice resta un’entità astratta e lontana capace solo di chiedere soldi. La bacheca all’ingresso del discount è tappezzata di inserzioni e post-it in inglese e in arabo, spesso corredate con foto a colori: annunci di matrimoni e battesimi, rituali funebri, appuntamenti con predicatori di una qualche chiesa evangelica, auto usate, camere in affitto e concorsi a premi con in palio denaro e mete esotiche. Qui dentro dunque si viene per fare la spesa ma anche per informarsi e mantenere i contatti con i propri connazionali. C’è tutto un mondo di relazioni sociali e di tradizioni religiose che ruota intorno ad altre comunità, altre etnie, e di cui noi geminiani doc nati e cresciuti sotto la Ghirlandina sappiamo ben poco. Ed è un peccato.
27 Entrando nella ferramenta ICMA, fornitrice di attrezzature per le officine, ho una certezza: come ogni mese ritrovo le stesse signorine al loro posto, tutte sorridenti e come mamma le ha fatte in pose ammiccanti e sexy. Ce ne sono appese in gran numero per tutto il tragitto che devo compiere negli angusti corridoi interni: sulle pareti, sui bordi degli scaffali e anche negli angoli più rintanati. Di solito gommisti e meccanici hanno solo un paio di calendari e qualche poster, mentre qui c’è una vera e propria esposizione permanente di donne nude per tutti i gusti. Si va dalle pornodive storiche ormai in pensione alle giovani e sconosciute aspiranti attrici. Venendo qui tutti i mesi ormai ricordo quasi a memoria la sequenza dei visi e le posizioni lascive dei corpi che incontro prima di raggiungere i contatori. Lascio queste piacevoli distrazioni e mi butto nella trafficatissima Strada San Cataldo, cominciando dai capannoni della ditta SocFeder: Società Ferro e derivati. Ogni volta che entro dentro per le mie letture l’operaio che controlla lo scorrimento dei pezzi di lamiera sul carroponte mi fa cenno di proseguire oppure di attendere un attimo, per non intralciare il raggio laser della macchina se sta passando proprio in quel momento. Quando esco l’operaio mi saluta con una smorfia sempre uguale, simile a un sorriso. Ogni volta sempre gli stessi gesti. Non posso fare a meno di pensare a quell’uomo e ai suoi colleghi come a degli eroi. Lavorano otto ore al giorno se non di più in un ambiente squallido: poca luce, rumore assordante, polvere dappertutto. Non molto diverso da una classica fonderia di dickensiana memoria, di quelle che cominciarono a imbrattare di fumo i cieli d’Inghilterra già alla fine del Settecento. Io ci resto dentro al massimo due minuti e poi via, ritorno all’aria aperta. Attraverso in fretta capannoni e stabilimenti, entro ed esco da fabbriche, magazzini di stoccaggio, caseifici, dogane, zone militari e reparti ospedalieri. Gli ambienti chiusi e deprimenti mi sfiorano appena, riesco sempre a sfuggirne in fretta. Non ne resto contaminato, non mi danno alienazione. Per quanto duro e faticoso possa essere a volte il lavoro del letturista, per quanto possa essere inclemente il tempo o schifoso il giro, questa libertà di muovermi continuamente nello spazio anziché restare fermo in un punto non ha prezzo. Davanti al civico 89 di Strada San Cataldo noto un certo fermento. C’è una nutrita squadra di operai, uomini e donne, che lavorano di gran lena per svuotare un appartamento. Alcuni, con le mascherine davanti alla bocca, stanno buttando giù dal balcone del primo piano un po’ di tutto:
28 scatole, cartoni, pezzi di legno. Altri, giù nel cortile, li raccolgono e li caricano sopra un camioncino. Un vero e proprio sgombero. Mentre osservo la scena ho un flash, mi ricordo di aver letto sul giornale una notizia riguardo quella casa. Non più di un mese fa hanno portato via di forza la vecchia che ci abitava, in pessime condizioni igieniche; viveva lì da sola ma circondata da uno stuolo di animali, qualcosa tipo venti gatti, una dozzina di cani, diversi uccelli, galline e conigli. Una specie di zoo casalingo. L’abitazione era in uno stato pietoso con escrementi e rifiuti un po’ dappertutto, gli animali erano alla fame. Li hanno trasferiti in centri specializzati, mentre la signora l’hanno portata al policlinico per accertamenti sanitari. Chissà che fine avranno fatto lei e le sue povere bestie. Forse non le trattava bene, forse erano troppe da gestire per una donna sola. A ogni modo quella donna doveva essere un personaggio curioso ed eccentrico, uno di quei “matti del paese” ormai sempre più rari da trovare in città, dove ognuno tende a chiudersi nel proprio anonimato. Un po’ come il mio povero zio Ottavio, conosciuto nel suo paese per quella spontaneità un po’ triviale ma senza malizia con cui apostrofava le belle donne che passavano sotto i portici. Sulla tomba si fece scrivere un epitaffio tanto breve quanto efficace: AMICO DI TUTTI. Di tipi strani che non passano inosservati, a Modena, ho fatto in tempo a vederne ancora qualcuno prima che scomparissero. Per esempio quel signore alto e magrissimo con le orecchie a sventola e i denti da coniglio che aveva sempre la stessa espressione inebetita. Da ragazzo lo incontravo spesso in centro e qualche volta anche alla messa di santa Caterina, immancabilmente in giacca e cravatta, con una valigetta sottobraccio. Oppure Giorgino, che quando andavo alle medie era il gay più famoso del quartiere Crocetta. Brutto come la fame, il volto veramente scimmiesco, girava sempre con dei lunghi vestiti neri e pesanti catene al collo. Per strada tutti cercavano di evitarlo perché si diceva portasse male. E come non ricordare la Gina, famosa puttana in voga negli anni del bianco e nero, che batteva ancora sul cavalcavia delle Acciaierie Ferriere Fonderie quando noi studentelli imberbi andavamo a scuola in autobus. Era ormai nella sua parabola discendente, vecchia e ingrassata, bersaglio mobile di fischi e insulti pieni di sarcasmo. Un quadretto d’altri tempi: le Acciaierie della Crocetta da un pezzo sono andate in polvere e alla polvere è tornata pure la Gina. Ma a distanza di anni dalla sua morte mi è capitato ancora di sentirne parlare in giro, segno che è rimasta impressa nella memoria collettiva dei modenesi.
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Dopo Strada San Cataldo il giro prosegue in Via Cabassi e Via Tabacchi, i due tronconi spezzati in cui è stata divisa la Via Emilia Ovest negli anni Cinquanta del Novecento con la costruzione del cavalcaferrovia. Questo ponte lungo e curvo che oltrepassa i binari porta dritto nel cuore della Madonnina, borgata di case distesa sull’antica strada romana e ormai da decenni inglobata nel tessuto urbano. La città poi si estende ancora lungo la Via Emilia con capannoni e concessionarie e, in continuità con la frazione della Bruciata e il polo fieristico, arriva fino a Cittanova, ai confini con la provincia reggiana. Il cavalcaferrovia della Madonnina è uno snodo cittadino importante sempre molto trafficato ma nel giro di qualche anno potrebbe perdere la sua identità. La linea storica della ferrovia per Milano infatti sta per essere deviata più a nord, a San Cataldo, e questo tratto di binario che oggi fa da barriera tra le due parti della città verrà dismesso per trasformarsi probabilmente in una pista ciclabile, rendendo di fatto il cavalcavia un inutile ingombro. Attendiamo fiduciosi che si realizzi almeno qualcuno dei tanti progetti urbanistici di riqualificazione. La Madonnina all’altezza della ferrovia è una zona della città trasandata, quasi abbandonata a se stessa. Capannoni anni Sessanta si alternano a belle casette liberty con fronzoli floreali e ad anonimi condomini, senza uno stile unitario. Grandi impianti un tempo in piena attività come il Bowling o il grande spaccio di abbigliamento Uba Uba sono in fase di decadenza. Villa Letizia doveva apparire un tempo come una dimora isolata nella campagna, nobile e austera, mentre oggi è ridotta a essere l’ultima costruzione prima dei binari e suscita un po’ di malinconia. Dal suo viale di accesso, alzando lo sguardo, si arriva dritto fino alle mura del cimitero di San Cataldo, distante poche centinaia di metri. Un tempo villa e cimitero dovevano essere collegati da un sentiero, ora ci sono in mezzo un mucchio di cose. Fanno tristezza anche le laterali della Via Emilia, che finiscono quasi tutte in vicoli ciechi con vista sui loculi in cemento dell’architetto Aldo Rossi. Al grande incrocio di Via Nazionale per Carpi ci sono invece scorci ancora intatti di primo Novecento: case popolari a tre piani con mattoncini in cotto a vista, grandi finestre con motivi ornamentali e qualche fregio floreale sotto i tetti, ampi cortili con alberi e siepi, scalinate con balaustre e cancelli in ferro battuto. Nella vicina e più appartata Via Cervi l’effetto è ancora più evidente, con quelle casette operaie tutte in fila, tutte identiche e gli spazi in mezzo rimasti intatti, non invasi da altre costruzioni. Soffia un’aria d’altri tempi, quasi campestre. Breve illusione che svanisce subito al primo semaforo.
30 All’angolo tra Via Costa e Strada San Cataldo si fronteggiano due “botteghe della morte”, attività inevitabilmente collegate al cimitero monumentale che si trova appena al di là dei binari della MilanoBologna. Da una parte Perati Luciano con i suoi marmi e graniti funerari, dall’altra la S.A.M.: Società Artigiani Marmo. Stamattina, mentre scavalco un po’ di lapidi per andare a leggere il gas nel cortile della S.A.M., mi passa davanti un treno. Sono pochi istanti ma intensi. Sento un forte contrasto tra la velocità e il frastuono del treno e l’immobilità e il silenzio dei marmi destinati ai defunti, tra la frenesia della vita che corre verso chissà quali destinazioni e la fissità della morte che rimane eternamente ferma dov’è. In questo tratto la ferrovia separa con un taglio netto il mondo dei vivi, quello al di qua dei binari nel reticolo di strade trafficate e dinamiche, da quello dei morti che riposano oltre i binari, nella cittadella di San Cataldo. Il cimitero di Modena si estende per gran parte della strada che porta il suo nome e con lo stesso nome ci si identifica l’intero quartiere. San Cataldo è un cimitero dai due volti accostati l’uno all’altro: il primo è quello storico di metà Ottocento progettato da Cesare Costa, monumentale e neoclassico; il secondo è quello post-moderno di Aldo Rossi che risale agli anni Settanta, completato solo in parte e spesso citato nei testi di architettura moderna come modello da seguire. Il suo cubo rosso pieno di finestre in mezzo al prato ha un ché di metafisico e mi ricorda il Palazzo della Civiltà Italiana all’EUR di Roma. Dopo decenni di immobilismo anche questo lembo di estrema periferia nord-ovest sta attraversando l’onda dei cambiamenti: il raddoppio della strada con nuove rotonde e sottopassi di collegamento, un nuovo parcheggio, la ferrovia che si sposta più in là verso la tangenziale con un tratto in sopraelevata; e chissà che non sorgano presto anche nuove palazzine con piazzette e parco giochi. Già adesso che i cantieri sono in corso la percezione dei luoghi è cambiata. Stento a ritrovare il quadro d’insieme di appena dodici anni fa, quando facevo l’obiettore di coscienza a Porta Aperta, di fronte al cimitero. Strada San Cataldo era un lungo vialone senza interruzioni, su un lato solo campagna e sull’altro le mura del cimitero che arrivavano fino in fondo. Nonostante ci fosse già lo svincolo della tangenziale la strada sembrava ancora un po’ campagnola e sullo sfondo la chiesa della Madonna del Murazzo con il suo inconfondibile campanile chiudeva degnamente la scena. Nei giorni di nebbia la strada sembrava diventare infinita, le distanze abissali. E Modena spariva letteralmente oltre la cortina di silenzio, inghiottita dal nulla. Oggi la cittadella dei morti e del silenzio, con tutte queste nuove
31 infrastrutture, sembra più simile a un autogrill, a un aeroporto o a un non-luogo di Marc Augé. E da fine agosto a metà settembre, durante la festa del PD a Ponte Alto, diventa un’enorme spianata per il parcheggio selvaggio. Macchine ovunque, sui prati intorno alla tangenziale e lungo la strada, in mezzo alle rotonde e nel perimetro del cimitero. Ogni buco va bene per lasciare l’auto il più vicino possibile agli stand gastronomici, poi si prosegue tutti a piedi. E chi se ne frega dei morti, la piadina con la porchetta non può aspettare. Entro nel cortile di Porta Aperta, il centro di accoglienza Caritas della Madonna del Murazzo, un po’ come se fosse il cortile di casa mia. Ci ho passato il mio anno di servizio civile, nell’ormai lontana stagione 199697. Un tempo eravamo noi obiettori che, durante i nostri turni di sei ore, aprivamo lo sportellino della reception per accogliere le persone in cerca di aiuto, di assistenza, di un piatto da mangiare, di un materasso per la notte o anche solo di una doccia calda. Quelli che bussavano erano soprattutto stranieri, in gran parte extracomunitari: albanesi, tunisini, marocchini, asiatici, centroafricani. Ma i tempi sono cambiati. Oggi in portineria a darsi il cambio ci sono quasi soltanto ragazzi di colore, forse i fratelli minori di quelli che aiutavamo noi. Sono per lo più studenti e nei momenti tranquilli leggono appunti e testi universitari oppure navigano su Internet come da un qualunque ufficio. Una volta entravo qui e tutti mi salutavano, ora non conosco più nessuno. Tanti obiettori, assistenti sociali e volontari si sono avvicendati in questi dodici anni. Solo il caro vecchio Ivo è rimasto al suo posto. Lo vedo da lontano in controluce, immerso nella brina del mattino presto oltre il cancello del cortile. Si avvia curvo verso il suo orto là in fondo, come ogni mattina da innumerevoli anni. La sua sagoma tozza è inconfondibile, così come il cappello di paglia che porta in testa. Molte volte sono andato a leggere il gas nel cortile con la solita fretta, senza trovare il tempo di salutarlo. Ma questa volta no. Lo chiamo a voce alta e lui si gira, guarda nella mia direzione ma non mi riconosce. Faccio qualche passo verso di lui e vedo disegnarsi un sorriso sulla sua faccia bonacciona. «Sono contento di vederti, come stai?» mi chiede nel suo dialetto modenese doc, lento e ben scandito. Gli spiego che lavoro per un ente privato e Ivo sembra un po’ dispiaciuto. «Allora non sei riuscito ad andare sotto lo stato?» domanda retorico, con un ragionamento fermo a metà del secolo scorso. Come sono solito fare con chi non vedo da tempo tiro fuori dal portafoglio la foto di Alessio e gliela metto sotto il naso. È un gesto così, istintivo,
32 forse un modo come un altro per dimostrare il mio orgoglio di padre. Ivo commenta alla sua maniera, diretta e chiara: «Che bel bimbo, è tutto te, stai pur tranquillo che tua moglie non te le ha fatte le corna!» Le sue battute in dialetto per noi obiettori erano dei veri tormentoni che nelle nostre annuali cene di ritrovo ricordiamo ancora oggi con simpatia. Lunga vita a Ivo e al suo orto, colonne storiche di Porta Aperta! Poi scopro che della vecchia guardia non è rimasto soltanto Ivo. Questo mese, grazie al suggerimento di un prete, leggo un contatore del gas che non avevo mai trovato prima. È in un cortile davanti a un capannone vicino al centro di accoglienza ed è intestato al mercatino dell’usato che la Caritas ha aperto pochi mesi fa. Appena entro nel capannone per leggere la luce sento una voce inconfondibile che sta rispondendo con una battuta alle richieste di una donna piuttosto agitata. La donna è una zingara che chiede dei vestiti e il suo interlocutore è Ermanno, ex direttore di Porta Aperta e ora in servizio come volontario. La scena di Ermanno che tratta con una zingara, con la donna che chiede un sacco pieno di vestiti e lui che gliene concede al massimo tre o quattro capi è identica a quella, quotidiana, di dodici anni fa. Non è cambiato niente, se non che gli zingari di oggi sono figli o nipoti di quelli di ieri: è noto infatti che le donne zingare figliano presto, giusto intorno ai tredici o quattordici anni. «Dottor la Bernarda, qual buon vento?» mi saluta Ermanno con la sua ironia bonaria. In questi anni ci siamo visti per caso altre volte ma mai qui, dove abbiamo passato un anno insieme. Parliamo un po’ del più e del meno, rievocando anche nomi ed episodi di quel periodo. Saltano fuori Sokol e Vladimir, i due terribili albanesi che istigarono il famigerato assalto al furgoncino degli yogurt; Adrian il polacco, che appena arrivato non sapeva una sola parola di italiano e che ha poi fatto una discreta carriera nel settore commerciale; Mario, il ragazzo di colore con l’accento napoletano; il buon Ferat da Durazzo, che finiva sempre per polemizzare su tutto; e infine il cuoco Luciano, che ungeva le padelle dei nostri pranzi con almeno due dita d’olio. Per forza poi nell’anno di obiezione civile siamo tutti ingrassati di cinque o sei chili. A un tratto, tra i fantasmi del passato, spunta fuori Bruno in carne e ossa. È sempre lui, magrissimo e con la barba bianca ancora più lunga. Nella fototessera che doveva esibire come tutti per entrare in mensa, che risale ad almeno quindici anni fa, non solo era più giovane ma anche molto più paffutello. Un ex imprenditore travolto dai debiti, che ha poi passato un
33 lungo periodo come utente a Porta Aperta. Una presenza sempre molto discreta e silenziosa. Oggi si è riciclato come aiutante tuttofare di Ermanno. Vanno insieme a svuotare le case durante i traslochi per prendere i mobili vecchi e portarli qui, al mercatino, per rivenderli a prezzi simbolici. Pochi euro per un tavolo o una lavatrice perché chi li viene a chiedere, per quanto sia in difficoltà, deve capire che non tutto gli è dovuto e che le cose, anche se vecchie e usate, hanno un valore. Vallo a spiegare alla zingara di prima, che se ne è andata via lamentandosi perché ha ottenuto meno del previsto… Al civico 77 di Via Nazionale per Carpi Sud vado a leggere i contatori della AUSL, dipartimento di salute mentale. È un vecchio edificio rimaneggiato, con due piloni di pietra all’ingresso del cortile e una doppia scalinata di accesso tipica delle case fuori porta del primo Novecento. In questo angolo al riparo dal traffico incontro spesso personaggi curiosi seduti sulle panchine o che passeggiano avanti e indietro con la testa bassa e le mani dietro la schiena. Sono gentili, salutano, a volte mi fanno delle domande. Un giorno un tipo mi ha fissato per un po’ e poi mi ha chiesto se ero Gianni Morandi, tanto per dirne una. Se non fosse politicamente scorretto mi verrebbe da chiamarli con quella parola che tutti sanno, quella più immediata. Come fa Francesco De Gregori, che nella sua libertà poetica sa cantarli con immagini stupende: i matti vanno contenti/ fermano il traffico con la mano/ i matti senza la patente per camminare/ i matti tutta la vita/ dentro la notte/ chiusi a chiave… A volte penso che sarebbe fantastico portarli con me a leggere i contatori, tutti insieme su un pulmino del comune a schiamazzare, gridare e suonare le trombette con la gente per strada che si volta indietro a guardarci e scuote la testa, sapete che divertimento? Una dozzina di pazzi scalcinati al mio fianco e andrei al lavoro più volentieri. Più carico, più attento ai particolari, osservando le piccole cose con altri occhi. Con una visione d’insieme molto più spontanea. Il letturista è solo, gli psicopatici della AUSL si fanno compagnia. E nei loro ragionamenti paradossali sono più liberi e autentici di noi “sani” che siamo condizionati da schemi mentali, paure e vincoli di ogni genere. E che per questo diventiamo accomodanti, falsi, opportunisti, con un armadio pieno di maschere diverse da indossare all’occorrenza. Mentre mi perdo in questi pensieri Moreno, un uomo sulla quarantina dai lunghi capelli ricci, sta discutendo animatamente con un altro paziente. Si ostina a dire
34 che un tale che è appena passato somiglia moltissimo a Bin Laden senza la barba e che potrebbe essere proprio lui. L’altro ride di gusto e gli dà delle pacche sulle spalle. Roba da matti. C’è una zona in questo giro di mensili che affronto sempre nel primo pomeriggio, dopo la pausa pranzo. È quella compresa tra la Via Emilia Ovest, la Nazionale per Carpi e il cimitero di San Cataldo, dove trovo esclusivamente piccoli condomini a due o tre piani e case o villette con giardino. Io lo chiamo affettuosamente il “quartiere degli stilnovisti” perché le vie sono intitolate a quei poeti che le mie reminiscenze scolastiche mi fanno associare a Dante e a Petrarca: Via Pier della Vigna, Via Guido Guinzelli, Via Guido Cavalcanti, Via Brunetto Latini, Via Jacopo da Lentini, Via Jacopone da Todi, Via Gianni Lapo. A far loro compagnia, nelle vie adiacenti, ci sono scrittori, poeti e filosofi di altre epoche: da Luigi Pulci a Bernardino Telesio, da Giuseppe Parini a Gioacchino Belli, da Giovanni Verga a Grazia Deledda. Anche oggi, come sempre, giro a piedi per queste strade e non incontro quasi nessuno. Procedo per un paio d’ore come un automa programmato a suonare campanelli di cui conosce a memoria la sequenza. Mi sento più solo qui che in aperta campagna. Gli scorci del cimitero che affiorano in fondo a ogni strada da prospettive leggermente diverse sono una presenza incombente, quasi metafisica. In questo silenzio strano è facile che la testa prenda la tangente e si perda dietro pensieri astratti. Ho trovato un contatore del gas che segna il numero 1914 e ho subito pensato all’inizio della Grande Guerra. Associare i numeri dei contatori a qualcosa come la data di un avvenimento sembra un giochino idiota ma fa passare meglio il tempo. In modo del tutto casuale ritornano in mente piccole cose, episodi di vita o frammenti di storia come davanti a un blob di immagini che scorre sulle schermo. Alcuni numeri sono più immediati, per altri occorre uno sforzo di fantasia. Se trovo per esempio il 1942 quello è l’anno di nascita della mamma. Il 1967 è l’estate dell’amore dei fricchettoni oppure Sergent Pepper’s dei Beatles. Mentre il 2001, inevitabilmente, lo collego alle Torri Gemelle. Ma anche all’Odissea nello spazio di Stanley Kubrick e a Onjrica, il primo libro che ho pubblicato. Con un 6666 posso inventarmi un Anticristo potenziato, un 2782 ovvero 27 + 82 diventa la Ferrari di Gilles Villeneuve nell’anno della sua morte, mentre il 76923 dopo un attimo di esitazione lo battezzo come l’anno in cui sul litorale adriatico cadrà un meteorite di medie dimensioni con conseguenze
35 negative per la stagione estiva. Se poi mi capita un più semplice 1989 ho già pronte mille associazioni. È l’anno forse a me più caro, quasi una cabala affettiva di ricordi ed emozioni: la maturità; la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova; la patente e i primi viaggi su quel rottame ambulante che era la Panda rossa; la mia prima reflex, una Praktica con lo zoom grandangolare; la scoperta dei Cure con la mitica Disintegration; la caduta del muro e la fine del comunismo. Sono seghe mentali, ne convengo, ma in certi momenti aiutano. “BADIE E PIEVI DELLA TOSCANA” leggo su un poster sbiadito appeso al muro di una casa a due piani. Nel poster sono riprodotte sedici piccole foto di chiese toscane e mentre aspetto la risposta al citofono provo a riconoscerne qualcuna, se mai mi fosse capitato di andarci. Sono in Via Jacopone da Todi, davanti alla porta dove abita Gioacchino Bortolotti, che non è un utente qualsiasi ma una persona con cui in passato ho già avuto a che fare. La prima volta che venni qui, qualche mese fa, il signor Bortolotti si preoccupò perché gli leggevo solo la luce e non anche l’acqua e il gas. Mentre gli spiegavo il motivo il suo viso mi apparve famigliare, come se l’avessi già incontrato. Dopo un po’ lo riconobbi: era un assiduo frequentatore della biblioteca della Fondazione San Carlo negli anni in cui io lavoravo alla reception come addetto al prestito dei libri. È curioso come a volte la vita riallacci i fili di esistenze che si erano separate, facendole ritrovare anni dopo in un altro contesto. A forza di bussare di porta in porta, in cinque anni, ho rivisto vecchi compagni di scuola, ex vicini di casa, mamme, nonne e zie di amici d’infanzia. Oppure mi è capitato di trovare persone che conosco nelle fotografie appese in qualche salotto dove non ero mai stato prima, semplicemente perché sono sposate o imparentate agli utenti di quelle case. Le relazioni di conoscenza sono molto più complesse e intrecciate di quanto immaginiamo ed è probabilmente vero, come dice una nota teoria, che bastano solo sei passaggi da una persona all’altra per arrivare a conoscere chiunque. Oggi il signor Bortolotti è di buon umore e allora provo a prendere un po’ di confidenza. Gli dico che sono figlio di una Bortolotti, al che lui si illumina e mi incalza con domande a raffica. In breve scopriamo di essere parenti, cugini di terzo o quarto grado. Entusiasta mi invita a salire nel suo studio al secondo piano, una stanza piena di libri di storia locale, fascicoli, archivi. La parete è piena di foto di famiglia, ritratti di lui da giovane e gruppi di amici. Cerco di riconoscere qualcuno dei miei
36 parenti ma sono foto troppo vecchie, si parla di quattro o cinque generazioni fa. Gioacchino tira fuori da un cassetto un foglio scritto a macchina che è l’albero genealogico dei Bortolotti. Mi spiega come dal mio bisnonno siano nati diversi figli compreso il mio prozio prete di Villafranca, quello morto cadendo in bicicletta dentro un fosso in un mattino di nebbia. Conosco questa storia perché mia madre me l’ha raccontata mille volte, è uno dei suoi classici aneddoti da saga famigliare. I Bortolotti sono nati tutti in montagna, a Gombola di Polinago, tranne mio nonno che era l’ultimo dei fratelli. Nel 1898 partirono dall’Appennino per trasferirsi nella Bassa. Mio nonno nacque a Disvetro, frazione di Cavezzo. Era una famiglia di proprietari terrieri, dunque agiata rispetto a tante altre dove c’erano solo dei braccianti. Il signor Gioacchino sa tutto anche di mia nonna materna, che era una Boschetti. Apparteneva a una famiglia importante, dei capitani di ventura che nel Quattrocento avevano fatto dei favori al Duca e questi in cambio gli aveva regalato dei terreni. Per esempio Villa Boschetti a San Cesario e Villa Freto alla periferia di Modena, dove infatti mia nonna andava a trascorrere le vacanze molti decenni prima che diventasse un locale notturno di tendenza. Sento che Gioacchino vorrebbe raccontarmi ancora tante cose. Tra un mese, quando torno, mi darà degli opuscoli e dei documenti sulla storia della mia famiglia. Intanto prendo il foglio con l’albero genealogico, a casa me lo studierò con calma. Dopo la Via Nazionale per Carpi proseguo sulle laterali di Strada Barchetta. Anche queste sono vie di scrittori e poeti, periodo SetteOttocento: Via Leopardi, Via Foscolo, Via Giusti, Via Beccaria, Via Stendhal. In Via Leopardi ero solito andare a leggere i contatori della ditta Giada, piccolo laboratorio di sartoria con tre giovani operaie. Stavolta però trovo la porta chiusa. Dal vicino ufficio del circolo dei parrucchieri mi spiegano che le ragazze hanno chiuso i battenti. La crisi ha colpito anche qui. Ecco una di quelle certezze dei miei mensili che all’improvviso viene meno. Non suonerò mai più a quella porta, nessuna delle ragazze verrà ad aprirmi e non avrò più bisogno della chiave che apre la centrale termica. Quella con il portachiavi a forma di Pikachu, il celebre Pokémon di un cartone giapponese. Addio, caro topo virtuale gommoso e giallo che mi aspettavi fedele ogni ultimo del mese appeso al gancio della bacheca. Una piccola separazione improvvisa e imprevista. E quelle ragazze simpatiche e carine chissà dove saranno andate a finire. Entro in casa Gherpelli mentre la signora sta preparando l’impasto per i
37 tortellini. Serviranno per festeggiare il figlio che domani compie gli anni. Ormai qui sono di casa, perfino il nipotino di tre anni sembra riconoscermi. Il signor Vainer si alza dalla poltrona e mi offre un tè senza zucchero. «Per i diabetici come me» dice divertito. È un pensionato arguto e ancora in buona forma, a cui piace ogni tanto intrattenermi per fare due chiacchiere. Oggi mi racconta di quando, finita la guerra, andò in marina per sei anni perché non c’era lavoro. Poi tornò a Modena e lo assunsero alla SIP, l’antenata di Telecom. All’epoca in tutta la città c’erano appena settemila telefoni e i tecnici della SIP andavano a piantare i pali per i cavi elettrici in tutta la provincia. Partivano a piedi con il palo caricato su una carriola e si facevano dei gran chilometri. Restavano via anche di notte, ospitati dalla gente del posto che faceva a gara per offrigli un letto. Oggi sarebbe impensabile, con la diffidenza e l’indifferenza che c’è in giro. In fondo a Via Stradello Anesino Sud, ex viottolo di campagna spezzato in due dalla tangenziale, una lapide molto semplice ricorda Emilio Bigi detto Sole, CADUTO PER UN’ITALIA LIBERA l’11 aprile del ‘45. Che sfortunato destino, morire appena undici giorni prima della liberazione. A decorare la piccola tomba non ci sono i soliti fiori ma un curioso vaso con palline d’argento che a mio avviso starebbe meglio sotto l’albero di Natale. Le ultime letture del mio giro sono un noioso susseguirsi di condomini che sembrano non finire mai. Procedendo lungo Strada Barchetta mi allontano sempre più dalla città. A Villa Freto la strada si interrompe bruscamente, interrotta dalla tangenziale. Un’ampia rotonda offre un ventaglio di possibilità sulla direzione da prendere: imboccare la tangenziale in direzione est verso Bologna o in direzione ovest verso le autostrade per Milano e il Brennero; prendere il raccordo fino a Via Emilia Ovest per andare verso il centro o verso Reggio Emilia; proseguire dritto, dove Strada Barchetta oltrepassa la tangenziale con un cavalcavia e prosegue fino alla frazione dei Tre Olmi. Questo cavalcavia è un ponte simbolico, ideale confine tra le ultime propaggini della città e l’inizio della campagna vera e propria. Ai Tre Olmi Strada Barchetta non si ferma, diventa strada sterrata e poi sentiero erboso per cavalli e mountain bike. Giunta alle sponde del fiume Secchia lo scavalca con un ponte di legno dall’ardita campata in stile Calatrava, un gioiellino di architettura nostrana che ha pochi anni di vita ma è già in pessime condizioni. Sui parapetti del ponte, agganciati ai
38 tiranti d’acciaio, ci sono i classici lucchetti dell’amore con tanto di frasi sdolcinate, proprio come sul più blasonato ponte Milvio nella capitale. Federico Moccia con il suo film Tre metri sopra il cielo ha fatto proseliti anche dalle nostre parti. Dal ponte della Barchetta Modena quasi non si vede più, nascosta dietro le macchie verdi dei pioppeti. Sul fronte opposto fa capolino il lungo serpentone bianco della TAV, nuovo orizzonte visivo e punto di riferimento della campagna postmoderna. Da qui in avanti Strada Barchetta entra nel territorio comunale di Campogalliano; oltrepassa gli argini, aggira i piloni della TAV. Poi si frammenta in più tronconi per fare posto alle grandi arterie che portano alla dogana e al casello della A22, sempre intasate dai tir che arrivano giù dai paesi d’oltralpe. Infine si ricompone e punta dritto fino ai margini del centro storico. Siamo arrivati nella Città della Bilancia, ex tranquillo paesino di provincia a economia agricola che un bel giorno si è visto costruire addosso l’autostrada del Brennero, diventandone la porta di ingresso. E che oggi è il principale nodo di controllo e smistamento di tutto il traffico merci su ruote tra Nordeuropa e Mediterraneo. Scusate se è poco.
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2. IL LUOGO ESATTO DOVE ABITARE Nonantola e dintorni
La meta di oggi, Bagazzano di Nonantola, non è lontana. Prendo la tangenziale Boris Pasternak in direzione nord, supero il ponte sulla ferrovia e svolto a destra allo svincolo che immette nel nuovo tronco di tangenziale intitolata a Ysaach Rabin. Grazie a questa nuova arteria taglio tutto il quartiere Torrazzi e poco dopo mi ritrovo sulla Nonantolana all’altezza di Via Caruso, dove svetta la montagna dei rifiuti. L’unica altura che può vantare Modena e per giunta artificiale. A Navicello, anziché proseguire dritto sul nuovo viadotto che scavalca il fiume Panaro, ci passo sotto e seguo il vecchio tracciato. Per un breve tratto la strada affianca il fiume seguendone fedelmente il corso, poi sterza bruscamente a destra e lo oltrepassa con il ponte storico. Dopo il ponte svolto a destra e mi ritrovo in Via Maestra di Bagazzano, dove inizia il mio giro. Tutta l’area intorno al Panaro è profondamente cambiata negli ultimi quattro o cinque anni. Prima c’era solo il fiume con i suoi argini, poi in poco tempo sono sorte un insieme di infrastrutture che hanno impattato fortemente il paesaggio. Innanzitutto il viadotto sopra il Panaro, che ha accorciato, anche se di poco, i tempi di percorrenza tra Modena e Nonantola ma, per contro, ha cancellato un antico modo di viaggiare, più sornione e contemplativo, fatto anche di rallentamenti e di pause a gettare un’occhiata al fiume. Oggi da quelle corsie ingabbiate il fiume quasi non si vede, non se ne ha più la percezione. Altra presenza ingombrante sono i binari sopraelevati della TAV, che attraversano la montagna dei rifiuti e tagliano trasversalmente la via per Nonantola. Sembrano antiche mura calate in un contesto contemporaneo, quasi a separare idealmente due realtà contigue, la città e il territorio provinciale. L’estrema periferia di Modena si insinua con i suoi ultimi capannoni artigianali fin quasi all’argine ovest del fiume. Ma anche la zona industriale di Nonantola è in continua avanzata verso est, tanto che in pochi anni le due periferie potrebbero arrivare a toccarsi.
40 Eppure mi bastano poche letture in Via Maestra per entrare in un’altra dimensione, fatta di silenzio e suggestioni. Nessun rumore sul lungostradone dritto, solo una dolce campagna che si sviluppa per strati paralleli. C’è la strada, poi la linea delle case e delle ville padronali e più lontano il profilo dei pioppi. Quindi la Via Emilia e sullo sfondo il doppio fronte delle colline e delle montagne oggi ben visibili, con il Cimone che dall’alto dei suoi 2.165 metri riesce a evocarmi altitudini e frescure lontane. Qui l’aria del mattino si scalda in fretta e preannuncia un’altra giornata di arsura, anomala come è anomalo questo inizio di settembre che più che preannunciare l’autunno sembra indugiare sul caldo estivo. Il mio giro di letture è un susseguirsi di case rurali e ville antiche, ognuna con il proprio passo e un vialetto d’accesso di lunghezza variabile ma quasi sempre alberato. Dalla famiglia contadina più modesta ai nobili signori di campagna si direbbe che qui tutti amino entrare in casa propria sotto volte di rami intrecciati che danno ombra e refrigerio. Perfino nel cimitero di Bagazzano l’ombra e il fresco non mancano, con quelle due file ordinate di pioppi ai lati del viale d’ingresso. Molte case hanno le pareti ricoperte dall’edera rampicante; spesso c’è un casottino più piccolo, una dependance, a fianco dell’abitazione principale. Tra le altre spicca per maestosità Villa Casino Riva, oggi riconvertita a ristorante per cerimonie, con il suo piccolo bosco all’inglese che si apre al centro per fare spazio a una bella fontana circolare con tanto di balaustra. Qui tutto, dal giardino al balcone pensile, dai putti alle statue decorative, rimanda ai fasti di un’epoca lontana che non c’è più. Ma basta essere invitati a un matrimonio di amici o parenti per riviverne, almeno per un giorno, le atmosfere. Questa campagna aperta con i suoi passi alberati che conducono ad altrettante case sembra appartenere a un tempo sospeso, quasi metafisico, come la luce del mattino che la attraversa. Sono le terre che vengono dalla antiche bonifiche medioevali e che si tramandano ancora in eredità di famiglia in famiglia, secondo le regole immutate della partecipanza agraria. Terre che appartengono ancora agli uomini, con le loro ampie distanze da misurare in ettari o in acri. Mi capita di osservare qua e là piccoli quadri bucolici: raccoglitori di pere lungo i filari che si danno da fare a riempire le casse; figure isolate che si piegano sui pomodori gialli e rossi che spuntano dalla terra seccata; qualche trattore lontano sull’orizzonte; falciatrici che tagliano l’erba di un giardino. Sono rari gli
41 incontri diretti con gli utenti perché i contatori sono quasi tutti bene in vista e facilmente raggiungibili. Non devo nemmeno suonare il campanello. Le strade sono deserte. Solo qualche bicicletta o motorino, automobili non pervenute. Un gentile signore di mezza età mi spiega che lui di gas non ne consuma più: è tornato a usare la legna, come una volta. Mi accompagna nel retro del cortile per farmi vedere, con una punta di orgoglio, i centocinquanta quintali di legna che ha accumulato sotto una tettoia. «Mi bastano per almeno due inverni» commenta soddisfatto. Poco dopo, entrando dentro un cortile per leggere il gas, la proprietaria mi avverte di stare attento a non pungermi. Lo credo bene: il suo contatore è circondato da fichi d’India alti più di due metri e per raggiungerlo devo procedere molto lentamente, con movimenti studiati. Nella mia lunga esperienza di letturista davanti ai contatori ho trovato gli ostacoli più vari: anfore e vasi di ogni forma e misura, statue grecoromane, nani da giardino, botti di aceto balsamico, griglie per barbecue, sedie a dondolo, WC e rottami arrugginiti, gabbie con dentro animali feroci, sciami di vespe incazzate, fossati pieni d’acqua, siepi impenetrabili… ma i fichi d’India mi mancavano. Il giro prosegue per Via Imperiale, Via Mavora, Via Buonvino e altri stradelli di campagna a sud di Nonantola. A uno sguardo d’insieme saltano subito all’occhio i segni della modernità: il bianco serpentone della TAV, naturalmente, ma anche la linea dei tralicci dell’alta tensione e gli acquedotti che segnalano all’orizzonte la posizione dei quartieri periferici distribuiti intorno al centro storico. E ci sono pure i sottopassi e i cavalcaferrovia costruiti in gran fretta e senza andare troppo per il sottile laddove il tracciato dei nuovi binari viene a incrociare le strade. Percorro uno a caso di questi viottoli strettissimi e all’improvviso la carreggiata si allarga del doppio impennandosi verso l’alto, con pendenze ardite sopra i campi. Appena scendo dall’altra parte si restringe di nuovo come un imbuto e riprende la sua larghezza consueta. È una forzatura imposta dal debutto ormai imminente dei nuovi treni veloci. Non cambia solo il paesaggio ma anche le strade e tutto quello che si trova nelle immediate vicinanze della ferrovia. Per fortuna esiste ancora qualche angolo abbastanza riparato, qualche lembo di campagna senza case intorno o ricoperto da boschi residui dove, volendo, ci si può fermare a fare pipì indisturbati. Quello della pipì all’aperto è un parametro grossolano ma efficace per determinare il grado di naturalità
42 di un luogo. Se posso farci pipì senza preoccuparmi troppo di essere visto da qualcuno quel luogo è ancora selvaggio, preservato. Abbastanza lontano dalla cosiddetta civiltà. Finisco il mio giro di letture in Via Mavora, dove trovo l’ex edificio scolastico di Bagazzano trasformato in un condominio per famiglie di immigrati, con tappeti stesi fuori dalle finestre e le immancabili antenne paraboliche per ricevere i canali extraeuropei. È una situazione che ho visto anche altrove, per esempio a Stuffione di Ravarino, a Dogaro di San Felice e a Dragoncello di Poggio Rusco. Le scuole delle piccole frazioni di campagna si spopolano per evidente calo delle nascite e per trasferimento altrove delle famiglie di origine. Esauriscono quindi la loro funzione iniziale ma poi rinascono con una nuova vocazione sociale, quella degli alloggi popolari per stranieri. Uno spunto interessante per i sociologi, gli urbanisti, gli studiosi delle dinamiche demografiche. Sempre su Via Mavora m’imbatto in una azienda agricola di raccolta e vendita della frutta. Niente di strano, qui ce ne sono tante. Ma da nessuna parte ho trovato sul cancello d’ingresso un avviso eloquente come questo: “FRUTTA FINITA. ARRIVEDERCI AL PROSSIMO ANNO. GRAZIE.” I gentili clienti girino pure i tacchi e cerchino la frutta altrove. A fine giornata mi prendo una mezz’ora di relax e vado a fare un salto in uno dei posti che in assoluto mi sono più cari: Villa Sorra. Seduto su una panchina del suo grande parco socchiudo gli occhi e mi rivedo qui in decine di scene, anno dopo anno. Da bambino con i miei in una domenica pomeriggio. A sedici anni, quella volta che venni in motorino con gli amici e presi la multa perché, partendo per tornare a casa, avevo fatto qualche decina di metri senza mettermi il casco e il vigile, nascosto dagli alberi, era stato implacabile. In una passeggiata mano nella mano con una mia ex, dalla villa fino al castello di Panzano, con quegli strani insetti sconosciuti che ci attraversavano la strada. Con un amico esperto in materia a censire tutte le erbe e i fiori in un quadrato di terra del parco per farci un rilievo botanico da portare a un esame. In un mattino di nebbia a fare delle foto sperimentali con un tubo di stagnola davanti all’obiettivo. Con mia moglie e mio figlio di pochi mesi ai primi tepori della primavera. Villa Sorra è un luogo speciale, un’oasi di verde a metà strada tra Nonantola e Castelfranco a dieci minuti dalla città. È un affresco di vita arcadica fuori dal tempo che si perpetua ogni giorno nei suoi angoli più suggestivi: il giardino all’inglese che sembra un bosco, i laghetti
43 ricoperti dalle ninfee, le rovine e le grotte posticce di gusto romantico; i canali d’acqua, i sentieri che sembrano tunnel sotto i fitti rami degli alberi, l’aranciera in stile neo-gotico e, naturalmente, anche la villa settecentesca. È una delle mete preferite per le gite fuori porta dei modenesi durante tutta la bella stagione. Nei fine settimana i prati intorno alla villa si riempiono di famiglie e di giovani che vengono qui a prendere il sole, a suonare la chitarra o giocare a pallone tra i chioschi dei gelati e delle piadine. Ma oggi è un lunedì di settembre e non c’è quasi nessuno. È una Villa Sorra inedita, insolitamente tranquilla, in perfetta sintonia con questa giornata di campagne silenziose. Un momento quasi perfetto, dove l’unica nota stonata sono le zanzare che continuano a infastidirmi mentre scrivo i miei appunti sul computer portatile. Oggi non posso lamentarmi. Per compensare il faticoso giro di ieri in campagna me ne hanno dato uno buono alla periferia di Nonantola, in un quartiere nuovo di zecca a ovest di Via Fossa Signora. È un complesso di piccoli condomini costruiti secondo le più moderne tendenze urbanistiche, con i contatori del gas tutti esterni, accessibili e facilmente individuabili. Anziché in cucina o sui pianerottoli come nella maggior parte dei casi, questi sono raggruppati insieme dentro gli appositi armadi sui muretti dei cortili o lungo le siepi. Sono, come diciamo in gergo noi letturisti, “in batteria”. Il che significa tante letture in poco tempo e senza troppa fatica. Le strade del quartiere, di fresca asfaltatura, sono ancora ingombre di segnaletica provvisoria, di rotatorie in fase sperimentale e di gru che si arrampicano fino in cielo per edificare gli ultimi lotti strappati ai campi. Sono intitolate ad alcuni illustri figure della nostra letteratura: Via Eugenio Montale, Via Umberto Saba, Via Elsa Morante, Via Italo Calvino. Forse loro, i diretti interessati, avrebbero preferito una diversa collocazione, per esempio una bella piazza del centro dove i turisti si fermano a fare foto o un lungo viale di circonvallazione pieno di traffico che all’ora di punta puntualmente va in tilt. E invece no. Per loro solo un lembo di anonima periferia dove tutto tende a una piatta uniformità. Gli scrittori e i poeti devono accontentarsi. Tra una batteria di gas e l’altra trovo il tempo di fare un salto nei dintorni per andare a vedere le cose più interessanti. Per esempio Villa Emma, storico ed elegante edificio circondato da un ampio giardino che ospitò decine di bambini ebrei orfani di origine tedesca durante la seconda guerra mondiale, sottraendoli alle violenze naziste. Oppure i villini
44 liberty disseminati lungo Via Mavora, primi esempi di espansione urbanistica borghese fuori dalle mura. Interessante anche la vecchia stazione, in mattoni rossi, testimone di un’epoca finita da un pezzo: quella degli spostamenti sulle ferrovie provinciali prima dell’avvento delle corriere e delle auto private. Di fianco alla stazione spiccano gli edifici abbandonati dell’ex cantina sociale sui quali svetta la classica ciminiera da panorama urbano di inizio Novecento. Un bell’esempio di archeologia industriale che un recente restauro ha ridipinto in colori pastello ocra e rosa. È un luogo che sembra esercitare il suo fascino decadente anche sulle nuove generazioni di cineasti, che in occasione dell’annuale Nonantola Film Festival vengono spesso qui, tra le penombre dei capannoni o in mezzo ai rifiuti del cortile, a girare i loro cortometraggi. Negli ultimi anni Nonantola è cresciuta in fretta, grazie alla sua vicinanza con Modena che fa da richiamo per molte nuove famiglie. Ma il suo piccolo centro storico rimane un gioiello con angoli suggestivi. Famosa per l’abbazia romanica di San Silvestro dell’VIII secolo, merita di essere scoperta anche nei suoi vicoli e nelle sue piazze minori. In certi giorni di nebbia l’atmosfera è tale che non mi stupirei di incontrare per le sue vie monaci incappucciati che intonano cupi canti gregoriani, come se fossimo in pieno Medioevo. Le campagne intorno a Nonantola, verso Crevalcore e Sant’Agata Bolognese, sono i luoghi che fanno da sfondo alle favole padane di Giuseppe Pederiali, autore nostrano originario di Finale Emilia che ama raccontare la sua terra. Ricordo ancora vagamente certi passaggi del suo romanzo Il tesoro del bigatto che avevo letto in prima liceo. Vi si narra l’avventuroso viaggio dell’eremita Sant’Anselmo attraverso una pianura Padana invernale piena di mostri immaginari e personaggi curiosi, tra magie e sortilegi, al tempo di Matilde di Canossa. Con alcuni compagni di classe ero venuto proprio a Nonantola, dove all’interno di una delle due torri del centro era allestita una mostra di quadri naïf ispirati alle pagine di quel libro. Nonantola, terra di pievi e abbazie, che ha sempre guardato tanto a Modena quanto a Bologna, come rivelano le sue due torri contrapposte, quella dei modenesi e quella dei bolognesi, è anche il punto di partenza dell’antica Via Romea Nonantolana che portava i pellegrini diretti a Roma fino al crinale appenninico, all’altezza del lago Scaffaiolo. È un itinerario che offre molti spunti interessanti perché attraversa longitudinalmente una buona parte della provincia di Modena passando
45 anche per luoghi decentrati fuori dalle consuete rotte automobilistiche. Si passa per Rubbiara, Panzano, Castelfranco, San Cesario, Spilamberto, Savignano, Vignola, Campiglio, Denzano, Ospitaletto, Coscogno, Benedello, Iddiano, Semese, Niviano, Vesale, Poggioraso, Sestola, Fanano e infine Ospitale che è l’ultimo nucleo abitato prima di sconfinare in Toscana. È consigliabile farlo a piedi, meglio se con la dovuta calma e prevedendo più soste, secondo i ritmi degli antichi pellegrini. Ma si può anche osare di più e coprire i centoquindici chilometri in due soli giorni in mountain bike, come facemmo io e quattro amici pazzi nella lontana estate del 2000. Per la verità non seguimmo fedelmente il percorso ma ce ne discostammo più volte tagliando i tratti più difficili e sbagliando anche qualche strada. Gli ultimi dieci chilometri, tutti rigorosamente in salita, li feci a piedi trascinandomi di peso la bicicletta. Arrivammo al rifugio del lago Scaffaiolo al tramonto e festeggiammo l’impresa con del mirtillino, tipico liquore di montagna. Ero esausto e l’idea di aver finito quella fatica mi riempiva di gioia. Per l’euforia anziché berlo da un bicchierino mi servii di un mestolo da cucina, che non ha esattamente lo stesso dosaggio. Azzardo che pagai puntualmente la mattina dopo, quando il mio stomaco si rivoltò impietoso contro di me. Mezzogiorno. Ho finito le batterie del gas e mi appresto a leggere l’unico condominio di questo giro che ha i contatori all’interno, dentro gli appartamenti. Me lo sono tenuto apposta per l’ora di pranzo perché così trovo a casa il maggior numero di utenti e lascio meno cartoline possibili. Dall’esterno è un vero obbrobrio: sei piani di un palazzone popolare che in altezza fa concorrenza alle due torri antiche. Quasi un pugno nello stomaco per il modesto profilo di Nonantola. Ho visto di peggio solo a Novellara e a Sant’Ilario d’Enza, due realtà di dimensioni ancora contenute dove gli architetti sono riusciti a infilare a ridosso dei rispettivi centri storici due orribili ecomostri visibili a chilometri di distanza. Forse è un problema di identità: questi ex paesi di campagna devono dotarsi di un qualche segno tangibile di modernità, per mettersi in evidenza e assurgere in tempi brevi allo status di città. Salgo in ascensore fino al sesto piano e suono il primo campanello. Una anziana e minuta signora mi apre dopo qualche istante di attesa, durante il quale mi avrà senz’altro scrutato dallo spioncino per decidere se aprirmi o no. A questa diffidenza ci sono abituato. Noi siamo potenziali ladri, delinquenti, stupratori e assassini. Sui quotidiani appaiono
46 praticamente ogni giorno articoli di cronaca sugli anziani soli in casa raggirati da falsi addetti del gas, quindi è normale che la gente sia prevenuta e non ci apra volentieri. Mentre sono nel suo balcone a leggerle il contatore sbircio alla TV, per qualche istante, la causa in corso nella puntata odierna di Forum su Canale 5. Niente di speciale: una moglie giovane e piacente si difende con accanimento dalle accuse del marito, convinto che lei lo tradisca. Chi scrive i copioni per questi attori improvvisati non spicca certo in fantasia. Scendo al piano di sotto, dove due anziani coniugi stanno seguendo davanti allo schermo le stesse vicende erotico-sentimentali. Suono ad altre porte e ritrovo puntualmente quell’attricetta da due soldi che tiene incollate alla TV casalinghe, badanti e intere famiglie riunite a pranzo. Di pianerottolo in pianerottolo, mio malgrado, sono anch’io spettatore passivo della torbida vicenda. Mi piace l’idea che tutti questi vicini di casa, ciascuno chiuso nel suo guscio protettivo, siano uniti idealmente a vedere e sentire le stesse cose. Come se l’intero condominio fosse un unico, grande corpo spione. Un’idea che mi fa sorridere e allo stesso tempo mi inquieta. A metà pomeriggio, prima di tornare a casa, vado un po’ a zonzo con la macchina per le strade di campagna ascoltando un CD di Lucio Battisti, che ci lasciava esattamente dieci anni fa. Riscopro luoghi che già conosco ma dove non passo da tempo. Per esempio Rubbiara, ANTICO BORGO GIÀ PRESENTE NEL 1495, come dice un’insegna di marmo sul muro di una vecchia casa. Dietro la chiesa, nell’area del campo sportivo, c’è una bella Via Crucis fatta con statue di terracotta a grandezza naturale, opera del parroco. Ci sono venuto l’anno scorso a fine inverno, quando le statue erano ancora coperte da grossi teloni trasparenti contro il freddo. L’effetto era piuttosto singolare: come di un tempo sospeso, di una attesa per una Pasqua ancora molto lontana. Le scene della passione di Gesù sembravano un’unica grande opera concettuale di Christo e Jeanne-Claude, i coniugi artisti che vanno in giro per il mondo a impacchettare tutto. Recovato è una frazione di poche case con una bella parrocchiale e una buona trattoria. Redù, sulla strada per Castelfranco, è un borgo dal nome curioso affacciato su un’unica strada senza uscita che in realtà continua su una sterrata. Da queste parti le strade non sono lineari ma descrivono curve, seguono il corso dei canali, si diramano in tanti viottoli che si perdono in piccoli boschi residui. A una di queste curve, in Via Baracca,
47 mi appare una scenografia perfetta nella sua semplicità. Sotto la luce calda del pomeriggio c’è una cascina ristrutturata di un bel colore arancione intenso, che sembra galleggiare su un mare dorato di granoturco ormai pronto per la raccolta. Non è solo una casa di campagna ma anche una suggestione, un’idea. L’idea del luogo esatto dove abitare, almeno per un attimo, almeno con la fantasia. Niente a che vedere con il Mulino Bianco e la sua falsa retorica di vita felice che ci hanno inculcato in testa nelle nostre lontane colazioni di adolescenti. Questo è un posto vero, autentico. Una sorpresa che mi aspettava dietro l’angolo tra le fertili terre della partecipanza. FINE ANTEPRIMA. CONTINUA... Se ti diletti a scrivere recensioni, puoi leggere questo e-book gratuitamente con l'iniziativa CORREVOCE. Vai su www.0111edizioni.com e leggi come fare.