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Servizi Culturali è un'associazione di scrittori e lettori nata per diffondere il piacere della lettura, in particolare la narrativa italiana emergente ed esordiente. L'associazione, oltre a pubblicare le opere scritte dai propri soci autori, ha dato il via a numerosissime iniziative mirate al raggiungimento del proprio scopo sociale, cioè la diffusione del piacere per la lettura. Questa pagina, oltre a essere una specie di "mappa", le raggruppa per nome e per tipo. I link riportano ai siti dedicati alle rispettive iniziative.
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Elvira Rosberg è un avvocato di successo. Ha un fidanzato facoltoso, "un'eleganza innata alla Audrey" e una piccola particolarità: i suoi occhi sono di due colori differenti, uno azzurro ghiaccio, l'altro verde. Ecco perché, da sempre, tutti la chiamano Eyes. La storia di questo romanzo è incentrata sul suo personaggio; è un giallo giudiziario la cui soluzione sembra semplice... ma non lo è. Scritto con un ritmo incalzante, con eventi mai monotoni e prevedibili, non cala mai di tono: un libro gustoso, sicuramente da leggere. L'AUTORE: Laura Laghi è nata a Rimini nel 1983. È laureata in Scienze della Mediazione Linguistica e vive e lavora a Riccione. Eyes è la sua seconda pubblicazione ("Life in Paris", 2007 Edizioni Il Filo)
Titolo: Eyes Editore: 0111edizioni Pagine: 134
Autore: Laura Laghi Collana: Selezione Prezzo: 13,00 euro
11,05 euro su www.ilclubdeilettori.com
Leggi questo libro e poi... - Scambialo gratuitamente con un altro oppure leggilo gratuitamente IN CATENA[leggi qui] - Votalo al concorso "Il Club dei Lettori" e partecipa all'estrazione di un PC Netbook [leggi qui] - Gioca con l'autore e con il membri della Banda del BookO (che si legge BUCO): rapisci un personaggio dal libro e chiedi un riscatto per liberarlo [leggi qui]
E' la nostra web tv, tutta dedicata ai libri. Se hai il video della tua presentazione, oppure un videotrailer del tuo libro, prima pubblicali su YouTube, poi comunicaci i link. Dopo aver valutato il materiale, lo inseriremo nel canale On-Demand di TeleNarro. Se hai in programma una presentazione del tuo libro nel Nord Italia e non hai la possibilità di girare il filmato, sappi che c'è la possibilità di accordarsi con Mario Magro per un suo intervento destinato allo scopo. Contatta Mario e accordati con lui.
PARLANDO DI LIBRI A CASA DI PAOLO ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro La trasmissione di Paolo
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Federici dedicata ai libri. Ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro. E' possibile vedere le puntate già mandate in onda sul canale OnDemand
"Bookino il Contastorie" ti racconta un libro in una manciata di minuti. Poi, potrai proseguire la lettura online, su EasyReader. E se il libro ti piace, potrai richiederne una copia in omaggio con l'iniziativa Adottaunlibro. Clicca su Bookino...
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IL CASSETTO DEI SOGNI A differenza di "Parlando di (prima trasmissione libri a casa di Paolo", questa prevista a FEBBRAIO 2010) trasmissione, condotta da Mario Magro e sponsorizzata dalla nostra associazione, tratterà solo libri della 0111edizioni. Anche in questo caso, i libri presentati sono scelti dal conduttore, che li seleziona fra una rosa di titoli proposti dalla casa editrice. VAI AL SITO
E' però possibile richiedere una puntata dedicata a un libro specifico, non compreso nell'elenco di quelli selezionati, accordandosi direttamente con il conduttore, Mario Magro.
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Con EasyReader puoi dare un'occhiata ai nostri libri prima di acquistarli. Sono disponibili online in corpose anticipazioni (circa il 30% dell'intero volume), che ti consentiranno di scegliere solo i libri che preferisci, evitando di acquistare "a scatola chiusa". In più, con l'iniziativa Adottaunlibro, puoi richiedere in regalo il libro che sceglierai. VAI AL SITO
CONCORSO IL CLUB DEI LETTORI VAI AL SITO
Se hai letto un libro di un autore italiano (edito da qualunque casa editrice), votalo al concorso Il Club dei Lettori e partecipa all'estrazione di numerosi premi. La partecipazione al concorso è gratuita.
In questo gioco a premi avvengono rapitimenti un po' anomali: le Gioca con la Banda del Booko vittime sono personaggi di romanzi, che verranno poi "nascosti" in altri romanzi a discrezione dei rapitori e per la liberazione dei (che si legge quali è richiesto un riscatto all'autore. BUCO) all'ANONIMA Qui entra in gioco la "Squadra di Pulizia", che tenterà di liberare il personaggio per evitare all'autore il pagamento del riscatto. In SEQUESTRI VAI AL SITO
questa fase sono anche previsti tentativi di corruzione da parte dei Puliziotti nei confronti dei rapitori... ma non è il caso di spiegare qui tutto il funzionamento del gioco... per il regolamento è meglio fare affidamento all'APPOSITA PAGINA. E' possibile giocare e andare in finale nei ruoli di RAPITORE, VITTIMA, PULIZIOTTO, GIUDICE e PENTITO. In palio c'è un premio per ognuna delle 4 categorie. Il premio, di cui inizialmente viene specificato solo il valore massimo, viene scelto dai rispettivi vincitori dopo il sorteggio.
Laura Laghi
EYES
www.0111edizioni.com
www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com
EYES Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2010 Laura Laghi ISBN 978-88-6307-280-8 In copertina: immagine fornita dall’Autore
Finito di stampare nel mese di Maggio 2010 da Digital Print Segrate - Milano
A Samuel, finchĂŠ morte non ci separi. A Cinzia, che ha reso possibile tutto questo senza smettere mai di crederci.
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"Dove vi è giudice, lì c'è ingiustizia" L. Tolstoj "La ricerca della verità è più preziosa del suo possesso." A. Einstein
Il rollio del metrò mi infondeva un certo senso di pace. Tenevo le gambe accavallate e la cartella porta documenti in grembo, come a cercare un appiglio. Il suono quieto e rilassante di Angel dei Massive Attack mi faceva quasi dimenticare l'estenuante giornata appena passata. Avevo riordinato documenti di ogni genere, studiato un caso di mobbing, archiviato diverse pratiche e poi cos'altro? Ah, già. Avevo contemplato il post-it giallo lasciatomi sulla scrivania mentre ero in pausa pranzo per ore, incapace di fare altro se non scervellarmi dietro a mille supposizioni. E in quel momento, di ritorno a casa sul treno che dal West Side portava a Park Avenue avevo solo un unico desiderio: farmi un bagno bollente e non pensare a nulla. Scaraventai lontano le decolleté tacco dodici non appena varcai la soglia del mio appartamento; mi tolsi la giacca, la gonna e la camicia bianca di seta e mi infilai l'accappatoio. Mentre aspettavo che la vasca si riempisse d'acqua accesi lo stereo e diverse candele profumate alla cannella. Mia madre mi diceva sempre che in quella spezia ci sarei affogata prima o poi: ricordo che quando preparava le frittelle per tutti a colazione, nelle mie ne metteva sempre una spruzzata molto abbondante. Lei non era esattamente come me, ma una donna di poche parole, dai lineamenti freddi e regolari, con un fisico snello e asciutto. Era sempre stata fermamente convinta che la bellezza fosse da considerare una disgrazia e non un pregio, perché era come qualcosa che ti segnava
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a vita. Le donne brutte, mi ripeteva sempre, non hanno né paura di invecchiare, né di non essere amate: chi le sceglie le vuole così come sono; quelle belle hanno sempre una gara da vincere alla fine della fiera. Fissai la mia immagine nello specchio e mi trovai d'accordo con lei: io ero una persona che nessuno avrebbe definito bella, ma piuttosto particolare. A cominciare proprio dai miei occhi grandi, dal taglio leggermente orientale e di due colori diversi: quello sinistro era azzurro e il destro invece verde. Era soprattutto quel dettaglio che dava al mio viso un innegabile fascino. Lo sapevo, me lo sentivo ripetere da circa un decennio e non me ne servivo più di tanto...del resto, nel mestiere che facevo io, la bellezza contava ben poco. Per fare l'avvocato a New York non bastavano due occhi belli e un fisico snello da fasciare in tailleur di Armani: quello che contava era una buona dose di tenacia, mista a innegabile talento. Accertato di possedere queste qualità indispensabili, infarcite anche di un po' di sana eloquenza, potevi cominciare a curare il tuo aspetto. E se, come me, avevi anche la fortuna di possedere un'eleganza innata alla Audrey Hepburn, un accento britannico piuttosto marcato e un compagno facoltoso, allora più della metà del lavoro era già fatto di base. Mentre gustavo il silenzio e la penombra immersa nell'acqua tiepida, il trillo del mio cellulare mi riportò alla realtà: mi dissi che potevo benissimo non rispondere, ma sapevo che di lì a dieci minuti, se non l'avessi fatto, me lo sarei ritrovato alla porta. - Pronto. - Abbiamo un problema.- disse la voce roca e baritonale di Simon dall'altro capo del filo. - Benvenuto nel club. - replicai asciutta. Simon Finch era il mio socio, era stato il mio fidanzato e adesso era il mio amante. O meglio, non stavamo più insieme ma era come se ancora lo fossimo. Cinque anni prima, appena uscita da Harvard, ero stata notata da uno dei professori del master in legge che avevo conseguito brillantemente dopo la laurea, Aaron Kramer, socio dell'allora trentacinquenne appena divorziato Simon Finch. Questi due avvocati di grido ci tennero tantissimo ad assumermi come tirocinante nel loro studio, la K&F Attorneys. Dopo soli sei mesi lavorai al mio primo caso con Aaron, che ben presto assunse il ruolo di guida per me nella professione forense. Da lui imparai i trucchi del mestiere, come fiutare una pista giusta, come individuare a priori l'innocenza o la colpevolezza di un cliente, come valutare se accettare o
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meno una proposta di difesa...mi dimostrai un'allieva ineccepibile, e lui un maestro burbero ed esigente, ma la cui stima non avrei mai potuto mettere in dubbio. Aveva saputo scovare il mio talento e lentamente, toccando le corde giuste, l'aveva fatto venire autonomamente alla luce. Il risultato ora era che, dopo cinque anni, in tutta la città ero conosciuta come l'avvocato che non aveva mai perso una causa. Dal mio primo giorno in quello studio tra me e Simon era scattata una chimica che nessuno dei due era riuscito a combattere, né tanto meno a negare: la nostra relazione era rimasta per tre anni nell'ombra; Simon era da poco divorziato e io avevo appena cominciato a lavorare lì e nessuno dei due voleva screditare lo studio solo per colpa degli ormoni. Solo Aaron ne era a conoscenza, e ci minacciò persino di licenziamento e liquidazione (era il più anziano dei due soci e deteneva la quota più alta delle azioni, Simon aveva rischiato grosso, rendendogli nota la nostra relazione), se mai ci fossimo azzardati a rendere pubblica quella che scetticamente aveva da subito giudicato "una cosa poco professionale e molto sbagliata". Dopo la mia evidente affermazione sulla piazza e l'acquisto del 25% delle azioni della K&F ufficializzammo la cosa. Eravamo soci e non più "capo e segretaria", nessuno ebbe più nulla da ridire e, ironia della sorte, cominciammo a non andare più tanto d'accordo come prima. Quindi, dopo svariate e inutili pause di riflessione, avevamo deciso di comune accordo che non eravamo tagliati per una relazione normale e stabile e che saremmo tornati ad essere solo due colleghi di lavoro. Ma la chimica era la chimica e alla fine continuavamo a tenere i rapporti tra noi molto più informali di quanto ci fossimo imposti. Anche se aveva dieci anni in più di me e faceva quel lavoro da più tempo, ero intimamente convinta che Simon difettasse di una capacità di analisi distaccata: aveva la tendenza all'allarmismo al primo manifestarsi di un problema, l'incapacità di razionalizzarlo e fare una scaletta delle priorità. Quindi optai per una risposta effetto "doccia fredda", tanto per dissipare le prime nebbie. - Si, lo so, ma il nostro problema è più importante.- insistette. La sua voce mi sembrò davvero preoccupata e mi indusse a uscire dalla vasca e cominciare a rivestirmi. -Non dirmi che devo tornare in ufficio Simon.- lo implorai, mentre mi infilavo il primo paio di jeans che mi capitò sottomano. -No, ci vediamo da Ducasse tra venti minuti. Vieni in taxi, ti porto a casa io dopo cena.
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-Come mai mi porti in un ristorante del genere? C'è qualcosa da festeggiare? -Non ti porto io. Ti ci accompagno. -Si può sapere allora chi è che ci offre una cena da cinquecento dollari a cranio? -Quello che ha chiamato in pausa pranzo mentre eravamo intenti a mangiare un cheeseburger come due idioti.- Merda, mi dissi. Non poteva essere, Simon doveva essersi sbagliato. Così come quella cretina della sua segretaria, che non aveva capito bene il nome dell'uomo che ci aveva cercato quel giorno chiedendo disperatamente il nostro aiuto. -Ci sarà anche Aaron, ha detto che se non sarai lì tra venti minuti domani ti licenzia.- nel frattempo, mi ero già tolta i jeans e avevo infilato il tailleur nero di Dolce & Gabbana che riservavo solo per le occasioni speciali. -Ho già il soprabito Simon. Sarò una scheggia.- la mia voce non tradì nessuna emozione, ma qualcosa dentro di me vibrava fino a fare quasi male. -Non ne dubito. Ah, dimenticavo...-Si?- chiesi, mentre cercavo di evitare di tranciarmi le falangi nel portone d'ingresso. -Ti voglio.- e chiuse la comunicazione alla velocità dell'iperspazio, impedendomi di replicare. Ce l'aveva sempre avuto, quel vizio delle entrate e delle uscite a effetto. Sorridendo mi misi a trotterellare verso il taxi più vicino e una volta dentro l'abitacolo dovetti trattenermi per non mangiarmi tutte le unghie. Mi fissai nel riflesso dei vetri: i miei occhi lasciavano trasparire molte più cose di quanto non avessi voluto. Li chiusi, pregando con tutta me stessa che il taxi cominciasse a volare... Davanti a Ducasse c'era il solito codazzo di gente comune che si ammassava per cercare di vedere qualche star del cinema o della televisione che scendeva dalla limousine per andare a cena. Come se questo potesse minimamente rendere più sensata una giornata vissuta nel più totale anonimato. Certe volte non mi capacitavo di come la gente potesse non rendersi conto dello squallore dei propri gesti. In quel ristorante avevo mangiato ostriche e bevuto champagne in diverse occasioni e spesso mi ero imbattuta in diverse celebrità, scoprendo che apprezzavano davvero il non essere notate, cosa che a me riusciva piuttosto naturale, dato che non guardavo mai la televisione e raramente andavo al ci-
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nema. Per quel che riguardava la mia passione per la musica invece era ancora più facile: avevo circa duemila cd, ma non mi piaceva andare ai concerti, quindi raramente sapevo che faccia avessero i miei musicisti preferiti. -Ciao Eyes. - la voce di Simon mi giunse da dietro come un piacevole richiamo alla mia vita reale, fatta di un amore che non ero ancora sicura di aver capito e di un lavoro che mi assorbiva anima e corpo. Gli sorrisi, allungandogli un lieve bacio sulle labbra. Poi chiesi di Aaron. -É dentro che ci aspetta. Dice che non vede l'ora di vedere la tua faccia non appena scoprirai chi è il tuo nuovo cliente. -Il mio nuovo cosa?- quasi gridai. Nessuno aveva parlato di una causa nuova. Avevo una montagna di pratiche aperte e nessuna voglia di mettermi a studiarne una da principio. -Din don!! Ricordi il post-it giallo ragazza mia? Ricordi il nome che c'era scritto sopra? Bene: dentro al locale con Aaron c'è la persona che risponde a quel nome. E vuole che tu lo difenda. Rimasi a bocca aperta per tutto il tempo in cui lui si accese la sua sigaretta, aspirò la prima tirata e me ne porse una. Che ovviamente accettai. -Non è un bello spettacolo vedere Eyes Rosberg senza parole. Non credo che il signore che sta là dentro ne sarebbe felice.- mi schernì Simon. -Credevo avesse chiesto il supporto dello studio legale...- balbettai. -Beh, tu lo rappresenti tanto quanto me e Aaron mi pare. E, per la cronaca, io e lui abbiamo perso diverse cause nella nostra carriera. Tu nemmeno una. -Lavoro solo da cinque anni. E c'è sempre una prima volta.- ribadii. -Farai in modo che non sia questa allora. Molla a Lindberg o a chi vuoi tutte le cause in sospeso: ti ci devi dedicare interamente a questo caso, costi quel che costi.- Sentenziò, gettando a terra il mozzicone e facendomi procedere davanti a lui, toccandomi lievemente sulla spalla destra. Avanzai reticente nel ristorante, cercando di non dare a vedere la mia agitazione. Avevano prenotato in una sala privata in fondo al locale, al riparo di occhi e orecchie indiscrete. Quando avvistai Aaron strinsi la mano di Simon, che si accostò impercettibilmente verso di me e mi disse in un soffio di non preoccuparmi: non appena ci vide arrivare, il nostro uomo si alzò e ci venne incontro con un sorriso formale. -Finalmente ho l'onore di conoscerla personalmente Miss Rosberg.-L'onore è solo mio Mr Eldberg.- risposi stringendo la sua mano e ricambiando il sorriso. Da vero uomo di mondo quale Thomas Eldberg
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era, mi fece accomodare al suo fianco spostando la sedia e mi porse subito un calice di Chardonnay. Allora il paradosso era proprio vero: io, un avvocato di ventinove anni, avrei dovuto difendere un giudice di sessanta. Non un giudice qualunque, ma un uomo che aveva spedito in galera, in tren'anni di carriera, politici, assassini, stupratori, evasori fiscali e mille altre categorie di individui che avevano violato la legge. E che era stato incriminato per omicidio e stupro il giorno prima e aveva chiesto aiuto a me. Notai che mi stava fissando e arrossii leggermente, portando lo sguardo altrove. Mi aveva visto un milione di volte in aula, perché allora mi guardava con così tanta insistenza? -Immagino sia banale dirglielo,- mi apostrofò improvvisamente, costringendomi a guardarlo. - ma così da vicino finalmente capisco il perché del suo nome -Non se n'era mai accorto?- gli chiesi. -Le aule di tribunale sono immense. E quando lei lavora, sono molto più attento alle sue arringhe piuttosto che al colore dei suoi occhi.Era stata mia madre a chiamarmi affettuosamente Eyes, da quando aveva notato la diversità del colore dei miei occhi, sei mesi dopo la mia nascita e raramente da allora ero mai stata apostrofata con il mio vero nome. Non ci ero abituata, e diverse volte all'università, quando chiamavano per gli appelli degli esami, me ne stavo tranquillamente a chiacchierare con i compagni di corso nei corridoi, rendendomi conto diversi minuti dopo che la signorina Elvira Rosberg ero io e che dovevo anche darmi una mossa. Sorrisi a Eldberg e in modo cordiale replicai: - Dunque le piace come lavoro. - Non sarei qui a chiederle di difendermi altrimenti. - Ho letto i giornali questa mattina Mr Eldberg. Il suo capo d'imputazione è del massimo grado e da quello che ho potuto capire non ci sono molti elementi a suo favore.- gli dissi, evitando di girare troppo attorno al problema. Contrariamente alle mie aspettative, quell'uomo non mi intimoriva particolarmente. Con la coda dell'occhio vidi Simon e Aaron irrigidirsi, ma li freddai con un'occhiata glaciale prima che potessero in qualche modo dire qualsiasi cosa. - No Miss Rosberg, lei ha capito male: non c'è nemmeno un elemento a mio favore. Ecco perché voglio voi della K&F. Siete i migliori avvocati sulla piazza, siete famosi per essere spregiudicati e pronti a tutto pur di vincere.
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- Conosce qualche avvocato che ami perdere?- lo incalzai. -No, ma quasi tutti perdono prima o poi. Lei no Eyes, lei non ha mai perso.- lo fissai per un istante, poi mi decisi a chiedergli di raccontarmi a grandi linee la dinamica dei fatti. Cosa che per il mio stomaco si rivelò un errore fatale, dato che dopo un paio di frasi si era già completamente chiuso. La figlioccia di Eldberg, una ragazza di ventidue anni, era stata trovata la settimana prima, morta, nella villa fuori città di proprietà del giudice, a seguito di una chiamata anonima. Era completamente nuda, riversa sul pavimento in una pozza di sangue. Aveva le mani legate dietro la schiena ed era stata ripetutamente violentata. Poi, stanco di giocare con la sua vittima, l'assassino le aveva tagliato la gola; l'arma del delitto non era stata ancora trovata. Quello che mi fece rivoltare completamente lo stomaco non era tanto la violenza e la crudeltà del fatto in sé, ma la totale mancanza d'emozione nella voce del mio cliente. Cercai per un momento di mettermi nei panni di un genitore al quale venisse raccontato che la sua bambina, che fino a pochi giorni prima aveva ripassato la lezione per l'esame che doveva dare e aveva fatto un po' di shopping con le amiche per rilassarsi un po' , era stata massacrata senza pietà. E la reazione dentro di me fu di totale panico. Eldberg sembrava leggere una sentenza, era come se tutto ciò che mi stava raccontando non lo riguardasse minimamente. Le sue maledette impronte erano state trovate per tutta casa, il sangue della ragazza era sui suoi vestiti e dalle analisi effettuate dalla scientifica, sotto le unghie di lei erano stati trovati frammenti di pelle del patrigno. "Sono innocente Miss Rosberg. Non avrei potuto mai uccidere mia figlia" ecco, queste erano le parole che avrei voluto sentire. Invece Eldberg me ne disse altre: - Le impronte e il sangue non significano niente. Una volta arrivato sul luogo del delitto ho cercato di salvare il salvabile, ho rovesciato Jenny sulla schiena per verificare se fosse già morta. Ed è casa mia per Dio, quindi ho toccato il tavolo, le sedie, il telefono e un milione di altre cose- Bravo coglione, pensai, basta guardare il Tenente Colombo una volta per sapere che sulla scena del crimine non si tocca mai niente. - E la sua pelle com'è finita sotto le unghie di sua figlia giudice Eldberg?- indagai. In tutta risposta lui mi porse il lato destro del collo, sul quale spiccava un lungo graffio ancora fresco. Lo fissai senza parlare, volevo me lo dicesse lui come se l'era fatto. Più che altro ero curiosa di sentire quale bugia si sarebbe inventato.
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- Jenny era una ragazza ribelle e irrequieta. Quel giorno, si era impuntata a voler trascorrere un weekend fuori città con il suo ragazzo, che ha sei anni in più di lei. Ovviamente glielo vietai, abbiamo avuto una brutta discussione.-Che è finita a unghiate?- chiesi scettica, inarcando un sopracciglio. -Le ho dato uno schiaffo, mi aveva detto che non avevo diritto sulla sua vita solo perché mi scopavo sua madre.- il vino mi andò di traverso e per poco non glielo sputai in faccia. Non male come linguaggio per una rampolla dell'alta società newyorkese, pensai. Una che si rivolgeva al patrigno a quel modo poteva benissimo reagire ad uno schiaffo con un'unghiata. -Comunque c'era anche mia moglie quando Jenny mi si è avventata contro e mi ha graffiato. L'ho spedita in camera sua vietandole di scendere per cena. Alle dieci di sera sono salito per controllare cosa stesse combinando e non c'era. La finestra era aperta. Cinque minuti dopo ha telefonato la polizia per avvertirmi del ritrovamento del cadavere. - Sua figlia aveva le chiavi della vostra casa fuori città? - No e comunque, anche se le avesse rubate, ci deve essere per forza andata in auto con qualcuno. Probabilmente con il suo assassino. - Che la polizia ha identificato in lei perché, oltre alle prove che la incriminano, c'è anche la sua totale mancanza di alibi. -Già. Dopo aver messo Jenny in punizione, mia moglie è uscita di casa e si è fermata a cena dalla moglie del procuratore Heidelberg. Quando la polizia ha chiamato, io ero solo in casa e non mi ero mosso dal pomeriggio. Nessuno sa cosa ho fatto dalle sedici fino alle ventidue di ieri sera. -Nessuno tranne lei.- incalzai. Ero famosa anche per questo nell'ambiente: quando interrogavo un teste della pubblica accusa, ero solita farlo crollare emotivamente bersagliandolo di domande tendenziose. Il caso di Eldberg era diverso: dovevo in qualche modo capire se fosse innocente o meno perché non avevo la benché minima intenzione di perdere la mia prima causa con un caso e un cliente del genere. E finalmente, con quella mia ultima domanda, riuscii a tirare fuori un'emozione dal giudice. - Lei crede davvero che avrei potuto davvero prendere la mia figliastra, caricarla in macchina, legarle mani e piedi, spogliarla, violentarla fino a sfondarle l'utero e tagliarle la gola?!- gridava quasi e la sua voce aveva perso quel tono impostato di estraneità totale rispetto ai fatti. Batté il
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pugno sul tavolo un paio di volte, facendo tintinnare le posate e i rovesciare un bicchiere. Simon e Aaron, che erano rimasti muti per tutta la sera, decisero di riporre in me tutta la loro fiducia e continuarono ad osservare un religioso silenzio. Ma erano pallidi e tesi come due condannati a morte. Fissai Eldberg, affatto intimorita dalla sua reazione: - Quanto mi ha detto fin'ora, tutte le nostre conversazioni future e qualsiasi dettaglio inerente a questo caso è coperto dal segreto professionale Mr Eldberg. Come legale della K&F sono onorata di essere il suo avvocato. Questi,- e gli allungai un biglietto da visita, - sono i numeri di telefono ai quali mi troverà reperibile ventiquattr'ore al giorno. Il codice deontologico al quale mi atterrò durante la nostra collaborazione lo conosce forse meglio di me. La consiglio di non rilasciare mai dichiarazioni alla stampa, di nessun genere, e di far parlare sempre me come suo portavoce in pubblico riguardo al suo capo d'imputazione. E adesso, se non vi dispiace, esco a fumare una sigaretta.- L'ultima frase fece alzare gli occhi al cielo a Simon, scuotere il capo ad Aaron e sorridere il mio cliente. Mi conosceva e sapeva che alla fine di ogni arringa, per cinque anni mi ero rivolta in quel modo a lui e alla giuria. - Se non le dispiace Miss Rosberg, vorrei accompagnarla.- Ne sarei lusingata giudice.- gli sorrisi, porgendogli il braccio. Ci accomodammo nel giardino interno, su comode sedie di vimini, la notte era fresca e l'aria era piacevolmente frizzante: la primavera cominciava a farsi sentire sul serio, finalmente, dopo il rigido inverno newyorkese. Eldberg fumava il sigaro, lo ricordavo. Mi porse da accendere e notai che mi fissava con interesse. - Ha qualcosa da dirmi?- chiesi, in tono molto più rilassato. - Credevo non avrebbe accettato. So che lei è famosa anche per la rigida selezione che fa ai suoi clienti, prima di decidere se seguire un caso-Certo che si chiacchiera nell'ambiente...-Lei non se lo immagina nemmeno avvocato.- replicò lui, aspirando una lunga boccata di fumo azzurrognolo. - Uno dei motivi per cui non ho mai perso una causa in cinque anni giudice, è anche perché ho sempre cercato di difendere persone che fossero innocenti. Non si può vincere una causa in cui non si crede, ne conviene? - Fino a quando mi ha ritenuto colpevole?- puntai i miei occhi nei suoi, prima di rispondere:
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- Fino a che non l'ho sentita piangere.- rimase senza parole. Credeva che nessuno avesse notato che quelli che tratteneva a tavola non erano starnuti, ma singhiozzi repressi. - Complimenti per lo spirito d'osservazione. - Fa parte del mio lavoro.Simon e Aaron ci raggiunsero e prendemmo il caffè lì in giardino: la conversazione divenne finalmente a quattro soggetti e soprattutto il tono generale era molto più rilassato. Aaron, che era arrivato con Eldberg, si offrì di accompagnarlo a casa e io e Simon ci avviammo lentamente alla sua macchina. - Domani ti prenderai una lavata di testa Eyes- mi disse sorridendo. - Se Aaron si azzarda a dirmi qualcosa rinuncio al caso. Puoi dirglielo dopo avermi accompagnata a casa-, replicai asciutta. E feci finta di non notare l'espressione languida nei suoi occhi. - Cosa ti dice che non salga con te? - Cosa ti dice che ti permetterò di salire?- in tutta risposta accostò la macchina e mi baciò con un impeto tale che istintivamente mi ritrassi. Senza staccarsi dalle mie labbra, la sua lingua che indugiava al contatto con la mia, cominciò ad accarezzarmi il collo, lievemente, per poi scendere con studiata calma verso il seno, poi sui fianchi e infine, senza che io potessi in alcun modo oppormi, insinuò la mano destra tra le mie cosce. Aveva vinto. Di nuovo. Mi staccai da lui ansante e, cercando di mantenere un tono di voce dignitoso, gli chiesi perché ancora non avesse acceso il motore. Lo volevo nel mio letto, sopra di me, dentro di me, vicino a me. Volevo dormire con la testa sulla sua spalla e la sua mano appoggiata al mio grembo, sentire il suo odore e vedere il suo viso di eterno ragazzino appena sveglia. Non ero ancora riuscita a quantificare bene quanto lo amassi...forse non l'avrei nemmeno mai capito ma non mi importava: avevo avuto altre storie e mai, nemmeno con Simon, mi ero mai sentita completamente in equilibrio, ma questo era un problema mio. Mi ero stancata molti anni prima di pretendere di raggiungere la perfezione con un compagno, ma Simon era senza dubbio quello con cui mi era parso di avvicinarla di più. Quando infilai la chiave nella toppa mi accorsi che le mie mani tremavano come quelle di una tredicenne ed entrambi ci ridemmo sopra. Simon mise la sua mano sulla mia e mi aiutò ad aprire. Poi chiuse con un calcio la porta alle nostre spalle e io dimenticai una ragazza violentata e uccisa a soli ventidue anni, dimenticai un padre
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forse ingiustamente accusato, una famiglia distrutta dal dolore e una violenza che non aveva ragione d'essere, tanto era efferata e brutale. Per me, con Simon che al buio della mia stanza che mi sfilava la camicia e mi baciava come se non ci fosse stato un domani, quella notte non c'era spazio per l'orrore. C'era solo l'amore. Quello vero. O almeno di questo mi convincevo in quei momenti. Il telefono suonò in concomitanza con il campanello: sollevai gli occhi dalle migliaia di carte cosparse per tutto il tavolo della cucina per controllare l'ora: le nove. Risposi al telefono mentre mi trascinavo a controllare chi fosse e non appena riconobbi Edward sotto un paio di occhiali da sole che lo facevano sembrare una mosca, mi ricordai che era domenica. - Simon cosa c'è?- biascicai mentre aprivo la porta. - Scusa se ti ho svegliata. - Magari. Siamo a tre notti in bianco con questa, vai tranquillo. Novità?- salutai mio fratello con un cenno del capo e lo invitai con un gesto della mano ad accomodarsi. - Ti passo a prendere alle cinque questo pomeriggio. Hai impegni? - No, a quell'ora sono libera. Per andare dove? - Da Eldberg. Ha bisogno di parlarti. - Non ho ancora letto i giornali. Ci sono stati sviluppi? - Beh, sì. Ah, Eyes...- Si? - Non leggere i giornali. A dopo.- e chiuse la comunicazione. Ottimo, come minimo avevano ritrovato l'arma del delitto autografata con le impronte di Eldberg. Decisi di preoccuparmene dopo: erano giorni che non mettevo il naso fuori di casa per spulciare i dossier sul mio cliente e come se non bastasse ogni momento di più il cerchio si serrava intorno alla sua colpevolezza. La prima udienza era tra tre settimane e avevo una paura indescrivibile di fallire. Cercai Edward, era in cucina che si preparava il caffè. - Nottataccia?- mi chiese. - Abbastanza, si vede così tanto? - Beh, sei struccata, sembra che tu abbia messo la testa nel frullatore e il tuo look la dice lunga sul resto. Ti vedo in queste condizioni solo quando non esci di casa per lavorare a un caso, quindi deduco che l'omicidio
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Eldberg ti dia piuttosto da fare. Caffè? - Si grazie, è il quindicesimo da ieri sera. E ho anche finito le sigarette. - Te le ho comprate io, tieni. Immaginavo ne avresti avuto bisogno. Però non ho fatto in tempo a fare la spesa. - Meglio, così metterò il naso fuori di casa. Hai sentito Andrew? - Si, lui si occupa del dolce. Sarà qui intorno a mezzogiorno. - Allora sarà meglio darsi una mossa.- sentenziai, afferrando la borsa. Sembravo uscita da un summit presidiato dal popolo di Seattle: jeans sdruciti, giacca di pelle nera, sciarpa di seta colorata annodata alla meglio intorno al collo e mio fratello l'aveva già detta lunga sui miei capelli. Mi guardò scettico ma alla mia occhiata iniettata di sangue evitò di fare qualsiasi commento: mi seguì in silenzio e in una decina di minuti raggiungemmo il centro commerciale. Era una piacevole domenica primaverile: si vedevano coppie fare jogging, madri con i passeggini, gente che portava a spasso il cane. Insomma, tutti si godevano il sole e il cielo azzurro. Tutti tranne me, ovviamente, ma fosse cascato il mondo, non avrei comunque rinunciato alla mia domenica. Anche perché, se solo avessi tentato di rimandare anche una sola volta il pranzo, sarei stata disconosciuta da entrambi i miei fratelli; ero più che certa che non mi avrebbero più rivolto la parola per mesi. E comunque ci tenevo troppo anche solo per pensare di fare una cosa del genere: cucinare mi era sempre piaciuto, mi rilassava; farlo per i miei fratelli maggiori aveva ancora più importanza. Ci vedevamo poco, ognuno dei tre aveva una vita piuttosto frenetica e indaffarata, così ci eravamo ritagliati quello spazio solo per noi: tre ore in cui chiudevamo i nostri problemi fuori dalla porta e pensavamo solo a stare bene. Comprai dei filetti di manzo, verdura a volontà e Eddie si occupò del vino. Ed esagerò, come suo solito. - Perché tre bottiglie?- gli chiesi, con tono inquisitorio, una volta fuori dal supermercato. - Una è per brindare al tuo nuovo caso e l'altra è per il pranzo. - Ok, e la terza? - Oh, la terza...beh, quella è per i tuoi momenti tristi.- lo fissai interrogativa. Eddie fece un gesto ampio con la mano, come per trovare le parole giuste. - Di solito quando lavori a un caso normale non esci per mesi, non mangi, fumi come una disperata e ti viene l'ansia. Almeno bevici su un calice di vino buono, per dimenticare.- scoppiai a ridere. Eddie e Andy
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erano terapeutici: poteva essermi successo di tutto durante la settimana, ma appena passavo del tempo con loro mi sentivo improvvisamente più leggera. Gli chiesi come avesse passato la settimana, mentre mi accingevo a preparare il pranzo. - Niente di che, le solite cose. Il lavoro è sempre tanto e io sono più a pezzi del solito. - Lyla?- domandai, facendo attenzione a non ustionarmi con l'acqua bollente. Lyla era la ragazza di Eddie: vivevano insieme dal primo anno in cui avevo cominciato a lavorare alla K&F e più o meno erano fidanzati dagli anni dell' università. - Oggi è da sua madre, è tornato Kevin dall'Inghilterra.- mi informò Edward. - E chi è Kevin? - Suo fratello. Sei incorreggibile, non ti ricordi mai niente. - Guarda che non sapevo che Lyla avesse un fratello. E vive in Inghilterra? - Già, non si è voluto trasferire negli Stati Uniti. So che si è pagato l'università da solo e che adesso fa il grafico per un periodico di Londra. Sembra guadagni bene. É un tipo strano, l'ho conosciuto l'anno scorso quando siamo andati a trovarlo per Natale. Non che Lyla fosse la persona più quadrata del mondo: faceva la stilista e si confezionava gli abiti personalmente. Non l'avevo mai vista vestire di un colore sobrio, di solito prediligeva il rosso rubino e il giallo e aveva i capelli viola. E, come se non fosse stato sufficiente, nel tempo libero si occupava di pittura e suonava in una band punk rock. Ancora non capivo come lei ed Eddie potessero andare così d'accordo: erano l'incarnazione della teoria degli opposti. Mio fratello lavorava in un ufficio immobiliare, il look più osé per lui era al massimo jeans e t-shirt, ascoltava musica classica e jazz, beveva solo vino italiano e amava andare a teatro. Era proprio un dandy inglese e stava da quasi dieci anni con una ragazza che sembrava la figlia di Sid Vicious. - Comunque si fermerà per un mesetto buono.- mi informò Eddie, distogliendomi dai miei pensieri. E per poco non mi cadde una teglia piena di verdure a terra. - Chi? - Si vede che non dormi da giorni.- replicò, accendendosi una sigaretta e porgendomene una, che accettai volentieri. - Il fratello di Lyla, si fer-
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ma circa un mese a New York. - E allora? - Beh, non ti interessa conoscerlo? - Dovrebbe? - Ho detto che è un tipo strano, ma piace alle donne. - Ti risulta che io abbia altri interessi Eddie? - Verso un uomo di dieci anni più grande di te. Il tuo capoGli sorrisi. Non ce la poteva fare, anche se ci aveva sempre provato; a Eddie Simon non era mai piaciuto dall'inizio. Non mi aveva mai spiegato il vero perché, diceva che era qualcosa che sentiva a pelle e che non l'aveva mai convinto, ma io sospettavo ci fosse un motivo ben preciso per questa sua antipatia. E, da bravo fratello maggiore, lo palesava senza farsi il benché minimo problema. - La prendo come una sfida: invita Lyla e suo fratello a prendere una caffè dopo pranzo e te lo dirò io se il ragazzo piace o no alle donne. Mentre lui si spostava sul balcone per telefonare, la mia mente corse inevitabilmente all'enigma intricatissimo che per tre giorni e tre notti avevo studiato senza sosta: Eldberg non aveva niente a suo favore: la totale mancanza di alibi, le sue impronte trovate sulla scena del crimine, sulla figlia, la pelle di lui sotto le sue unghie e due denunce per schiamazzi notturni a suo carico nell'ultimo mese da parte dei vicini, allarmati dalle liti spaventose che aveva con la ragazza, insomma tutto era contro di lui. Mi ero presa una bella gatta da pelare e da quello che mi aveva annunciato Simon poco prima al telefono, c'erano state sicuramente delle evoluzioni nel caso tutt'altro che piacevoli. Il giorno dopo il nostro primo incontro, Eldberg era venuto nel mio ufficio e avevamo avuto un colloquio a porte chiuse per tre ore: non avevo lasciato nemmeno a Simon e Aaron la possibilità di prendervi parte; il caso era mio e non volevo che nessuno dei due mi influenzasse. Ero fatta così e ad Aaron la cosa non diede nessun fastidio: lui era strato il mio maestro e il mio mentore in mezzo agli squali della K&F: la sua prima lezione di sopravvivenza era stata proprio quella: quando un avvocato lavora a qualcosa di importante, deve solo seguire la sua pista, senza ascoltare i consigli di nessuno, giusti o infondati che siano. Simon invece se l'era presa a morte, come faceva sempre quando lo escludevo dal mio lavoro. Ero più giovane e inesperta di lui, inoltre il fatto di essere in rapporti teneri con me a volte lo confondeva sulla natura del nostro lavoro e ci portava a litigare per ore, ma io non abbandonavo mai le mie posizioni.
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Sapevo che lui voleva solo aiutarmi, ma il cuore e la professione dovevano sempre andare su due binari paralleli, per come la vedevo io. Avevamo avuto una discussione piuttosto acerba la sera precedente in cui mi aveva accusata di essere la solita testarda egoista. Dovevo tenere comunque conto che lui aveva più esperienza di me, che io ero ancora agli inizi e che il caso che avevo deciso di accettare richiedeva la massima collaborazione da parte di tutti. Io lo lasciavo sfogare, gli permettevo di andarsene sbattendo anche la porta e ritornavo al mio lavoro. Una volta sbollita la rabbia, avrebbe telefonato sorvolando sulla questione: lo conoscevo ormai da troppo tempo. O almeno, così credevo. Corrugai la fronte, come colta da un improvviso disagio: ultimamente mi ero chiesta con una frequenza quasi preoccupante se io e Simon ci conoscessimo davvero, come se qualcosa nel nostro rapporto mi infastidisse. Sentivo un leggero malessere quando se ne andava dal mio appartamento al mattino presto, mentre ancora ero mezza addormentata, o quando non rispondeva alle mie chiamate. Nell’ultimo periodo lo vedevo più assente del solito: non era mai stato un campione di costanza, ci eravamo ritagliati da subito i nostri spazi, anche perché all'inizio lui aveva appena divorziato e non poteva dedicarmi il tempo che voleva. Era come se adesso invece, il tempo per noi non mi sembrasse più sufficiente. Ovviamente davo la colpa al mio nuovo caso, ai due precedenti appena vinti che mi avevano lasciata già piuttosto stremata, alla recente visita di mia madre a New York che mi aveva tenuta distante da lui e al solito "insieme di cose" al quale ci si aggrappa sulle prime per convincere se stessi che il problema è un altro. Ma io ero un avvocato e il mio mestiere era analizzare le cose: con la stessa lucidità con la quale scandagliavo un caso, suddividevo il problema che riguardava la mia vita privata; nonostante sapessi benissimo che questo poteva portarmi a scoprire cose fondamentalmente spiacevoli. - ...ono venire?- la domanda di Eddie mi giunse per metà da una distanza lontanissima. Mi volsi di scatto e per poco non lo ustionai gravemente con la padella che tenevo in mano. Mi fissò con la solita espressione contrariata e divertita al tempo stesso. Già, perché doveva essere proprio uno spasso ammirarmi in quello stato: con le borse sotto gli occhi, vestita come una barbona della più infima categoria e con un livello di lobotomia cerebrale sopra la media tollerata. - Stavi dicendo Eddie? - Ti stavo chiedendo, prima di rischiare la vita, per che ora devono ve-
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nire a prendere il caffè. Diedi appuntamento ai miei ospiti per le due e mezzo e in quel preciso istante Andrew suonò alla porta. Un odore di torta alla cannella invase la cucina, quando mio fratello vi irruppe, avvicinandosi per abbracciarmi. Il mio dolce preferito, non se lo dimenticava mai: era il fratello maggiore, tra noi c'erano sei anni di differenza, mentre erano solo tre quelli che mi separavano da Edward, ma non c'era niente da fare: mi avrebbero sempre considerata la piccolina della famiglia, da coccolare, viziare e proteggere. "Anche se hai più palle di noi due messi insieme", aveva sentenziato una volta Eddie, "per noi non cambia assolutamente niente". Eravamo a Londra, un Natale di tre anni prima e un tizio strano, nel centro di Trafalgar Square, aveva cercato di infastidirmi. Nel giro di mezzo secondo se l'era dovuta vedere con quei due pitbull inferociti in cui i miei fratelli erano capaci di trasformarsi, quando qualcuno osava sconfinare il livello di guardia con me. E per le due ore seguenti, se avessi preteso da loro un penny per ogni volta in cui mi avevano chiesto come mi sentissi, sarei diventata miliardaria. Lì a New York mi lasciavano relativamente in pace perché vivevo a Manhattan, ma se mi fossi trasferita in un'altra zona, avrei potuto scommettere tutte le azioni dello studio legale che avrebbero assoldato un poliziotto personale per vegliare sotto la mia finestra. Anche se la loro eccessiva protezione nei miei confronti a volte mi infastidiva, avevo imparato a conviverci e ci davo il peso che meritava: arrabbiarsi con i familiari, soprattutto con i fratelli maggiori, non aveva molto senso e non portava a nessun risultato. Era meglio far finta di niente, dar loro ragione e poi fare quello che volevo: in quasi trent'anni me l'ero cavata splendidamente così. - Cosa si mangia?- chiese Andrew, sedendosi al suo posto e versando dal vino in ciascun bicchiere: apprezzava la buona cucina e soprattutto era d'appetito; quando li avevo a pranzo entrambi, facevo la spesa per circa cinque commensali. Ci sedemmo e tra una volata e l'altra al piano di cottura riuscii a fare la mia figura, come ogni santa domenica che si rispettasse a casa Rosberg. Incredibilmente più rilassata di qualche ora prima, cominciai a raccontare ai miei fratelli i particolari non protetti da segreto professionale del mio caso; ovvero quello che loro avevano letto sui quotidiani epurato dalle invenzioni dei giornalisti riguardo alle sedicenti dichiarazioni che il mio cliente avrebbe rilasciato alla stampa. Ma quando mai, se dal no-
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stro colloquio in ufficio avvenuto tre giorni prima Eldberg non aveva ancora messo il naso fuori di casa? E comunque, anche se fosse andato in discoteca, ci avrei scommesso tutto il mio guardaroba firmato, la mia Fender Stratocaster e la mia collezione di vinili originali che si sarebbe fatto mettere in galera, piuttosto che parlare con un giornalista. Lo sapevano anche i piccioni appollaiati sulle balaustre del tribunale che Thomas Eldberg detestava parlare in generale, figuriamoci se si metteva a rilasciare dichiarazioni ai media. - Ma credi sia colpevole?- mi chiese Eddie a bruciapelo. E, come al solito, gli risposi con un'altra domanda. - Perché ti sei fatto quest'idea?- facendo ruotare leggermente il vino nel calice, il solito gesto vago della mano destra che accompagnava ogni sua replica che implicasse un'opinione, mio fratello rispose: - Non lo so, ma da come ne parli sembra che quest'uomo ti dia più problemi che spunti per vincere. - Non ho spunti per vincere, credimi. Non per ora almeno. - E..?- incalzò Andrew. Li fissai contrariata, aggrottando le sopracciglia e sospirai. Dovevo dirlo a qualcuno, altrimenti sarei scoppiata prima dell'udienza preliminare. - E lui non sembra minimamente interessato riguardo all'esito del processo. Non gli importa di essere il primo indiziato, non mostra interesse per quello che dicono di lui alla tv e sui giornali, non mostra nessuna emozione, come se lui fosse ancora dall'altra parte della barricata. Ma credo che sia la deformazione professionale: l'omicidio è avvenuto poche settimane fa e Eldberg non ha ancora realizzato che dovrà sedere al banco degli imputati e che il martelletto, questa volta, lo batterà qualcun'altro al suo posto. - Ok, ma non mi hai ancora risposto.- chiosò Edward. Credevo ogni volta di riuscire a fregarlo con quella tecnica di retorica: ci cascavano tutti, al liceo mi ero portata a casa dei voti invidiabili senza aprire un libro e anche ad Harvard l'avevo spuntata diverse volte utilizzandola...eppure con mio fratello non funzionava mai. Sembrava immune a tutti i miei trucchi e ogni volta pregavo il cielo che non mi capitasse mai uno come lui tra i giurati. - No Eddie, non credo sia colpevole. Ma semplicemente perché non credo che un padre, nonostante non sia il suo padre naturale, possa violentare e sgozzare una figlia ventenne solo perché era un po' esuberante. - Ragioni da essere umano.
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- Ragiono per quello che sono: un animale razionale, un avvocato, una donna e una potenziale madre. Non puoi giocare a fare Dio nel mio lavoro, devi metterti allo stesso livello delle persone che difendi. La sua mancanza di emozione può essere dovuta allo shock subito... - O alla famosa "tranquillità dell'assassino".- terminò Andrew. Scuotendo il capo e alzandomi per rigovernare prima che arrivassero i nostri ospiti li presi in giro entrambi, anche per chiudere quel discorso che per me si stava facendo sempre più spinoso, a causa di tutto ciò che sapevo e che non potevo rivelare a nessuno. - Guardate CSI un po' troppo spesso voi due. Non ve l'ha mai detto mamma che troppa tv brucia il cervello? Risero entrambi, probabilmente perché si erano davvero ricordati quando nostra madre, al ritorno dal lavoro, li sgridava perché erano incollati davanti al televisore dal primo pomeriggio: io, che come diceva Eddie, me la tiravo anche da piccola, preferivo starmene in camera mia a leggere e a disegnare e non venivo mai ripresa. - Non è colpa mia se anche a sei anni dimostravo più maturità di voi due.- tagliai corto davanti all'ennesima richiesta di giustizia da parte loro, dopo più di vent'anni. - Mai discutere con un avvocato.- replicò Andrew, alzando entrambe le braccia in segno di resa e accendendosi una sigaretta. Come per un tacito accordo, anche io e Eddie lo imitammo e quando arrivarono Lyla e suo fratello, la cucina sembrava una fumeria d'oppio in grande stile: cosa che, immaginavo già, mise Lyla subito a proprio agio. Mi buttò le braccia al collo e mi fece i complimenti per il mio nuovo look da rocker alternativo e io feci finta di non notare l'espressione divertita negli occhi di Edward. - Mi piacerebbe vederti così anche in tribunale sai? Te lo potresti permettere Eyes.- rincarò la dose lei. See, pensai, come no tesoro, se avessi uno straccio di elemento a mio favore mi presenterei anche nuda davanti alla corte. Senza dare nell'occhio, mentre preparavo il caffè e i dolci, sbirciai Kevin di sottecchi. Bello era bello, nessuno poteva metterlo in dubbio: moro, alto, spalle larghe e occhi scuri dal taglio leggermente allungato. Il tipo d'uomo che con un sorrisetto sghembo e l'aria da bel tenebroso faceva cadere tutte le donne ai suoi piedi...inoltre l'accento britannico, si sapeva in tutto il mondo, mieteva vittime con una facilità che eguagliava quasi la peste bubbonica. Ma non si era presentato e dal laconico "ciao" che mi aveva dedicato senza nemmeno guardarmi dritto
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negli occhi, l'avevo già catalogato come il solito stronzetto presuntuoso che si dava delle arie solo perché faceva un lavoro "cool". Come se non ce ne fossero anche nella Grande Mela, di grafici pubblicitari: che se la tirasse un po' di meno il figliolo, che non era proprio la giornata adatta per farmi girare le scatole. Indossava una giacca di velluto verde, una camicia di seta viola e un paio di jeans a sigaretta neri: le All Star, immancabili per gli appartenenti alla categoria dei neo artisti, come amavo definire i tipi come lui, erano ovviamente in tinta con la giacca. Non aveva un decimo dello stile fresco e innovativo di sua sorella e mancava completamente di spontaneità. A parte questo, per somma grazia di Dio, sua altezza il grafico si astenne dal parlare per circa tutta l'ora e mezza che si fermò nel mio appartamento, eccezion fatta per una non troppo velata critica all'orologio a cucù che troneggiava in un angolo del salotto. - Lo hai messo lì per dare un effetto vintage all'arredamento minimalista della casa?- chiese, con un tono di voce strascicato e strafottente insieme. Se poteva avere ancora qualche remotissima speranza non di starmi simpatico, ma di risultarmi sopportabile, se l'era giocata in pieno. Il mio cucù, l'unica cosa che non avevo lasciato a Londra e che aveva sempre fatto parte dell'arredamento della mia stanza, era un regalo della mia nonna materna. E tutti, persino Aaron, sapevano che nessuno al mondo poteva permettersi di sfottere quel parallelepipedo di legno oramai non più funzionante, pena la morte civile da parte della sottoscritta. Mentre tutti, Lyla compresa, trattenevano il fiato, mi accesi una sigaretta e replicai, con un sorriso tranquillo e un tono di voce sereno: - No caro, l'ho messo lì perché mi piaceva. E, scusa se mi azzardo a chiederlo, ma cosa significa Vintage?- A Kevin, nel notare la mia totale ignoranza del suo slang, venne quasi un colpo al cuore. Uno pari bastardo, pensai. E vedi di non tornare sull'argomento, se non vuoi che ti strappi la pelle dalla faccia a unghiate. Ovviamente, queste turpi parole le custodii gelosamente in testa: sapevo essere tagliente e crudele mostrando una diplomazia invidiabile, cosa che metteva solitamente l'avversario in una posizione di svantaggio ed evidente disagio. Chiacchierai con Lyla allegramente per tutto il resto del tempo, non degnando più nemmeno di uno sguardo suo fratello. Quando se ne andarono, mentre ero ancora sulla porta appena chiusa alle loro spalle, vidi Eddie porgermi una sigaretta già accesa e Andrew un calice di vino.
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- Dio, l'ho presa così male?- sorrisi loro, accettando di buon grado entrambe le cose. Non risposero, si limitarono a scoppiare a ridere e io li seguii. Un'ora dopo, dentro la spider di Simon, ancora sghignazzavo di tanto in tanto lungo il tragitto che ci portava alla residenza di Eldberg. - Non sembravi così rilassata stamattina.- commentò lui lanciandomi una strana occhiata, come di...rimprovero. Non gli raccontai dell'episodio del cucù: Simon non capiva certe cose, era troppo serio. - Solita domenica fra fratelli, sai com'è...aiuta a sciogliere la tensione. - L'importante è che tu riesca a ritornare seria quando saremo dal tuo cliente.- replicò lui asciutto, sottolineando, mi parve, il "tuo" appena pronunciato con una nota di rancore. Lo mandai silenziosamente a quel paese: non mi andava di tornare ad essere di cattivo umore, ma come per magia, quella semplice e lapidaria frase mi fece perdere di colpo l'ilarità così faticosamente conquistata in quella manciata di ore. Forse è a causa della differenza d'età, mi trovai a pensare, fissandolo di tanto in tanto di sottecchi: a volte fa fatica a capirmi. Sì sorella, vallo a raccontare alla posta del cuore di Cosmopolitan: Simon era sempre stato così, e prima di quel giorno non gliene avevo mai fatto una colpa. Aveva mille ottime qualità: era calmo, dolce e premuroso. Ma non sapeva vivere fuori dal giudizio degli altri e aveva sempre cercato di bloccarmi. Solo che, questo mi auguravo se ne fosse reso conto da solo, cercare di frenare una che nello stato di New York, dopo l'arringa finale, dichiarava alla corte che aveva bisogno di una sigaretta, era un'impresa folle. Ma quell'uomo era tenace e non ero convinta si sarebbe arreso facilmente. Del resto era anche questo uno dei tanti motivi per cui lo amavo così tanto...no? Quello che mi colpì maggiormente della villa di Eldberg non fu il parco chilometrico che circondava la casa, l'atrio immenso arredato con squisita ricercatezza, né tanto meno la servitù in divisa, ma il fatto che, nonostante tutti gli sfarzi di cui ovviamente il giudice si era riservato, conservasse un'umiltà e una modestia che trapelavano da ogni suo gesto e parola. Ci accolse gentilmente, con un sorriso mesto e una stretta di mano e in quel momento, in casa sua, lo vidi per quello che veramente era: un uomo distrutto dal dolore e dall'accusa. Capii perché non aveva mostrato nessuna emozione nei nostri precedenti incontri: era sempre il giudice di New York, quello che fino a poco tempo prima era visto da tutti come la reincarnazione dell'angelo di Dio, pronto solo a dispensare
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giustizia e a punire i "cattivi" e che adesso invece veniva visto come uno sporco assassino, una feccia schifosa da eliminare. Maledissi i media e la stampa, non appena i miei occhi incrociarono i suoi: la sua vita era stata dilaniata, fatta letteralmente a pezzi nel giro di qualche giorno e seppi immediatamente che se anche fossi riuscita a scagionarlo, la vergogna di cui lo avevano coperto non gliel'avrebbe mai levata dal cuore nessuno. Si erano presi la sua dignità di uomo, solo per tirare qualche copia in più: se fossi stata dalla loro parte forse avrei fatto lo stesso. Ma non lo ero: io avevo il compito di lavare via quella patina di cattiverie che gli erano state appiccicate addosso. Lì, nel suo salotto, mentre ascoltavo quello che aveva da dirmi, mi convinsi finalmente della sua innocenza. Andavo a istinto ovviamente, ma se non avevo mai perso una causa forse era proprio grazie a quello. "L'istinto bambina." mi diceva Aaron quando gli facevo da assistente. "L'istinto è quello che guida le azioni di un buon avvocato: ricorda che niente è mai quello che ti sembra e che i dossier sono inutili. Il tuo cliente può anche aver evaso il fisco per una vita, ma questo non fa di lui un assassino. E quello che ogni mattina porta fuori il cane a pisciare e paga regolarmente la tassa sui rifiuti come minimo è lo stupratore che cercano da dieci anni. Fidati dell'istinto Eyes, seguilo." Le prime volte credevo vaneggiasse, consideravo assurda questa sua teoria. E non mi ero resa mai conto, almeno fino a quel momento, di quanto l'avessi sempre rispettata. - Le mie impronte sono ovunque.- balbettò, servendosi da bere e chiedendo se ne volevamo. Rifiutammo entrambi. - Questo è irrilevante, gliel'ho già detto.- replicai pacatamente. Era casa sua, quella prova non lo inchiodava più di tanto. Il problema più spinoso, per me, era stabilire la sua innocenza con la totale mancanza di alibi. Nessuno lo aveva visto, aveva il cellulare staccato (la moglie aveva provato a chiamarlo) e sua figlia aveva una prova inequivocabile di lotta con lui proprio sotto le sue unghie laccate di rosa. L'udienza era pericolosamente vicina e io non sapevo veramente dove diavolo andare a parare. - Uno se ne sta a casa sua tranquillo ad ascoltare Mozart e questo basta a incriminarlo per omicidio...e pensare che ne mandavo a decine in galera io, per motivi ancora più farraginosi...- disse in un bisbiglio, come se dialogasse con sé stesso. Gli misi una mano sul ginocchio, costringendolo a guardarmi finalmente negli occhi.
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- Non li ha mandati in galera lei Thomas, ma la giuria. E forse anche l'incapacità dei loro avvocati e la loro evidente colpevolezza. Ma non è il suo caso.Lui mi fissò, quasi assente ma con una remota ombra di un sorriso a increspargli le labbra sottili. - Allora dormirò tranquillo stanotte: sono innocente ed ho lei a difendermi. L'unico problema forse sarà la giuria, ma, da quello che ricordo, lei se li mangia a colazione i giurati.- gli sorrisi di rimando: - Non esageri, così mi dipinge come uno squalo spietato.- Non era nelle mie intenzione. Loro,- disse, indicando con un cenno del capo alla televisione accesa sul notiziario delle sei. - loro sono degli squali. Mi hanno rovinato: sa che mia moglie non può nemmeno più andare a fare la spesa? Le cameriere si sono licenziate dicendo che per i pedofili assassini non lavorano. Sa cosa vuol dire sopportare tutto questo? No che non lo sapevo, ma me lo potevo benissimo immaginare. Per tutta la durata del colloquio, che ci tenne impegnati un'altra ora buona in cui ci accordammo sulle domande che gli avrei fatto e su come si sarebbe svolta la prima udienza, della moglie di Eldberg non si vide nemmeno l'ombra. - Beh, è normale. Mettiti un attimo nei suoi panni.- mi disse Simon in macchina, mentre mi riportava a casa. - Sarà a pezzi: ti ammazzano la figlia, tuo marito è il primo sospettato e il fatto che tutti ti conoscano non rende le cose più facili. Gli diedi ragione: il rovescio della medaglia dell'essere personaggi famosi era proprio quello; la tua immagine veniva irrimediabilmente rovinata e distorta se ti beccavano anche solo a prendere a calci la macchina fotografica di un paparazzo. E se sei un giudice, simbolo inequivocabile di integrità, e ti accusano di omicidio, non serve nemmeno raccomandare l'anima a Dio: sei finito e basta. Le ultime ore di quel pomeriggio pieno di sole mi avevano letteralmente privata di ogni energia: pregai Simon di non salire perché volevo davvero solo dormire per dodici ore filate e stranamente notai che la cosa non lo infastidì minimamente. Nonostante la stanchezza, un po' mi dispiaceva: era la prima volta che notavo qualcosa di diverso, una specie di calo di interesse da parte sua, ma forse ero solo molto stanca e tendevo ad ingigantire le cose. Salii le scale ripetendomi come un mantra che sicuramente era per quello e che il mattino dopo avrei visto le cose più in prospettiva. Var-
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cata la porta non feci nemmeno in tempo a lanciare sul divano la borsetta di Vuitton, uno dei tanti regali di Simon, che il mio cellulare cominciò a trillare. La tentazione di non rispondere era ovviamente immensa, ma poteva essere benissimo Eldberg, o forse Simon che aveva cambiato idea e voleva trascorrere la notte con me, quindi aprii il flip senza nemmeno controllare il numero sul display. Non era Eldberg. Né tanto meno Simon. Era Franz, il mio migliore amico dai tempi dell'università, di cui tutti i miei uomini erano sempre stati gelosi, nonostante fosse patologicamente gay. A me francamente, della gelosia di Simon importava ben poco, quando si trattava di Franz: mi chiamava alle ore più strane e condividevamo confidenze intime come se lui fosse stato in realtà quello che effettivamente si sentiva: una donna. - Franz, sono stanca, non dormo da trentasei ore quindi per favore potresti... - Oh chicca, davvero non dormi da così tanto? Devi metterti un impacco ristrutturante sul viso, o ti verranno le occhiaie.- sorrisi, accendendomi una sigaretta e sprofondando nel divano, gli occhi chiusi. Alla fine, una chiacchierata frivola e rilassante prima di addormentarmi mi avrebbe fatto solo bene, mi dissi. Ovviamente non avevo fatto bene i conti con l'imprevedibilità che caratterizzava il soggetto con cui stavo al telefono. - Cosa fai?- mi chiese. - Fumo. Mi bevo un bicchiere di vino e poi ti saluto perché crollerò subito dopo. - Aprimi, dai.- la boccata di fumo che avevo appena aspirato mi andò di traverso e per poco non soffocai. - Cosa? Dio, non mi dire che sei qui... - Sotto la tua finestra cara. Se la aprissi per fare entrare un po' d'aria fresca, anziché ammazzare la tua epidermide con quell'aria condizionata maledetta che non spegni mai, sentiresti la mia voce. Sai che oltretutto l'aria condizionata rovina l'abbronzatura? - Franz!!!- gridai quasi, ferendogli sicuramente un timpano. - Ok ok, se non mi vuoi risalirò sul metrò delle undici e me ne andrò allo sbando per questa maledetta città...- il maledetto era lui, che con quella sua recitazione a regola d'arte dell'uomo prossimo al suicidio, avrebbe commosso anche un nazista. Sospirai, invitandolo a salire. Era sempre meglio fare tardi con lui e lasciarlo a dormire sul divano a boc-
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ca aperta, ma felice, piuttosto che subirsi le sue rivendicazioni per due settimane. Una volta che ero in casa con Simon non l'avevo fatto entrare e me l'aveva menata fino a farmi venire la depressione. Quando entrò in casa, guardandolo in faccia capii che, per una volta, non stava fingendo: se possibile, mi sembrò ancora più pallido del solito e i suoi lineamenti così spigolosi e duri, da olandese doc quale era, mi apparvero più tirati del solito. Franz aveva tratti nobili, una fronte alta e bianchissima, occhi grigi, un naso dritto e la bocca, carnosa e sempre atteggiata a broncio, gli conferiva un'aria infantile. - Hey...- riuscii solo a dire, mettendogli un braccio attorno alle spalle. Lui si abbandonò al mio abbraccio, senza dirmi niente. Lo feci sedere sul divano e misi dell'acqua a bollire: nonostante il tepore che c'era di fuori, qualcosa di caldo gli avrebbe fatto sicuramente bene. - Problemi di cuore?- gli chiesi, porgendogli una tazza di tè. - Sei proprio un'inguaribile britannica.- scherzò, senza guardarmi negli occhi e senza sorridere. Poi annuì, sospirando e accavallando le gambe. Quella era la posa che assumeva abitualmente quando cominciava a sfogarsi e prima di accovacciarmi sul divano accanto a lui, abbassai le luci della stanza e misi nello stereo un cd di Keith Jarret. - Ti è mai capitato di tradire una persona che amavi? - Tradire in che senso? Andando a letto con un altro?- chiesi. - Tradire e basta. Comunque si, il senso più o meno era quello. Ti è mai capitato di doverlo fare? - Non è un dovere Franz. E comunque no, lo sai, anche se una volta ne ho avuta tutta l'intenzione. Hai tradito Patrick?- azzardai a chiedere. - Stamattina sono andato a fare una corsa a Central Park. Non so perché, ma non avevo voglia di fare il tragitto di sempre sulla spiaggia.Caspita, mi dissi, da dove viveva lui, Central Park era piuttosto distante: ecco un effetto positivo di non fumare, al contrario di me, un pacco di sigarette al giorno. Ma comunque, anche se non fossi stata dipendente dalla nicotina, il problema sarebbe stato lo stesso, poiché io ero geneticamente programmata per aborrire qualsiasi tipo di sport. - E..?- incalzai, notando che non proseguiva. - E mi sono fermato vicino al lago, quello del "Giovane Holden", pieno di oche. Su una panchina...- Faceva fatica a proseguire e la voce gli si stava già incrinando. Lo abbracciai di nuovo, evitandogli il supplizio e l'umiliazione di dovermi dire quello che tanto avevo già capito da sola. - Sai cosa mi fa veramente incazzare?!- gridò, la voce resa stridula dalla
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crisi di nervi in corso. Teneva le gambe strette al petto e il viso schiacciato contro le ginocchia, cosicché mi era impossibile decifrare qualsiasi espressione: gli carezzavo la testa, cercando di infondergli quiete con quel gesto lieve e continuativo. - No...- bisbigliai, così piano che forse nemmeno mi sentì. - Era una donna, per la puttana! Eh, l'ironia della sorte, come si soleva dire. Già il tradimento ti uccideva in tutti i sensi, ma così era la beffa allo stato puro. Mi immaginai nella stessa situazione: Simon che baciava un altro uomo come baciava me. Simon che baciava un'altra donna come baciava me. Alla fine arrivai alla conclusione che mi avrebbe ferito e fatta arrabbiare allo stesso identico modo. Ma forse per un gay era diverso, una specie di fatto di principio o giù di lì. Franz aveva dovuto lasciare casa quando aveva detto la verità ai suoi genitori, era stato bersaglio di scherzi orrendi all'università e sul lavoro era stato discriminato in continuazione per tanto tempo. Ma non si era mai nascosto, né vergognato della sua natura: semplicemente, accettava il fatto di essere così e aveva combattuto per restare tale ed avere gli stessi diritti di un normale cittadino, riuscendoci. Forse, dal suo punto di vista, Patrick non aveva solo tradito lui, baciando un'altra, ma aveva deriso e rinnegato tutto quello in cui Franz aveva messo l'anima. E questo, lo immaginavo, faceva più male di qualsiasi altra cosa. Lo lasciai sfogare, nonostante stesse urlando come un pazzo furioso, gli permisi di ubriacarsi, dare pugni sui cuscini e piangere per un tempo lunghissimo in cui io gli presi la testa, me la misi sulle gambe e gli passai le mani tra i capelli. Non era la prima volta che quella scena si ripeteva, sapevo come trattarlo. Stranamente, nonostante la mia impressione iniziale, considerai la sua situazione ordinaria, abituale. Insomma, non ci diedi più di tanto peso, ma non per cattiveria, quanto più per abitudine. Ci era passato tante volte, e tante altre ne avrebbe ancora passate, perché era un passionale incostante che si innamorava facilmente e allo stesso identico modo veniva deluso. Dimenticai il vuoto dei suoi occhi quando gli avevo aperto la porta qualche ora prima, dimenticai l'insegnamento che Aaron mi aveva dato: non ascoltai l'istinto. E sapevo che prima o poi me ne sarei pentita, ma non immaginavo che quel momento sarebbe arrivato tanto presto. Daemon Carlyle era sempre stato uno stronzetto strafottente, sin dai
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tempi dell'università. Iscritto come me alla facoltà di legge, era solito far fruttare le sue giornate dietro alle ragazze e agli eventi mondani, piuttosto che interessarsi alla giurisprudenza. In breve cominciò a discostarsi dal nostro gruppo per entrare nella vera mondanità newyorkese. La sua condizione economica glielo aveva sempre concesso di base: suo padre era un console presso l'ambasciata britannica e tutti gli uomini della sua famiglia, da generazioni che perdevano la loro origine ai tempi della Regina Vittoria, erano stati membri della Camera dei Lord a Londra. Non c'era quindi da stupirsi del fatto che il giovane rampollo, una volta uscito da Harvard, non avesse cominciato a lavorare ma si fosse solo dedicato alla bella vita. Volendo proprio essere precisi, un'occupazione l'aveva anche, ma definirla una professione vera e propria sarebbe stato un affronto verso chi, come me, era arrivato al suo livello arrampicandosi sugli scivolosi muri dell'high society di Manhattan con le unghie e con i denti. Senza contare che io, tra l'altro, avevo avuto molta più fortuna rispetto ai miei coetanei. Daemon comunque non appariva su tutti i settimanali patinati solo perché era sposato con un'ereditiera, ma soprattutto per essere tra i primi golfisti più famosi e riconosciuti a livello mondiale. E, come dicevano tutti quelli del nostro giro, non c'era da meravigliarsi che un inglese detenesse un primato del genere...noi cittadini britannici eravamo eccellenti in tre cose fuori dalla madre patria: nella dizione, nell'eleganza e negli sport elitari come golf, equitazione e polo, che non richiedevano che ci sporcassimo troppo le mani bianche. "Si, e allora il rugby e il football, banda di mangia hamburger, chi ve li ha portati?", mi stupii di pensare quel grigio lunedì mattina, in piedi davanti alla bara di Jenny Eldberg . Anche se la notte prima fortunatamente avevo dormito bene, nonostante il russare costante di Franz, le occhiaie delle mie nottate precedenti non erano comunque diminuite e avevo optato per un paio di occhiali da sole strategici a lenti nerissime. Mi stringevo convulsamente al mio trench nero, sperando che la nebbiolina di quel mattino di aprile coprisse anche me, celandomi agli occhi di tutti, soprattutto a quelli di Daemon che, in piedi pochi metri davanti a me, non smetteva di fissarmi. Quando i becchini calarono la bara nella fossa e tutti cominciarono a lanciare piccole manciate di terra umida su quello che fino a poco tempo prima era stato un corpo pieno di vita e desideroso di conoscere il mondo, voltai lo sguardo altrove.
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Pensieri cupi e tristi mi riempivano il cuore e lo strazio dei due coniugi Eldberg mi risultava davvero insopportabile: come legale del giudice era un mio dovere essere presente, per evitare soprattutto che il codazzo di giornalisti fuori dal cimitero martellassero il mio cliente, già notevolmente provato dalla cerimonia funebre. Per allontanare da me quello stato di disagio che cresceva sempre di più, fissai lo sguardo su Daemon: perché era lì? Era un conoscente di Jenny? Forse era stato un suo amante? Era solo: sua moglie, le sue guardie del corpo, i soliti amici erano rimasti a casa e, nonostante fossero anni che non lo vedevo di persona, notai che sembrava aver perso la solita strafottenza che gli era tipica. La mia mente cominciò a vagare lontano, ai tempi di Harvard, anni in cui il mio più grande pensiero era decidere cosa indossare per una delle tante feste universitarie date dai figli dei ricchi dell'Upper West Side e di Manhattan e mi tornò alla memoria una serata in particolare. Era maggio, i corsi stavano finendo ed eravamo stati invitati a uno dei party più esclusivi, dati appunto dalla figlia di Clarkson, il magnate della stampa scandalistica, futuro suocero di Daemon Carlyle. Ricordo che per l'occasione indossai un abito di seta a stampa floreale, sulle tinte del rosa, ai piedi portavo un paio di Manolo molto semplici in tinta con l'abito e avevo ancora i capelli lunghi, sciolti lungo le spalle. Mi sentivo bellissima ed ero felice, sapevo che mi sarei divertita un mondo. Mi accompagnò Fanz con la sua spider rossa e un completo a giacca che sicuramente lo rendeva l'uomo più bello della festa. Matt, il mio ragazzo di allora, non era potuto venire perché costretto a partecipare a una riunione tra cugini in Nevada, e sarebbe tornato solo il giorno dopo, ma francamente questo non mi rattristava nemmeno un po'. Quella festa era stata il mio sogno di sempre e non me la sarei fatta scappare nemmeno se me l'avesse chiesto il Papa di non andarci. I miei fratelli con le rispettive ragazze arrivarono poco dopo di noi, insieme a tutti gli altri "Brits". Eravamo perfetti, o almeno io la pensavo così: gli uomini avevano tutti vestiti a giacca scuri e tra noi ragazze non ce n'era una il cui abito passasse sopra le caviglie. Mi sentivo a mio agio, chiacchieravo e sorridevo e mi lusingavano gli sguardi e gli approcci degli altri ragazzi presenti. Ero la più piccola e la più bella del gruppo, la più appariscente e la più invidiata dalle mie coetanee americane: perché Matt era ricco, perché non ero di New York e soprattutto perché nel giro di quattro anni mi ero imposta su tutto il jet set under 25 della grande mela, dimostrando a tutte loro, senza nemmeno troppa fatica, quale fosse la vera
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differenza tra l'avere e il non avere stile. Ovviamente questi erano i pensieri di una ragazza giovane, inesperta, ingenua e soprattutto onesta. Perché, nonostante i miei difetti, la mia alterigia e la mia superbia infinita, io ero sempre stata una persona profondamente sincera. E ovviamente ero stra-convinta che il mondo girasse così per tutti. Ma era indubbio che mi stessi sbagliando di grosso. Quella doveva essere la mia notte, la mia occasione per poter entrare, senza troppa fatica, in un mondo che invece mi conquistai poi diversamente. Invece fu la mia prima e, fino ad ora, unica disfatta, poiché Matt non era affatto in Nevada, ma su un divanetto del privée intento a dedicarsi con molto interesse alla lingua di Cathy Clarkson. Ricordo che avevo bevuto qualche flute di troppo, e che questo non fece che peggiorare la mia reazione. Ricordo anche che Franz, che forse aveva notato la scena prima di me, aveva cercato con una scusa di portarmi fuori dalla sala, ma con una frazione di secondo di ritardo perché il mio radar aveva già captato il traditore. Ci tengo a precisare sempre che il traditore in questione, qualche mese prima dell'increscioso accaduto, aveva messo al dito della sottoscritta un anello di diamanti chiedendole di sposarlo e che le nozze erano fissate per il settembre di quell'anno. Matt era il figlio di un pezzo grosso di una multinazionale ed era anche grazie a lui se potevo andare a feste del genere: a ventitré anni è facile pensare che sia sufficiente frequentare il giro giusto da subito per tenere il mondo sul palmo della mano. Invece in quella saletta buia, con Franz che mi tirava per un braccio e le lacrime, più di rabbia che di dolore, che mi rovinavano il trucco, pensai che forse quel mondo non era poi così facile da avere come avevo sempre creduto. Mi diressi verso il divano e quando Matt mi vide, saltò in piedi come una molla, cominciando anche a farfugliare che "non era come pensavo". Io solitamente sono una persona razionale, con un self control veramente invidiabile. Tutti quelli che erano a quella festa, in anni di università non mi avevano mai vista perdere la calma, né agitarmi o alzare la voce. E credo che quella sera, ognuno di loro si convinse del fatto che è possibile avere due personalità. Si offrì di accompagnarmi a casa, per "chiarire", mi implorò di lasciarlo spiegare, ma quello che mi fece davvero perdere il lume della ragione (o che, come mi convinsi in seguito, me lo fece tornare) fu la sua ultima affermazione. "Elvira, stai dando spettacolo".
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Uno: nessuno poteva chiamarmi con il mio nome di battesimo. Per il semplice fatto che lo detestavo e non volevo sentirlo; in un altro momento non ci avrei forse nemmeno fatto caso, ma sentirselo sputare addosso con ogni lettera immersa nel disprezzo (e già il mio nome ha di per sé un suono strano), davanti a tutti e soprattutto davanti a quella puttanella bionda che mi sorrideva beffarda dietro le palle di Matt, mi fece andare su tutte le furie. Due: non ero io che ero stata sorpresa a mettere la lingua in bocca a un'altro quattro mesi prima del mio matrimonio. Tre: che le regole e le convenzioni di quel mondo patinato costruito sulla falsità se ne andassero tutte insieme a quel paese. Glielo sputai in faccia, questo e altri mille giudizi ancora meno diplomatici che avevo riguardo a lui e a tutte le persone come lui, guardandolo dritto negli occhi. Gli lanciai l'anello dritto in faccia, senza smettere piangere o alzare troppo la voce. La musica intanto continuava imperterrita, le persone attorno a noi sembravano non essersi accorte di niente: tutto andava avanti perfettamente con una totale e agghiacciante indifferenza. Sdegnata, ferita e umiliata mandai la testa indietro con un colpo secco, mi voltai, afferrai le chiavi della macchina di Franz e uscii con lui da quella casa e dalla vita di Matt in un colpo solo. E appena fuori dalla porta c'era proprio lui, Carlyle, il mio nemico numero uno di sempre, appoggiato a una colonna del portico, che fumava una sigaretta scuro in volto. Eh si, almeno avevo dalla mia quella magrissima consolazione: nemmeno lui, con il suo buon nome e la sua faccia d'angelo e tutti i suoi stramaledetti soldi, poteva impedire che la sua ragazza lo tradisse. Mal comune mezzo gaudio, pensai. - Già te ne vai?- chiese, inarcando un sopracciglio. E io, per la seconda volta in dieci minuti, persi di nuovo il controllo. Potevo farmi veramente prendere in giro da tutti quella sera, ma non da lui, la cui fidanzata ricca bella e famosa si era consolata tra le braccia del mio, che era un po' meno bello ricco e famoso ma egualmente meschino. Daemon gettò a terra il mozzicone dicendo che non era sua intenzione sfottermi in un momento del genere, che gli dispiaceva anche per me e che comunque se ne stava andando. Indossava un completo grigio scuro e aveva il bavero della giacca alzato, questo me lo ricordo. Dalla sua parte, aveva il pregio di riuscire a farsi in qualche modo distinguere anche se si vestiva Armani. Mi sentii uno schifo, ero stata insensibile, oltre che maleducata e mi scusai se l'avevo frainteso, passandomi una
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mano tra i capelli con un gesto stanco e avvilito, ma era stata veramente una gran serata di merda. - Questo è un mondo di merda Rosberg. - disse, guardando lontano. - Già, l'ho scoperto poco fa.- replicai. Si avvicinò e portò i suoi occhi all'altezza dei miei. Aveva sempre avuto uno sguardo strano, intrigante ed enigmatico. Forse era anche questo che lo rendeva così irresistibile per le donne...era affascinante oltre che ricco sfondato. Mi sorrise e mi meravigliai nel notare come il suo viso riuscì ad illuminarsi. - Si, ma tu l'avrai ai tuoi piedi tra qualche anno, e senza sposare nessun ereditiere del cazzo.- mi disse piano, dandomi una lieve spinta sulla spalla destra. Lo disse convinto, senza l'ombra del solito scherno che usava solitamente quando parlava con me. Poi si avviò verso l'uscita della villa, lasciandomi lì a chiedermi se quello che mi aveva appena detto fosse un complimento. Mi sorpresi nel constatare che stavo sorridendo, mi tirai su il vestito e lanciai le chiavi della macchina al legittimo proprietario. - Torna dentro se vuoi Franz. Chiamo un taxi, non mi va di parlare con nessuno. - non ero mai stata brava a mentire, ma lui capì, come al solito e, piegando la testa di lato, mi sorrise. - Buona notte bambina.- mi disse. - Ne parliamo domani.- non approvava, lo sapevo, ma mi lasciava comunque libera di fare i miei errori in santa pace, come solo i veri amici sanno fare. Gli sorrisi di rimando e, con le Manolo in mano e le guance arrossate per la corsa, mi precipitai fuori da quel giardino infinito. Davanti al cancello d'ingresso, la Viper di Daemon era già in moto. - Se non ha niente in contrario, Miss Rosberg, sarebbe ora di andare...la voce di Thomas Eldberg mi riportò all'aprile duemilasei, in quel cupo cimitero in cui avevamo appena dato l'ultimo saluto alla sua figliastra, brutalmente torturata e uccisa. Un brivido mi percorse la schiena e con un breve cenno d'assenso mi avviai insieme a lui e a sua moglie verso l'uscita. La mia curiosità sulla presenza di Carlyle al funerale non era comunque appagata e avrei incaricato Franz nel pomeriggio di indagare: da bravo gay pettegolo che frequentava i quartieri alti, era eccellente nel trovare informazioni. Non a caso, lavorava per un tabloid scandalistico...cercavo di pensare a cose frivole, volevo allontanare quel groppo allo stomaco il più in fretta possibile. Dovevo assolutamente precipitarmi in ufficio, vedere Aaron, bere un bel bicchiere di Scotch nel suo
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studio e distendere i nervi. Poi, mi sarei buttata a capofitto nella difesa. Dovevo vincere, quella famiglia meritava di piangere in pace la figlia morta, uccisa da un pazzo maniaco assassino che, nonostante ci avessi provato milioni di volte, non riuscivo ad identificare in suo padre. Quasi non mi accorsi che qualcuno mi stava tirando per la manica destra. Mi voltai di scatto, pronta ad affrontare l'ennesimo giornalista invadente e invece le parole mi morirono subito in gola, quando vidi che la mano avvinghiata al mio polso era quella di Daemon. Non sapendo cosa dire, totalmente imbarazzata dalla sua presenza, buttai là un astioso: - Se non ti spiace, dovrei accompagnare il mio cliente a casa.- nemmeno "ciao", che cafona riuscivo ad essere a volte...Comunque lui non si scompose, ci voleva altro per metterlo a disagio. - Se non ti spiace,- replicò. - anche io dovrei venire a casa con voi.- il suo tono di voce era basso, neutro, quasi stanco. Inarcai un sopracciglio e gli avrei sicuramente chiesto perché, se la moglie di Eldberg non gli fosse letteralmente caduta tra le braccia, in lacrime. Mi voltai verso il giudice, che sembrava piuttosto seccato da quella scena. Ma forse era solo stanchezza, pensai dopo averlo sentito parlare: - Andiamo Miss Rosberg, lei venga con me.- poi, rivolgendosi a Daemon: - Porti tu a casa tua madre?- lui annuì. E io benedissi Christian Dior per aver disegnato un paio di occhiali da sole talmente immensi da poter nascondere metà del viso, o chiunque nel raggio di chilometri avrebbe visto i miei occhi bicolore sgranarsi fino a rischiare l'esplosione delle orbite. - Lei conosce Daemon?- mi chiese il giudice, quando fummo al sicuro all'interno della sua berlina. - Abbiamo frequentato gli stessi corsi di legge ad Harvard.- risposi. - Ma immagino non sapesse fosse il figlio di mia moglie, da come ha reagito...- almeno lui sapeva ancora osservare, pensai con una punta di auto ironia... - Non ho mai frequentato casa sua. Ci incontravamo a lezione e alle feste ogni tanto, ecco tutto.- strano, ma parlare di Daemon mi metteva a disagio, soprattutto dopo averlo rivisto. - Quindi sua moglie è inglese.dissi. - Già, Yvette si sposò tre volte: dal primo matrimonio, con il console Carlyle, ebbe Daemon e dal secondo, con un magnate della pubblicità, arrivò Jenny. Io sono il marito numero tre, grazie a Dio troppo vecchio per avere figli...- l'ombra di un sorriso gli attraversò per un attimo il vi-
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so stanco. - Daemon viene spesso qui?- mi informai, mentre lo aiutavo a scendere dall'auto e gli permisi di offrirmi il braccio. - No, sa com'è, è sempre in giro per il mondo per via del golf.- disse con evidente rammarico. - Sembra che questo le dispiaccia.- Parecchio direi. Sa Miss Rosberg, con Jenny non andavo d'accordo, non mi aveva mai accettato come nuova figura paterna. Ovviamente le volevo un bene dell'anima, ma nonostante ciò era un continuo punzecchiarsi e litigare. Con Daemon non era mai stato così. - Però lui viveva con suo padre...almeno ai tempi dell'università mi pare...- azzardai. - Sì, è vero, ma sono sempre stato legato a quel ragazzo. Quando veniva qui sua sorella cambiava e per un paio d'ore sembravamo una famiglia normale...è colpa di Yvette, non ha mai saputo tenersi i suoi figli vicino. Jenny era sempre all'estero per studiare e Daemon, quando scelse di vivere con suo padre, non fu minimamente ostacolato. Aveva solo diciotto anni e lei gli diede la possibilità di decidere della sua vita come se ne avesse già avuti trenta. A volte mi sembrava addirittura che non le importasse niente di loro...- la voce gli si incrinò pericolosamente e, per la prima volta nella mia carriera, venni meno alla mia proverbiale e famosa "freddezza professionale", cingendo la spalla del vecchio giudice con un braccio. - Sicuramente non è così.- sussurrai. - Coraggio, la accompagno dentro e poi corro in ufficio...devo finire di preparare la sua difesa.- Mi ringraziò e, sempre tenendomi a braccetto, mi condusse fin dentro l'atrio, dove mi congedai da lui, ripetendo nuovamente le condoglianze da parte di tutto lo studio legale e promettendo di fare il mio meglio per scagionarlo. I metri che mi separavano al cancello erano una decina e mi promisi di percorrerli alla velocità della luce. "Tanto sarà dentro a consolare la madre, tanto non lo vedrai, smettila di pensarci!" continuavo a ripetermi, persa in un folle monologo delirante. Quand'ecco che per poco non gli andai completamente a sbattere contro. Sentii mancarmi la terra sotto i piedi e, come al solito quando ero a disagio, decisi di adottare la linea dura dell'auto difesa, a cominciare dalla postura: serrai le braccia al petto e tirai indietro la testa, mento in alto. Ma non ebbi il coraggio di togliermi gli occhiali da sole.
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Era sempre uguale, quei sei anni trascorsi in giro per il mondo non avevano affatto segnato il suo viso d'angelo, come non lo avevano fatto i bagordi, le feste a Las Vegas, le spogliarelliste e le piste di coca. Indossava un paio di jeans blu scuro, una camicia nera stroncata con il bavero rigorosamente alzato e un paio di sneakers bianche e nere. Semplice, come sempre, ma con la solita punta di ricercatezza. Mi sorrise: - Sono contento di vederti.- Io no.- mentii spudoratamente e lui se ne accorse. - Eyes...- cominciò, ma cercai di non dargli tempo. - Devo andare. Ho un caso a cui lavorare, ho fretta, se non ti spiace...- e feci per aggirarlo. Mi bloccò un polso. "E due", pensai, divincolandomi rabbiosamente nel contempo. - Posso accompagnarti?- chiese. - Direi proprio che non è il caso.- Ci mancava solo che il primo paparazzo del quartiere mi fotografasse in macchina con il figliastro numero due del presunto colpevole del processo. - Smettila.- mi intimò. Dandomi ai nervi, ovviamente. - Di fare cosa? Vado in metrò. Ho-da-fare.- scandii bene, sperando afferrasse bene l'ultimo concetto. - Farai prima se ti accompagno.- sospirai, era veramente insistente. - Non hai una madre da consolare Daemon?- avevamo forse qualcosa da dirci? Era rimasto qualcosa in sospeso tra noi dopo quella sera, sei anni addietro? A me non risultava e glielo dissi, con tutto il freddo disprezzo di cui ero capace. - Si, cioè, veramente no...- si confuse. - è che...ecco...volevo solo dirti che...- stavo perdendo la pazienza. E, se fossi rimasta lì un altro po', sapevo che avrei perso anche la mia maschera di superbia. E il motivo di ciò era che, sotto sotto, ero maledettamente contenta di rivederlo, Dio solo sapeva perché. - Accompagnami. Purché, in un modo o nell'altro, riesca ad arrivare in ufficio tra mezz'ora.- sbottai. - Stai bene con i capelli corti. Molto meglio di allora.- disse, tanto per attaccare discorso. - Questa macchina è scomoda.- sentenziai. - La Viper era molto meglio.- notai che aveva alzato gli occhi al cielo, sorridendo. - Ciao Daemon, cosa hai fatto in questi sei anni?- replicò, premendo sull'acceleratore.
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- Lo so cos'hai fatto in questi sei anni, leggo i giornali. - Già, gli stessi che dicono che il mio patrigno aveva rapporti regolari con mia sorella e che l'ha ammazzata perché lei voleva denunciarlo?chiese, la voce intrisa d'odio e amarezza. Mi volsi a guardarlo, togliendomi finalmente gli occhiali da sole. - Scusa. Non volevo.- risposi a bassa voce, mortificata. - Non fa niente. Non ce l'ho con te. Anzi, quello che volevo dirti, prima, è che sono davvero contento che sia tu a difenderlo. Insomma, te l'avevo detto anni fa giusto? - Cosa? Che avrei difeso il tuo patrigno? - No. Che le nostre strade si sarebbero incrociate di nuovo. Anche se avrei preferito un'occasione meno triste.- già, quella sera, mentre stavamo sdraiati sul cofano della sua Viper a guardare le stelle, me l'aveva detto davvero. E, a quanto pareva, dava davvero importanza alle sue parole, contrariamente a quello che pensavo, se a distanza di così tanto tempo se le ricordava ancora. - Dicesti anche che saremmo stati di nuovo allo stesso livello. Con una lieve differenza...- buttai là con finta noncuranza. Lui annuì, sorridendo di nuovo e completò la frase per me, con le stesse parole di allora. - Io vivendo di compromessi e tu rifiutandoli tutti. Beh, profetico, no?scherzò. - Cathy come sta?- chiesi, fingendo che quello che aveva appena detto non mi avesse minimamente colpita. - Cathy chi? Ah, quella che mi ha detto "adesso che sei invischiato in uno scandalo non voglio più saperne di te"? Credo stia bene...- mi portai una mano alla bocca. - Scusa...è la mia giornata delle gaffes, evidentemente.- potendo, mi sarei seppellita con le mie mani. Daemon invece, mi spiazzò come al solito, mettendosi a ridere. - Credi forse che mi importi di lei? Avrei dovuto prenderla a calci nel sedere come tu facesti con Matt anni fa, se fosse stato così. - Allora perché te la sei sposata, scusa?- Il matrimonio tra Cathy Clarkson e Daemon Carlyle era stato sulle testate di tutte le riviste per mesi, e adesso la stampa avrebbe avuto di nuovo occasione per riempire pagine e pagine di dettagli falsi e indiscreti riguardo la loro rottura...che strazio essere famosi, mi ritrovai a pensare. - Beh, per un fatto d'immagine. Oh per favore, non guardarmi così Rosberg, mi conosci, non ci sono tagliato per le prediche.
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- Mi sa che sei rimasto al milleottocento, quando i ricchi si sposavano per accrescere il prestigio delle famiglie.- sentenziai. - Credi che sia cambiato qualcosa? Almeno nel nostro ambiente è rimasto tutto tale e quale ragazza mia. - E la tua immagine adesso com'è?- chiesi, sdegnata. - Sempre la stessa, quello che è capitato a mia madre non cambierà la mia vita pubblica. Non troppo almeno, a meno che non smetta di vincere un torneo dopo l'altro.- ma qualcuno, a parte me e il giudice, si rendeva conto che una persona era morta?! Sembravano tutti così impegnati a mantenere intatto il loro tenore di vita, da dimenticare questo piccolo, insignificante dettaglio... - Sei sempre il solito stronzo Daemon.- gli dissi, amareggiata, mentre accostava davanti alla K&F per farmi scendere. - E tu sei sempre adorabile Elvira.- replicò lui, una volta che fui scesa, partendo e lasciando un centimetro di gomme sull'asfalto. Per una manciata di secondi rimasi lì immobile, guardando la sua SLK nera diventare un puntino zigzagante in mezzo al traffico della City, le orecchie che rimbombavano del mio nome rinnegato, che sembrava suonare così bene, in bocca a lui. - Bambina, qualcosa non va? Sembri arr...- Fermai Aaron con un cenno della mano, entrando come una furia nel suo studio e sedendomi a gambe incrociate sul divano di pelle vicino all'ampia finestra. - Scotch.- gli intimai, additando il mobile dei liquori. Lui me ne porse un bicchiere senza versarsene per sé e mi sedette accanto. - Qualche problema?- azzardò a chiedere. Mandai giù il contenuto del bicchiere in una volta sola e mi accesi una sigaretta. Oh si, per Dio, c'era una montagna di problemi: la mia difesa faceva acqua da tutte le parti, la pubblica accusa era rappresentata da quello squalo affamato di Christopher Miller e c'era Daemon Carlyle pericolosamente nei paraggi...ovviamente non resi partecipe Aaron dell'ultimo dettaglio, non mi sembrava proprio il caso. - Già,- disse, contemplando il fumo azzurrino del suo sigaro. - Ho sentito che hanno scelto Miller.- Una tragedia Aaron, questa è una vera e propria tragedia, senza mezzi termini.- piagnucolai, versandomi altro liquore e sorseggiandolo lentamente, questa volta. Lui mi mise un braccio intorno alle spalle. - Fammi vedere la tua difesa. E non fare sceneggiate inutili, la prima
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udienza è tra due settimane e abbiamo ancora tempo. E non è la prima volta che ti capita di dover mandare fuori dall'aula Miller con la coda tra le gambe, mi pare.- Gli sorrisi, porgendogli il fascicolo. Quando ebbe finito, mi guardò con un sopracciglio inarcato prima di dirmi: - Beh?- Come sarebbe a dire "beh"?- replicai, scattando in piedi come una molla. - Secondo te quella specie di tema di fine corso va bene?- Aaron scoppiò a ridere e scosse il capo. - Devi smetterla di sottovalutarti così Eyes, non è da te. Questa difesa non è perfetta, ma è una bozza. Ne hai stilate di peggiori, vincendo ugualmente. Secondo me il problema è un altro. - E cioè?- alla mia domanda allargò le braccia. - Ah, questo sei tu a dovermelo dire. Questo caso ti sta mettendo addosso una strana agitazione. Come mai? - Non lo so Aaron.- dissi, sedendomi di nuovo e prendendomi la testa tra le mani. - Sento che non ce la posso fare questa volta. Continuo a dire a Eldberg che andrà tutto bene, ma non c'è niente, assolutamente niente che possa convincere una giuria che sia innocente.- Eyes, questo non è un problema tuo. Anche se non è innocente, tu devi convincere delle persone comuni che lo sia. Devi trovare qualcosa che rivolti la tesi di Miller. Lui si appoggerà a tutti gli avvenimenti inconfutabili: le impronte, il sangue, il DNA. Userà il rapporto conflittuale fra Eldberg e la figlia per portare la giuria a credergli, farà un copiaincolla di tutte le indiscrezioni apparse sui tabloid di queste settimane. Tu devi fare solo una cosa, e lo sai bene.Oh, si che lo sapevo. Dovevo batterlo sul tempo. Trovare una falla nella sua accusa e girarla a mio favore. Miller aveva i giornalisti e l'opinione pubblica dalla sua parte, ma io avevo qualcos'altro? Chiusi gli occhi, cominciando a valutare le mille e più ipotesi che mi si affacciavano alla mente. Io dovevo trovare un alibi a Eldberg, in un modo o nell'altro, prima che Miller lo inchiodasse definitivamente alla scena del crimine e dovevo farlo in fretta, se volevo continuare a guardare Daemon negli occhi...
...CONTINUA...