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"AVENGER. SCOMPARSI NEL TRIANGOLO DELLE BERMUDA" di Alessandro Perdon
Titolo: AVENGER. Scomparsi nel triangolo delle Bermuda Autore: Alessandro Perdon Genere: Avventura Editore: Zerounoundici Edizioni Collana: Selezione Pagine: 204 Prezzo: 14,000 euro Acquista su Il Giralibro (-15%) Acquista su IBS
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Alessandro Perdon
AVENGER Scomparsi nel Triangolo delle Bermuda (MaxiTrailer)
www.0111edizioni.com
www.0111edizioni.com www.ilgiralibro.com
AVENGER SCOMPARSI NEL TRIANGOLO DELLE BERMUDA 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Alessandro Perdon ISBN 978-88-6307-202-0
Finito di stampare nel mese di Luglio 2009 da Digital Print Segrate - Milano
Prologo
Il luogotenente Taylor camminava in fretta mentre rifletteva sul colloquio telefonico appena terminato. Un membro della sua squadra di volo non avrebbe partecipato alla missione affidatagli per quel giorno. La cosa non lo turbava ai fini dell’incarico da svolgere, quell’uomo non era fondamentale per il volo, la cosa che, però, continuava a ronzargli nella testa era la motivazione che questi aveva dato: una premonizione. Taylor era il comandante di una squadriglia composta da cinque aerosiluranti Grumman TBF Avenger, ognuno dei quali aveva un equipaggio di cinque persone. Era stato recentemente trasferito dalla base di Miami a Fort Lauderdale; ufficialmente doveva essere impiegato come istruttore di volo, ma la missione che avrebbe svolto entro poche ore non era proprio un’esercitazione. Uscì dallo spoglio appartamento affidatogli dalla marina militare degli Stati Uniti e si consolò costatando che il tempo era buono, l’ideale per un volo tranquillo. Era il cinque dicembre 1945, ancora pochi giorni e tre missioni, dopodiché avrebbe utilizzato le due settimane di licenza per trascorrere il Natale con la famiglia. Assorto nei suoi pensieri, percorse a piedi il chilometro che lo separava dal centro operativo della base. Entrò nella sala piloti. I tredici membri della sua squadriglia scattarono in piedi a salutarlo. Taylor fece cenno di stare comodi e si diresse al posto assegnatogli nella prima fila di sedie. Dopo pochi minuti, il generale McDonnel fece il suo ingresso. Era un uomo imponente, alto circa un metro e novanta per oltre cento chili di peso, non passava certo inosservato. Il generale si diresse a passo spedito e sguardo serio verso una grande carta geografica applicata sulla parete. <<Buongiorno signori. Mi hanno appena comunicato che un vostro compagno non prenderà parte alla missione…>> Tra gli uomini si sollevò un brusio. <<Tranquilli…non è in alcun modo un impedimento alla buona riuscita dell’operazione che compierete oggi>>. Il generale ordinò a uno degli uomini di spegnere la luce e, contemporaneamente, accese un proiettore per diapositive.
<<Ufficialmente, eseguirete una missione d’addestramento, denominata “Problema di navigazione N° 1” che prevede il decollo da Fort Lauderdale alle 13.45. Volerete per 760 chilometri a sud-est fino a raggiungere questa isola.>> Fece scattare la diapositiva e sul telo bianco apparve la foto aerea di un piccolo lembo di terra. <<L’isola che vedete, misura cinque chilometri per due e mezzo.>> Passò alla foto successiva che mostrava la vegetazione interrotta da una striscia disboscata. <<Quella zona libera da alberi non è altro che una pista per aerei. Si trova a circa trecento metri dalla spiaggia ed è abbandonata.>> McDonnel fece scattare la successiva diapositiva. <<Questa è la mappa dell’isola e la linea blu indica la vostra rotta. Quattro dei vostri aerei saranno muniti di bombe ad alto potenziale distruttivo e incendiario, l’aereo del luogotenente Taylor, invece, sarà armato di siluri antisommergibili.>> McDonnel fece una pausa, i suoi occhi, intanto, scrutavano gli uomini che aveva di fronte. La missione di quel giorno era d’importanza vitale per il futuro del suo paese, e la squadra comandata da Taylor era il meglio di cui potesse disporre. <<Quell’isola è molto distante dall’abituale poligono delle esercitazioni di bombardamento. Siamo quasi al limite della nostra autonomia di volo.>> La voce che sollevava il problema apparteneva a Powers, vice-comandante di missione, pilota di provate capacità e grande esperienza acquisita durante la guerra appena terminata. Il generale McDonnel aveva previsto che quella missione, sia pur contraddistinta dalla dicitura “top-secret”, non si sarebbe potuta tenere nascosta a quegli uomini. Avevano il diritto di sapere. <<Il signor Taylor è già stato informato dell’importanza di quello che farete oggi. Il nostro paese è appena uscito vincitore da una guerra che ha portato morte e distruzione in gran parte del mondo>> McDonnel fece una pausa cercando le parole giuste, ma non ne trovò di migliori rispetto a quelle che aveva già in mente. <<Abbiamo annientato la Germania e in seguito il Giappone, ma i nostri nemici, sin dai primi anni di guerra, stavano preparando un attacco ben pianificato per colpire il cuore degli Stati Uniti.>> Sulle facce dei presenti si poteva leggere stupore e incredulità. McDonnel continuò <<Avete capito bene. Si tratta di un’azione di guerra e spero vivamente che sia l’ultima.>>
Quando ebbe terminato di esporne i particolari, vi fu un attimo di silenzio, subito seguito da una raffica di domande. <<Calma signori, calma>> McDonnel cercava a fatica di riportare la calma. <<Capisco che siate alquanto increduli, ma è la verità. Oltre a me e altri due ufficiali del servizio segreto, solo voi quattordici la conoscete integralmente. L’ordine è che resti un segreto anche a operazione terminata.>> <<E noi che rischi corriamo?>> domandò ancora Powers. <<Nessuno! Sarete a distanza di sicurezza e, dopo il bombardamento dell’isola, riteniamo che non resterà più nulla che possa minacciare la vostra incolumità e quella dell’intero paese. Questo è tutto! Ci rivediamo prima dell’inizio del volo. Buon pranzo.>> Le decine di domande che ognuno dei quattordici uomini avrebbe voluto fare restarono sospese nell’aria e McDonnel uscì a passo svelto dalla stanza silenziosa. Poco prima di mezzogiorno, i cinque aerosiluranti Grumman TBF Avenger erano allineati vicino ad un hangar: entrati in servizio solo tre anni prima, avevano esordito in guerra nella famosa battaglia di Midway, che, tra l’altro, con sei aerei persi in azione, si era rivelata disastrosa per loro. Da quel giorno erano state apportate delle notevoli migliorie, tra cui il radar antisommergibile. Taylor e il suo secondo, Powers, si aggiravano tra gli aerei, i meccanici, intanto, terminavano gli ultimi controlli pre-volo. <<Cosa ne pensi di questa missione?>> domandò Powers. <<Con tutta questa segretezza, sembra di essere tornati in guerra.>> <<Non sarebbe più semplice un bombardamento navale dell’isola?>> <<Forse… ma, da quello che ha detto il generale McDonnel, l’importante è bombardarla e distruggere tutto ciò che vi si trova, in fretta. La missione che compiremo oggi potrebbe salvare la vita a decine di migliaia di persone.>> Il vice Powers si fermò a riflettere su quelle parole, il luogotenente Taylor proseguì dirigendosi verso la sala mensa ufficiali. Alle 13.15, tutti i membri della squadra si ritrovavano nella sala riunioni per gli ultimi ordini prima del decollo. Un paio di minuti dopo giunse il generale McDonnel seguito da un uomo. <<Bene signori, fra trenta minuti decollerete…>> si guardò intorno, scrutando le facce dei presenti. <<Dov’è il signor Taylor?>>
<<Signor generale, nessuno dei presenti ha più visto il comandante dopo il termine del pranzo.>> intervenne il vice Powers. <<Allora non ci resta che attenderlo.>> McDonnel spiegò una carta sul tavolo ed iniziò a consultarla insieme all’uomo con il quale era giunto. Dovettero trascorrere venti minuti prima che giungesse Taylor. Una volta entrato, con disinvoltura si diresse verso il suo posto rimasto vuoto. Gli uomini presenti si aspettavano una sfuriata da parte del generale, ma così non fu. <<Okay signori, ci siamo tutti adesso. Vi presento il tenente Peterson. Durante il volo, sarà il vostro operatore di terra con il quale terrete i contatti radio.>> La riunione proseguì per una decina di minuti, giusto il tempo per le ultime disposizioni. <<La vostra squadriglia sarà distinta con il nome di “Volo 19”. Fate un buon lavoro signori. Ci vediamo al vostro ritorno per il rapporto.>> concluse McDonnel. Alle 14.00, con quindici minuti di ritardo, la squadriglia, composta dai cinque Grumman TBF Avenger ed i quattordici uomini a bordo, si trovava sulla pista di Fort Lauderdale in attesa dell’autorizzazione al decollo. Il comandante Taylor si trovava ai comandi del suo FT-28. Aveva ricontrollato, per l’ennesima volta il suo aereo e gli armamenti, anche per questo motivo era arrivato in ritardo alla riunione tenutasi mezzora prima. Sembrava tutto in ordine, ma continuava a sentirsi nervoso. Cercò di scacciare ogni pensiero e concentrarsi sulla missione era certo che, una volta in volo, i fantasmi che gli si affollavano nella mente, si sarebbero dissolti. <<Qui torre di controllo a Volo 19.>> La voce gracchiante dell’altoparlante lo distolse dai suoi pensieri. <<Siete autorizzati al decollo. Rotta per 35 chilometri sud-est. Le condizioni meteorologiche sono eccellenti.>> Taylor diede potenza al motore da 1774 cavalli ed in pochi secondi il suo Grumman TBF Avenger si staccò dal suolo, seguito dagli altri quattro velivoli. Viaggiando alla velocità di crociera, i cinque aerei avrebbero impiegato poco meno di due ore per raggiungere il loro obiettivo. Dopo il decollo avevano seguito la rotta ad est per poi deviare a sud lasciandosi le Bahamas sulla destra. La torre di controllo aveva comunicato l’addensarsi di nubi temporalesche sul Mar Dei Caraibi, ma probabilmente più ad ovest della rotta seguita dagli Avenger.
Taylor scrutava l’orizzonte dove vedeva solo l’azzurro del cielo, sotto di lui c’era il blu del mare che sembrava essere leggermente agitato. Alle 15.15, il vice Powers ruppe il silenzio radio <<Comandante, credo che ci troviamo fuori rotta, non dovremmo avvistare delle isole alla nostra destra?>> Taylor controllò la bussola <<Probabilmente siamo andati fuori rotta a causa dei venti. Proviamo a virare verso est.>> Il vice Powers eseguì la manovra insieme alla formazione, ma non riusciva a togliersi dalla testa quel“Proviamo” detto dal comandante della missione. Dopo altri venti minuti di volo, continuarono a vedere solo mare e cielo. Taylor iniziò a preoccuparsi. <<Signor Powers, dobbiamo fare una verifica delle bussole e della rotta?>> la richiesta proveniva da uno dei membri della squadriglia. Prima di ottenere una risposta, trascorsero una trentina di secondi. <<Non so dove siamo. Dobbiamo esserci persi dopo l’ultima virata.>> fu la risposta. La trasmissione fu captata da un’altra squadriglia di Avengers in volo nella zona. <<Qui è FT-74 del comandante Fox, aereo o nave con nome “Powers”, identificatevi in modo da poter ricevere aiuto.>> Passarono alcuni istanti di silenzio, poi i membri della squadra di Taylor chiesero suggerimenti al FT-74. Fox sentì voci confuse e molto nervose nella cuffia, non era certo un buon segno. Riprovò ancora a contattare il comandante della squadriglia e questa volta fu proprio Taylor a rispondere. <<FT-28 del comandante Taylor a FT-74, vi ricevo forte e chiaro.>> <<FT-28, qual è il vostro problema?>> domandò Fox. <<Entrambe le bussole sono andate e sto tentando di trovare la terraferma come riferimento.>> spiegò la situazione e dopo pochi istanti continuò: <<Adesso mi sembra di vedere della terra sotto di noi, ma è strana… non sembra quella che dovremmo trovare sotto di noi.>> La voce di Taylor risultava molto incerta, quasi tremante. Per i dieci minuti successivi, la torre di controllo di Fort Lauderdale ed il comandante Fox non sentirono più le trasmissioni del Volo-19. Il Generale McDonnel ed il tenente Peterson avevano seguito le comunicazioni con una crescente inquietudine. <<Generale, dobbiamo intervenire?>> lo sguardo di Peterson era fisso sul generale, in attesa di una decisione da parte del suo superiore. <<Tra poco non avranno più autonomia a sufficienza per il rientro alla base.>>
McDonnel sapeva bene che era la verità e che la vita di quattordici uomini poteva dipendere dalla sua prossima decisione. <<Riportiamoli a casa!>> Peterson non se lo fece ripetere due volte e cominciò a trasmettere: <<Qui torre di Fort Lauderdale a Volo-19, dateci la vostra posizione.>> Il tenente dovette ripetere la chiamata diverse volte prima di ricevere una risposta. Ma non udì la voce di Taylor. Sentì invece uno dei membri dell’equipaggio: <<Non riusciamo a trovare l’ovest. Sembra tutto sbagliato. Non possiamo essere sicuri di nessuna direzione. Tutto sembra strano, anche l’oceano.>> <<Ma che diavolo succede oggi?>> Imprecò McDonnel. <<Qui torre a Volo-19. Fate rotta verso la base.>> Comunicò Peterson. Trascorsero altri dieci minuti prima di ricevere una risposta. <<Non possiamo dire dove siamo… tutto è… pensiamo di essere trecento chilometri a sud- est della Florida.>> La voce era quasi isterica. Circa nello stesso istante fu captata un’altra trasmissione tra due membri del Volo-19 <<Maledizione, se potessimo volare ad ovest saremmo a casa; vira verso ovest, maledizione.>> Sulla zona il tempo stava peggiorando e le trasmissioni diventavano intermittenti. Alle 17.30, Taylor richiese un controllo del meteo. Diverse stazioni radio sulla terraferma triangolarono la posizione della squadriglia. Il Volo-19 era ben fuori della posizione presunta da Taylor. Nessuno, però, pensò di comunicarglielo. Alle 18.04, Taylor tornò a trasmettere: <<Manteniamo la rotta per altri dieci minuti, poi devieremo verso est.>> Nel frattempo il vento era aumentato ed anche il mare sembrava molto agitato. Alle 18.20, la base di Fort Lauderdale ricevette una nuova trasmissione dal comandante del Volo-19. <<Tutti gli aeroplani si avvicinino… dobbiamo resistere fino all’atterraggio. Quando il primo aereo scende sotto i 40 litri di carburante, andremo giù tutti assieme.>> Trascorsero altri interminabili minuti di silenzio, interrotti da brevi ed incoerenti trasmissioni da parte dei diversi membri dell’equipaggio prima di udire l’ultima comunicazione ricevuta dal Volo-19: <<Non distinguiamo più il cielo dal mare. Sembra che stiamo entrando in acque bianche… Siamo completamente perduti.>> Calò il silenzio. <<Tenente Peterson, faccia preparare subito un aereo di soccorso. Tra dieci minuti lo voglio pronto al decollo. Si faccia trovare a bordo.>> Ordinò il
generale McDonnel mentre con l’indice della mano destra componeva un numero sul disco del telefono. Alle 19.17, il grosso idrovolante PBM-5 Mariner attrezzato per il soccorso in mare, con a bordo il generale McDonnel, il tenente Peterson ed altri undici uomini d’equipaggio volava sopra un mare apparentemente tranquillo in direzione dell’ultima posizione presunta del Volo-19. <<Signor Peterson, voglio che tutti i mezzi disponibili siano dirottati sulla zona delle ricerche.>> sbraitò il generale McDonnel per sovrastare il rumore dei due grossi motori ad elica dell’idrovolante. <<Ho già trasmesso i suoi ordini alla marina ed alla guardia costiera che stanno già inviando diverse unità sulla zona del disastro.>> Sul volto di McDonnel passò un’ombra mista di irritazione e sconforto. <<Signor Peterson, non voglio sentir parlare di disastro. Fino a prova contraria, i miei ragazzi sono ancora vivi e noi li troveremo.>> <<Ha ragione signore. Mi perdoni il termine.>> <<Non si preoccupi Peterson. Adesso facciamo tutto quanto è in nostro potere per riportarli a casa.>> concluse il generale. Alla base di Fort Lauderdale era calato il buio. Erano le 19.27 ed altri aerei di soccorso sostavano a bordo pista in attesa dell’autorizzazione al decollo. Ma non sarebbe mai arrivata, almeno fino all’alba del giorno seguente. Così era stato deciso dal comandante delle ricerche, non voleva perdere altri aerei oltre ai cinque già scomparsi con i quattordici uomini a bordo. Gli operatori della base stavano seguendo le comunicazioni tra le varie unità navali militari e civili che si trovavano in quella zona dell’oceano. Lo schermo verde del radar inviava il segnale luminoso dell’unico aereo in volo sulla zona delle ricerche, il PBM-5 Mariner. Alle 19.29, l’operatore radio provò a contattare l’idrovolante. <<Qui torre di Fort Lauderdale a Mariner, ci ricevete?>> Il messaggio fu inviato tre volte prima di ottenere una risposta dal velivolo: <<Qui PBM-5 BuNo59225 ci troviamo in volo in direzione sud-est. Il cielo è limpido, i venti normali. Continuiamo sulla rotta per altri venti minuti poi…….>> Le trasmissioni s’interruppero. Erano le 19.30 del cinque dicembre 1945, in quello stesso giorno ed in poche ore, sei aerei -per un totale di ventisette uomini a bordo- scomparvero senza lasciare tracce. Nei giorni successivi furono setacciati circa 650.000 chilometri quadrati d’oceano, in un’operazione di ricerca senza precedenti, che vide impegnate centinaia di navi, aerei e sottomarini. Le ricerche proseguirono per diverse
settimane, nonostante ciò, non fu mai trovata nessuna traccia dei sei aerei e del loro equipaggio. Nei mesi successivi molti tentarono di dare spiegazioni, più o meno razionali, dell’accaduto senza riscuotere grande successo. L’evento misterioso ed inspiegabile che coinvolse i sei aerei entrò nella leggenda, dando inizio al ben più noto “Mistero del Triangolo Delle Bermuda”. In quelle ore fatali del cinque dicembre successe un’altra cosa difficile da spiegare: pochi minuti dopo la scomparsa dell’idrovolante, avvenuta alle 19.30, l’operatore radio di Fort Lauderdale era impegnato ad ascoltare decine di concitate comunicazioni provenienti dall’area della disgrazia, quando captò una strana conversazione. <<Qui è Relitto volante a Catorcio… cavolo mi sentite o no?>> L’operatore di Fort Lauderdale restò in ascolto, cercando di comprendere chi si fosse intromesso nelle comunicazioni. <<Qui Catorcio a Relitto volante, ma dove diavolo siete? Non riusciamo a vedervi.>> <<Ci troviamo alle tue spalle. Abbiamo avvistato i nostri amici. Adesso gli spediamo una suppostina.>> Chiaramente qualcuno si era intromesso sulle frequenze dell’esercito. L’operatore decise di intervenire. <<Qui Fort Lauderdale, vi trovate su delle frequenze riservate. Vi ordino di interrompere subito le comunicazioni.>> <<Fort Lauderdale? È un piacere sentirvi. Avremmo giusto bisogno di una mano per tornare a casa.>> <<Vi ripeto che state disturbando delle trasmissioni militari durante un’operazione d’emergenza.>> Insistette l’operatore che iniziava a perdere la pazienza. <<Anche noi abbiamo un’emergenza, quindi rilassati amico.>> <<Non so chi voi siate, ma vi ripeto che sono in corso le ricerche di cinque aerei Grumman TBF Avenger, quindi liberate la frequenza immediatamente!>> La trasmissione iniziava ad essere disturbata e dovettero attendere quasi un minuto prima di avere una risposta dal misterioso interlocutore. <<Di chi ti vuoi prendere gioco? Stai parlando di un fatto successo il secolo scorso.>> L’operatore non capì a cosa si riferisse. Il suo superiore, che stava assistendo a quella conversazione, prese il microfono ed intervenne. <<Sono il maggiore Moore della marina militare degli Stati Uniti d’America, vi ordino di identificarvi immediatamente.>> <<…Sono…l .. mi trovo a bordo di u… TBF…venger con sigla FT-28….>>
La trasmissione giungeva a strappi. Li stavano perdendo. <<Qui Moore. Non vi riceviamo bene. Se siete Avenger FT-28 passatemi il comandante Taylor.>> Silenzio. <<Stai scher…Taylor è…da almeno sessant’anni. Siete impazziti?>> Una serie di scariche elettrostatiche interruppero definitivamente il contatto radio. Provarono a ristabilire le comunicazioni, ma risultò essere tutto inutile. Il maggiore Moore non dette importanza alla cosa, probabilmente qualcuno aveva voglia di divertirsi e lui aveva altro a cui pensare. Ordinò all’operatore di trascrivere la conversazione e di archiviarla con l’intento di indagare una volta terminata l’emergenza, ma come molte altre cose finì nel dimenticatoio.
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5 marzo 2008. Alle Bahamas, l’inizio di marzo segnava il passaggio dalla mite temperatura invernale, amata tantissimo dai turisti, a quella più calda della primavera che sarebbe ulteriormente aumentata con l’andare delle settimane, sino a giungere a quelle ben più calde dell'estate. Era il periodo più amato dalla dottoressa Kiara Logan, soprattutto nelle prime ore del mattino, quando amava crogiolarsi tra le lenzuola, mentre il sole stava nascendo. Abitava in una piccola casetta nella periferia di Nassau, dove si trovava l’ospedale nel quale le avevano offerto il posto di biologa. Originaria di Flagstaff in Arizona, aveva deciso di accettare quel lavoro per arricchire il suo curriculum e forse per scappare dalla vita monotona che conduceva prima. Aveva appena compiuto trentadue anni e si sentiva pienamente soddisfatta della decisione, presa quasi un anno prima, di trasferirsi nella capitale Nassau. Mentre se ne stava sdraiata, indecisa su come iniziare la sua giornata, poteva vedere i raggi del sole filtrare dalle tapparelle. Saltò giù dal letto, si mise una t-shirt, calzoncini ed infilò le sue Adidas. Andò verso il bagno per darsi una sciacquata alla faccia, poi mise un cappellino e le cuffiette con la musica. Uscì da casa e come quasi tutte le mattine si accinse a percorrere i suoi dieci chilometri. Prendersi cura del proprio aspetto fisico era sempre stata una priorità. Amava sentirsi in forma e, con un poco di vanità, le piaceva sentirsi fare i complimenti per la bellezza del proprio corpo. Nei successivi cinquanta minuti, attraversò i bellissimi viali ombreggiati dalle alte palme e fiancheggiati dalle stupende dimore abitate da famiglie mediamente ricche. Non erano ancora le otto del mattino quando rientrò a casa. Mentre si spogliava vide la luce rossa della segreteria telefonica che segnalava l’arrivo di un nuovo messaggio. Kiara fu tentata di dirigersi prima sotto la doccia, ma la curiosità di sapere chi l’avesse cercata tanto presto vinse. Schiacciò il pulsante per l’ascolto.
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Alessandro Perdon
<<Dottoressa Logan, sono il dottor Clay… appena le è possibile può contattarmi in ospedale… per favore… grazie.>> Infilandosi sotto la doccia, le venne da sorridere pensando al tono imbarazzato del messaggio lasciatole dal timido e affascinante dottor George Clay. Si avvolse in un morbido asciugamano e, con i capelli ancora gocciolanti, prese il telefono e chiamò l’ospedale. In pochi istanti fu in linea con il dottor Clay. <<Ciao sono Kiara; dimmi tutto.>> usando un tono molto informale. Come al solito, il dottor Clay fu spiazzato dal modo di fare della sua collega. <<Ciao… hem… so che oggi hai il turno pomeridiano, ma abbiamo un caso urgente e se lei…hem… tu mi raggiungessi prima sarebbe meglio.>> <<Va bene George. Dammi venti minuti.>> <<Grazie. L’aspetto.>> Kiara riattaccò il telefono divertita. Con indosso un paio di jeans ed una maglietta, Kiara varcò la soglia dell’ospedale in soli diciannove minuti. Scese nel seminterrato, dove c’era il laboratorio analisi, si mise il camice bianco e si diresse nello studio del dottor Clay. <<Credo di aver stabilito un nuovo record da casa a qui!>> Esordì Kiara appena ebbe varcato la soglia. George Clay era un bell’uomo di quarantadue anni, brizzolato, sempre in forma ed abbronzato grazie alla sua passione per il Windsurf. Alzò gli occhi da un tabulato e, come ogni volta, rimase incantato dalla bellezza della sua collega. <<Scusa se ti ho disturbato ma…>> <<Spero ci sia un buon motivo per interrompere la mia doccia mattutina.>> Lo interruppe Kiara con sguardo malizioso. <<Ah si…ehm scusa>> Clay era visibilmente in imbarazzo. <<Dai che sto scherzando. Aggiornami sul caso “urgente”.>> Il dottor Clay prese una cartella e l’aprì. <<Il soggetto ha circa trent’anni…>> <<Perché dici: “circa”?>> <<Hai ragione. Ti spiego tutto dal principio. Quest’uomo è stato trovato alla deriva, a bordo di una canoa a sud delle Bahamas. Le sue condizioni sono apparse subito preoccupanti, gravemente disidratato, febbre alta e con gran parte del corpo ustionata dal sole. Al momento del ritrovamento era in stato d’incoscienza, e lo è tuttora.>>
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<<Quindi non sappiamo chi sia, giusto? Sono sicura, però, che tu mi abbia disturbato per altro.>> Estratto un tabulato dalla cartella, Clay proseguì. <<Come da prassi, abbiamo eseguito le analisi del sangue senza rilevare anomalie, ma, dopo aver visitato personalmente il paziente, ho riscontrato un rush cutaneo su buona parte del corpo.>> Prese delle foto scattate al paziente e le passò a Kiara. <<Ti stai, quindi, preoccupando per un eritema?>> Osservò esaminando le foto. <<Non potrebbe essere stato causato dalla lunga esposizione ai raggi solari?>> Dallo sguardo compiaciuto del collega, intuì che aveva scoperto dell’altro. Lo odiava quando si dilungava apposta, per cercare, poi, di stupire i suoi interlocutori con qualche rivelazione sbalorditiva. <<Credo non sia un semplice eritema solare. Abbiamo riscontrato una febbre a carattere terzana rio, che potrebbe far pensare alla malaria. L’esame sierologico, poi, è risultato positivo al virus dell’influenza a sierotipo ignoto.>> Kiara restò sbalordita. Non tanto per la febbre a giorni alterni molto simile a quella malarica -anche se rari, infatti, nel centro America, se ne riscontravano ancora casi- quanto per il virus non identificato trovato nell’uomo. <<La febbre malarica è provocata principalmente dalle punture d’insetti ed ha un periodo minimo d’incubazione di nove o dieci giorni. Dell’origine del virus cosa mi sai dire?>> <<Al momento non molto, ti ho chiamato proprio per questo motivo.>> Kiara cominciò a scorrere uno ad uno i valori risultati dagli esami eseguiti sino a quel momento. Sembrava che, a parte la febbre, il virus misterioso non desse altre patologie al paziente. <<Un sintomo simile alla febbre malarica, con un virus dell’influenza sconosciuto. Qual è il legame? >> Più che una domanda al collega era un pensiero espresso a voce alta. <<La malaria è causata da un parassita, mentre il virus sconosciuto sembra avere un’origine diversa.>> Clay dette istintivamente la risposta, ma, conoscendo bene la sua collega, era certo che i suoi pensieri si trovassero già oltre a quella fase. <<Suggerisco di mettere il paziente in isolamento, ma sicuramente lo avrai già fatto. Facciamo una ricerca del DNA virale con un PCR sul sangue del paziente e vediamo cosa salta fuori. Probabilmente, visto che se ne sta tranquillo, scopriremo che il nostro virus sconosciuto non è poi tanto cattivo.>>
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Kiara poggiò la cartella sulla scrivania per andare ad indossare e indossò i guanti in lattice. Squillò il telefono. Il dottor Clay sollevò la cornetta e rimase in ascolto per alcuni secondi: <<Arriviamo subito!>> Era impallidito. <<Cosa succede, George?>> Questi alzò gli occhi verso Kiara. <<Credo che per una volta ti sia sbagliata: il virus che pensavi non essere tanto cattivo, forse, inizia a diventarlo.>> Kiara guardava senza capire: Forse le condizioni del paziente erano peggiorate? Il collega intuì il suo pensiero e si affrettò a chiarire. <<Al centro di pronto soccorso c’è l’equipaggio dell’eli-ambulanza che ha trasportato il nostro paziente. Sono stati tutti colpiti da patologie diverse: emorragie, febbre alta, paralisi e cecità.>> Kiara rimase scioccata a sua volta. Se piloti e paramedici erano rimasti contagiati da quell’uomo, significava che il virus aveva la capacità di diffondersi rapidamente. <<Indossiamo anche occhiali protettivi e mascherine. Dai ordine di isolare tutta un’area del pronto soccorso.>> <<Non ti sembra di esagerare?>> La interruppe Clay. <<Adesso abbiamo quattro o cinque persone infette, vuoi aspettare che s’infetti l’intero ospedale, o addirittura tutta Nassau?>> Il dottor George Clay prese in mano il telefono e impartì agli uomini della sicurezza l’ordine di delimitare l’area dove avevano portato i pazienti infetti. Nessuno doveva entrarvi senza il massimo delle precauzioni.
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15 marzo 2008. Il capitano Tom Rocca si trovava sul ponte di manovra della sua nave: la Ocean Wind. D’origine italiana e giovane rispetto a molti che ricoprivano il suo ruolo, a soli quarantatré anni, gli era stato affidato il comando di quel gioiello di tecnologia e lusso, sin dal viaggio inaugurale, avvenuto due anni prima. Lunga poco più di centosessanta metri e con le sue tredicimila tonnellate, la nave dallo scafo bianco, di ritorno dalla sua crociera durata poco più di una settimana e dopo aver toccato le località di Puerto Rico, Barbados, Caracas, Santo Domingo e Haiti, solcava le acque del Mar Dei Carabi facendo rotta su Miami. Il capitano Rocca prevedeva di giungere a destinazione entro venti ore. Nel corso dei suoi viaggi, la lussuosa nave diventava la dimora di vacanze dorate per molte facoltose famiglie. In quei nove giorni aveva trasportato quattrocento passeggeri. Pochi minuti prima, l’ufficiale di guardia gli aveva dato l’ultimo bollettino meteo che riguardava l’area in cui si trovavano. C’era un avviso di allerta maltempo. Gli avevano già comunicato che, a nord-est dalla loro attuale posizione, vi era in corso una tempesta tropicale che andava rafforzandosi. Quando due ore prima aveva ricevuto il primo avviso aveva deciso di tenere una rotta orientata più ad ovest, passando all’interno delle isole invece che nell’oceano aperto. Questa decisione gli avrebbe fatto ritardare l’arrivo a Miami di qualche ora, ma, in questo modo, avrebbero navigato in acque più tranquille e, nel caso in cui la tempesta li avesse raggiunti, lo avrebbe fatto solo marginalmente. La situazione non lo preoccupava più di tanto, ordinò lo stesso di mettere in allerta tutti i trecentocinquanta tra uomini e donne che componevano l’equipaggio. Il capitano Rocca si avvicinò alle ampie vetrate della plancia dalle quali si godeva una visuale della quasi totalità della nave. Stringendo gli occhi, cercò di vedere oltre l’orizzonte, ma nulla faceva presagire l’arrivo di una tempesta.
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La Ocean Wind correva su un mare leggermente increspato, il sole iniziava la sua lenta discesa verso l’orizzonte. Quella sarebbe stata l’ultima notte di viaggio per quella crociera e nella sala centrale si sarebbe svolto il consueto gran galà d’arrivederci. La sua presenza era d’obbligo. Si attardò ancora qualche minuto sul ponte di comando, i numerosi monitor che inviavano i dati sulla navigazione, quasi completamente computerizzata, non davano nessun segnale di anomalie. Sicuramente sarebbe stata una notte di navigazione tranquilla. Rinfrancato da quel pensiero, il capitano Tom Rocca lasciò il ponte di comando per andare a prepararsi per quell’ennesima serata di saluti e strette di mano con i passeggeri. L’imponente e lussuosa sala centrale era stata allestita con gran cura e sfarzo. I duecento tavoli erano stati ricoperti da immacolate tovaglie bianche, bicchieri in cristallo, piatti in porcellana con la decorazione “Ocean Wind” in oro, posateria e candelabri in argento. Mancavano pochi minuti alle otto di sera ed i cinquanta camerieri, impeccabili nelle loro divise nere, si erano posizionati ai margini del salone. Poco dopo, iniziarono a giungere i primi ospiti costretti nei loro abiti da sera degni di una prima a teatro. Nel giro di dieci minuti, i tavoli erano gremiti e lo champagne era versato con grande generosità nelle coppe. Sbarbato ed in alta uniforme, il capitano Rocca giunse nella sala da pranzo e fu subito accompagnato al tavolo dove già lo attendevano le tre coppie ospiti della nave con le quali avrebbe cenato quella sera. <<Vogliate perdonare il mio ritardo. Mi hanno trattenuto in plancia di comando.>> Si affrettò a presentarsi ai suoi commensali. Constatò che quella sera avrebbe conversato con due dirigenti, un commercialista per ricchi signori e relative compagne. <<Spero che non ci siano problemi con la nave, non mi sono portata l’abito adatto ai naufragi.>> Rocca guardò la giovane e bella donna che aveva parlato, la compagna del commercialista. Notò che tra i due dovevano esserci almeno trent’anni di differenza. Certo che quando si hanno i soldi… Ricacciò indietro quel pensiero e si sforzò di fare un sorriso. <<Non si preoccupi signora, per affondare questa nave dovremmo trovare un iceberg grande almeno il doppio di quello che affondò il Titanic, e nei Carabi non credo ce ne siano di queste dimensioni.>> La battuta del capitano scatenò le risate dei presenti oltre ad evitare altre stupide battute di quella ragazzina viziata.
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I camerieri iniziarono a servire gli antipasti e la conversazione proseguì spaziando da questioni politiche internazionali ad argomenti più effimeri. <<Capitano, sicuramente ha letto o visto ai notiziari del virus che si è diffuso rapidamente in tutto l’ospedale di Nassau. Sembra che da ieri sia stata isolata tutta la zona per un raggio di trecento metri. Mi domandavo se la nostra rotta prevede di passare vicino all’isola.>> Tom Rocca fece un sorriso. <<Non si preoccupi signor Hastley. Abbiamo deciso di tenere una rotta più ad est per evitare di trovarci nel mezzo di una tempesta, ma sicuramente ci lasceremo Nassau ad una distanza di sicurezza. Credo che non prenderà l’influenza.>> <<Bene! Sono certo che in ufficio non approverebbero una mia settimana di malattia dopo una di vacanza.>> La cena proseguì con le numerose portate, tra primi e secondi, per poi terminare con la gran torta che riproduceva la Ocean Wind accolta in sala uno scroscio d’applausi dedicato allo staff di cuochi che, ogni giorno, riusciva a stupire il palato di centinaia di persone. Nelle ultime due ore trascorse, il mare si era notevolmente ingrossato e le raffiche di vento avevano raggiunto gli ottanta chilometri orari, accompagnate da forti scrosci di pioggia. La visibilità era drasticamente calata. Gli uomini sul ponte di comando dovettero fare affidamento esclusivamente ai sistemi elettronici per la navigazione. Come da ordini del capitano, quella notte c’era il doppio degli uomini di guardia. Nessuno di loro era preoccupato. Quella nave era stata progettata per sopportare tempeste dieci volte più forti di quella, oltre al fatto che le sue “ali stabilizzatrici”, posizionate sotto la chiglia e controllate da un computer, smorzavano quasi totalmente il rollio tanto odiato da chi soffre il mal di mare. Probabilmente, se non avessero guardato fuori degli oblò, i passeggeri non si sarebbero accorti di nulla. I due radar attivi ispezionavano incessantemente il mare intorno alla Ocean Wind che, vista la tempesta in corso, quella notte risultava essere sgombro da altre imbarcazioni. In pratica, avevano tutto lo spazio a loro disposizione. Sulla loro sinistra, lo schermo del radar inviava l’immagine della costa di Great Inagua Island che si trovava ad alcune decine di chilometri. La rotta impostata li avrebbe portati a transitare a poca distanza da Little Inagua per poi dirigere la prua della nave verso l’isola di Mayaguana.
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Erano passate da poco le dieci della sera e alcune decine d’ospiti della nave si attardavano ancora nella sala da pranzo, mentre altri cominciavano a riempire il piano bar, la sala del casinò o il teatro dove stava per iniziare uno spettacolo di cabaret. Tutti presi da quell’ultima notte di navigazione e divertimento, sembrava ignorassero che, all’esterno di quelle luminose e accoglienti sale, la natura stesse dando dimostrazione della sua immensa forza. Le onde del mare si abbattevano con violenza sullo scafo della Ocean Wind. Tutte le chiusure di porte e boccaporti che davano all’esterno erano state accuratamente controllate dall’equipaggio che rispettava gli ordini impartiti, mantenendo lo stato di allerta. Poco prima delle undici, il capitano Rocca lasciò la sala del piano bar per dirigersi in plancia comando a controllare la situazione. Mentre camminava lungo l’ampio corridoio del ponte principale, in quel momento affollato di passeggeri che si muovevano da un locale all’altro in cerca di divertimento, percepì sotto i suoi piedi la leggera oscillazione della nave. Complimenti al progettista… Si ritrovò a pensare. Qui dentro ci si dimentica di essere su una nave che affronta una tempesta. In effetti, guardandosi intorno, vedeva solo gente sorridente. Era un buon risultato! Come a conferma dei suoi pensieri, un gruppetto di uomini lo fermò. <<Capitano Rocca, volevamo complimentarci con lei e la sua nave. È stata una bella crociera.>> <<Vi ringrazio, ma non è ancora finita, godetevi quest’ultima notte.>> Vi fu un altro scambio di battute seguito da una serie di strette di mano e finalmente lo lasciarono libero di andare al suo lavoro. Giunse all’ascensore di servizio, infilò la sua scheda magnetica e le porte si aprirono. Entrato nella cabina, premette il pulsante del ponte di comando. Chiusesi le porte, iniziò il breve viaggio verso l’alto della durata di pochi secondi. Si appoggiò con le spalle alla parete e chiuse gli occhi cercando di sfruttare quegli attimi per rilassarsi. Iniziò a sentire un tremito accompagnato da un rombo sordo. Era come se, risalendo il fondo dello scafo e la parete della cabina, si diffondesse nel suo corpo.
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Udì uno schianto, come se provenisse da lontano. La cabina dell’ascensore si bloccò di colpo e la luce si spense facendo entrare in funzione la lampada d’emergenza. Perse l’equilibrio. Capì che la nave stava assumendo un’inclinazione inaspettata su di un lato, probabilmente quello di dritta. Per lunghi ed interminabili secondi, le scosse ed il rumore continuarono. Finalmente, sentì che la Ocean Wind recuperava il suo normale assetto di navigazione. Tornò anche la luce e l’ascensore si rimise in moto, raggiungendo la sua meta. Il capitano irruppe sul ponte di comando, trovandosi di fronte ad una situazione caotica. Un insieme di uomini che si muovevano tra le apparecchiature, senza una meta precisa. Parlavano tutti insieme, senza rendersi conto di non essere ascoltati. L’ufficiale di guardia impartiva ordini diretti a nessuno in particolare e che, probabilmente, nessuno avrebbe eseguito. Il capitano dovette urlare di fare silenzio almeno dieci volte prima di ottenere il risultato voluto. <<Signor Burns, mi aggiorni sull’accaduto.>> Disse rivolto all’ufficiale che, con i suoi cinquantatré anni, era il più esperto ed anche il più anziano dell’equipaggio. <<Sembra che abbiamo urtato qualcosa sul lato di dritta.>> Rocca rivolse il suo sguardo al monitor principale. L’eco-scandaglio segnalava un fondale di poco inferiore ai duecento metri. Si voltò verso lo schermo radar, niente! Nessuna nave e nessuno scoglio, l’isola più vicina era ad almeno dieci chilometri. <<Intorno e sotto di noi non c’è nulla. Quindi cosa abbiamo urtato?>> L’uomo addetto ad una delle consolle che monitoravano la nave alzò un braccio per attirare l’attenzione di Rocca. <<Capitano, si sono accese tre spie d’allarme. Imbarchiamo acqua ed abbiamo perso uno degli stabilizzatori.>> Quell’ultima notizia era abbastanza evidente a tutti. La Ocean Wind, non avendo più nulla per opporsi alle forze della tempesta, aveva iniziato ad ondulare. <<Burns, mandi subito una squadra a verificare i danni. Voglio un primo rapporto entro dieci minuti.>> Poi tornò con lo sguardo al monitor principale. Il computer segnalava un’inclinazione di quattro gradi a dritta. Forse dipende dal fatto che abbiamo perso lo stabilizzatore. Sapeva bene, però, che non dipendeva da quello. <<Diminuire la velocità a dieci nodi e comunicare alla guardia costiera che abbiamo un problema di navigazione.>>
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<<Dobbiamo chiedere soccorso?>> Domandò l’operatore alle comunicazioni. <<No! Devi solo segnalare la nostra posizione attuale e la rotta.>> Rispose Rocca. Nei minuti successivi, l’inclinazione della nave aumentò a cinque gradi. <<Capitano Rocca, il rapporto sui danni.>> Rocca fu distolto dai suoi pensieri dalla voce di Burns. Si voltò e vide che questi gli allungava la cornetta dell’interfono. <<Dammela!>> Quasi gliela strappò di mano. <<Sono il capitano, dimmi tutto.>> <<Sono Adams, signore, il primo ufficiale di macchina. Qui la situazione è critica, almeno a prima vista. Abbiamo uno squarcio per tutta la lunghezza dello scafo a dritta. È un casino, stiamo imbarcando più acqua di quella che le pompe buttano fuori…>> Stiamo affondando?! Tom Rocca non avrebbe mai e poi mai immaginato che quel pensiero, un giorno, potesse passargli per la testa, soprattutto su quel gioiello di tecnologia che era la Ocean Wind. <<Diminuiamo la velocità a sei nodi e dirigiamo la prua ad ovest verso l’isola di Little Inagua.>> Ora doveva impartire l’ordine che nessun capitano avrebbe mai voluto dare. <<Cominciamo a trasmettere un May-Day alla guardia costiera ed a tutte le navi in zona.>> L’inclinazione della nave cominciava ad essere evidente, si era portata a sette gradi. <<Comandante non riesco ad avere nessun contatto radio. Forse la tempesta ostacola le trasmissioni.>> <<Insista! Abbiamo qualche nave nelle vicinanze?>> Domandò rivolto all’operatore radar. <<Non credo, cioè non sono sicuro.>> Fu la risposta. <<Che cosa vuol dire non sono sicuro? O c’è, o no!>> S’irritò Rocca. <<A dire la verità, ho ricevuto un paio di segnali dal radar, ma… non ne sono certo, appare e scompare, a circa un miglio dietro di noi.>> Chiarì l’operatore radar. Erano passati solo venticinque minuti dall’inizio dei loro problemi e l’inclinazione della Ocean Wind si avvicinava ai dieci gradi. Tom Rocca capì che era il momento di prendere un’altra decisione importante. <<Date l’allarme a tutta la nave e radunate i passeggeri nei punti d’evacuazione.>>
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In plancia di comando calò il silenzio. Tutti gli uomini presenti si voltarono verso il loro capitano. Negli sguardi diverse emozioni, dall’incredulità alla paura. <<Prepariamoci ad abbandonare la nave.>> Nei ponti sottostanti, gli effetti dell’avaria alla nave iniziavano a farsi sentire sui passeggeri. Lo sbandamento a destra e la perdita dello stabilizzatore avevano lasciato la nave in balia delle grosse onde. Molti avevano iniziato a soffrire il mal di mare, anche solo camminare, senza appoggiarsi, era un problema. Gli effetti psicologici sulle persone si potevano dividere in due gruppi: da un lato, panico con attacchi isterici, dall’altro, calma di chi se ne stava ancora seduto al banco del bar consumando un drink. L’accendersi dei lampeggianti d’emergenza, accompagnati dal suono d’allarme simile ad una trombetta, su molti ebbe un effetto devastante, simile all’impatto con una meteora. Nei lussuosi corridoi, s’incontrava gente che correva in tutte le direzioni, apparentemente senza una meta. Alcuni indossavano già i giubbotti di salvataggio di cui era dotata ogni cabina. I marinai, con non poche difficoltà, cercavano di raggruppare quella folla nelle apposite aree. Le quattordici scialuppe, ognuna da settanta posti, erano già presidiate dall’ufficiale responsabile che aveva in mano la lista dei passeggeri destinati a salirvi. La Ocean Wind, fortunatamente, era stata progettata in modo da poter entrare nelle scialuppe attraverso appositi passaggi, senza dover uscire all’esterno dove infuriava la tempesta. Poi, una volta chiuse le porte a tenuta stagna, un braccio idraulico provvedeva a calarle in mare. Ogni unità era dotata di un potente motore, strumenti di navigazione e apparecchiature radio, un servizio igienico ed una buona scorta d’acqua e cibo. Tre minuti dopo la mezzanotte, l’inclinazione della nave si avvicinava ai venti gradi. In plancia comando giunse la comunicazione che alcune delle scialuppe erano quasi al completo, pronte a sganciarsi. <<Aspettiamo ancora. Voglio che siano calate tutte insieme per non disperdersi nella tempesta.>> Ordinò il capitano Rocca. <<Abbiamo ricevuto conferme alla nostra richiesta d’aiuto?>> Chiese all’operatore radio. <<Nulla signore.>>
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Si preparava a calare, nel mare in burrasca, oltre settecento persone, e non sapeva se sarebbero stati soccorsi. <<Datemi la nostra posizione.>> <<Siamo a sei chilometri dalla costa di Little Inagua, signore.>> Almeno possiamo dirigerci verso terra. <<Portiamoci il più vicino possibile alla costa. Del segnale radar di cui mi parlava prima abbiamo notizie?>> <<Nulla signore. Probabilmente era un falso segnale.>> L’aumento dell’inclinazione, unito alla ridotta velocità, aveva intensificato le oscillazioni laterali della Ocean Wind. Inoltre, per non correre rischi, le scialuppe potevano essere calate con un’inclinazione massima di cinquanta gradi. Rocca decise di aspettare sino all’ultimo momento. Nonostante tutto, la nave dava ancora una sensazione di sicurezza in mezzo all’infuriare della tempesta. Mezzanotte e mezza. L’inclinazione della nave aveva superato i quaranta gradi. Il capitano Rocca aveva impartito l’ordine di calare le scialuppe in mare. I ponti della Ocean Wind, che meno di due ore prima erano affollati di persone festeggianti, adesso si trovavano deserti. L’acciaio di cui era fatto lo scafo iniziava a deformarsi, diffondendo rumori sinistri e scricchiolii che facevano accapponare la pelle. Era iniziata l’agonia. Gli unici uomini che si trovavano ancora a bordo per l’ultimo controllo erano il capitano Rocca ed il primo ufficiale, il corpulento Burns. Si stavano dirigendo verso l’ultima scialuppa, la numero quattordici, sulla quale si sarebbero imbarcati. A quel punto, le altre tredici scialuppe dovevano già essersi allontanate dalla Ocean Wind, ma tenendosi in contatto radio e, possibilmente, visivo fra loro mentre si dirigevano verso la terra più vicina dove avrebbero trovato riparo sino all’arrivo dei soccorsi. Avvicinandosi al punto di imbarco scialuppe, Rocca notò che c’era un certo trambusto vicino all’uscita della numero tredici. <<Burns, andiamo a vedere che succede.>> Avvicinandosi notarono i due marinai armeggiare con il sistema di sgancio dell’imbarcazione: bloccato! <<Cosa succede? Perché siete ancora qui?>> Domandò Rocca. <<Signore, la scialuppa non si sgancia. Non ne capiamo il motivo. Sembrerebbe tutto a posto.>> Rispose uno degli uomini. <<Quante persone ci sono ancora a bordo?>> <<Quarantadue signore.>>
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<<Cominciate subito a farle scendere ed a trasferirle sulla numero quattordici. Fortunatamente non abbiamo problemi di spazio.>> Gli uomini iniziarono subito ad organizzare il trasferimento di quelle persone da una scialuppa all’altra. Il capitano Rocca, mentre controllava le operazioni, notò che le prime persone a scendere dalla scialuppa erano coloro con i quali aveva cenato quella sera. Gli uomini ancora in smoking e le donne in abito lungo, compresa quella giovane ragazza svampita. Dietro di loro anche due bambini di circa cinque anni, un maschietto ed una femminuccia, probabilmente fratellini, si tenevano per mano, subito seguiti dai genitori. Si udì un rumore che sembrava il barrito di un elefante, il suono fu subito seguito da una violenta scossa che fece sussultare la nave agonizzante. Alcuni caddero per terra, altri si misero ad urlare. Le luci si spensero facendoli cadere nelle tenebre. Il capitano ebbe il timore che la nave stesse per rovesciarsi, poi la luce si riaccese, ma c’era qualcosa di strano, udiva il boato del mare e sentiva il vento freddo sferzargli il viso. Poi capì. La scialuppa tredici si era sganciata dai suoi supporti ed era scesa in mare con le persone che aveva ancora a bordo. Speriamo siano riusciti a chiudere la porta stagna prima di allagarsi … Con quel pensiero che gli ronzava nella testa, Rocca si voltò trovandosi di fronte i volti terrorizzati di dieci passeggeri. <<State tranquilli. Signor Burns, andiamo subito alla numero quattordici.>> La distanza non era eccessiva e dovettero percorrere un corridoio di venticinque metri prima di trovarsi all’uscita successiva. Tre marinai li attendevano vicino alla porta. <<Salite tutti, poi chiudiamo la porta stagna e sganciamo. A bordo non c’è più nessuno.>> Ordinò Burns. L’interno della scialuppa era abbastanza accogliente: ben illuminato ed allestito in modo tale che sembrava quasi di essere all’interno di un teatro. I sedili erano sistemati in file di sette. Ogni sedile era dotato di una cintura di sicurezza simile a quelle degli aerei. Non c’erano finestrini che dessero la possibilità di vedere all’esterno, ma erano sostituiti da tele che riproducevano importanti opere d’arte. Per entrare alla cabina di comando bisognava salire di un paio di metri su per la scala che si trovava al centro dello scafo. La piccola cabina era munita di due avvolgenti sedili e ridotte vetrate corazzate, sia frontali che laterali. Il tutto misurava circa due metri per due. Rocca si sedette nel sedile di destra, Burns in quello di sinistra.
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<<Tom, fuori c’è il finimondo.>> Quando si trovavano soli, il capitano Tom Rocca ed il primo ufficiale Jim Burns lasciavano correre la differenza di grado passando ad un tono più amichevole. <<Ho visto! Non riesco ancora a capire per quale motivo la nave stia affondando, cosa può essere successo?>> Jim Burns si grattò l’enorme testa. <<Abbiamo urtato qualcosa?>> <<Potrebbe essere una spiegazione, se ci fosse stato qualcosa da urtare.>> La spia segnalò che la porta stagna era stata chiusa ed erano pronti per lo sgancio. I due uomini ai comandi si guardarono e si strinsero la mano come segno di buona fortuna. Allacciate le cinture di sicurezza, Burns sollevò il coperchietto che copriva il pulsante di sgancio per evitare che fosse azionato accidentalmente e premette. Nulla! <<Ma porca… >> L’imprecazione di Burns fu interrotta da un suono simile allo sferragliare di una locomotiva a vapore. Si sentirono cadere verso il basso per poi bloccarsi nuovamente con il muso della scialuppa inclinato in avanti. <<Jim, perché ci siamo bloccati?>> Domandò Rocca sentendo che la scialuppa iniziava ad oscillare pericolosamente. <<Forse c’è un guasto al sistema di lancio>> Continuava a premere il pulsante di sgancio, ma senza ottenere nulla. Il primo impatto della scialuppa contro lo scafo della nave non fu particolarmente violento, ma i successivi iniziarono a destare non poca preoccupazione. Avevano ancora pochi minuti prima che la Ocean Wind affondasse, trascinandoli con sé negli abissi. <<Ci penso io.>> Jim Burns sganciò la cintura che lo teneva attaccato al sedile e, reggendosi a fatica in equilibrio, percorse la scala che dava accesso alla grande cabina passeggeri. <<Ragazzi venite a darmi una mano.>> I tre marinai erano visibilmente terrorizzati dagli eventi. <<Adesso apriamo la porta stagna. Dobbiamo assolutamente cercare di sganciare questa maledetta scialuppa.>> Mentre parlava, rovistava tra gli attrezzi tenendo la testa infilata nell’armadio dell’equipaggiamento d’emergenza. Ne tirò fuori una grossa cesoia ed un piede di porco di acciaio. <<Quando saremo fuori, dobbiamo cercare di sganciare i due cavi che ci tengono attaccati. Tu cercherai di troncare quello verso la prua. Io sgancerò in qualche modo quello a poppa. Purtroppo abbiamo una sola cesoia.>> Passò il grosso attrezzo al marinaio più robusto dei tre.
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<<Te la senti di farlo?>> Chiese. <<Certo capo.>> Balbettò il giovane ragazzo poco più che ventenne. <<Allora, quando ti senti pronto, dai il via e loro apriranno la porta. In bocca al lupo ragazzo.>> Il tono di Jim Burns era quello di un padre. Sapeva bene che stavano rischiando la vita. <<Sono pronto!>> Bisbigliò. I due uomini tirarono la maniglia d’apertura della porta stagna, ci vollero solo pochi istanti, poi la forza della tempesta li colpì con raffiche di vento, gigantesche onde e la violenta pioggia. Era impossibile anche solo tenere gli occhi aperti. Burns uscì per primo ed iniziò ad arrampicarsi a fatica lungo la scaletta esterna che conduceva nella parte superiore della scialuppa. Ringraziò la sua mole di oltre centoventi chili. Ci vuole ben altro per portarmi via! Pensò. Giunto sopra, si aggrappò ad un maniglione ed attese l’arrivo dell’altro marinaio. <<So che non sarà facile, ma proviamo a sganciarla insieme.>> Per farsi sentire, Burns dovette urlargli quelle parole a pochi centimetri dall’orecchio. Gli mise la sua mano enorme sulla spalla e gli diede una stretta d’incoraggiamento. Voltatosi, si avviò verso il gancio di poppa. Doveva percorrere pochi metri, ma in mezzo a quella bufera. Sembrava una distanza enorme. La scialuppa dondolava come un’altalena impazzita, allontanandosi dalla nave e tornando ad avvicinarsi, cozzando sempre più violentemente contro la Ocean Wind che incombeva sopra di loro sempre più inclinata. Sembrava che da un momento all’altro, si sarebbe rovesciata schiacciandoli come una noce. Era la cosa più terrorizzante che Burns ricordava di aver visto. Scivolò un paio di volte a causa dell’acqua che rendeva viscida la vernice arancione che ricopriva il rivestimento in vetro resina. Finalmente giunse al gancio che reggeva la parte posteriore della grossa lancia di salvataggio. Con il solo ausilio del piede di porco sarebbe stato impossibile intaccare il grosso cavo di acciaio. L’unica cosa che gli venne in mente di fare era di infilarlo all’interno dell’anello fissato allo scafo e cercare di fare leva per sganciarlo. Mise in opera la sua idea, le saldature sembravano cedere con estrema facilità, ma dopo l’illusione iniziale, non riuscì più a fare progressi. Completamente bloccato! Brutta stronzetta, vuoi fare la dura con me? Ma non sai con chi ti sei messa…
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Si sentì mancare l’appoggio sotto i piedi. Si voltò e riuscì a vedere la prua della scialuppa che, liberata dal cavo che la teneva, precipitava verso il mare. All’interno della scialuppa, ogni volta che lo scafo colpiva la Ocean Wind, si udiva un boato. I dieci passeggeri che avevano a bordo se ne stavano legati ai loro sedili in attesa del disastro che sembrava imminente. I due bimbi piangevano in braccio ai loro genitori terrorizzati. Il portello stagno della scialuppa era ancora aperto con i due marinai che si sporgevano all’esterno, pronti a soccorrere i due coraggiosi compagni. Il capitano Rocca, seduto al posto di manovra della scialuppa, guardava all’esterno cercando di vedere i due uomini, ma la visibilità, ridotta ad un paio di metri, non glielo permetteva. Doveva solo attendere. Senza alcun preavviso, si sentì cadere in avanti. Stavano precipitando in mare. L’impatto con l’acqua risultò essere meno violento di quanto si aspettasse, ma c’era un problema, la scialuppa era sospesa verticalmente, la parte posteriore non si era sganciata. Rocca udiva distintamente le urla delle persone che stavano poco sotto la sua postazione. Il tutto durò solo pochi istanti, poi anche il gancio posteriore non resse più e si sganciò. La scialuppa era libera. Cercò di prendere subito il controllo dell’imbarcazione tentando di allontanarla dal relitto della Ocean Wind. Spinse avanti la manetta dell’acceleratore, ma si rese conto che i comandi non rispondevano correttamente. Non riusciva a staccarsi dalla nave che iniziava i suoi ultimi istanti d’agonia. Continuavano a giungergli le urla concitate degli uomini sotto di lui, ma non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Era concentrato sui comandi, si accorse solo all’ultimo momento che la nave si stava rovesciando sopra di loro. Restò come ipnotizzato da quella terrificante visione. Sembrava che un palazzo di dieci piani gli stesse cadendo addosso per poi trascinarli con se negli abissi. Capì che quella era la fine.
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16 marzo 2008. Seduto sul sedile dell’ Airbus A319 appena decollato da città del Cairo, cercò di rilassarsi ascoltando della musica con il suo I-Pod. Il volo era abbastanza breve, in poco meno di un’ora sarebbero atterrati a Sharm El Sheik. La compagnia aerea TitanAir, con la quale stava volando, non era certo delle migliori ed il suo nome lasciava seri dubbi a chi vi viaggiasse. Titan… Titanic… speriamo di non essere nel viaggio inaugurale. A quel pensiero gli scappò un sorriso, del resto era l’unico volo sul quale aveva trovato posto quella mattina. Fece scorrere il dito su quel piccolo, ma infernale, marchingegno, cercando di fare scorrere le canzoni per trovare le sue preferite. Pur essendo un esperto in vari campi tecnologici, si rifiutava di capire il funzionamento di quell’apparecchio tanto di moda nel mondo. Aveva lasciato alla sua futura moglie l’incombenza di programmargli quell’affare e di caricarvi un po’ di musica. Il suo nome era Max Rain, trentasei anni, americano di Los Angeles dove possedeva una bellissima casa a Santa Monica con vista sull’oceano. Fisicamente era nella norma, alto poco più di un metro e ottanta, capelli castano chiaro portati molto corti e la carnagione sempre coperta da un velo di abbronzatura naturale che faceva risaltare il suo pezzo forte, gli occhi azzurri. Il suo lavoro come inviato di un grosso editore internazionale lo portava a girare il mondo per quasi trecento giorni l’anno. La casa editrice era la H&MW e pubblicava una rivista dall’omonimo nome “History & Mystery World”, tradotta in quattro lingue e con una tiratura di qualche milione di copie mensili, distribuite in ventidue stati; gestiva inoltre, un canale televisivo via satellite e produceva documentari venduti poi in tutto il mondo. Quel colosso editoriale dava lavoro ad oltre ottocento dipendenti sparsi nelle sue sedi di Sydney, Roma, Tokyo ed appunto Los Angeles.
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Max Rain, da oltre dieci anni, era uno degli inviati esterni e si era distinto subito per la propria capacità di affascinare uomini e donne con i suoi articoli e immagini. Solo l’estate precedente aveva fatto impennare l’audience ed i fatturati della società con il ritrovamento di un autentico tesoro Maya. Sentì che il muso dell’aereo si era abbassato, entro pochi minuti sarebbero atterrati. Tornò con il pensiero a Monica, la stupenda ragazza che da lì a due mesi, sarebbe diventata sua moglie. Anche lei dipendente della H&MW, era la responsabile per le ricerche storiche nella sede italiana. Non avevano ancora deciso se vivere in Italia o negli Stati Uniti, ma questo non aveva importanza, lo ritenevano un particolare insignificante. Fu distolto da quei pensieri quando le ruote dell’aereo toccarono, malamente, terra facendoli saltellare per mezza pista. Si ripromise di mettere una croce sulla TitanAir. Uscito dal terminal dell’aeroporto, salì su un taxi e diede l’indirizzo dell’albergo dove il suo collega e amico Paul Gonner lo attendeva. Avevano un paio di giorni liberi e ne avrebbero approfittato per fare un paio di immersioni su uno dei relitti più famosi al mondo, il Thistlegorm. Notò che l’autista egiziano guidava in modo orribile. Max, ironicamente, gli consigliò di andare a fare il pilota per la TitanAir, ma non fu sicuro che questo lo avesse capito perché rispose con un sorriso e sparando una raffica di parole che Max non riuscì a comprendere. Poi, osservando il traffico che li circondava, si rese conto di come il suo autista era forse uno dei migliori. Per nulla rincuorato da quella scoperta, puntò i piedi e si attaccò bene alla maniglia. Con una leggera nausea da mal d’auto, ringraziò il cielo quando finalmente poté rimettere i piedi a terra davanti all’hotel Luxor di Naama Bay. Una volta pagata la folle corsa a quel pazzo di autista, prese la valigia ed entrò nella hall dell’albergo che risultò subito essere un posto a cinque stelle. Il suo amico Paul non si smentiva mai, era abituato a Las Vegas, dove risiedeva nei suoi momenti liberi dal lavoro alternando belle macchine a belle donne. Del resto poteva permetterselo, Paul Gonner aveva trentacinque anni, un sostanzioso stipendio dalla H&MW, un fisico scolpito dalle ore passate in palestra ad allenarsi con gli attrezzi ed a rimorchiare le fanciulle, ignare di trovarsi davanti un affascinante playboy dai capelli rasati a zero non per problemi di calvizie, ma per scelta.
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Si diresse verso il banco accettazione. Un uomo, probabilmente egiziano, con aria di supponenza, quasi infastidita, domandò cosa desiderasse. <<Buongiorno. Sono Max Rain e vorrei parlare con un vostro ospite, il signor Paul Gonner.>> Il tono era stato volutamente molto formale e distaccato, simile a quello che avrebbe usato un lord inglese del ‘800. Voleva divertirsi a fare il verso a quel borioso. Probabilmente, questo se ne accorse. <<Signor Rain mi dia un minuto e chiamo la camera del signor Gonner.>> <<Faccia con comodo, le concederò trenta secondi in più.>> Sfoggiò il suo miglior sorriso beffardo. L’uomo gli voltò le spalle e compose un numero sulla tastiera di un telefono. <<Mi spiace signor Rain, il suo amico non è in camera. Se vuole può accomodarsi al bar e sperare che arrivi.>> Nello sguardo vi si leggeva la soddisfazione per non averlo potuto aiutare. <<Grazie della gentilezza, credo che ne approfitterò!>> Si diresse con passo disinvolto verso il bancone del bar. Ordinò una birra di marca egiziana, poi prese il cellulare e compose il numero di Paul. Lo lasciò squillare finché entrò la segreteria telefonica. Lasciò un messaggio “Ma dove cavolo sei?”. Dopo un’ora ed un paio di birre, la pazienza di Max andava ad esaurirsi. Anche se Paul, a volte, conduceva una vita un poco sregolata, non aveva mai ritardato ad un appuntamento con lui. Molto strano. Lasciò il bar dell’hotel ed uscì in strada a cercare un taxi. L’idea di affrontare un altro viaggio con qualche autista pazzo, era agghiacciante, ma aveva deciso di recarsi in un locale, ad un paio di chilometri, di cui Paul era un assiduo frequentatore. Quando arrivò davanti al Next, mancava poco a mezzogiorno, notò che iniziava a fare molto caldo. Il locale, anche se aperto quasi ventiquattro ore al giorno, in quella tarda mattinata, era praticamente deserto. L’interno era avvolto nella penombra con una martellante musica di tendenza tenuta ad un livello assordante. Notò che non c’erano dei veri e propri tavolini, ma il pavimento era cosparso di enormi cuscini. Al centro della sala, vi si trovava quella che dedusse essere una sorta di piccola pista da ballo, mentre ai lati si aprivano delle stanze di varie dimensioni per i clienti che cercavano una relativa privacy.
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Provò ad immaginarsi come doveva essere quel posto durante le ore notturne, gremito da centinaia di persone, accalcate nella forzata ricerca di una notte trasgressiva. Proprio il posto in cui Paul ci sguazza… Interruppe i propri pensieri quando giunse davanti al bancone del bar e si ritrovò, per la seconda volta in poche ore, a sedersi su di uno sgabello. Contrariamente all’addetto alla reception dell’hotel, il ragazzo che stava dietro al banco aveva un’aria molto simpatica. <<Salve amico, cosa posso servirti?>> Max fu tentato di ordinare l’ennesima birra. <<Un succo d’arancia con ghiaccio.>> Non voleva ritrovarsi ubriaco prima di mezzogiorno. Il ragazzo sorrise, non era abituato a clienti così salutisti. In pochi attimi, tornò con un grosso bicchiere ghiacciato. <<Posso farti una domanda amico?>> Disse rivolto al ragazzo impegnato nella sistemazione di numerosi bicchieri. <<Dimmi pure.>> <<Sto cercando un amico che frequenta questo locale. Posso farti vedere una sua foto?>> Aprì la cartella delle immagini nel suo telefono. Aveva una foto recente di Paul insieme ad un bambino, scattata in Sardegna durante una festa di compleanno. Il ragazzo poggiò lo strofinaccio e si avvicino per vederla meglio. <<Si chiama Paul, Paul Gonner.>> Precisò Max. Guardando la foto e sentendo pronunciare quel nome, il ragazzo ebbe un sussulto. <<Si si... mi sembra di conoscerlo, ma sono giorni che non lo vedo.>> Ovviamente non stava dicendo la verità. Max restò seduto a sorseggiare il suo succo troppo freddo mentre con la coda dell’occhio, seguiva i movimenti di quel ragazzo che si era allontanato a parlare con un energumeno. Gli voltava le spalle e Max non riuscì a capire cosa si dicessero ma il suo intuito le diceva che stessero parlando di Paul. Intuizione confermata nel momento in cui vide quel grosso individuo dirigersi verso di lui. <<Lei è un amico del signor Gonner?>> Stava in piedi di fronte a lui dall’altra parte del bancone. Max che fisicamente era ben messo, notò che le braccia di questo, dovevano avere più o meno la dimensione della sua coscia. <<Diciamo che ci conosciamo ed avevamo un appuntamento. Lei può dirmi qualcosa?>> <<Posso dirgliene una sola. Riferisca al suo amico, se mai lo rivedrà, di non mettere più piede qui dentro.>> Il tono era minaccioso, non facendo
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presagire nulla di buono. Cosa poteva aver combinato Paul? Non era certo un attaccabrighe. Mentre rifletteva, si sentiva gli occhi di quel gigante puntati addosso. Se ne stava di fronte a lui come una statua e con uno sguardo di sfida. Cercò di ignorarlo. Prese il telefono e riprovò a chiamare Paul. Come prima squillava, ma nessuna risposta. Poi colse uno sguardo del ragazzo che lo aveva servito, era diretto verso un ripiano alle spalle del bar dove vi si trovava poggiato un telefono cellulare che lampeggiava per segnalare una chiamata in arrivo. Schiacciò il tasto per terminare la chiamata e la ripeté nell’immediato. Il telefono sul ripiano ricominciò a lampeggiare, era quello di Paul! Intento a fare la parte del cattivo, l’uomo di fronte a lui non si era accorto di nulla. Restava con lo sguardo impassibile a fissarlo. Max finì il suo succo. Prese una banconota da dieci dollari e la poggiò sul bancone. L’altro allungò l’enorme mano per prendere il denaro, Max con uno scatto improvviso, gli cinse un polso con la mano sinistra mentre con l’altra, che stringeva ancora il grosso bicchiere, vibrò un colpo violentissimo sulla testa del gigante. Questo, preso alla sprovvista, restò un attimo intontito, giusto il tempo che serviva a Max per superare con un salto il bancone e prenderlo alle spalle cingendolo alla gola con tutta la forza che aveva in corpo. Il gigante si riprese troppo presto dalla botta iniziale, iniziò una lotta in quello spazio ristretto. Ogni movimento dei due, provocava la distruzione di bicchieri e bottiglie. La differenza di forza era evidente e Max si rese conto che, se si fosse dilungata troppo, quella lotta l’avrebbe malamente persa. La presa al collo cominciava a cedere ed il gigante si era ripreso completamente e con la sua enorme forza, cercava di schiacciarlo contro una serie di ripiani. La schiena inviava fitte di dolore, Max iniziava a pensare che quell’uomo, entro pochi secondi, lo avrebbe sopraffatto e poi gli avrebbe aperto il cranio come un cocco. Il cocco? Girò lo sguardo e vide che a non più di cinquanta centimetri dalla sua mano destra, si trovavano una serie di cocchi pronti per essere aperti, vicino una grossa mazzetta. Mollò la presa al collo ed allungò la mano. Il gigante si voltò, negli occhi uno sguardo omicida e poi di stupore quando si sentì colpire con la mazzetta. Uno… due… e tre volte. Crollò a terra semisvenuto. Max cercò di fare un riassunto di quante botte aveva preso, non facile, aveva dolori su almeno il novanta per cento del corpo. Si ricompose un at-
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timo e guardandosi in giro, si rese conto di quanta devastazione avevano fatto in quei pochi secondi di follia. L’altro ragazzo lo fissava paralizzato. Probabilmente pensava che, dopo aver messo a terra il gigante, sarebbe stato il suo turno. Così non fu. Con fare molto tranquillo, Max prese il telefono di Paul dal ripiano e se lo mise in tasca. <<Dimmi che fine ha fatto il mio amico e ti lascio stare.>> Rincuorato da quella proposta, il ragazzo iniziò a parlare. <<L’altro ieri sera, Paul ha avuto un diverbio con il titolare ed è stato aggredito.>> <<Per quale motivo, e adesso dovè?>> Lo sollecitò a proseguire. <<Il capo mi stava prendendo a schiaffi è intervenuto in mia difesa…>> Classico di Paul, suo malgrado voleva sempre fare il paladino della giustizia. <<So che lo hanno caricato su un’auto per portarlo via. Mano sa dove.>> <<Chi diavolo è Mano?>> Il ragazzo indicò l’uomo steso a terra che lentamente iniziava a riprendersi. <<Questo mostro si chiama Mano? Per favore, prendi qualcosa di molto robusto per legarlo, non ho voglia di fare il secondo round.>> Procurato un cavo per la corrente, avevano legato Mano e adesso stavano cercando di svegliarlo con abbondante acqua gelata in faccia. <<Salve Mano, prima non ci siamo presentati. Sono Max Rain e temo che se non mi dirai dove hai portato il mio amico Paul, prendo la piastra per i panini e comincio a cuocerti lentamente.>> L’uomo sdraiato a terra, legato come un salame, fece un ghigno rivelando i denti macchiati di sangue per la rissa di poco prima. <<Certo che te lo dico, tanto a quest’ora se non fosse già morto ci mancherà poco. Lo abbiamo scaricato in mezzo al deserto a circa ottanta chilometri da Sharm. Incappucciato e legato, si sarà perso.>> Sputò un grumo di saliva e sangue sui pantaloni di Max che si trattenne dal tirargli un calcio in faccia. <<Dimmi dove?>> <<Fai la strada per Dahab dopo una ventina di chilometri, troverai un distributore di benzina. A quel punto prendi lo sterrato che si inoltra nel deserto e cercalo. Troverai le sue ossa, forse.>> A questo punto, Max gli diede quel calcio che tanto desiderava sferrargli, poi si voltò e si diresse a passo svelto verso l’uscita. Quando era quasi alla porta, sentì il gigante urlare. <<Americano, presto ci rivedremo e ti ucciderò con le mie mani, sempre se non sarai già morto prima nel deserto insieme al tuo amico.>> Non si degnò nemmeno di rispondere. Si limitò solo ad aggiungerlo nella lista di chi gli voleva male.
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All’esterno lo attendeva un sole accecante e caldissimo. Poteva sentire i suoi raggi che gli scottavano la pelle. Fermò il primo taxi che capitò a tiro ed una volta salitovi sventolò davanti al viso del conducente una banconota da cinquanta dollari. <<Portami velocemente al più vicino centro commerciale ed è tua.>> Nei successivi quattro minuti, pensò di trovarsi all’interno di una lavatrice durante la centrifuga ma il suo pensiero era rivolto a Paul, nel deserto con quelle temperature. L’avrebbe trovato ancora vivo? All’interno del centro commerciale acquistò alcune cose che gli sarebbero tornate utili nella ricerca, compreso un grosso e potente binocolo. Fuori era restato ad attenderlo il suo taxi con la promessa di un’altra corsa da cinquanta dollari. Aprì la portiera posteriore e buttò dentro un grosso zaino, poi si accomodò sul sedile a fianco dell’autista. <<Portami dove posso noleggiare una moto per il deserto.>> Questa volta il tragitto fu più lungo ma con la guida suicida di quell’uomo che, nonostante tutto, era allegro e sorridente, gli permise di svincolarsi dal traffico in brevissimo tempo. Una volta usciti dal centro, il traffico si diradò ed in pochi minuti giunsero ad una sorta di baraccopoli ai limiti del deserto. Max vide che vi si trovavano parcheggiate decine di moto a quattro ruote di diverse dimensioni. Ne noleggiò una tra le più grosse e con qualche dollaro in più, ottenne anche un’ulteriore tanica di benzina. Legò il suo zaino dietro la moto e si avvolse la kefia che lo avrebbe riparato dalla polvere. Acceso il potente motore si diresse a gran velocità verso la strada per Dahab. Percorse velocemente i chilometri sino al distributore che gli era stato indicato, poi curvò nello sterrato ed iniziò ad addentrarsi nel grande deserto. Era certo che Paul si sarebbe diretto a sud verso la costa di Sharm, del resto era l’unica cosa logica da fare. Addentrandosi nel deserto, incontrò diversi gruppi di escursionisti a bordo di moto simili alla sua o in lunghe carovane di cammelli. Trascorsi una ventina di minuti, iniziò la desolazione, di fronte a lui poteva vedere solo basse colline di roccia e sabbia, lì i turisti non arrivavano. Cercò di portarsi in un punto elevato da dove poter scrutare l’orizzonte con il binocolo. Fermata la moto, si rese conto di quanto faceva caldo senza più lo spostamento d’aria creato dal movimento.
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Osservò per alcuni minuti l’orizzonte attraverso le lenti, cercando di mettere a fuoco ogni minimo particolare, un uomo a piedi in mezzo a quel luogo sterile e monotono, sarebbe potuto sfuggire facilmente alla vista. Passò così almeno una decina di minuti, poi individuò ad almeno tre o quattro chilometri di fronte a lui, un nuovo punto di osservazione. Mise il binocolo nella custodia, si passò una mano tra i capelli che erano diventati un impasto di sabbia e sudore, poi risalì in sella e si rimise in viaggio. Raggiunto il secondo punto d’osservazione, scandagliò nuovamente metro per metro fin dove il binocolo gli permetteva. Nell’ora successiva, ripeté più volte l’operazione su diverse colline di roccia ma del suo amico Paul, nemmeno l’ombra. Quando erano da poco passate le quattro del pomeriggio, cominciava a temere che, se non l’avesse trovato in fretta, sarebbe calato il buio e ben sapeva che in pieno deserto sarebbe stato pericoloso muoversi con le tenebre e sicuramente impossibile trovare un uomo. Stava per abbassare il binocolo quando colse qualcosa a circa tre chilometri dalla sua posizione. Non riusciva a distinguerne bene l’immagine, poteva anche essere una roccia e per l’effetto ottico provocato dal calore sembrava si muovesse. Decise che valeva la pena verificare. Man mano che si avvicinava iniziò a distinguerne meglio la forma ed ebbe la certezza che si stesse muovendo. Forse è un animale? Mentre gli passava nella testa questo pensiero, la sagoma ancora ad alcune centinaia di metri, lo avvistò ed iniziò a sbracciarsi per attirare la sua attenzione. Con molta cautela, Max si avvicinò a quello strano essere. Gli sembrò un incrocio tra un tuareg ed un barbone di periferia con uno strano copricapo che gli pendeva dalla testa e delle strane calzature fatte di stracci. La polvere che ricopriva quella figura la rendeva monocolore: totalmente grigia. Fermò la moto ad alcuni metri e si tolse la kefia rivelando il volto. L’altro fece lo stesso con quella specie di turbante, era Paul Gonner. Max scoppiò a ridere. <<Ma come sei conciato? Se ti mettessi in mano un paio di tavole, sembreresti Mosé…>>. Continuò nella sua risata. <<Vorrei vedere te, abbandonato due giorni fa nel deserto senza scarpe ne cappello.>> Gli rispose Paul con tono irritato. <<Hai anche qualcosa da bere, o sei venuto qui solo per fare il cretino?>> L’altro non riusciva a trattenersi, più lo guardava e più rideva. <<Ho qui dell’acqua se la vuoi.>> Allungò una grossa borraccia all’amico che bevve avidamente svuotandola. <<Hai portato solo acqua?>>
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<<No no! Avevo della birra ed anche della tequila, ma l’ho bevuta durante il viaggio.>> Scherzò Max allungando un’altra bottiglia d’acqua presa dalla cospicua scorta che si era portato. <<A parte gli scherzi, cosa ci fai in mezzo al deserto?>> Domandò ironicamente Paul mentre si sciacquava la faccia dalla polvere. <<Ero stato invitato ad una festa di predoni e guarda un po’ chi ti vado a trovare lungo la strada, Paul Gonner con il suo nuovo abbigliamento trendy.>> Si stava divertendo un mondo a sfottere il suo amico. <<Per tua informazione, indosso un abito da duemila dollari con il quale mi sono dovuto ricavare questo copricapo e queste calzature di fortuna. Quei bastardi mi hanno rubato tutto, anche il cellulare.>> Max si mise una mano in tasca ed estrasse il telefono di Paul. <<Questo sono riuscito a recuperarlo facilmente, ho solo dovuto stendere uno che sembrava il fratello di Polifemo ed ho devastato mezzo locale. In compenso mi hanno dato un ingresso omaggio per due, magari questa sera andiamo insieme.>> <<Non ci voglio credere, l’elegante e pacato Max Rain che fa una rissa al bar…>> Questa volta fu Paul a scoppiare a ridere. <<Comunque quei bastardi si meritavano proprio una lezione. Mi spiace che ti sia tenuto tutto il divertimento per te solo.>> Mentre se ne stavano seduti nella sabbia a raccontarsi gli eventi delle ultime ore, il sole si era abbassato sull’orizzonte ed aveva allentato la sua morsa. I due amici, come era loro abitudine, scherzarono su quell’episodio che poteva costare loro la vita, ma che fortunatamente si era risolto con esito positivo per entrambi. Poco dopo le otto di quella stessa sera, Paul si era steso sul letto dopo essersi fatto una lunga doccia per togliersi di dosso almeno due chili di sabbia. Si era appena appisolato con il sottofondo della tv dove un serio cronista della CNN, inviato a Nassau, dava le ultime notizie riguardo al virus sconosciuto, che sembrava non aver ancora terminato di mietere le sue vittime. La situazione stava diventando critica. Si addormentò profondamente ed iniziò un sogno che lo vedeva a bordo di un lussuoso yacht, in compagnia di una bellissima star del cinema, a sorseggiare un Martini ghiacciato. Sentiva che qualcosa picchiava insistentemente contro lo scafo della barca, quel fastidioso suono era incessante ed aumentava di tono. Si svegliò di colpo. Qualcuno stava bussando alla porta della camera. Irritato per l’interruzione del suo flirt con quella bella ragaz-
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za, si alzò dal letto ed andò ad aprire la porta. Fuori nel corridoio con una faccia che più seria non si poteva, trovò Max. <<Sei tu! Mi hai disturbato durante un incontro galante.>> Max guardò all’interno della camera dove vide solo la tv accesa ed il letto quasi intatto ma non era nelle sue intenzioni approfondire a cosa si stesse riferendo Paul. <<Preparati che dobbiamo partire subito.>> Guardandolo in faccia, Paul capì che doveva essere successo qualcosa di serio, prima di fare domande, era già rientrato e stava buttando gli abiti in valigia. Non ebbe bisogno di chiedere nulla, fu Max ad iniziare a dargli subito una spiegazione. <<Mi ha chiamato Dick da Los Angeles.>> Si riferiva a Dick Merrel, vicepresidente della Hystory & Mystery World. <<L’altra notte, è affondata la Ocean Wind. Mentre faceva ritorno a Miami si è imbattuta in una tempesta e Robert si trovava a bordo.>> <<Robert Hastley, il presidente della H&MW?>> Paul era incredulo e non capiva dove volesse arrivare il suo amico. <<Mi ricordo di quella nave, abbiamo fatto un servizio quando è stata varata due anni fa. Era ritenuta molto sicura!>> <<Le cause dell’affondamento sono ancora sconosciute, la tempesta non si è ancora placata ma questo a noi importa meno. Dick mi ha detto che sono state ritrovate tredici scialuppe con a bordo settecentotrentacinque persone tra equipaggio e passeggeri. Manca però all’appello una delle lance di salvataggio e quindici persone tra cui c’è anche Robert Hastley.>> Il volto di Paul diventò cupo. <<Forse si è allontanata dalle altre a causa della tempesta.>> Questa possibilità, insieme a mille altre, Max l’aveva già presa in considerazione. In cuor suo era certo che sarebbero stati ritrovati sani e salvi nel giro di breve tempo. Robert Hastley, oltre ad essere il presidente della H&MW, era anche uno dei suoi migliori amici. Si erano conosciuti oltre dieci anni prima, quando Max era stato assunto come inviato nella società. Tra di loro si era creato subito un grande rispetto professionale reciproco che col tempo era sfociato in una profonda amicizia e questo valeva anche per Paul. <<Dick ci ha trovato un volo privato verso il Cairo e da lì voleremo fino a Miami dove ci aspetta lui.>> <<Non sapevo che ci fosse un volo dal Cairo a Miami.>> Nel frattempo si stavano dirigendo verso la reception per effettuare il chek-out dall’hotel per poi prendere un taxi verso l’aeroporto.
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<<In effetti non so se ci sia un volo di linea, ma noi voleremo su di un Airbus A318 Elite privato. Dick Merrel mi ha detto che il consiglio di amministrazione della società ha messo a disposizione tutte le risorse per soccorrere Robert. Del resto, lui farebbe la stessa cosa per ognuno di noi.>> Dopo il decollo dal Cairo, si erano diretti verso Londra dove avrebbero effettuato uno scalo per il rifornimento prima di affrontare la trasvolata dell’oceano Atlantico verso Miami. Dopo l’avventura nel deserto, Paul si sentiva esausto, distese il sedile sdraiandovisi sopra nella speranza di poter approfittare di quelle ore per un poco di tranquillità che comunque non riuscì a trovare, i pensieri lo tormentavano. Quando l’aereo lasciò l’aeroporto di Londra, rinunciò al suo riposo. Si servì una generosa tazza di caffé, prese un paio di tramezzini e si andò ad accomodare nel sedile a fianco dell’amico. <<Dovresti provare a dormire ancora.>> Gli disse Max appena si fu seduto. <<Non ci riesco e poi sono abituato a dormire poco. Tu che stai guardando su quel computer?>> Addentò il primo tramezzino. <<Avevo chiesto a Dick di inviarmi una mail con le foto satellitari della zona del naufragio oltre a tutti i dati sulla Ocean Wind.>> Spiegò. Paul allungò la testa per guardare. <<Porca miseria!>> <<Dalla tua esclamazione, deduco abbia notato qualcosa.>> Con la bocca piena, Paul cercò invano di spiegarsi, poi bevve un sorso di caffé e finalmente riuscì a farsi capire. <<Il disastro è avvenuto nel Triangolo delle Bermuda! Hai capito adesso perché sono scomparsi?>> Il volto era serio. Questa uscita dell’amico, strappò un sorriso a Max. <<Ma che cavolo stai dicendo, è solo un mito, inoltre sono scomparsi solo in quindici su oltre settecento e la nave è affondata, non svanita.>> Guardando il volto di Paul, capì che questo non era affatto convinto della spiegazione. <<Secondo me, centra qualcosa.>> Dal tono si capiva che non avrebbe cambiato facilmente idea. Max scosse la testa sorridendo e continuò a visionare i dati che riguardavano la nave affondata.
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17 marzo 2008. Erano trascorsi solo dodici giorni da quando era iniziata l’emergenza sanitaria sull’isola di Nassau. Numerose transenne, sorvegliate, ventiquattrore su ventiquattro, da poliziotti delimitavano tutta l’area intorno all’ospedale. Chi era dentro non ne poteva uscire e viceversa. Gli unici che erano autorizzati ad entrarvi dovevano essere muniti di tute e maschere protettive e per uscirne si trovavano costretti ad un lungo iter di sterilizzazione. Diverse squadre, infagottate in tute che le facevano somigliare a schiere extra-terrestri e munite di grossi nebulizzatori, si aggiravano lungo il perimetro, cospargendo il loro disinfettante puzzolente. Davanti ad una delle strade sbarrate, dalla quale s’intravedeva in lontananza l’ingresso dell’ospedale, si trovavano numerosi furgoni dai quali uscivano decine d’antenne di varie dimensioni; numerose telecamere stavano perennemente puntate nella speranza di cogliere qualcosa d’interessante da trasmettere alle redazioni dei telegiornali. All’interno di quell’area circoscritta si trovavano l’ospedale ed alcune piccole costruzioni private che, per l’occasione eccezionale, erano state adibite a reparti e centri di ricerca e analisi. Al momento, le persone infettate dal virus misterioso erano oltre duecento, i morti cinque. L’unica cosa che sembrava sortire effetto era la somministrazione di un antibiotico ad ampio spettro, ma il virus mutava in continuazione, rendendo difficile trovare una cura efficace. Ogni volta che sembravano vicini ad una soluzione, si manifestava in una nuova forma vanificando il lavoro precedente. La dottoressa Kiara Logan si abbandonò sulla poltrona. Dal giorno in cui era giunta in ospedale dopo aver risposto alla chiamata del suo collega non se n’era più andata. Le sembrava di trovarsi in una zona di guerra con decine e decine di persone bisognose di cure ogni ora, da parecchi giorni. Lei, finora, non sembrava avere sintomi, grazie anche alle precauzioni adottate sin dal primo contatto con il paziente numero uno: l’uomo trovato alla deriva nell’oceano.
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Il suo collega, il dottor George Clay, lavorava alle sue spalle. <<Kiara, da quante ore non fai una pausa? Dovresti riposarti almeno un paio d’ore.>> La ragazza sussultò. Presa dal lavoro ed assorta nei pensieri, si era dimenticata di non essere sola nel laboratorio. <<Forse lo farò tra poco. Mi stavo ponendo una serie di domande: Da dove può essere partito il virus? Cosa lo ha provocato? Perchè cinque sono morti, mentre il paziente numero uno è ancora incosciente, ma vivo? Qual’è la logica del virus?>> <<Troppe domande e poche risposte, purtroppo. Certo è che, se quell’uomo riprendesse i sensi, potrebbe esserci d’aiuto dicendoci dove sia stato e chi abbia frequentato nelle ore precedenti al suo ritrovamento.>> Osservò Clay. In quei lunghi giorni passati come reclusi in isolamento, avevano già fatto mille supposizioni che purtroppo erano rimaste tali. <<Ho visto in televisione che si è scatenata una tempesta proprio nella zona del ritrovamento del nostro naufrago.>> Clay assentì con la testa. <<Una zona di naufragi se consideriamo che neanche due giorni fa vi è affondata anche una nave da crociera.>> <<Stavo giusto pensando che, alla fine di tutto ciò, avremmo potuto fare una crociera riposante, ma adesso ho cambiato idea.>> <<Intendevi una crociera insieme, io e te?>> L’imbarazzo di Clay verso Kiara, dopo quelle lunghe ore passate a stretto contatto, si era attenuato di molto. Arrossiva ancora alle provocazioni di lei, però riusciva a non balbettare più. <<Dottor George Clay, non pensa d’essere troppo audace a fare questo tipo di proposte ad una collega che conosce appena?>> Scherzò Kiara usando un tono scandalizzato. <<No no… scusa, non intendevo offenderti. Pensavo solo che dalle tue parole, forse avessi inteso…>> <<So io cosa intendevo!>> Lo interruppe lanciando uno sguardo malizioso e divertito. <<Adesso rimettiamoci al lavoro. Della crociera ne riparleremo.>> Kiara si voltò e, come nulla fosse, continuò il lavoro che aveva interrotto.
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17 marzo 2008. L’Airbus A318 Elite aveva iniziato la manovra d’avvicinamento all’aeroporto militare di Fort Lauderdale che si trovava a poche decine di chilometri da Miami. Quel cambio di destinazione, per motivi logistici, gli era stato comunicato poco prima da uno dei piloti. Sarebbero atterrati entro i prossimi venti minuti. Il volo dal Cairo era durato parecchie ore, ma, grazie al fuso orario, sarebbero sbarcati prima di mezzogiorno. Il tempo era buono, nonostante perdurasse un forte vento, strascico della tempesta che andava esaurendosi a qualche centinaio di chilometri a sudest dalla loro posizione. Durante il volo sull’Atlantico, Max si era imposto di riposare qualche ora malgrado i mille pensieri e timori che gli si accavallavano nella testa. Al suo fianco, Paul stava dormendo un sonno altrettanto agitato. Negli ultimi minuti non aveva fatto altro che rigirarsi sul comodo sedile. Max sapeva benissimo che l’amico, pur cercando di dare un’impressione di tranquillità, era preoccupato quanto lui. Era il loro modo di mantenere il controllo anche nelle situazioni più critiche. Il sistema l’avevano già collaudato parecchie volte in circostanze difficili, dove tutto sembrava andare storto. Non sapeva se potesse essere definita una dote, ma in ogni caso aveva sempre funzionato. Allungò un braccio verso l’amico e gli toccò una spalla. <<Svegliati, stiamo atterrando.>> <<Spero che i piloti siano in grado di farlo anche senza il mio aiuto.>> Borbottò infastidito prima di aprire gli occhi che, automaticamente, andarono a cercare la giovane e bella hostess che li aveva accompagnati durante il volo. <<Dove è finito il mio angelo?>> <<Probabilmente ha preferito volare via perché non sopportava più i tuoi languidi sguardi.>> <<Sono certo che mi adora! Credo che potrebbe essere la donna della mia vita.>>
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A quelle parole di Paul, Max scoppiò in una risata che gli servì anche a scaricare la tanta tensione accumulata in quelle ultime ore. <<Se potessi avere un diamante per tutte le volte che hai detto questa frase, non basterebbero tutte le miniere del Sudafrica.>> Con una manovra impeccabile, le ruote dell’Airbus toccarono terra a Fort Lauderdale. Presi i bagagli, Max scese la scaletta dell’aereo e si diresse verso un grosso fuoristrada che li attendeva a pochi metri. <<Ciao Max, tutto bene il volo?>> Ad attenderlo sulla pista c’era Dick Merrel. <<Fortunatamente sì, siamo anche riusciti a riposare qualche ora.>> Dick aprì il portellone posteriore dell’auto per caricare la valigia. <<E Paul?>> Domandò guardando verso l’aereo. <<Adesso arriva. Sta gettando le basi per il suo matrimonio con una hostess.>> Dick fece un sorriso senza il bisogno di chiedere altre delucidazioni. La fama da seduttore di Paul Gonner era leggendaria in tutta la H&MW. <<Allora cosa mi sai dire di nuovo sul naufragio della Ocean Wind?>> Il volto di Dick s’incupì. <<La tempesta è passata, ma della scialuppa numero quattordici non c’è traccia. Alcuni testimoni che si trovavano a bordo della numero tredici dicono di aver visto affondare la nave con ancora attaccata la lancia di salvataggio. Non abbiamo ricevuto nessun segnale nemmeno dal trasmettitore satellitare in dotazione ad ogni barca. Purtroppo temo il peggio.>> <<Io no! Li considererò tutti vivi finché non avrò una prova del contrario.>> Rispose risoluto Max. Nel frattempo anche Paul li aveva raggiunti. Strinse la mano a Dick che non vedeva da almeno due mesi. <<Conosciamo il punto in cui la Ocean Wind è affondata?>> Continuò Max. <<Certo! Pressappoco a quattro chilometri al largo di Little Inagua. Le carte nautiche affermano che dovrebbe trovarsi ad una profondità di circa centoventi metri. La guardia costiera ci ha fatto sapere che, entro qualche giorno, invierà sul posto un’unità munita di robot per l’ispezione del relitto.>> Max restò in silenzio mentre la sua mente elaborava tutti i dati appena ricevuti.
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Dick continuò illustrando il programma per le ore successive. <<Abbiamo un aereo militare che, in un’ora, ci porterà a Matthew Town, su Great Inagua Island, lì attenderemo l’arrivo della guardia costiera.>> <<Mi spiace contraddirti Dick, ma non è mia intenzione aspettare con le mani in mano. Chiama chi di dovere e digli che vogliamo trovare attrezzature adatte ad immersioni tecniche ad alte profondità e un cabinato, adatto allo scopo, con a bordo viveri e tutto quanto ci possa tornare necessario per qualche giorno di permanenza in mare.>> Paul conosceva troppo bene l’amico, aveva già capito quali fossero le sue intenzioni. <<Naturalmente non intendi aspettare il robot, ma vuoi andarci di persona!>> <<Qui ti sbagli Paul, non ci andrò da solo, tu verrai sul relitto con me!>> <<Non avevo dubbi che mi avresti coinvolto in quest’ennesima follia, del resto, farmi rischiare la vita è il tuo hobby preferito.>> Great Inagua Island è la terza isola più grande dell’arcipelago delle Bahamas. La piccola cittadina di Matthew Town, con i suoi mille abitanti, è contraddistinta dalle caratteristiche casette bianche con profili verdi. Durante il breve percorso dall’aeroporto al centro avevano intravisto il grande lago Windsor, detto anche lago rosa, che occupa circa un terzo della superficie dell’isola. La temperatura in quella stagione era piacevole e per le vie polverose si aggirava qualche turista impegnato a scattare immagini di quell’angolo di mondo, dove il tempo dava l’impressione di scorrere più lentamente. L’auto si fermò di fronte ad un ristorante con un’insegna che prometteva la degustazione di prelibatezze a base di pesce. <<Finalmente riuscirò a fare un pasto decente. Sono giorni che mi nutro in modo approssimativo e superficiale.>> Esordì Paul scendendo dall’auto. Una volta seduti a tavola con una brocca di vino bianco ghiacciato nel mezzo, Max espose quello che aveva in mente. <<Mi hai assicurato che la barca con le attrezzature sarà pronta prima di sera?>> Chiese a Dick. Questi fece un cenno d’assenso con la testa. <<Benissimo! Viaggeremo questa notte verso Little Island, così domattina saremo sul posto e, una volta individuato il relitto della Ocean Wind, c’immergeremo!>> Concluse il breve discorso e si scolò un bicchiere di vino gelato. <<Che fine hanno fatto i naufraghi recuperati?>> Domandò Paul.
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Fu Dick a rispondere. <<Sono stati prelevati vicino alla costa di Little Inagua e trasferiti su un incrociatore della marina militare. Sicuramente saranno già a Miami a rilasciare interviste.>> <<E le ricerche della scialuppa quattordici?>> Domandò ancora. <<Sono iniziate appena la tempesta lo ha permesso. In questo momento ci sono in volo diversi ricognitori che perlustrano incessantemente una zona con un raggio di un centinaio di chilometri.>> Max aveva continuato a sorseggiare distrattamente il vino, dava l’impressione che quella conversazione quasi lo annoiasse. Dick e Paul sapevano che, quando l’amico era silenzioso, stava elaborando qualche teoria. Non dovettero attendere molto prima che questo tornasse con la mente tra loro. <<Dick, voglio tutti i dati meteo della tempesta: forza dei venti, direzione, durata, altezza delle onde e quanto altro possa tornarci utile.>> Dick prese nota su un’agenda. Era famoso per la sua competenza e meticolosità nell’eseguire qualunque lavoro. Non per niente era il secondo di Robert Hastley alla H&MW. Finalmente arrivò il cameriere con i piatti che avevano ordinato. Giunti al porto di Matthew Town, l’unico dell’isola, cercarono la barca che avevano preso a nolo. Si trattava di un grosso cabinato Grand Bank’s Eastbay da quindici metri, munito di due confortevoli cabine, una cambusa ben rifornita ed un’ampia timoneria. Sullo specchio di poppa si trovava un comodo argano che sarebbe tornato molto utile per calare in mare le attrezzature. Per muovere le oltre venticinque tonnellate di quella splendida barca, sotto il ponte di poppa vi erano alloggiati due motori Caterpillar da ottocento cavalli ciascuno. Max e Paul ammirarono quella bellezza da oltre un milione di dollari, poi verificarono se a bordo vi si trovassero tutte le apparecchiature di cui necessitavano. <<Nulla da dire sulla barca, ma sulle attrezzature da immersione ci siamo un poco sprecati.>> Borbottò Paul rigirandosi tra le mani una muta stagna per immersioni. <<Con un così scarso preavviso, il proprietario mi ha detto che non si poteva trovare di meglio in tutta l’isola.>> <<Ce la faremo andare bene, vero Paul?>> Intervenne Max. <<Se non possiamo proprio farne a meno! Sono convinto che la tua futura moglie non sarebbe felice se sapesse che, a poche settimane dalla fatidica data, rischi la vita con queste cianfrusaglie.>> Scherzò Paul. <<Basta non farglielo sapere, o sbaglio?>> <<Amico, cominci a ragionare come me: mai dire tutto alle donne.>>
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Adesso che Paul aveva accennato a Monica, Max si ricordò che non l’aveva ancora sentita da quando era partito dall’Egitto. Forse era meglio chiamarla per informarla di dove si trovasse e di quanto stessero per fare. Era preoccupato, il giorno prima aveva sentito Monica particolarmente depressa per la notizia della scomparsa di Robert Hastley. Anche se lui stava a Los Angeles e lei nella sede di Roma, erano molto legati. Nientemeno aveva voluto Robert come loro testimone di nozze. Max prese il telefono e la chiamò. <<Pronto!>> In Italia era quasi notte, ma la risposta di Monica fu immediata. <<Vista la velocità nel rispondere, presumo di non averti disturbata nel sonno.>> <<Onestamente non sono riuscita a dormire molto in queste ultime due notti. Tu dove sei?>> Il tono della domanda era quello di chi conosceva già la risposta. <<Siamo a Matthew Town. Ci prepariamo a partire per l’isola di Little Inagua.>> <<Ero sicura che non saresti riuscito a startene in disparte.>> <<Come potrei farlo. C’è di mezzo un amico.>> Disse Max. <<Ti capisco, dispiace molto anche a me. Sono certa che Robert non sarebbe d’accordo sul fatto che rischierai la vita per lui. Inoltre, devi mettere in conto anche la peggiore delle ipotesi: potresti non ritrovarlo.>> Monica aveva compreso le intenzioni dell’uomo. Lo conosceva troppo bene. <<Non c’è solo Robert tra i dispersi, ma anche due bambini e il mio sesto senso, dice che li ritroverò.>> Rispose risoluto. Monica sapeva che era inutile discutere con lui quando usava quel tono, per di più, le sue teorie spesso si erano rivelate esatte. Lasciò cadere il discorso. <<Sicuramente hai coinvolto Paul… che del resto ama assecondarti… e poi chi altri c’è?>> <<Dick Merrel.>> <<Il vicepresidente? Scommetto che, dopo quest’esperienza con voi due, vorrà dare le dimissioni.>> Quella battuta di Monica gli strappò un sorriso. <<A parte queste infondate calunnie nei nostri confronti, volevo chiederti se avessi deciso dove si svolgerà la cerimonia del nostro matrimonio?>> <<Ci sto ancora lavorando. Adesso, però, non riesco a pensarci.>> <<Allora vai a dormire. Ti terrò informata sugli sviluppi.>> <<Fate attenzione. Ti amo.>> <<Anche io. Buona notte.>> La chiamata terminò.
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Fino a due giorni prima aveva pensato al suo matrimonio con Monica come all’evento più importante della propria vita, ma allora non poteva immaginare che, nel giro di poche ore, si sarebbe trovato a vivere l’incubo di poter perdere un amico come Robert. <<Tutto bene, Max?>> Assorto nei pensieri, non si era accorto che Paul stava in piedi alle sue spalle. <<Benissimo amico. Prepariamoci a salpare.>> Uscirono dal porto ritrovandosi su di un mare incredibilmente calmo che rifletteva gli ultimi raggi arrossati del sole al tramonto. Fecero rotta verso nord, per poi piegare ad est costeggiando l’isola. Con un preavviso così breve, non avevano trovato nessun uomo disponibile a guidarli nella loro ricerca. Poco male. Meglio pochi, ma buoni. Sarà come una gita tra vecchi amici. Pensò Max standosene seduto a prua. Dick e Paul avevano preso i comandi del grosso cabinato e si stavano divertendo come due bambini con il giocattolo nuovo. Dalla sua posizione, Max li sentiva discutere continuamente su quale fosse il modo più appropriato di condurre la barca. Ritenne più opportuno starsene in disparte.
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Nassau, 18 marzo 2008. Kiara Logan si era svegliata prestissimo dopo una notte particolarmente agitata. Alzatasi da una delle scomode brandine che avevano piazzato nell’ufficio di George Clay, si rese conto di quanto sentisse la mancanza del proprio soffice letto. Giunta nel bagno si osservò allo specchio che, giorno dopo giorno, le rimandava un’immagine sempre più pallida ed emaciata. Prese la scatola degli antibiotici ed ingoiò una capsula. Pur con tutte le precauzioni adottate, il virus non aveva risparmiato nemmeno lei. Tra antibiotici e pastiglie varie, era riuscita a tenere a bada l’infezione, ma per quanto ancora avrebbe funzionato quel cocktail di medicinali? Dopo una doccia veloce, indossò un paio di jeans ed una t-shirt poi si sedette alla scrivania e, sorseggiando un succo d’ananas, iniziò a scorrere alcuni dati al computer. Sentì bussare alla porta che si aprì subito senza attendere risposta. <<Ciao Kiara, ben svegliata. Come ti senti oggi?>> Il dottor George Clay teneva in mano un sacchetto di carta dal quale usciva un fragrante profumo di brioche ancora calde. <<Onestamente, mi sento uno schifo come ieri, ma percepisco un buon odore che forse potrà tirarmi su di morale.>> Gli occhi indicarono il sacchetto in mano al collega. <<Sapevo che non avresti resistito alla tentazione, ma come la mettiamo con la linea?>> La stuzzicò Clay ben conoscendo la mania di Kiara per il proprio corpo. <<Ci penserò al momento opportuno. Adesso molla quel sacchetto.>> Clay la osservò in silenzio, mentre mangiava, era molto preoccupato per lei, la vedeva stanca e, soprattutto, era evidente quanto le condizioni di salute della ragazza stessero peggiorando. Il virus sembrava non voler risparmiare nessuno. Lui stesso cominciava ad avere dei disturbi, fortunatamente ancora invisibili agli altri. Finché fosse stato possibile, non voleva dire nulla alla collega. <<Hai già preso l’antibiotico?>>
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<<Già fatto, paparino.>> Scherzò Kiara, osservando gli occhi di Clay, però, percepì uno sguardo di adorazione mista a follia, chiaro sintomo di chi è ogni giorno più innamorato. <<Cosa stai guardando?>> Le domandò il dottor George Clay abbassando lo sguardo. <<Nulla! Mi piace guardarti e metterti in soggezione.>> Quei momenti erano impagabili. Passavano le loro giornate a cercare di curare centinaia di persone infette e la cosa peggiore era di non riuscire a trovare una cura efficace contro quel virus che per molti pazienti era già risultato fatale. Appena Kiara terminò la colazione, Clay tornò drasticamente alla realtà. <<Questa notte ci sono stati due nuovi decessi.>> Il sorriso di lei sparì. << Abbiamo, però, anche fatto una scoperta: sembra che, mentre noi curiamo una patologia provocata dal virus, questo è già mutato e sta infettando l’ospite sotto una nuova forma.>> <<Quindi come facciamo a sconfiggerlo, se, mentre noi curiamo un raffreddore, lui sta già sviluppando un morbillo?>> Chiese Kiara seccata. George Clay fece una pausa stropicciandosi gli occhi. <<Non lo so! Però questo nuovo dato potrebbe esserci d’aiuto.>> <<Speriamo sia come dici tu, qui la situazione peggiora ogni giorno e noi non sappiamo più cosa somministrare ai pazienti. Abbiamo provato con tutti i tipi di medicinali antivirali ed antibiotici ad ampio spettro che servono solo a rallentare l’infezione, ma non la bloccano.>> La voce di Kiara era poco più di un sussurro. <<Credo che il metodo migliore per sconfiggerlo sia sempre quello di trovarne l’origine. A proposito, il paziente numero uno?>> <<Stazionario al momento. Certo è che, se solo riuscissimo a sapere chi sia e da dove venga, potrebbe risolverci qualche problema.>> Mentre parlava si avvicinò ad una delle finestre che davano all’esterno. Fuori si muovevano i soliti uomini chiusi nelle loro tute protettive che, incessantemente, nebulizzavano disinfettanti d’ogni genere diffondendo odori nauseanti. Poco più in là poteva vedere i posti di blocco piantonati dai militari, anch’essi muniti di maschere anti-gas. Notò che nella notte avevano montato una strana tenda, simile ad una cupola, e del diametro di circa dieci metri. Alcuni tubi uscivano dalle pareti e si andavano a collegare ad un container che, a sua volta, era collegato a numerose bombole e serbatoi di varie dimensioni. Osservò quella struttura dalle pareti argentate che riflettevano la luce e su un lato lesse la scritta: “Ambiente sterile”. Capì che si trattava di una zona per la quarantena, dotata di un’atmosfera propria e sicuramente
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quel container, con tutti i suoi aggeggi, non era altro che il macchinario per mantenere asettica lâ&#x20AC;&#x2122;aria. Il primo sole del mattino si stagliava in un cielo eccezionalmente blu. Sarebbe stata unâ&#x20AC;&#x2122;altra bellissima giornata.
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