La stanza del tenente

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Un Vescovo malato terminale che cerca di riappacificarsi con il suo passato di partigiano e un giovane prete che si trova, casualmente, a dover difendere un immigrato clandestino dalla vendetta dei caporali. Questo il cuore di una vicenda che, partendo dalla Lotta di Liberazione, arriva ai nostri giorni, raccontando la solitudine dei vinti con lo sguardo lucido dei personaggi che la animano. L'AUTORE: Giorgio Borra ha 38 anni e vive in provincia di Torino. "La stanza del tenente" è il suo primo romanzo.

Titolo: La stanza del tenente Editore: 0111edizioni Pagine: 142

Autore: Giorgio Borra Collana: Selezione Prezzo: 13,00 euro

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IL CASSETTO DEI SOGNI A differenza di "Parlando di (prima trasmissione libri a casa di Paolo", questa prevista a FEBBRAIO 2010) trasmissione, condotta da Mario Magro e sponsorizzata dalla nostra associazione, tratterà solo libri della 0111edizioni. Anche in questo caso, i libri presentati sono scelti dal conduttore, che li seleziona fra una rosa di titoli proposti dalla casa editrice. VAI AL SITO

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In questo gioco a premi avvengono rapitimenti un po' anomali: le Gioca con la Banda del Booko vittime sono personaggi di romanzi, che verranno poi "nascosti" in altri romanzi a discrezione dei rapitori e per la liberazione dei (che si legge quali è richiesto un riscatto all'autore. BUCO) all'ANONIMA Qui entra in gioco la "Squadra di Pulizia", che tenterà di liberare il personaggio per evitare all'autore il pagamento del riscatto. In SEQUESTRI VAI AL SITO

questa fase sono anche previsti tentativi di corruzione da parte dei Puliziotti nei confronti dei rapitori... ma non è il caso di spiegare qui tutto il funzionamento del gioco... per il regolamento è meglio fare affidamento all'APPOSITA PAGINA. E' possibile giocare e andare in finale nei ruoli di RAPITORE, VITTIMA, PULIZIOTTO, GIUDICE e PENTITO. In palio c'è un premio per ognuna delle 4 categorie. Il premio, di cui inizialmente viene specificato solo il valore massimo, viene scelto dai rispettivi vincitori dopo il sorteggio.


Giorgio Borra

La stanza del tenente

www.0111edizioni.com


www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com

LA STANZA DEL TENENTE Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2010 Giorgio Borra ISBN 978-88-6307-285-3 In copertina: immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Maggio 2010 da Digital Print Segrate - Milano


A Paola, mia moglie



Dopo ogni guerra c'è chi deve ripulire. In fondo un po’ d'ordine da solo non si fa “La Fine e L’inizio” Wisława Szymborska

“Forse è stato un dono di Dio la povertà in cui sono cresciuto. E' nell'infanzia che ho imparato a resistere” “Il prete giusto” Nuto Revelli



La stanza del tenente



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Il prete ritornò sui suoi passi, con gli occhi socchiusi. Poi, sporse lentamente la testa dalla sacrestia, volgendo lo sguardo verso i banchi. Il sole di luglio illuminava le ampie navate della chiesa parrocchiale, arricchendo i colori dei vetri cattedrale rivolti a mattino. Era la prima messa che celebrava nella parrocchia di San Giacomo, dopo l’improvvisa scomparsa del parroco. Il Vescovo lo aveva temporaneamente sollevato dall’incarico di responsabile diocesano delle pubbliche relazioni, per affidargli il compito di guidare quella piccola comunità. “Sai Gianni” Gli aveva detto il Vescovo sfiorando con le dita della mano destra il piccolo crocifisso d’argento sul bavero “Dovrai trasferirti per qualche tempo a Ventole, in attesa che si trovi un nuovo parroco disposto a stabilirsi lassù” La strada si insinuava fra i campi di erba medica, inondati dall’opaco riverbero del tramonto e don Gianni la seguiva guidando lentamente, correggendo in modo impercettibile la traiettoria delle curve. Alle parole del Vescovo deglutì rumorosamente, come sempre gli accadeva quando veniva colto da stupore. “Obbedisco, sia fatta la volontà del Signore” Il Vescovo teneva gli occhi chiusi sotto le spesse lenti che non si era mai deciso a cambiare, indossava un clergyman nero al quale aveva slacciato il colletto bianco, i capelli erano grigi e radi, aveva mani sottili e affusolate coperte da piccole macchie scure che le facevano assomigliare al manto di un leopardo, ma la voce era ancora quella del giovane seminarista che passava le estati nella casa paterna a vogare sul fiume, una voce stentorea ma allo stesso tempo dolce e persuasiva. Stavano tornando dal funerale del parroco di Ventole che il Vescovo aveva celebrato con una passione insolita, conoscendo la sua pacatezza nel predicare. Qualcosa era cambiato in lui nelle ultime settimane, come se il normale flusso dei pensieri avesse subito un’accelerazione, portandolo a elaborare i concetti con precisa concitazione. Sembrava che una fretta inspiegabile lo sospingesse ad anticipare la conclusione di ogni argomentazione, lasciando agli interlocutori solo lo spazio dell’ascolto.


“Tutto bene, Monsignore? Vuole che aumenti la temperatura del climatizzatore?” Il Vescovo aprì gli occhi, celando con la mano un sorriso spontaneo “Mi piacerebbe fermarmi a cena in un posto che si trova qui vicino. Adesso è un agriturismo, ai miei tempi era una delle migliori osterie della valle” Don Gianni lo osservò di sbieco, stupito dalla proposta che arrivava del tutto inaspettata “Ecco, vedi quella strada sterrata sulla sinistra? Imboccala e poi procedi fino al parcheggio” Arrivarono a uno spiazzo di acciottolato, dove c’erano parcheggiate soltanto due auto. Un segnale giallo indicava “L’agriturismo Boisnard” a circa venti minuti di cammino. Era una serata incantevole, il cielo di inizio estate era limpido, appena macchiato dal candore di alcune nuvole in lontananza. Il Vescovo si era incamminato solerte e taciturno, proprio come gli uomini di montagna. Don Gianni lo seguiva, con le mani dietro la schiena. Il sentiero si inarcava ripido dentro un fitto bosco di castagni che nascondeva quasi del tutto il chiarore del tramonto. Erano già le sette e don Gianni pensò con timore ai passi del ritorno, immersi nel buio. Raggiunsero l’agriturismo in meno di mezz’ora e poi si riposarono per qualche momento su una panchina di fronte all’ingresso. Un delizioso profumo di carne alla brace si liberava nell’aria, attirando l’attenzione dei cani che caracollavano sul prato. Le tavole erano apparecchiate all’interno di una veranda, adorna di fiori. La giovane cameriera che li accolse non sembrò per nulla stupita nel vedere i due preti e li fece accomodare in un tavolo all’angolo della stanza, vicino a una giovane coppia che stava già sbocconcellando del pane nero. Il Vescovo non parlava, sembrava estasiato dalla visione delle montagne che riflettevano dagli esili ghiacciai l’ultimo sole della giornata. La ragazza servì loro del vino sfusoeun tagliere di salumi che mangiarono con gusto. Arrivò poi della polenta di grano saraceno accompagnata da sottili strisce di formaggio pecorino. Nella sala il profumo del cibo si mescolava con quello aspro del perlinato, a cui erano affissi ornamenti montanari. Don Gianni si sentiva a disagio, il silenzio fra loro accresceva il dubbio che la cena non fosse scaturita dal caso, da un ricordo che improvviso si era fatto strada nella mente del Vescovo, era certo che ci fosse un motivo più profondo. “Francesco, sei tu vero?” Don Gianni non capì subito che la voce tremula arrivata dalle sue spalle era rivolta al Vescovo, non era abituato a sentirlo chiamare in modo co-


sì amichevole, al punto che ne aveva quasi dimenticato il nome di battesimo “La sapevo che prima di morire ti avrei rivisto” Quando don Gianni si voltò vide una donna anziana, canuta, avvolta in un ampio scialle, che avanzava lentamente sostenuta da un bastone ricurvo, simile a quello usato dai cercatori di funghi. “Hai sempre gli stessi occhi, Francesco, vispi e curiosi delle cose del mondo” Il Vescovo si era alzato, appoggiando una mano sul bordo del tavolo. L’altra mano, appoggiata delicatamente sul petto, tremava in modo evidente mentre la fronte si era imperlata di gocce di sudore. “Siediti Francesco, altrimenti il tuo giovane amico penserà che ti spaventa la visione di una vecchia strega come me!” La donna rise stridula, indicando la sedia rimasta vuota poi, prendendone una dal tavolo vicino, si sedette al loro, appoggiando entrambe le mani sul bastone. Il Vescovo intanto si era versato un bicchiere d’acqua che aveva bevuto con movimenti parsimoniosi. “Quando ti ho vista, non credevo ai miei occhi” Disse il Vescovo, ritrovando l’eloquio “Sono passati quarant’anni da quando i nostri sguardi si sono incrociati per l’ultima volta. Era la messa di insediamento e tu eri in piedi, al fondo della cattedrale. Speravo di rivederti sul sagrato, alla fine della funzione, ma eri sparita. Poi, il tempo ha affievolito i ricordi” La donna lo osservava intensamente, ma non si trattava di uno sguardo indagatore, era piuttosto una minuziosa ricerca sul volto del Vescovo per ritrovare i segni della barbarie che insieme avevano affrontato su quelle montagne, cinti dal ferro e dal fuoco nemico.


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Quando raggiunse l’altare, don Gianni appoggiò le mani giunte sul petto e alzò lo sguardo: nei primi banchi erano sedute tre donne anziane con il capo chino, intente a recitare sommessamente il rosario. Dopo aver letto il vangelo del giorno, si avvicinò all’ambone per commentare le parole che Gesù aveva rivolto ai suoi discepoli: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?” quando si accorse, con crescente angoscia, di non sapere cosa dire. Le parole si erano fermate in gola, intrappolate in un groviglio inestricabile. Nei secondi di silenzio che trascorrevano inesorabili, comprese di non saper più parlare alle persone semplici, a chi davvero aveva bisogno di una guida per comprendere il senso delle letture. Aveva passato troppo tempo a discutere con giornalisti, politici e intellettuali di problematiche morali, aveva addirittura partecipato ad alcune tavole rotonde, distinguendosi nella tenace difesa del primato della chiesa sul laicismo, ma adesso non era più capace di rivolgersi alla gente comune. Appoggiò le mani sul leggio e chiuse gli occhi. Ripensò al viaggio in India, agli odori di Calcutta, allo sguardo dei diseredati che brillava di notte come una stella, alle fiamme delle pire che si riflettevano nell’acqua del fiume sacro, alle mani dei moribondi strette fino all’ultimo respiro. Cercò di ritrovare il vero volto della spiritualità nei ricordi che portava nel cuore, custoditi in uno scrigno inviolato. Ma ancora in preda all’afasia che lo aveva colto, riuscì solamente a spiegare alle donne immobili che le parole di Gesù giustificavano l’idea di amore universale, proprio della comunità cristiana e non esprimevano la durezza che a una prima lettura si percepiva. Poi tacque, sentendo nella bocca un fiotto di saliva amara. Il silenzio della chiesa fu squarciato dal rumore sordo di una porta laterale sbattuta con violenza e poi dallo scalpiccio concitato di una persona che si dirigeva verso la sacrestia, attraversando di corsa tutta la navata centrale. Era un uomo molto alto che indossava una felpa con il cappuccio e un paio di jeans, aveva un piede scalzo mentre nell’altro calzava una ciabatta. Quando passò di fronte all’altare don Gianni lo guardò con stupore, ma non gli disse nulla, perché aveva letto negli occhi dell’uomo una paura che era impossibile sciogliere con le parole. Ansimando spalancò la porta della sacrestia, richiudendola immediatamente alle sue spalle. Alla fine della


stia, richiudendola immediatamente alle sue spalle. Alla fine della funzione, il prete restò ancora qualche momento sull’altare poi, dopo essersi inginocchiato lentamente, raggiunse la sacrestia. L’uomo era seduto per terra, con la schiena appoggiata al muro e stava usando un pacco di kleenex per tamponare una ferita a un braccio. Respirava ancora affannosamente e l’addome a ogni inspirazione si tendeva come un mantice. “Tu proteggere, tu padre” Biascicò il ragazzo, come se avesse la bocca e la lingua completamente riarse “Ora ti vado a prendere un bicchiere d’acqua e poi vediamo la ferita sul braccio” Il ragazzo annuì con la testa, poi si lasciò scivolare sulla schiena. Mentre risciacquava un bicchiere sotto l’acqua del lavandino, don Gianni pensò che si trattasse di un senegalese: alto, magro e la pelle scurissima, gli ricordava i ragazzi che aveva conosciuto al centro di accoglienza. Prese la cassetta del primo soccorso e poi ritornò in sacrestia. Il ragazzo ebbe un sobbalzo, ma quando vide il prete si tranquillizzò, trangugiando l’acqua in un sorso. Alcune gocce di sangue erano cadute sul pavimento di marmo, raggrumandosi in macchie color carminio. Adesso il respiro era ritornato normale e don Gianni potè sorridergli, mentre gli medicava la ferita. Era un taglio esteso ma poco profondo che sarebbe guarito in pochi giorni, senza lasciare particolari conseguenze. Era fiero delle conoscenze di primo soccorso, acquisite durante il seminario quando guidava le ambulanze della Croce Rossa. “Come ti chiami?” “Youssun” “Youssun? Come il cantante” Il ragazzo sorrise, ma la smorfia sulle labbra mal celava un dolore difficile da controllare. “Non ti preoccupare, adesso passa, devo solo finire di togliere la sporcizia dalla ferita. A proposito, hai fatto l’antitetanica?” Youssun lo guardò con gli occhi spalancati, gonfiando le guance. “Va bene, penseremo anche a questo” Si sedettero sui gradini della sacrestia, nel lato rivolto verso il cortile interno della parrocchia. Il giardino era rigoglioso, coltivato a ortaggi e alberi da frutto. Adesso poteva ammirarlo in tutto il suo splendore. La sera precedente, quando era arrivato in parrocchia, ad aspettarlo c’erano Erminio e la moglie Lucia, le persone che da anni accudivano quel giardino e si adoperavano per aiutare il parroco nelle incombenze casa-


linghe. “Troppi libri, troppi libri” Aveva borbottato Erminio mentre lo aiutava a scaricare il baule della macchina. Era un uomo piccolo e tarchiato, dai polsi spessi come tronchi di betulla, portava una camicia a quadri sbottonata fino alla pancia e un paio di pantaloni lordi di fango. Aveva degli stivali corti che portava senza calze. La moglie cercava di zittirlo con delle buffe smorfie che fecero sorridere don Gianni. Lucia era una donna poco appariscente, discosta dall’occhio di un uomo se non fosse stato per la perenne raucedine che la costringeva a tossire quasi a ogni respiro. Era molto magra e pallida, indossava un vestito lungo con le maniche che si chiudevano sulle braccia in uno sbuffo di pizzo, come quelli che le donne della valle indossavano nel giorno del santo. Se si superava la condizione di indifferenza che la sua figura ispirava, Lucia aveva una qualità che la rendeva unica, riusciva a sorridere con gli occhi. Don Gianni se ne accorse quando le strinse la mano per presentarsi: nel fondo di quei piccoli occhi cerulei, appena irritati dalla stanchezza di una giornata di lavoro, vide dischiudersi un sorriso intenso e pacificatore che però non raggiungeva le labbra, restava sospeso e vivo nello sguardo. “Cigarettes, padre, fumare” “Purtroppo non fumo più, ma penso di poterti aiutare lo stesso” Youssun sorrise felice, mostrando una dentatura perfetta. Don Gianni si alzò con la certezza di non poter rimandare ancora di molto il momento delle spiegazioni; quasi sicuramente si trattava di un uomo ferito con un’arma da taglio, rifugiatosi in chiesa per sfuggire ai suoi aguzzini. Giunto nella sua stanza, al primo piano della casa parrocchiale, si mise a frugare nelle valigie ancora da disfare ed estrasse il pacchetto di sigarette che dal giorno in cui aveva fumato per l’ultima volta, lo accompagnava ovunque. La considerava una sfida alla sua forza di volontà, d’altronde sarebbe troppo facile smettere di fumare in completa privazione di tabacco. Raccolse anche un paio di ciabatte che usava per la doccia e le portò al ragazzo che si era docilmente assopito all’ombra di un ciliegio. “Immagino che tu non possa uscire di qui, almeno per ora, vero Youssun?” Disse sottovoce il prete, riparandosi con la mano dall’intensa luce del sole.


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Scesero dal sentiero ormai immerso nel buio, accompagnati dalla nipote dell’anziana donna che li precedeva con una torcia elettrica. In montagna spesso accade che, scendendo, non si ricorda più la strada che si è fatta durante la salita, così quando il chiarore lattiginoso della luna lo permetteva, i due scoprivano paesaggi sconosciuti aprirsi fra gli alberi. “Ecco, mia nonna mi ha pregato di fargliela vedere” La ragazza si rivolse direttamente al Vescovo, illuminando con la torcia un’iscrizione incisa sul bronzo e poi cementata nella roccia scura. “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione” Il Vescovo lesse lentamente, sostenendo gli occhiali con le dita, ma anche se il buio ne avvolgeva il viso affilato, don Gianni percepì un’emozione nuova nel suono delle parole, come se lo spirito del passato si fosse impossessato di lui, rendendolo diverso. Adagiato sul sedile, con la mano appesa alla maniglia, il Vescovo scorse fra i docili tornanti le luci della città. Non aveva voglia di tornare in Curia, era stata una giornata intensa e di certo non sarebbe riuscito ad addormentarsi senza l’ausilio di un farmaco. Guardò il cielo. Le stelle sembravano adagiate da una mano sapiente su un drappo nero, mentre sopra la città l’inquinamento luminoso rendeva invisibili i corpi celesti, eccezione fatta per la luna. Sarebbe potuto salire nella specola, ormai non lo faceva da molti anni e provare a puntare il telescopio sui suoi mari placidi e malinconici. L’osservazione del cielo era una passione che aveva ereditato da un suo amico d’infanzia, con il quale si dilettava a riprodurre sulla carta la volta celeste, intingendo i pennini nella china. “Siamo vagabondi delle stelle Francesco, ricordatelo sempre. Come i pianeti, fluttuiamo nello spazio seguendo una traiettoria che qualcun altro ha definito per noi e che non potremo mai cambiare. A meno che…” Ricordava ancora le pause e lo strano sorriso che le accompagnava:


l’amico tendeva le labbra assottigliandole, mostrando appena i denti. Un sorriso luciferino, dicevano di lui le ragazze quando incrociava il loro sguardo durante la passeggiata domenicale. “A meno che non ci diano una bella spinta, come si fa con le biglie sulla sabbia!” Concluse il suo vagabondare in una mattina di pioggia. Dopo aver aspettato che la moglie uscisse per fare la spesa, si sparò alla testa con il fucile che usava per la caccia al cinghiale. Non lasciò niente di scritto, solo una rosa rossa adagiata sul cuscino della camera da letto. “Erano parole di Piero Calamandrei quelle scritte sulla targa?” Il Vescovo annuì, ripensando alla ragazza che li aveva accompagnati al parcheggio. Cosa saprà di quello che accadde lungo i sentieri che l’hanno vista crescere? Avrà memoria del sangue sceso a rivoli dentro i fossi torbidi d’acqua stagnante? Immaginerà l’angoscia delle ore trascorse accovacciati nei rittani, con il cuore impazzito dalla paura e dalla fame? Potrà comprendere le segrete aspirazioni di un combattente? Probabilmente no. La memoria declinerà con il succedersi delle generazioni, lasciando spazio al demone dell’ambiguità. La lotta per la libertà è un’eredità che si sfalderà nelle mani, come le ali di una splendida farfalla “Sono stato un partigiano, Gianni. Fazzoletto verde. Ho combattuto su queste montagne” “Lo so Monsignore, lo avevo sentito dire in seminario. Mi avevano anche avvertito che si tratta di un argomento di cui lei non vuole parlare” “Hanno ragione, quei mesi passati alla macchia sono una ferita che continua a sanguinare ancora oggi. Non è una questione ideologica. Si tratta di qualcosa di più doloroso che dovrò affrontare prima di morire. Non si deve mai lasciare nulla di irrisolto, quando ne hai la responsabilità” “La donna dell’agriturismo l’ha conosciuta in quella circostanza?” “Si, era un’informatrice dei partigiani. Una ragazza forte e impavida” “Posso farle una domanda, Monsignore?” Il Vescovo si voltò versò don Gianni. Era orgoglioso di quel prete. Era premuroso con chiunque incontrasse e ostinato nella ricerca dei segni di dio nelle opere dell’uomo. Considerava il lavoro come una superba forma di preghiera. “Qual’era il suo nome di battaglia? So che tutti i partigiani ne avevano uno” Raggiunsero la periferia della città e proseguirono lungo il corso che la tagliava in due come un colpo di spada. Le prostitute di colore lo lam-


bivano, alzando la gamba al passaggio di ogni vettura. Sebbene avessero entrambi i finestrini abbassati, un caldo opprimente saturava l’abitacolo, accentuando la stanchezza accumulata nella giornata. Decine di giovani stazionavano davanti a un McDonald’s dalla forma curiosa: una barca di legno e vetro incagliata sul marciapiede. Dalle ampie finestre si intravedeva una lunga fila alle casse mentre gli addetti, vestiti di verde, passavano fra i tavoli a raccogliere i vassoi abbandonati. In lontananza il profilo inconfondibile dell’ospedale si stagliava contro le colline scure, illuminate a tratti dai fari di un’automobile. Il dottore aveva la fede nuziale lucida e quando si accorse che il Vescovo la osservava, disse che era appena tornato dal viaggio di nozze. I conati di vomito lo scuotevano come una foglia colpita da folate di vento, mentre grumi di saliva gli scendevano dalla guancia, bagnando il lenzuolo. Lo spray anestetico e il valium non erano bastati a tranquillizzarlo, si sentiva soffocare, così strinse d’impeto la mano dell’infermiera che lo assisteva. Steso sul fianco, vedeva le immagini a colori del suo stomaco passare sullo schermo, mentre il medico pilotava lo strumento con due leve. Non era mai stato in ospedale e di certo quello non fu un buon inizio. Il medico lo fece accomodare di fronte alla scrivania e prima di parlare si guardarono negli occhi, come due bambini che hanno appena visto un serpente attraversare la strada. Poi il medico parlò di una lesione estesa, della necessità di un ricovero per valutare l’intervento chirurgico, dell’eventuale terapia, della progressiva incapacità di nutrirsi se non si interveniva con tempestività. Il Vescovo pensò a quanti giri di parole si possono fare per evitare di pronunciare la parola tumore. Prima di scendere dalla macchina nel cortile interno della diocesi, si voltò verso don Gianni e disse “Il mio nome di battaglia era Olmo”.


4

L’ampia terrazza si affacciava sul fiume e lei era uscita per bere il caffè untuoso e amaro delle macchine distributrici. Era il quinto della giornata, sebbene fosse solo l’ora di pranzo. Stava aspirando la prima boccata di fumo quando il telefono squillò nella tasca del camice, facendola sobbalzare. Era sicura che il caso le stesse ancora una volta giocando uno scherzo: la sera prima aveva detto al marito di essere finalmente riuscita a smettere di fumare, ma al termine di quella mattina indiavolata non aveva resistito alla tentazione di accenderne ancora una. Ecco perché al telefono non poteva che essere lui, ignaro testimone del suo tradimento. Invece sul display azzurro del cellulare compariva un numero non registrato in rubrica. Decise di non rispondere e si affacciò alla ringhiera, osservando il quieto ondeggiare di alcune barche ormeggiate alle boe. D’estate, lei e Marco cenavano sul balcone, seduti una di fronte all’altro, centellinando una birra che facevano arrivare direttamente da Praga. Erano pasti frugali durante i quali tracciavano il bilancio della giornata di lavoro, con la remota speranza di scacciare il vuoto doloroso che regnava nella casa. Bastava qualche battuta di spirito o un aneddoto sui colleghi per concludere la cena con un sorriso e poi, dopo aver sparecchiato e lavato insieme i piatti, si ritiravano nella stanza da letto, lui a leggere, lei a guardare la televisione con l’audio appena percettibile. Era stato alla fine della cena che aveva annunciato la sua vittoria contro il fumo e Marco ne era stato entusiasta. Spense la sigaretta nel vaso di sabbia, lasciando il mozzicone piantato con il filtro rivolto verso l’alto. Il telefono riprese a suonare “Pronto?” “Sono don Gianni” “Gianni, che piacere sentirti! Guarda che non ho nessuna intenzione di confessarmi” A quelle parole risero entrambi, felici di risentirsi dopo molto tempo “Non mi basterebbero le penitenze, per cui mi fido sulla parola” “Ma da dove stai chiamando? Non conosco questo numero” Disse lei, ritornando seria “E’ una lunga storia, ma se tu e Marco verrete a trovarmi, vi prometto


che trascorrerete una splendida giornata fra i monti” “Fra i monti? Ma non stai più alla Curia?” “Non precipitare le cose Chiara, ti spiegherò tutto a tempo debito. A proposito, porta la tua borsa da medico e un’iniezione di antitetanica” “Tutto bene, vero Gianni? Non mi stai nascondendo qualcosa?” Rispose lei preoccupata “Nulla di grave, diciamo che sono momentaneamente in villeggiatura” Si accordarono per il weekend successivo, poi lei corse in sala operatoria dove lo specializzando la stava attendendo, visibilmente impacciato. Da quando aveva abbandonato la consuetudine del pranzo nel bar dell’ospedale, limitandosi a mangiare un’insalata portata da casa, era sparita la fastidiosa sonnolenza che la ghermiva a quell’ora del giorno: adesso a tenerla sveglia era una leggera e salutare sensazione di fame. L’anestesista vive l’operazione chirurgica con la stessa prospettiva del paziente: sta alla sua testa, lo supporta nella respirazione, controlla i parametri vitali ma soprattutto può dialogare con lui, anche quando è incosciente. I farmaci annullano la percezione del dolore e rilassano i muscoli, ma i suoni possono raggiungere il cervello. Osservò il volto intubato della paziente: una donna di cinquantadue anni con i capelli castani che a ciocche uscivano dalla cuffia e il viso pallido costellato da piccole macchie rosse. Chiara osservò il valore della pressione arteriosa e il tracciato dell’elettrocardiogramma poi si chinò, avvicinando la bocca all’orecchio destro della paziente. I chirurghi lavoravano parlando a voce alta, nascosti dietro il telo verde del campo operatorio “Stai tranquilla, vedrai che andrà tutto bene. Non è un’operazione difficile, fra poco riaprirai gli occhi e intorno al letto ci saranno i tuoi cari” Un infermiere si sporse verso la testa del tavolo operatorio incuriosito dai bisbigli, ma quando incrociò lo sguardo di Chiara si ritrasse immediatamente. “Sono sicura che puoi sentirmi e so anche che eri spaventata prima dell’operazione, ma il tuo spirito adesso sta vegliando sul tuo corpo e lo protegge da ogni male” Poi si allontanò, lasciando la mano appoggiata sulla fronte della donna. Chiara non credeva in Dio. Proveniva da una famiglia di atei: il padre era un notaio molto influente che non lesinava le frequentazioni politiche, il suo appoggio alla sinistra moderata era conosciuto da tutti. La madre era stata un’insegnante di francese che adesso accompagnava, per conto di un’agenzia turistica, i turisti francofoni durante la visita alla città. Era stata educata nei rigidi valori del laicismo e sebbene avesse avuto alcune pulsioni mistiche, le letture giovanili e lo studio della me-


dicina l’avevano distolta da qualsiasi ricerca spirituale. Conobbe Gianni al liceo classico, per lunghi mesi furono anche vicini di banco e, come spesso accade a quell’età, confidenti e buoni amici. Gianni abitava in un piccolo paese di provincia e per raggiungere la scuola era costretto a un’odissea giornaliera: prima il treno da casa fino alla città e poi con la bicicletta, che teneva legata alla porta di un magazzino in disuso vicino alla stazione, raggiungeva il codazzo degli studenti che svogliatamente si dirigevano in classe. Non era cambiato negli anni: il suo viso paffuto era rimasto senza i segni della barba, a eccezione di una morbida peluria sotto le orecchie, mentre una sorniona pinguedine, mascherata dalle maglie di una taglia superiore, lo rendeva più bonario. Sebbene gli occhi, del colore di una nocciola acerba e l’arguzia di chi ha letto molti libri lo rendevano interessante e di buona compagnia, sembrava che l’altro sesso non lo interessasse, nemmeno quando si trattava di dire la propria nei tipici discorsi boccacceschi degli adolescenti. Infatti fu per tutti una sorpresa quando si scoprì che era lui il mittente di appassionate lettere d’amore a una compagna di classe, scoperte per caso nella tasca del suo zaino e pronte per essere imbucate. La vocazione fu invece una scelta più adulta, cresciuta durante l’università e catalizzata dall’amicizia con un giovane prete che lo aveva introdotto nel mondo del giornalismo cattolico. Prima di tornare a casa, Chiara si fermò in un bagno lungo il corridoio dell’ospedale e guardandosi allo specchio, scoppiò a piangere. Le lacrime scendevano copiose lungo le guance, mischiandosi con il trucco. Erano passati due anni dalla morte del loro unico figlio, travolto da un’auto mentre rincorreva un palloncino sfuggito di mano. A ucciderlo era stata la stessa auto alla quale avevano prestato soccorso poco prima, mentre si trovava in panne ai bordi della strada per una foratura.


5

La giovane sindaca di Ventole si era affacciata dal balcone dell’ufficio e osservava il passaggio dei turisti nel centro storico del paese. A quell’ora nel palazzo municipale non c’era più nessuno, anche i vigili urbani avevano già chiuso lo sportello: era il momento che preferiva. La luce soffusa del tramonto incorniciava il profilo dei portici che conducevano dalla chiesa fino alla grande piazza, rendendoli il luogo ideale per soffermarsi in attesa della cena. Ma lei preferiva trascorrere il tempo dell’aperitivo sfogliando la corrispondenza che affollava la sua scrivania, suddividendola fra quella degna di nota e quella che avrebbe lasciato nella cassetta della segretaria per il disbrigo di rito. L’unica distrazione che si concedeva dopo aver archiviato la posta, era la lettura di alcuni versi di Josif Brodskij, raccolti in un’edizione postuma che le avevano regalato qualche giorno dopo l’elezione, recante una dedica anonima: “La poesia è la risposta fugace alle brutture del mondo, un attimo di sospensione lungo quanto il tempo della lettura, proprio come lasciarsi rivivere negli occhi della persona che si ama”. Sebbene il paese fosse piccolo, negli ultimi anni molte persone si erano riappropriate di un percorso turistico che fondava la sua origine sulla spiritualità. Nelle vicinanze di Ventole sorgeva infatti un’antica abbazia benedettina utilizzata dai frati per il culto soltanto nel fine settimana, ma ancora in ottime condizioni. Il corpo centrale, affacciato sul chiostro, permetteva la visita del vestibolo, del refettorio e della sacrestia. Di notevole valore storico erano i giardini e il cimitero dei frati, anche se la scarsa manutenzione a cui erano stati sottoposti negli ultimi anni li aveva resi in parte impraticabili. Gli affreschi della chiesa, opera di un pittore di scuola fiorentina, erano un vero capolavoro: rappresentavano alcuni momenti della vita di Cristo e San Benedetto. La presenza di un impianto termale sulla strada che collegava Ventole alla città, aveva fatto il resto. Erano sorti numerosi hotels e residences che offrivano alla clientela il fascino della montagna, il benessere delle terme e la spiritualità dell’abbazia. Ma come accade per le riviere incontaminate che anno dopo anno subiscono la cementificazione e la conquista dell’edilizia selvaggia, anche il paese era stato preso di mira da specula-


tori sfrontati che, forti delle conoscenze politiche di alto livello, costringevano i sindaci della zona a modellare i piani regolatori secondo le loro esigenze. “Solitudine è l’uomo al quadrato” era il verso su cui si era soffermata più spesso negli ultimi tempi, soprattutto da quando le avevano frantumato il parabrezza dell’auto lasciandole come monito, sul sedile di guida, un mattone d’argilla. Quando il maresciallo dei carabinieri, un uomo giovane e abbondantemente sovrappeso, le aveva chiesto se qualcuno potesse avercela con lei, magari per motivi personali, la sindaca scoppiò in una fragorosa risata, la stessa che i politici di opposizione temevano perché precedeva sempre la caustica sottolineatura di un errore o di una proposta senza solide fondamenta. “Maresciallo, lo sanno tutti che è l’impresa di Gavazzi ad avercela con me, perché non ho concesso l’autorizzazione a edificare l’ennesimo palazzo ai margini dell’area protetta” ”Non mi metta in imbarazzo“ Disse il sottoufficiale, asciugandosi con un fazzoletto bianco di tela il collo e la fronte “Lo sa benissimo che non si può accusare nessuno senza le prove. Per di più quando l’accusa ricade su un imprenditore così importante” “Questo le basta?” Prese dal cassetto della scrivania il mattone e rigirandolo sotto gli occhi piccoli e vispi del maresciallo, indicò con l’indice una piccola G impressa durante la cottura dell’argilla, marchio delle imprese Gavazzi. “Non sono stati nemmeno furbi, potevano almeno usare un mattone anonimo”. Il cellulare vibrò come un insetto molestato e la sindaca rispose, senza dare il tempo al suo interlocutore di proferire parola “Sto arrivando mamma, ceno a casa questa sera” Lina aveva ventotto anni, era figlia unica e aveva un carattere piuttosto schivo. Non era una bella ragazza, a detta dei suoi coetanei che avevano sempre evitato di corteggiarla: alta e filiforme sembrava piuttosto una giocatrice di basket con le spalle lievemente ricurve e il naso affilato, un’eredità paterna. Vestiva sempre con pantaloni sportivi e t-shirt e, quando il clima lo permetteva, indossava sandali senza calze. Aveva un sorriso entusiastico che faceva pensare, fin dalla prima stretta di mano, di trovarsi di fronte a una persona sobria e profondamente giusta. Il suo avvicinarsi alla politica aveva qualcosa di unico: non era sicuramente una tradizione familiare, il padre era impiegato in un’azienda cartiera e limitava la critica ai mali del mondo commentando le notizie dei telegiornali all’ora di cena; la madre non aveva più lavorato dopo il matri-


monio, occupandosi prima della figlia e poi della casa e non aveva mai discusso di politica, preferiva piuttosto leggere voluminosi romanzi gialli. Lina aveva frequentato le scuole salesiane, ma non aveva trovato nei compagni e tantomeno nei professori gli stimoli intellettuali per dedicarsi alla società e ai suoi problemi. Partecipava con diffidenza alle manifestazioni studentesche che le sembravano un’irrimediabile perdita di tempo. Ma come uno spiraglio d’aria gelida che sfugge a ogni tentativo di isolamento, la politica l’aveva contagiata quando aveva da poco compiuto i sedici anni. Era una domenica pomeriggio d’autunno e aveva appena finito di leggere “La luna e i falò”. Con il libro chiuso sul grembo, continuò a far rivivere nella mente la vita epica di Anguilla, il paesaggio mitico delle colline, ma soprattutto l’intenso e rude desiderio di giustizia di Nuto, il personaggio che di più aveva amato. Uscì dalla stanza e raggiunse la madre, appisolata sul divano in soggiorno e le disse in tono trionfale “Ho preso una decisione, voglio diventare comunista” Che la lettura di Pavese fosse causa di intense passioni e falliti tentativi di emulazione, era un risvolto di cui gli addetti ai lavori erano consapevoli, ma che avesse anche la forza della conversione politica, era un episodio assolutamente nuovo. Nell’inverno passato, imbevuto di pioggia e di un lieve torpore che rifuggiva anche la lettura, le capitava di avvicinarsi alla finestra appannata della sua stanza da letto e disegnare con l’arco delle unghie, docili animali dalle lunghe antenne oppure farfalle in volo. Poi, con un leggero soffio, asciugava il vetro, lasciando che quelle immagini emergessero in controluce, simili alle ditate di un bambino curioso. Dietro quei vetri c’era il suo paese: le strade ripide e tortuose lastricate di porfido, le porte delle case dipinte con colori sgargianti, il profumo che dai forni si diffondeva come una coperta calda sui passi dei tiratardi, la piazza lucida come una moneta ripulita; anche la disposizione dei tavolini nella vineria Gardenia era rimasta identica a quel pomeriggio quando Lina osservò, muta e ferita, una lunga coda di cavallo bionda che ciondolando si allontanava dalla sua vita, lasciandola in balia di uno stillicidio di lacrime che annacquavano il the nella tazza fra le sue mani.


6

Seduto nella veranda su una sedia di vimini, Don Gianni osservava i vasi di geranio e basilico di cui Erminio e Lucia si prendevano cura. Il portico era luminoso e pulito, un pallone da calcio e una vecchia bicicletta arrugginita erano i segni dimenticati dei giochi all’oratorio. C’era un dubbio che lo aveva assalito per tutta la notte, lasciandolo riposare solo poche ore e che ancora lo torturava come un dolore lancinante: il Vescovo lo aveva mandato a Ventole per sottoporlo a una prova? Niente era più distante di quella parrocchia dalla sua precedente occupazione nella diocesi, ecco perché era certo che il Vescovo avesse scelto lui per un motivo ben preciso. Quando si salutarono, Don Gianni vide nei suoi occhi una tristezza liquida che avrebbe potuto trasformarsi in lacrime, se solo il loro incontro si fosse prolungato. Era certo che il Vescovo volesse dirgli qualcosa, magari giustificarsi, ma le parole si erano arenate nella bocca, troppo pesanti per scavalcare l’argine dei denti. Di una cosa però era certo: non c’era stata nessuna perfidia da parte del Vescovo in quella scelta. Scacciati i pensieri che lo turbavano, Don Gianni si alzò in piedi e vide che Youssun stava ancora dormendo, disteso ai piedi del ciliegio. Risolto il problema del medico che lo avrebbe visitato, rimaneva da capire cosa fosse successo al ragazzo e soprattutto preparare per lui una sistemazione provvisoria. Era talmente spaventato che di certo non sarebbe uscito dalla parrocchia quello stesso giorno e l’idea di chiamare i carabinieri non lo convinceva. Il ragazzo era certamente un clandestino e denunciarne la presenza equivaleva a firmare un decreto di espulsione. Quando Erminio entrò nel giardino, con un rastrello sulla spalla destra e la sigaretta pendula fra le labbra, era da poco passata l’una e a nulla servì la cascata di parole che Don Gianni riversò per giustificare la presenza del ragazzo addormentato. Erminio si limitò a ciondolare la testa, come un cane trascinato lontano dal guinzaglio del padrone, poi disse “So già tutto padre, in paese non si parla d’altro. Uscite di chiesa le donne hanno raccontato a tutti cosa era successo alla messa. Cosa pensa di fare?” “Pensavo di parlargli, innanzi tutto”


“Attento padre, non si avvicini a quel mondo” “Quale mondo, Erminio?” “Quello del lavoro in nero, i caporali sono gente pericolosa da questa parti” “Vuole dire che il ragazzo…” “Dico solo di fare attenzione” “Ci sono molti extracomunitari impiegati nell’edilizia?” “Non vede quanti cantieri ci sono? Qui è tutto un cantiere. Nessuno di loro sa lavorare, però costano poco e sono infaticabili. Ma quasi ogni giorno qualcuno si fa male oppure si ribella alle condizioni disumane in cui li costringono a lavorare” “Youssun aveva un taglio profondo, credo procurato da un coltello o qualcosa di simile” Erminio spense la sigaretta con la punta dello stivale, poi raccolse il mozzicone e se lo mise in tasca “Quando si fanno male, li caricano in macchina e poi li abbandonano sul ciglio della strada a qualche chilometro di distanza dal cantiere, così sembra che siano stati travolti da un’auto pirata” “Bel modo per evitare i controlli sulla sicurezza. Trattarli come fantasmi” “Padre, mi dia retta, non si immischi” Erminio si dileguò fra le piante del giardino, borbottando ancora qualche parola in dialetto, di cui Don Gianni non colse il significato. Il suono prolungato del campanello fece sobbalzare Youssun dalla quiete in cui si era adagiato nelle ultime ore. Sembrava terrorizzato “Sono loro padre, uccidere, uccidere” “Sali Youssun, entra nella mia stanza e non muoverti per nessun motivo” Il ragazzo era impietrito “Mi hai sentito? Muoviti, entra nella mia stanza e non uscire fino a quando non te lo dirò io” Fuori dalla porta c’erano due uomini. Il più vicino, quello che aveva suonato il campanello, aveva dei lunghi capelli ricci che ricadevano sulle spalle, anche se un’incipiente calvizie mostrava la fronte ampia e madida di sudore. Indossava una camicia bianca sbottonata fino al petto, da cui emergeva una folta peluria. Un pesante crocifisso d’oro, tempestato di pietre preziose, ciondolava al ritmo del respiro. Sebbene fosse molto grasso, emanava un’idea di forza e di agilità. L’altro, più distante dalla porta di ingresso della parrocchia, era seduto sul cofano di una Mercedes nera. Era giovane e longilineo, indossava una maglietta


aderente e dei jeans sbiaditi. Teneva la sigaretta in modo strano, fra l’indice e il pollice, come una penna. “Benvenuto a Ventole, padre, le piace il posto?” Il grasso parlava soffiando fra le parole, come gli asmatici “Chi cercate?” Rispose don Gianni, assumendo il tipico atteggiamento di chi si sente a disagio “Padre, che fredda accoglienza! Non si trattano così i parrocchiani” Il giovane si era avvicinato e solo allora il prete si accorse dello spesso anello argenteo che portava al pollice destro. “Ha ragione, mi scusi, ma questa notte ho dormito poco e sono un po’ confuso” “Senta padre, ho sentito dire che la sua prima messa è stata movimentata” “Non credo proprio!” Disse sorridendo Don Gianni “C’erano soltanto tre persone” “Le piace scherzare, vero? Allora senta quello che mi hanno raccontato: un negro è entrato di corsa in chiesa, infilandosi come un cane bastonato nella sacrestia. E poi non ne è più uscito. Quindi immagino sia ancora qui dentro” Pronunciando le ultime parole, il grasso sporse la testa nel vano della porta, come per ispezionare l’interno. D’istinto don Gianni indietreggiò, portando la mano sinistra alla maniglia, pronto a chiuderla. “Io non lo so cosa cercate, ma il ragazzo di cui parlate era già fuggito dopo la messa. Sono entrato in sacrestia e lui non c’era più” “Le bugie hanno le gambe corte, padre. E quando qualcuno le racconta, non è più nostro amico” Erminio giunse come un ombra alla spalle di don Gianni. Aveva le maniche arrotolate e la pelle della braccia, scurita dal lavoro al sole, scopriva i muscoli solidi e asciutti. Il rastrello adesso era piantato a terra, con le punte rivolte verso i due “Adesso andatevene immediatamente da questa casa e non fatevi mai più vedere qui intorno. Non di disturba la pace della casa del Signore” Il giovane lanciò con disprezzo il mozzicone ancora acceso sopra i piedi del parroco che trattenne nello stomaco un pugno di rabbia e paura. Entrambi lo osservarono rotolare lungo i tre gradini che portavano alla porta d’ingresso della parrocchia per poi fermarsi, fumante, sull’asfalto polveroso della strada. “Non finisce qui, potete starne certi”


Urlò il grasso dal finestrino aperto, mentre l’auto si allontanava stridendo.


7

Il tenente Friedrich Steinitz considerava la guerra il peggior evento che gli fosse accaduto nella sua breve vita. L’alba di un nuovo giorno di battaglia rappresentava l’annientamento di ogni pensiero felice, come se una mano flaccida e sudata si abbattesse, con il sordo rumore di uno schiaffo, sul suo viso mal rasato, risvegliandolo dal sonno malarico e febbricitante che l’Africa gli aveva lasciato in dono. Poi c’erano gli incubi, di cui al risveglio ricordava ogni particolare, facendoli assomigliare a una visione deformata della realtà, una giostra degli specchi dove le proporzioni si invertono, un incanto di luce che snellisce il pingue e dilata l’esile. Quello più ricorrente riguardava un uomo con i baffi. C’era un cadavere, ucciso con un colpo di pistola al petto, disteso fra una moltitudine di persone allarmate. Nella siepe di visi riconosceva quello dell’assassino: lo vedeva illuminarsi, come se una luce fuori campo lo inquadrasse o un raggio di sole sfuggito alle maglie di una nuvola ne rimarcasse i lineamenti. Si guardavano negli occhi e lui avrebbe avuto tutto il tempo per urlare e indicarlo alla folla, tanto più che l’uomo teneva ancora in una mano la pistola. Ma in quel dramma sognato non riusciva a dire nulla, le parole non gli uscivano dalla bocca e il corpo era paralizzato. L’uomo con i baffi allora sorrideva, sprezzante nella sua incolumità, e faceva il gesto, lo stesso ogni volta, di grattarsi la tempia con la canna della pistola. Il tenente Steinitz era entrato nella Wehrmacht a causa del bando di coscrizione obbligatoria emesso da Hitler nel 1935 e per questo fu costretto ad abbandonare lo studio del pianoforte. Suonare era l’unica cosa che lo interessasse veramente. Aveva 27 anni quando arrivò in città, a capo di un plotone incaricato di intercettare e decifrare le trasmissioni radio degli alleati. I suoi sottoposti erano studenti universitari, fieri di aver lasciato la Germania per combattere in nome del Fuhrer. Uno di loro, in particolare, soffriva la strana freddezza del tenente nei confronti dell’ideologia nazista: si chiamava Joska Novitz e proveniva da una famiglia di allevatori della Baviera. Studiava alla facoltà di veterinaria ed era un discreto fondista. Quando il tenente si appartava per leggere mentalmente gli spartiti di musica classica, conservati dentro una sacca di pelle sotto la branda,


Joska lo indicava sprezzante con lo sguardo “Vedete, a lui importa solo di leggere quella dannata musica! Non esulta mai per i proclami del Fuhrer, mai una volta che l’abbia sentito parlare di questa guerra” “Dai Joska, forse è dispiaciuto di essere lontano da casa, magari gli manca la famiglia” “Quale famiglia, quel pappamolla sarà nato sotto un cavolo!” “Joska, sei veramente matto, guarda che è un tuo superiore” “Secondo me ragazzi, quello Steinitz ha qualche parente ebreo. Magari ha lui stesso l’uccello circonciso!” Quelle discussioni si concludevano sempre con delle fragorose risate, alimentate dall’imitazione che Joska faceva del tenente: seduto di fronte a un ipotetico pianoforte mentre si contorceva impegnato in una sonata, accompagnata dai fischi e dai rumori osceni degli altri soldati. In realtà al tenente non mancava la famiglia, non aveva nessun parente ebreo e tantomeno era un oppositore del regime. Per comprendere il suo distacco dalla vita militare, Joska e gli altri avrebbero dovuto avvicinarsi a lui con prudenza, come si fa con un animale impaurito. Ma quella era la guerra e la prudenza nei rapporti umani non era concessa. Quando era solo, il tenente raccoglieva la massa pulsante e informe dei suoi stati d’animo e cercava di trasformarla in musica. La vedeva passare davanti agli occhi, fatta di segni scuri su un pentagramma bianco. Altre volte, soprattutto di notte quando passato l’incubo non riusciva più a prendere sonno, scriveva sopra dei fogli giallognoli che poi arrotolava e teneva insieme con uno spago di canapa. Sul primo foglio c’era una data e un titolo: “Diario dei miei giorni infelici”. Su un altro aveva appuntato: “Se penso alla vita come a un’imponente opera musicale, la guerra sarebbe la dissonanza da risolvere, il suono differente che il mio orecchio non potrebbe accettare”. Dopo il suo arrivo in Italia, i fogli non recavano più la data ma la descrizione delle condizioni meteorologiche: “Oggi è nuvoloso, ma gli italiani sembrano possedere una luce dentro che illumina ogni cosa che fanno, anche nella miseria”. Ma è in un giorno di sole caldo e vento che il tenente racconta di essersi riavvicinato alla musica: “L’avevo vista già il giorno del mio arrivo. E’ una splendida chiesa barocca, immersa in una delle vie più trafficate della città, per via dei comandi militari e di molti negozi che di giorno smaltiscono le file del razionamento e di notte socchiudono le finestre al mercato nero. Gli interni sono splendidamente affrescati e gli stucchi dorati la rendono scintillante come un gioiello. Alzando lo sguardo avevo visto quello splendido organo a canne, sospeso sulla mia testa come un monito: non


suonerai mai più!”. Ogni sera il tenente raggiungeva il comando per consegnare il rapporto sulle intercettazioni della giornata e seduto sul sidecar nel posto del passeggero, poteva osservare le persone da un’insolita prospettiva per il suo ruolo di occupante: dal basso verso l’alto. Era diventata una città di vecchi che camminavano strisciando le poveri vesti contro i muri, attenti a non guardare in faccia nessuno, nemmeno se lo urtavano involontariamente. Fra le case, cumuli di macerie nelle quali ombre furtive scavavano a mani nude per cercare una pezza o qualunque altro oggetto da rivendere. I bambini giocavano ancora, ma le gambe gracili e gli occhi gonfi di fame e sonno interrotto, rincorrevano solo per qualche minuto la palla di stracci negli androni deserti. I cani e i gatti vagavano scheletrici per le strade, addormentandosi in ogni posto. E allora perché immerso in questo scenario desolante, nel suo animo già predisposto alla contemplazione, non si era sviluppato il germe della ribellione? Semplicemente perché il tenente Friedrich Steinitz odiava soltanto l’imposizione del tempo che la guerra esercitava sulla sua vita, per il resto si sentiva profondamente tedesco e concorde con la visione dominante del nazismo. “Il pomeriggio è stato particolarmente caldo, così al tramonto, quando mi sono diretto al comando per la solita consegna, ho chiesto a Wolfgang di accompagnarmi al fiume. Mi avevano detto che ci sono dei ragazzi che si tuffano da un ponte e poi pescano con le mani. Volevo vederli. Quelle piccole teste vispe, con i capelli rasati alla buona, emergevano con il pesce ancora guizzante stretto nella bocca. Poi a riva, lo sbattevano su una roccia, dove le madri li aspettavano pronte a nasconderlo nel risvolto della veste. Guardandola, mi rendo conto di non odiare questa gente. Non odio nemmeno gli ebrei, ho suonato con loro e molti sono stati anche miei buoni amici. Ricordo ancora quando nel retro del negozio dei Ferber, con le labbra sporche di zucchero e farina, avevo baciato per la prima volta una ragazza. La piccola Lizie, chissà se sarà ancora viva… Voglio soltanto che tutto questo finisca, voglio che la Germania vinca la guerra, voglio ricominciare a suonare. Sono un uomo gretto?”.


8

Lina mangiava poco e male. Sulla quantità non c’era molto da eccepire, i suoi pasti erano parchi già dall’adolescenza, quando normalmente si è più propensi alle abbuffate. Sulla qualità del cibo invece, a nulla erano valsi i tentativi della madre di ricondurre la sua dieta alla normalità. Non mangiava alcun tipo di formaggio, nemmeno se amalgamato agli altri ingredienti di una portata. Si trattava di una questione prettamente sensoriale: non ne sopportava l’odore, né tantomeno la vista. Non amava le verdure cotte ammucchiate in un angolo del piatto, colpevoli di procurarle una fastidiosa tristezza. Mangiava soltanto qualche frutto, eccezione fatta per i fichi maturi di cui era particolarmente ghiotta. Mangiava pochissima carne ma prediligeva i crostacei, a cui però doveva essere tolta la testa prima di presentarli nel piatto. Gli altri pesci non le piacevano. Rifiutava il coniglio e la selvaggina per una questione di sensibilità verso quegli animali che riteneva vittime innocenti dell’ingordigia umana. I dolci invece le piacevano molto, in particolare la meringata. I suoi pasti si erano standardizzati nel tempo, secondo uno schema infallibile: panini con il prosciutto o il salame a pranzo e una pasta condita con il pomodoro alla sera. Quando poi era particolarmente affamata, friggeva nella padella le patate che tagliava personalmente a fettine sottili. “Domani prendo mezza giornata di permesso” Lina era seduta sul divano, con la faccia nascosta dietro il giornale aperto. La madre ciabattava davanti a lei, intenta a sparecchiare la tavola. “Perdi ancora delle ore di lavoro per la politica?” Disse caustica, voltandole le spalle “In ufficio lo sanno che sono la sindaca di Ventole e sanno anche che ho diritto a dei permessi retribuiti” “Si, ma all’azienda questo non interessa e tu non farai mai carriera” “Non iniziare di nuovo con questa storia! In ufficio mi comporto bene” “Non basta comportarsi bene, bisogna anche essere presenti. Prendi tua cugina Silvia, lei non ha delle sciocchezze per la testa e l’hanno promossa capoufficio. Me l’ha detto lo zio”


Sua madre continuava a parlare, ma ormai Lina si stava sforzando di ripescare dalla mente le parole di un articolo di giornale che aveva letto qualche tempo prima. Spesso le succedeva che una parola o un gesto, le ricordassero qualche lettura passata e così era stato per quella discussione con la madre. Però era come cercare un quadrifoglio in una distesa verde: infatti Lina era una lettrice compulsiva, iniziava più libri insieme e se le prime cinquanta pagine non attiravano la sua attenzione, li metteva da parte, per poi riprenderli successivamente. Leggeva almeno due quotidiani tutti i giorni e numerose riviste di approfondimento politico e di attualità “Viene un giornalista della gazzetta a intervistarmi, vogliono fare un servizio sui giovani amministratori locali della provincia” Il padre non parlava, fissava lo schermo della televisione sintonizzata su un quiz a premi dalle scenografie scintillanti. Quando quella stessa notte si stese sulle lenzuola, incrociando le braccia dietro la testa, si accorse che la lettura dimenticata, sollevata dal cianciare bisbetico della madre e non ancora ripescata dal labirinto di parole nel quale si era nascosta, rischiava di provocarle una fastidiosa insonnia. In fondo era abbastanza arguta per pensare che quel civismo politico trasversale, al quale molti si erano convertiti, non fosse la risposta giusta per il futuro della società. Anche sua madre gliel’aveva rinfacciato: “se proprio non puoi fare a meno della politica, togliti almeno di dosso l’etichetta!”. Ma alla contropartita qualcuno ci aveva pensato? Un patto fra persone oneste che si propongono di governare un ente, deve poggiare sulla roccia e non sulla sabbia. Basta qualche obiettivo comune e una filastrocca di frasi rubate ad altri e poi riportate su un opuscolo programmatico, per solidificare un’intesa e renderla inattaccabile? Quando quelle stesse persone si troveranno intorno a un tavolo per decidere a chi appaltare la pulizia degli uffici, il criterio del minor costo orario metterà tutti d’accordo. Ma quando nelle scelte amministrative interverranno le convinzioni personali, allora lo sguardo di ognuno si alzerà verso quello dei presenti, per enumerare gli amici e i nemici sul campo. Lei preferiva che tutti sapessero da quale parte stava ed evitare che un secessionista o un conservatore sedessero al suo stesso tavolo di lavoro. Naturalmente la crisi dei partiti non andava sottovalutata, come il disprezzo generalizzato verso la politica, che ne era la causa principale. Improvvisamente quel titolo di giornale le rinvenne, nero su bianco, come un’istantanea: “La solidarietà della politica come limite al capitalismo”. Si trattava di un’intervista a Pietro Ingrao, il quale richiamava i giovani politici di sinistra a riscoprire la forza che ani-


mava gli amministratori della sua generazione i quali, terminato il lavoro, si rimboccavano le maniche e facevano notte nei Comuni che amministravano. Lina fissava il soffitto bianco e sentiva un profondo disagio crescerle dentro. Per lei l’attività politica era un servizio reso alla comunità da cui, in cambio, riceveva un’indennità mensile che a malapena copriva le spese di trasporto sostenute per muoversi da Ventole alla città per presenziare alle assemblee consortili. Senza poi dimenticare quelle che lei chiamava le elargizioni. C’erano cose che la sindaca teneva nascoste a tutti, ma che avevano una faccia ben precisa. Rosaria, vedova e scaricata dai figli, viveva in una stanza senza bagno lasciatale in uso gratuito da una lontana parente. Tutte le mattine approfittava dei servizi pubblici nell’androne del Palazzo Municipale e quando l’urgenza non lo permetteva, utilizzava un bidone d’olio vuoto che la pizzeria sotto casa aveva abbandonato vicino ai contenitori dei rifiuti. Nerina, quattro figli da tre uomini diversi, non aveva nemmeno i soldi per pagare l’abbonamento del treno alla figlia più giovane, una ragazza magra e pallida che aveva degli ottimi risultati a scuola. Martino, ex disegnatore meccanico, abbandonato dalla moglie e dai figli e caduto in una grave depressione, era diventato un settantenne dal volto scavato con il vizio velenoso del fumo e del vino che trangugiava, già dal primo mattino, al bancone dei bar. Più di una volta, in preda alle allucinazioni, si era perso nei boschi della valle, facendo temere il peggio. A tutte quelle vite in difficoltà, aggrappate con le unghie allo scorrere amaro dei giorni, la politica doveva dare delle risposte. Forse Lina non lo faceva nel modo più consono, quello predicato dai sociologi, eliminando alla radice le condizioni favorenti, lei lasciava scivolare un biglietto da cinquanta euro nelle mani di quelle persone che bussavano al suo ufficio una volta al mese, puntuali come un padrone di casa esigente. Il residuo della sua indennità finiva nelle tasche dei disperati che con quell’aiuto avrebbero potuto mangiare, studiare e magari comprarsi delle medicine. Non c’era il beneficio del dubbio in quelle azioni generose, neanche quando Martino usava i soldi donati per appestarsi con il vermut chinato. Era certa che la povertà fosse una condizione impossibile da estirpare e se anche lo fosse stata, i tempi della politica sarebbero stati troppo lunghi perché gli ultimi ne traessero beneficio. Ecco perché aveva scelto: meglio un sindaco caritatevole che uno studioso, impegnato a immaginare scenari futuri. Prima di abbandonarsi al sonno leggero dei mesi estivi, fitto di ronzii e calore, ripensò al sole che si scioglieva docilmente nel mare di Siracusa e alla mano di Oriana che stringeva la sua. E tutto profumava di salsedine, pesca e cuoio.


9

Olmo era sdraiato per terra, al limite del pendio che digradava sulla strada, con la braccia incrociate sotto il mento. La terra dura e gelata scricchiolava a ogni movimento mentre gli alberi intorno, spogli e rattrappiti come vecchi morenti, sembravano indicare un punto nel cielo. Teneva il fucile sulla schiena, legato con una tracolla di cuoio. Dietro di lui, Piero e Billy sedevano sui talloni, senza mai perdere d’occhio la sacca che custodiva le bombe a mano. “Tutto tranquillo, non si vede salire nessuno” Disse Olmo, ritraendosi. Poi, voltandosi verso i due, riprese “Perché non mangiamo qualcosa? Va bene morire per la patria, ma non di fame!” Risero con la bocca socchiusa e quello che ne venne fuori fu un accesso di tosse che li colpì come una frustata “Maledetta umidità, finirà che ci prenderemo tutti una polmonite. Ecco, ho preso alla cascina dei Ronchi tre mele e un pezzo di toma” Billy estrasse un coltello con il manico di legno e distribuì la toma tagliata a tocchetti. Poi, mangiate con voracità le mele, si misero a fumare in silenzio, coprendo con la mano la bocca per evitare che troppo fumo si disperdesse nell’aria. Billy ripulì con cura la lama del coltello, strofinandola contro la corteccia di un albero. Il ragazzo aveva il viso largo e la mascella prominente, annerita dalla barba che cresceva a chiazze. I capelli, neri e folti, scendevano a riccioli sulla fronte. Si era unito ai partigiani per sfuggire all’obbligo di reclutamento della Repubblica Sociale Italiana e da quel giorno non era più tornato a casa. Una mattina, poco dopo l’alba, mentre pattugliava il versante della montagna sopra la diga, aveva incontrato casualmente un compaesano, salito a far provvista di legna. Si erano messi a parlare in dialetto e Billy ne approfittò per farsi raccontare i fatti accaduti in paese durante la sua assenza. Quando si salutarono, affidò all’uomo un messaggio per la madre, dicendogli di rassicurarla sulla sua salute ma anche di dirle che sarebbe tornato a casa solo quando i suoi occhi avrebbero visto il pelato appeso per il collo a una corda. Quando l’uomo era già quasi sparito dalla vista, Billy fischiò stridulo e gli urlò di dire alla madre di tenere da parte un po’ di farina


per il castagnaccio. “Pensi che saliranno oggi?” “Non lo so Piero. Virginia ha sentito il Maresciallo Guermani parlare al telefono con il Comando, lo avvisavano di una consegna nei prossimi giorni” “Perché mai consegneranno delle armi a quei quattro?” “Vuoi sapere il motivo? E’ semplicissimo: hanno paura, ecco perché, lo sanno benissimo che a Ventole ci sono i partigiani” Rispose Billy con impeto, sovrapponendosi alla voce di Olmo. Da quando aveva saputo che i fascisti erano stati a casa sua per cercarlo, mettendo sottosopra i mobili e prendendo a martellate le pareti alla ricerca di un nascondiglio, cercava vendetta. “Calmati Billy” Disse Olmo con voce pacata “Abbiamo bisogno di ragionare a mente fredda. Se hanno richiesto delle armi è perché c’è in vista un rastrellamento. I nazisti si sono stancati dei partigiani e vogliono estirparci come erba cattiva. C’è da sperare che non mandino quei traditori della Muti, sarebbero capaci di ammazzarci come animali se ne avessero l’occasione. Dobbiamo cercare di saperne di più. Al Caffè della Posta non si dice nulla?” “Niente che non sapessimo già” Rispose Piero “Le solite esercitazioni in piazza Regina e i proclami del Dottor Aragoni dal balcone del municipio la domenica mattina” “Porco fascista, lo sapete cos’ha detto la scorsa domenica? Che per essere un buon italiano, si deve essere prima di tutto un fiero camerata e raccontare tutto quello che si sa sui banditi. Nemmeno partigiani, ha proprio detto banditi! Maledetto, pagherà per ogni parola…” “Hai ragione Billy e pensare che prima della marcia su Roma era stato un buon socialista, persino generoso con i poveri. Nella sua farmacia chi entrava senza soldi, usciva sempre con le medicine” Raccontando quell’aneddoto, Piero si era immerso nei ricordi dell’infanzia e il suo sguardo vagava ora in un punto indefinito dell’orizzonte dove non c’erano più alberi spogli e una strada da scrutare, ma il profumo delle bucce d’arancia messe a seccare sulla stufa il giorno di Natale, le corse con le scarpe chiodate sul fiume ghiacciato e le mani tremanti di Don Beppe quando sollevava l’ostia sopra la testa, alla prima messa del mattino. Piero, come Olmo, era uno studente del seminario. Entrambi sarebbero stati ordinati sacerdoti quello stesso anno, se non avessero deciso di indossare il fazzoletto verde dei partigiani


cattolici e unirsi alla lotta di liberazione. Erano fuggiti insieme, nel cuore notte, da una finestra del refettorio che si apriva direttamente sulla piazza del Duomo. Piero era un giovane robusto, con le mani e le braccia abituate all’accetta e alla pialla. I capelli, castani e pettinati all’indietro, liberavano una fronte ampia su cui le sopracciglia sottili disegnavano un tratto appena percettibile. Gli occhi, di un blu intenso, erano perennemente tristi e solcati dal peso della stanchezza. “Adesso ascoltatemi bene” Disse Olmo, estraendo dalla tasca interna della giacca un quaderno con la copertina nera, sui cui aveva disegnato con tratto sicuro la mappa della zona. “Questa è la strada che sale dalla città a Ventole. Dal punto in cui siamo adesso, riusciamo a vederla fino al primo tornante, quello della cascina Granda. Mi seguite?” I due, che intanto si erano inginocchiati vicino a lui, annuirono con un cenno del capo. “Solo a partire dal terzo tornante, quello segnato con un cerchio, è possibile distinguere il mezzo che sta salendo. Da quel momento in poi, avremo non più di cinque minuti per scendere dal pendio senza essere visti e nasconderci dietro quelle rocce laggiù, prima del ponte del Diavolo” Piero guardava verso le rocce, mentre con l’indice della mano si sfregava l’occhio destro che da giorni soffriva di una fastidiosa congiuntivite “Voi due starete sul lato sinistro, protetti dalle rocce, mentre io salirò su quel cumulo di terra, dall’altro lato della strada. Quando saranno sul rettilineo, dovrei riuscire a vedere gli uomini di scorta alle munizioni e ve li indicherò con la mano, così…” Olmo apriva e chiudeva lentamente le dita della mano sinistra, indicando di volta in volta un numero diverso. Arrivato a quattro, chiuse le dita a pugno e disse “Questo è il numero massimo di uomini che potremo affrontare, se saranno più di quattro ce ne staremo nascosti e li faremo passare, senza fiatare” Billy sputò in terra e poi pestò la saliva con la punta della scarpa “Se saremo fortunati” Disse Piero lanciando uno sguardo alla strada “Ce ne sarà uno alla guida del camion e due dietro, seduti sul cassone con l’artiglieria” “Faremo così”


Riprese Olmo “Io farò esplodere due bombe sotto il camion, all’altezza del motore, costringendolo a fermarsi e poi punterò il fucile verso l’autista. Voi balzerete sulla strada e immobilizzerete quelli dietro. Nessuno dovrà sparare. Noi non siamo assassini” “Sono solo dei fascisti Olmo, solo dei luridi fascisti” “Sono uomini Billy, proprio come noi. Soltanto che hanno deciso di stare dalla parte sbagliata, questa è la loro unica colpa” Non potevano aspettare molto, al massimo tre giorni. Se dalla città non fossero saliti con le armi, quel posto non sarebbe più stato sicuro. Il sole era ormai tramontato e Piero era salito al comando a recuperare qualcosa per la cena. Camminava con passo regolare, le mani dietro la schiena, lungo il ripido sentiero che tagliava il castagneto. Il fucile sbatteva a ogni passo sulla schiena, intirizzita dal freddo che trasformava il fiato in fumo. Sebbene fosse chiaro anche al più sprovveduto di loro che era impossibile vincere da soli la guerra contro i fascisti, la sensazione di potercela fare albergava nei loro cuori, come una segreta speranza che si teme di nominare. A sostenerli era la volontà di riconquistare un principio morale superiore che la dittatura aveva calpestato con arroganza, incatenando la libertà e la dignità degli italiani alle leggi razziali e alla guerra. Poi c’era l’appoggio della gente che li aiutava come poteva: lasciando fuori dalle finestre un pasto caldo o aprendo di notte le porte delle case per curare e sostenere i feriti e i malati. Anche un semplice sguardo, quando tradisce compiacimento, può essere di grande aiuto. La sede del comando partigiano era all’osteria Boisnard, in una stanza sopra la cucina. Il comandante, stretto in una divisa militare con i gradi di capitano, osservava Piero mentre riempiva lo zaino, prendendo dalla madia tre pagnotte di pane, un salame e una manciata di nocciole che caddero sul fondo crepitando. “Non avrete troppo freddo a passare la notte là fuori?” “Abbiamo recuperato delle vecchie coperte alla cascina dei Ronchi. Ci appesteranno di stallatico ma almeno non avremo freddo” “Tenete d’occhio il ragazzo, mi raccomando, è ancora troppo irruento per affrontare un’imboscata” Piero annuì, poi si soffermò a osservare l’arco delle unghie del comandante, pulito e perfettamente tagliato. “Piero, ascoltami bene. Questa storia delle armi non mi convince e se non ne avessimo un bisogno disperato, non vi avrei mai mandati ad aspettare un camion di fascisti per assaltarlo. Mi fido di voi, lo sai, ma non fate gli eroi. Se al tramonto di dopodomani non si è visto nessuno


ritornerete al comando. E’ un ordine” Piero uscì nella notte, abbracciando con lo sguardo l’intera volta celeste. D’improvviso un pensiero lo scosse, come un fulmine quando incendia la chioma di un albero “Nessuno è talmente stupido da affrontare un viaggio con un carico pericoloso, per di più in una zona controllata dai partigiani, senza avere dalla sua la luce del sole. Ma se avessero avuto sentore di un’imboscata e decidessero di salire di notte? Non potremo di certo attaccarli, senza sapere quanti sono. Vedremo soltanto due fari gialli. Ci fosse almeno un taglio di luna” Il campanile di Ventole aveva battuto le otto e mezza e Piero stava per imboccare il sentiero, quando decise che c’era ancora tempo per una visita a Virginia. Voleva chiederle se avesse colto qualche altra informazione dai rari discorsi che il maresciallo Guermani faceva con i sottoposti. Una finestra dell’umile casa in cui viveva con la madre e la sorella minore, era illuminata dal chiarore tremulo di una candela. Piero bussò con le nocche della mano sinistra, mentre con l’altra sosteneva gli spallacci dello zaino. La finestra si socchiuse e Piero sussurrò il suo nome, tenendo lo sguardo rivolto verso il fondo della strada. Dalla casa uscì l’odore acido del minestrone messo a scaldare. Vide le mani della ragazza appoggiarsi al davanzale mentre la sua voce, come quella di una monaca attraverso la grata della clausura, gli giungeva rauca, distante. “Credo che succederà all’alba. Oggi il maresciallo ha ricevuto un’altra telefonata. E poi mi ha detto che domani sarei potuta andare a lavorare nel pomeriggio” “Niente altro?” “Ne ho sentito uno che si lamentava. Diceva che la notte era fatta per dormire” Piero strinse la mano di Virginia e poi si mise a correre a perdifiato verso il sentiero. Nella strada rimbombava solo l’eco dei suoi passi. All’apparire delle luci, Billy si lanciò giù dal pendio, inghiottito dal buio. Era il suo turno di guardia e con un urlo possente li aveva svegliati. Piero e Olmo si precipitarono verso il ponte del Diavolo, cercando di non inciampare nei massi che affioravano dal terreno come presagi di morte. Si ritrovarono con la schiena schiacciata contro le rocce, ansimanti. Il rumore del camion che si inerpicava era cupo, imbrigliato dentro il cofano “Non possiamo Olmo, non possiamo. Sarebbe un suicidio. Non si vede nulla”


Disse Piero con la voce rotta dallo sforzo “Merda, a costo di farlo da solo, ma quelle armi ce le prenderemo” “Smettila Billy, Piero ha ragione, è un rischio troppo grande” Il camion era sul rettilineo a poche centinaia di metri da loro, lo si capiva anche dal rumore, diventato tonante. Billy balzò nel mezzo della strada, prendendo dalla sacca le bombe “No, Billy, non farlo!” Urlò Olmo, ma era troppo tardi, tutto ormai doveva compiersi. Quando i fari lo inquadrarono, come un animale notturno sorpreso dai cacciatori, Billy lanciò le bombe con precisione sul cofano del camion, riducendo la cabina di guida a un ammasso di lamiere fumanti. In quell’istante, Olmo pensò che il fragore metallico appena udito doveva avere ucciso l’autista. Dal cassone partirono delle sventagliate di mitra verso Billy che si era riparato dietro il cumulo di terra. Piero si sporse e vide distintamente tre figure muoversi intorno al camion, alla ricerca della migliore posizione per ripararsi. “Non avete scampo! Siete circondati, arrendetevi e non vi sarà fatto alcun male!” Urlò Olmo con tutto il fiato che aveva in gola ma i tre imprecavano e fecero ancora fuoco nel buio, verso le rocce. Billy si mosse e fece rotolare una bomba sul terreno dissestato. L’esplosione lasciò due feriti a terra, mentre il terzo riuscì a fuggire nel buio. “E’ mio, l’ho visto!” Urlò Olmo “Voi occupatevi degli altri due” Si mise a rincorrerlo, seguendo la traccia della sua corsa appesantita. Il fascista stava perdendo le forze, Olmo percepiva chiaramente l’ansima che lo stava soffocando e in quella corsa impari, fra la preda ferita e il predatore, sentì tutto l’orrore della sopraffazione e per un attimo ne ebbe pietà. Quando ritornò, vide Piero e Billy in piedi che tenevano lo sguardo rivolto verso i fascisti distesi a terra, con le mani dietro la nuca. Avvicinandosi, l’odore metallico del sangue gli saturò le narici “Allora?” Lo interrogò Billy, astioso “Mi è sfuggito, si è nascosto in qualche cespuglio” “Merda Olmo, fra un’ora qui scoppierà l’inferno” “Non credo Billy, era ferito gravemente, non farà molta strada” Piero comprese che il compagno stava mentendo e strinse fra i denti l’impeto di chiedergli cosa fosse davvero successo. Pensò che sarebbe stato meglio farlo in un altro momento


“Sei ferito?” Chiese Piero allarmato, vedendo che si teneva una mano sull’addome “No, non è nulla” Intorno c’erano i resti della loro prima battaglia, un inferno di fumo e membra straziate, oltre a un incontenibile senso di gioia per aver vinto quello scontro. Quando la luce del sole si levò a illuminare la strada, Olmo si guardò le mani e pianse a dirotto.


10

Seguivano la strada verso Ventole sullo schermo del navigatore satellitare, riponendo la massima fiducia nell’apparecchio elettronico che avevano acquistato in rete il Natale passato. Si erano fatti quel regalo senza uscire di casa, immersi nell’atmosfera virtuale di internet, in cui l’unico contatto con la realtà era stato il corriere espresso in tuta arancione che aveva consegnato il pacco alla loro porta. Erano riusciti entrambi ad avere una settimana di ferie e avevano deciso di trascorrerla chiusi in casa a cucinare, leggere, guardare la televisione e fare l’amore, anche se quest’ultima attività preferivano non pianificarla, sarebbe venuta da sé, come tutte le altre volte. Nessuno dei due aveva provato nostalgia per l’atmosfera natalizia che la città regalava ai passanti, soprattutto quando si percorrevano le strade strette del centro storico, dove alle vetrine dipinte si alternavano i suonatori di strada e i bidoni traforati dei caldarrostai. Però, se proprio avessero rivoltato l’anima come un salvadanaio sul tavolo, un ricordo comune li avrebbe spinti a uscire nell’aria brumosa di quell’inverno senza neve: le casette di legno che ospitavano i mercatini natalizi. Era stato il primo Natale che trascorrevano insieme e Chiara indossava un cappello morbido di colore blu che Marco si divertiva a fotografare dopo averlo modellato nelle posizioni più buffe. Mentre curiosavano fra le casette che profumavano di resina, stretti una all’altro come due adolescenti alla prima scorribanda amorosa, incapparono in un’esposizione di copricapi artigianali dalle fogge e dai colori più disparati. Di fronte a un piccolo specchio appeso a uno spago incominciarono a provarne diversi, ridendo e fotografandosi a vicenda. Esausti dalle risa e convinti dallo sguardo minaccioso del proprietario, decisero di acquistare uno zucchetto blu per Marco e un cappello floscio che scendeva sulla spalla per Chiara e, con quelli indosso, continuarono a ridere e correre fra le persone che si accalcavano alla ricerca di un regalo. Finirono seduti su una panchina di legno, a divorare caldarroste innaffiate da vin brulé. Dopo, in macchina, con le guancie arrossate e la lingua intorpidita dalle spezie, si erano guardati a lungo negli occhi, cercando di sopravvivere in fondo a quel precipizio liquido e in esso trovare nutrimento. Le mani, prima timidamente e poi


con impaziente frenesia, avevano seguito il profilo del viso, delle spalle, del petto, per finire raccolte nell’incavo delle gambe, come in una preghiera. Non era restato che il buio, candito a tratti dai fari delle auto che sfioravano quell’alcova improvvisata, a governare il precario equilibrio dei loro corpi, affondati nei sedili umidi. Tutto divenne una rapida discesa verso l’oblio, dominato dall’odore dei corpi accesi. Entrambi sapevano che la loro vita sarebbe stata per sempre legata, ma a quale prezzo? “Ormai non dovrebbe mancare molto. Se il navigatore non sbaglia, fra venti minuti saremo da Gianni” Era una splendida mattina di sole e Chiara parlava guardando davanti a sé, protetta dalle lenti violacee degli occhiali da sole. “Quindi non hai idea del motivo per il quale si trovi quassù?” Riprese Marco, guardandola per un attimo “No, assolutamente. E non me ha nemmeno voluto parlare al telefono. E poi c’è questa storia dell’antitetanica” “Si sarà fatto male con qualche attrezzo da lavoro. Ventole non è balzata alla cronaca per il numero spropositato di cantieri edili? Magari è diventato un prete operaio!” Chiara sorrise, appoggiando delicatamente la mano sulla gamba del marito che guidava rilassato “Non ce lo vedo proprio a fare l’operaio. Gianni conosce la fatica dello studio, ma credo che quella fisica non l’abbia mai provata” “Cosa facevano i suoi genitori?” “Facevano il pane. La madre in negozio e il padre di notte ai forni” Un gatto dal folto pelo marrone, sbucò da un campo di mais, sfrecciando davanti al muso della loro auto. Marco non ebbe nemmeno il tempo di alzare il piede dall’acceleratore, riuscì soltanto a sterzare verso sinistra, invadendo l’altra corsia. Chiara si voltò di scatto e vide il gatto raggiungere trafelato l’altro ciglio della strada. Non parlarono per qualche minuto, il silenzio era accompagnato dal brusio del motore che superava agilmente i tornanti e dagli acuti della radio che trasmetteva un’opera lirica di Puccini. “Hai parlato con la tua collega?” Chiara non aveva voglia di parlarne, almeno non in quel momento, così mentì, dicendo che la collega era in ferie e non sarebbe ritornata prima di due settimane. ...CONTINUA...


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