L'aria della primavera di Marco Nicolini

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"L'ARIA DELLA PRIMAVERA" di Marco Nicolini

Titolo: L'ARIA DELLA PRIMAVERA Autore: Marco Nicolini Genere: Sentimentale Editore: Zerounoundici Edizioni Collana: Selezione Pagine: 140 Prezzo: 12,40 euro Acquista su Il Giralibro (-15%) Acquista su IBS

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MARCO NICOLINI

L’ARIA DELLA PRIMAVERA

www.0111edizioni.com


www.0111edizioni.com www.ilgiralibro.com

L’ARIA DELLA PRIMAVERA 2008 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2008 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2008 Marco Nicolini ISBN 978-88-6307-179-5 In copertina: immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Aprile 2009 da Global Print – Gorgonzola (MI)




L’aria della primavera

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01 – STATI D’ANIMO (intro)

Inverno. Lungo, freddo, impersonale. Dominato da forme lineari e anonime. Sagome scure si muovono veloci tra i toni grigi del paesaggio, con la stessa consistenza delle ombre. Tetri profili di vite chiuse in lunghi cappotti disegnano per le strade nebbiose frenesie, intrecciate su se stesse. Contatti umani ridotti. Gli stati d’animo accrescono il senso di solitudine. In un giorno come un altro, iniziato per inerzia, accade d’improvviso. Una meravigliosa luce. Dapprima sommessa e incerta, è pronta a esplodere all’orizzonte con mille bagliori, restituendo margini frastagliati e mutevoli. Una, tre, dieci nuvole bianche si contendono il cielo, narrando l’arrivo di un prossimo tepore del sole. È l’imminente risveglio, la contagiosa rinascita che, ogni anno, pervade della sua stupefacente energia il mondo intero. Coraggiosi ciuffetti d’erba trovano posto tra sciolte nevi nei rinnovati prati. Piccoli germogli sorridono affacciati dai timidi e ancor disabitati rami. Rapidi amori, anch’essi appena sbocciati, colorano i cangianti e rifioriti viali. Portatori di un melodico messaggio di vita, tornano a casa graziosi uccellini. Ed ecco che, in pochi attimi, il torpore invernale diviene solo un vago ricordo. Le fredde giornate lasciano il posto ai caldi e generosi raggi del sole, i colori assumono consistenza e magiche sfumature. Nuove e intense emozioni di luce raccontano straordinarie fantasie. Chi è l’autore di questo meraviglioso cambiamento? Quali invisibili mani muovono il sipario che, in un sinuoso ondeggiar di stoffe, rivela al mondo la vita?


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Non so come questo sia percepito da chi mi sta intorno. Non so se il nostro frenetico presente, impegnato a inseguire immagini mutevoli ed effimere, possa ancora stupire, emozionare, incantare. Non so se tutto ciò, che io sento forte e concreto, possa essere descritto con i molti, curiosi e diversi segni che usiamo chiamare lettere e parole. Per me, questa, è l’aria leggera della primavera. Un profumo speciale e inimitabile, un’impercettibile e delicata essenza che torna a sconvolgere con il suo profumo i nostri sensi e i nostri animi.


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02 – LA MIA VITA (prima parte)

Apro gli occhi e guardo il soffitto. Mi trovo in camera. Sono solo. Ancora sdraiato, avvolto nelle coperte stropicciate. Intorno a me, sulle pareti e sui mobili, immersi in un’ovattata penombra, i ricordi della mia vita. Accanto, tra le forme del letto, i segni evidenti di una recente presenza. Inspiro e trattengo l’aria dentro di me. È calda e densa. Ha un sapore pungente e familiare. Il suo indefinibile odore è il risultato finale di molte commistioni. Giaccio così, assorto in questa silenziosa e confortante immobilità. D’improvviso, però, il mio stato di quiete è interrotto. Con prepotenza. Dalle adiacenti stanze arrivano i rumori della vita che scorre. Decido di aggiungermi ed essa. Mi alzo. Indosso gli abiti che avevo riposto su di una sedia, accanto al letto. Con un movimento deciso, apro le tende. Resto immobile per qualche istante, abbagliato dalla luce del sole che mi colpisce in viso. Attraverso il lungo corridoio che porta verso il resto della casa. Inconfondibili i segni che raccontano di una giornata di festa, di un dolce profumo di biscotti, di finestre aperte, di risate allegre. Domenica mattina. Più o meno le dieci. Continuo a camminare, spinto dall’abitudine a un percorso radicato nella mia quotidianità. Nonostante ciò, il mio passo è lento e incerto. È il passo prudente di chi ha percorso molta strada. Di chi ha più volte saltato gli ostacoli, di chi ogni tanto è anche caduto. Di chi è a pochi metri dal traguardo, ma non sente alcuna fretta di arrivare, e si gode il paesaggio. Le mie gambe, più snelle e flesse di un tempo, il cui tono muscolare ha


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ormai perso la potenza degli anni passati, avvertono con seria incidenza il peso del mio corpo. Non potendo fare altro, si limitano a sorreggerlo. Cammino lungo un percorso ripetuto mille volte. Un percorso di cui conosco a memoria ogni ombra e ogni luce, ogni angolo e ogni rotondità, ogni resistenza e ogni flessione. Un percorso che ho attraversato e che mi ha attraversato, che ho creato e che mi ha creato, con frequenti alternanze di freddo e di calore, di sconforto e di gioia, di luce e di buio. Ogni cosa intorno a me ha un suo significato, ogni collocazione un suo scopo. Mi coglie una sensazione precisa di tempi, di stati d’animo, di stagioni. La certezza delle cose familiari. Nelle stagioni in cui l’aria non è troppo fresca, ogni tanto, a tarda notte, guardo il cielo. In esso ritrovo la memoria, le tracce del passaggio delle molte stelle che l’hanno attraversato durante questi lunghi anni. Quando guardo la mia vita, la mia casa, e soprattutto quando guardo lei, ritrovo però qualcosa di ancor più prezioso. Più delle stelle, più del cielo, più di me stesso. Quale strana combinazione di eventi mi ha portato a lei? Se, tanti anni fa, l’aria leggera della primavera...


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03 – CAMBIAMENTI

L’attesa è stata lunga. Adesso, però, avverto di nuovo nell’aria il suo inimitabile profumo, sulla pelle la sua inconfondibile essenza. Benvenuta primavera, ancora una volta. Con un ideale gesto liberatorio, posso ora scrollarmi di dosso il grigio torpore dell’inverno. Dimentico in un sol attimo le scure trasparenze del cielo, l’assenza di colori, le linee goffe e asessuate dei cappotti. Non mi preoccupa più l’aria fredda e carica di gelo, la nebbia che mi bagna il viso. Getto via sciarpe e guanti, abbasso il bavero della giacca. Ora posso respirare. Sarà corretto definire banalmente “profumo”, ponendo al pari d’ogni altro profumo esistente al mondo, quella speciale fragranza che solo la primavera possiede? Quella straordinaria essenza che rappresenta un così forte stimolo a cambiare, rinnovarsi, scoprirsi? No, non credo che questo sia il termine giusto. Non può esserlo, perché non riesce, da solo, a descrivere quello speciale “sentore”, così semplice, così complesso, che fa percepire nell’aria la presenza di un “qualcosa” capace di rapire i pensieri, di portarli lontano, di creare contrastanti e incontrollabili reazioni. Una leggera e strana sensazione sfiora la pelle, un soffio, un solleticante brivido lungo la schiena. Un rapido sussulto, un intenso calore raggiunge e risveglia ogni singola parte del corpo, un improvviso trasalimento. Le percezioni amplificate sviluppano un vortice di emozioni capace di spezzare il fiato. Questo è il mio “qualcosa”. Può sembrare una descrizione un po’ forte, ma è quello che mi accade. Ogni anno, in questo periodo, sono preda di queste sensazioni. Nonostante la cosa si ripeta come in un moto perpetuo, rimango ogni volta così stupito dalla capacità che tutto ciò ha di annebbiare il mio


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sguardo, di rapire la mia mente, di accelerare il battito del mio cuore, che perdo il senso della misura. C’è momento migliore per innamorarsi? Incredibile! Insieme al mio “qualcosa”, anche questa domanda si ripresenta puntuale nella mia mente ogni anno, all’inizio della primavera. Ne è ricorrente corollario l’ulteriore ennesima costante della perdurante assenza di una valida risposta. Esigente? Egoista? Sognatore? Inconsapevole? Maschio medio? Immaturo? Forse… tutto! Mentre mi perdo tra i soliti interrogativi, percorro adagio i viali del centro. Penso che, nonostante i tentativi, non troverò mai una risposta capace di soddisfare il mio animo inquieto. Guido e osservo con curiosità ciò che mi circonda, assaporando la gioiosa aria di rinnovamento che sa trasmettere la natura ormai amica. Sono passato per queste stesse strade solo pochi giorni fa. È strano, ciò che vedo mi stupisce ancor più delle indefinite sensazioni che provo. È come se il cambiamento sia avvenuto in modo così rapido da non consentire soluzione di continuità. È come se la parte del mondo su cui insisto sia stata spinta, da un’impercettibile rotazione, oltre un confine metafisico, al di là del quale tutto cambia. Nelle facce che incrocio leggo lo stesso stupore. Attraverso la piazza. Anche la fontana è tornata a nuova vita, come testimonia un vivace e brillante zampillo d’acqua trasparente. Il traffico, sensibilmente aumentato, mi conferma che è l’intera città ad aver ricominciato a vivere. Dove pochi giorni prima vi era solo una panchina solitaria, adesso trovo parcheggiati i motorini adolescenti delle future generazioni, vite appena salpate in cerca di brevi emozioni stellate, di amori puri e di trasgressioni facili, fermo restando il rientro a casa al massimo per le undici. Incoraggiato dalla favorevole circostanza, e forzando la mia naturale resistenza ad abbandonarmi con facilità ai cambiamenti repentini, abbasso anch’io il finestrino e assaporo l’aria fresca che entra nell’abitacolo. Cambiamenti.


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Dopo tutto, mi affascinano. Come tutte le persone, anch’io sono consapevole della loro qualità di elementi necessari della vita. Ciò che vorrei però evitare, è la loro naturale violenza. Non importa se chi ne è coinvolto è in grado o meno di adeguarsi a essi. Non importa se chi viveva una particolare situazione era felice di viverla e non voleva abbandonarla. Ai cambiamenti o ti adegui o ne sei travolto. Nonostante le apparenze, quanto detto non è solo l’enunciazione di un banalissimo luogo comune, una comoda giustificazione all’innegabile verità della fragilità umana. Lo sforzo necessario per adattarmi a essi è un argomento che, in questo momento, sento particolarmente vicino. Infatti, sto ancora cercando di riordinare le idee dopo l’ultimo dei numerosi colpi di spugna della mia vita. Quei momenti che, con caparbia costanza, ti si presentano davanti in una mattina di un sabato qualunque, mentre ti radi il viso pensando a come occupare un pomeriggio senza noia. Quando ne sono travolto, in principio devo affrontare una fase caratterizzata in prevalenza da un certo disagio. Solo dopo, nel momento di gestire tali circostanze, sono in grado di raggiungere un nuovo equilibrio. Devo ammettere che, nonostante tutto, mi diverte pensare ai recenti trascorsi, alle notti insonni, alle sfuriate, a tutte le emozioni provate, alla mia vita. Mi viene voglia di spolverare qualche vecchia foto, di rileggere qualche stropicciata lettera, toccare qualche antica nostalgia, qualche dimenticato ricordo. In verità, uno degli elementi che rendono interessante una vita è proprio la quantità di nuove sensazioni che di volta in volta la coinvolgono. I repentini traslochi, i numerosi tentativi di reazione ed anche i più banali e umani fallimenti. Le foto strappate e quelle sorridenti, le cenette intime e le scatolette scaldate nel microonde, gli attimi di estremo piacere e la più irritante e perdurante astinenza. D’altronde, se non fosse per l’ennesimo ultimo cambiamento, con tutta probabilità in questo momento sarei a casa, spento davanti ad uno schermo acceso, e non immerso in questa splendida serata di inizio primavera.


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D’istinto alzo il volume della radio. Canticchio, cercando con un’imprevedibile disinvoltura di pronunciare le poche parole inglesi che riesco a decifrare. Perché ascolto canzoni di cui capisco una parola su cinque? Basta domande, alzo ancora un po’ il volume della radio, accelero e sporgo la testa fuori dal finestrino.


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04 – SILVIA

Questa sera, in un locale nella zona industriale, ci sarà un concerto. Musica di qualità, tanta gente, corpi in movimento, fiumi d’alcool. Sembra allettante. Inauguriamo la primavera! L’iniziale entusiasmo non mi illude. Non sono capace di mentirmi, so di non avere molta voglia di emozioni forti. Sono appena tornato da un viaggio di lavoro. Il mio umore deve ancora scrollarsi di dosso cinquecento chilometri, percorsi accanto al mio capo che, sperando di convertirmi allo stacanovismo, come l’apostolo di un’eccentrica religione, predicava i vantaggi del lavoro di squadra e dell’impegno professionale. Dentro di me, spontanea, una voce: «Amico, non ci siamo capiti, io non mi faccio fregare, per quello che mi paghi, siamo già a posto così!». Invece di rinchiudermi in una scatola di cemento e acciaio, forse, questa sera, per me sarebbe più allettante gironzolare senza meta per le strade. Immergermi senza freni nell’essenza della primavera. Poi, a essere sincero fino in fondo, ogni tanto penso ancora a Silvia. Una storia che, sebbene unica e circoscritta come lo sono tutti i rapporti di coppia, ha tracciato profondi solchi nel mio umore, allargando il circolo vizioso dei miei fallimenti con l’altro sesso. Una storia che ha avuto l’epilogo di sempre: sono stato pregato di uscire dalla sua vita, ricevendo come unica giustificazione quella che, secondo lei, ero “poco presente”. Che cosa significa essere poco presente?! Sebbene non sia la prima volta che me lo sento ripetere, ancora oggi lo devo capire. Si può “essere” e “non essere” presenti nello stesso momento?! Dentro di me so che, in fondo, è stato meglio così. Non penso di essere una persona facile, ma sono fermamente convinto che sia proprio la mia notevole policromia a rendermi speciale. Sì, ho detto “speciale”. Chi non sente di essere speciale? Tutti lo siamo. È la diretta e


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inevitabile conseguenza del naturale egocentrismo che caratterizza ogni essere umano, spinto a collocare il proprio personale “io” al primo posto. D’altronde, a lei non chiedevo nulla di speciale! Le chiedevo, soltanto, di “essere” speciale! D’essere, soltanto, in grado di suscitare in me le emozioni e gli stimoli necessari a quel mio “io”, di impreziosire la nostra comune tela di vita, con quelle piccole sfumature che rendono due persone complici assidui e non occasionali accoppiati! Non c’è mai riuscita. Non ci sono mai riuscito. Risultato? Una sensazione di solitudine comune. È possibile amare qualcuno e non amarlo allo stesso tempo? O meglio, è possibile sentirsi in dovere di amare qualcuno solo perché questo qualcuno ci ama, sebbene dentro di noi sia chiara la consapevolezza di non essere la metà giusta? Beh... io credo di sì, anche perché è sempre stata questa la sensazione che ho avvertito. Chi mi assicura, però, che le cose siano andate proprio così? E se fossi io a non essere stato all’altezza delle sue attese? Chi mi dice di non essere stato io a porla nella situazione di non poter esprimere al meglio le sue qualità? È troppo facile puntare il dito sul prossimo senza analizzare i propri comportamenti, senza mettersi in discussione, senza porsi sull’altro piatto della bilancia per rendersi conto di quanto in realtà si vale. Queste considerazioni non devono impedirmi d’essere sincero con me stesso, riconoscendo che già in passato mi sono posto altri simili interrogativi, avvertendo, per conseguenza, un forte senso di colpa. Per tanto tempo ho tentato di credere in noi come coppia, anche se il risultato, viste le circostanze, non è mai stato accettabile come mi sforzavo di farlo apparire. Soffrivo di un mio male personale: la diplomazia. Dissacrante arte che vede un soggetto servirsi di calcolate astuzie verbali, intese a determinare, in chi gli sta di fronte, una particolare sensazione di incertezza su ciò che egli pensa, unita all’imposizione della forzata convinzione che, quali che siano gli sconosciuti e inarrivabili contenuti dei propri pensieri, di certo essi, dato il buon cuore ostentato, non possono che essere meritevoli, leali, giusti. Palese fregatura.


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Se questa subdola tecnica è ottima e indispensabile nelle relazioni d’affari e d’interessi, posso di sicuro affermare che è un disastro nelle relazioni interpersonali, soprattutto in quelle sentimentali e di coppia. Le donne hanno bisogno di essere coinvolte e sedotte dalla trasparenza, necessitano di essere poste in grado di leggere in autonomia le sensazioni che prova chi vive accanto a loro. Se tutto ciò non avviene, si scatena in loro il peggiore dei difetti: l’insicurezza. In genere accompagnata da un perenne bisogno di esplicite conferme, per avere le quali sono disposte a interminabili e patetiche discussioni. Capisco che un tale discorso possa, a prima vista, risultare alquanto misogino, ma il fine che mi propongo non è quello di tracciare una distinzione tra gli uomini e le donne, intesa a esaltare le virtù dei primi sui difetti delle seconde, e neanche quello di elaborare una ricercata giustificazione in grado di assolvere gli uomini da ogni loro colpa. Come potevo permettere che Silvia riuscisse a guardarmi dentro? Avevo paura di sconvolgere il suo animo, di ferirla, di disilluderla! Mi chiedo se il risultato non sia stato anche peggiore, mi chiedo se non comunicare apertamente i propri pensieri a chi ci circonda, piuttosto che un segno di altruismo, non sia, in realtà, un segno di profonda codardia. Infatti, cosa c’è di nobile o di prezioso nel mentire a chi ti sta accanto? Dovrei quindi riconoscere di essere un codardo?! Forse sì. Perché lo sono diventato? Non saprei dirlo. Non credo di essere cattivo, anche se è facile (non)giudicare se stessi. Credo di essere convinto di poter dominare con la ragione sia le emozioni che i sentimenti, plasmandoli a mio piacimento, secondo le circostanze. Considerate le mie doti di solida fermezza, devo ammettere d’essere capace di far prevalere sempre la ragione sull’istinto. Ed ecco, a conclusione di questa improvvisata autoanalisi, ciò che costituisce il punto debole del mio atteggiamento. La circostanza per la quale, al contrario di quello che vorrei credere, chi mi sta accanto ha bisogno di sentimenti ed emozioni autentiche e non di una loro versione clonata male. La verità è che non so se sono in grado di amare. Non so neanche come fare a scoprirlo. Riflettendoci, non credo di conoscere il significato di tale termine, o


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meglio, di conoscere il significato che tale termine dovrebbe avere per me. Sono le mie attese a essere troppo alte, oppure sono io a essere troppo in basso rispetto ad esse? Intendiamoci, non parlo di corpi da modella o di volti da attrice, né di conti correnti astronomici o di lusso sfrenato. Non mi interessa nulla di tutto ciò (come no!). Quello che desidero è una donna con cui stare in silenzio, una donna che scateni in me le emozioni della primavera, una donna che mi riempia del suo profumo, una donna da guardare mentre dorme, una donna che mi sorrida con dolcezza, una donna che dia senza il desiderio di ricevere. Ormai, sono dell’idea che tutto ciò non esiste, fuorché nella mia fantasia. Amo ripetermi una frase: «In amore bisogna dare e ricevere, ma non si deve mai chiedere, perché in un gesto che non è spontaneo non vi può essere amore ma soltanto calcolo e fredda logica». Tutti, almeno in una circostanza, abbiamo detto al nostro partner: «Non ci ho proprio pensato», oppure «l’avevo dimenticato» e altre frasi simili, allo scopo di mascherare come involontaria una mancanza che, invece, appare con chiarezza il frutto dell’assenza di interesse. Beh... siamo tutti degli incredibili bugiardi! La verità è che, in quel momento, dentro di noi non s’è sviluppato quel processo per cui ci rende felici compiere un gesto, anche piccolo, per chi ci sta accanto. Il risultato è che abbiamo preferito pensare a noi stessi, piuttosto che al destinatario/a del nostro presunto amore. Sono arrivato. Resto ancora qualche attimo in macchina, giusto il tempo per attendere la fine della canzone, riordinare le idee, dimenticare una volta per tutte le noiose parole del mio capo.


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05 – VADO A FUMARE

Ecco fatto. Indosso la maschera di chi ha voglia di divertirsi. Mi attende Connor, un carissimo amico dal nome assai bizzarro. L’appuntamento è nel pub irlandese sulla mia sinistra, al di là della strada. Entro attraversando due porte dondolanti agganciate al muro. Mi guardo in giro, faccio qualche passo. Li vedo, sono seduti in un angolo in fondo al locale. Li raggiungo ed esordisco banalmente. Dico: «Ciao, come va?». Caspita che eloquenza! Mi siedo. Insieme a Connor ci sono anche la sua fidanzata Titti (non ho mai capito quale sia il suo vero nome) e due loro amici dall’aspetto stravagante. Lei indossa un top e una gonna di pelle molto mini. Il suo aspetto, anche se di gran lunga meno intrigante, ricorda un po’ quello di Asia Argento. Lui ha capelli lisci e lunghi, spalmati sulla sottile testa a punta. Il dialogo non deve essere molto interessante. Lo capisco dalla faccia seccata di Connor, che mi guarda, fa un gesto d’intesa, e continua a bere sorsi troppo abbondanti di Guinnes scura, nell’evidente tentativo di evadere dalla noiosa prigionia della conversazione, navigando veloce tra i fumi dell’alcool. In pochi attimi, ci scambiamo qualche rapida occhiata significativa, comunichiamo senza parole. Ci capiamo al volo. La nostra amicizia è qualcosa di naturale. Ha il carattere fraterno di chi prende senza chiedere e dà senza essere richiesto. Mi è stato vicino dopo la storia con Silvia e credo di volergli bene anche per questo.


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Conosco tutto della sua vita, gli aspetti chiari ed anche quelli di cui non parla con nessuno. È un tatuatore. Quando gli chiesi il perché lui non avesse neanche un tatuaggio, mi rispose: «Ti risulta che Michelangelo, Giotto, Picasso o qualche altro grande maestro abbia mai ritenuto indispensabile ad avvalorare il proprio gesto artistico dipingere sul proprio corpo, invece che su di una tela?». Complimenti per la modestia, ma non fa una piega. Il suo temperamento è estroverso, il suo look poco rassicurante. Sa, però, distinguere le cose importanti da quelle che non lo sono. Per me è questo che conta. Quando lo conobbi, da subito rilevai come nei suoi comportamenti fosse ancora forte il sapore dell’insoddisfazione adolescenziale, della ricerca di emozioni, della paura di fermarsi. Credo che abbia ancora bisogno di essere parte di un gruppo. Ho sempre pensato che per stare bene, per essere persone equilibrate e mature, fosse importante saper stare da soli con se stessi. Parlarsi e interrogarsi sulle proprie scelte e attese. Insomma, essere in grado di un minimo di introspezione. Grazie a Connor (che senza dubbio non si è accorto di nulla), ho imparato che è altrettanto importante star bene con gli altri. Per fare ciò, ho dovuto lottare contro la mia natura. Per istinto, mi sento a disagio quando sono in mezzo a molte persone. Non mi piace essere al centro dell’attenzione, non mi piace dover condividere spazi, emozioni, pensieri e sensazioni. Sono un apprendista osservatore. Anche adesso, qui, in compagnia, non ho voglia di parlare, preferisco tacere e osservare chi mi circonda. Bevo anch’io una Guinnes scura. Il suo sapore intenso forse mi aiuterà a essere meno cervellotico, abbandonando, per una volta, le riflessioni che non mi danno tregua. Mi accorgo da subito che il tentativo non ha l’effetto sperato. Mi alzo, ho bisogno di uscire. Dico che vado a fumare una sigaretta fuori, per non arrecare fastidio. Connor mi guarda, e annuisce. Sa che non fumo. Esco. Mi siedo sul dondolo, alzo il naso per aria e inspiro con forza, voglio che la primavera entri in me.


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Ho sempre avuto una passione per tutto ciò che dondola. A casa, sul terrazzo, ho un’amaca. Adoro quello straordinario oggetto. Riesce a trasportarmi lontano, a farmi galleggiare leggero, sospeso a soli venti centimetri da terra. Chissà perché sono così affascinato da tutto ciò che dondola. Il dondolio mi rilassa. Sono seduto fuori dal pub. Mi chiedo se io abbia fatto bene a lasciarmi convincere, a credere che sarebbe stata una buona idea andare al concerto. Forse, per il mio umore sarebbe stato più utile evitare l’oramai trito e ritrito show esibizionistico, allestito e rappresentato dalle ragazze della mia età che, nel disperato tentativo di essere ammirate e desiderate, sfilano superbe sulle improbabili passerelle delle discoteche e dei locali notturni. Improvvisa mi coglie una profonda sensazione di inadeguatezza a questo tempo e a questi luoghi. Sebbene tenti di divertirmi, ogni volta che frequento un luogo con molta folla e musica troppo alta, stile discoteca, dopo trenta minuti di pessima conversazione, spinte e cattivi odori, giuro a me stesso di non mettervi mai più piede. Sarei un ipocrita se dicessi di essere contrario ai luccicanti luoghi notturni. Il fatto è che, ogni volta, devo costatare di non essere la persona adatta al tipo di socializzazione in voga in questi ambienti, dove non sono in grado di dare il meglio di me. Odio dover cercare frasi a effetto per catturare l’attenzione, quasi sempre sopravvalutata, di una di queste modelle per una sera che, con aria altezzosa e un piercing sulla lingua, ti squadrano valutando l’importo in euro del tuo abbigliamento. Non sostengo certo che chiunque vada in discoteca assuma un tale atteggiamento, ma che cosa si può fare in un luogo dove il volume della musica non permette di parlare? Uno come me è in sicura difficoltà. Vedo Connor alla cassa. Come al solito avrà speso un sacco di soldi. È il prezzo che deve pagare chi, come lui, ama offrire. Esce e subito mi si avvicina. Il suo sorriso interrogativo mi dice che il mio comportamento non è passato inosservato.


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Mi prende sottobraccio, e inizia a camminare con l’atteggiamento tipico di chi ha intenzione di introdurre un significativo ragionamento. Mi dice: «Hei, si può sapere che cos’hai?». Non rispondo. Guardo la strada affollata, le macchine che sfrecciano, e allungo ancora la pausa. Come faccio a dirgli che è l’essenza della primavera a rendermi inquieto? Che ho perso il contatto con la realtà? Che navigo nel cielo orientandomi con le stelle? Meglio semplificare. Dico: «Non ho nulla». Aggiungo: «È solo che avevo voglia di prendere un po’ di fresco, e poi mi sembrava che tu avessi già un’interessante compagnia». Connor mi guarda. Nei suoi occhi c’è la consapevolezza che non è questa la verità. Sorride. «Questa sera niente scuse!...» mi dice, poi aggiunge «…adesso andiamo al concerto e ti voglio scatenato! Voglio vederti sbronzo e sudato. Sono spiacente di avvisarti che, per farti perdonare d’aver spudoratamente mentito a me, il tuo migliore amico, ti toccherà pagare pegno e fare la fila al bar per prendermi da bere». Mi abbraccia come un fratello.


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06 – L’INCONTRO

C’è la coda all’ingresso. In casi come questi, mi rendo conto che l’aver trascorso le estati della mia adolescenza a montare le strutture per i concerti all’aperto non è stata una perdita di tempo. È grazie a tutti quei bulloni e assi di legno, che oggi conosco i principali organizzatori di eventi della città. Per fortuna, uno di loro è presente anche questa sera. Mi vede da lontano, in fondo alla fila, e mi fa segno di entrare passando dall’ingresso laterale. Siamo dentro. La musica è quella di intro. Tutti ballano in modo disordinato, come solo a un concerto può avvenire. Ecco il vero elemento distintivo tra un evento di musica live e la discoteca. Solo ai concerti è consentito dimenarsi come meglio si crede, senza badare all’immagine. In discoteca, invece, le tacite ma ferree regole del look impongono di mantenere un certo stile, pena l’indelebile marchio da sfigato. Approfitto del fatto che molti si debbano ancora ambientare e dirigo i miei passi verso il bar, seguito d’istinto da Connor. Bevo. Fa caldo. Lascio giacca e maglia ripiegati come meglio riesco, in un angolo, su una delle casse di fondo. Rimango in camicia. I primi due bottoni aperti e appena due risvolti alle maniche. Un minimo di stile, dopo tutto, ci vuole anche qui. Scorro veloce con lo sguardo la moltitudine di persone che mi circonda. Come al solito, nelle facce estranee intorno a me, la costante certezza di volti già conosciuti. Mi addentro. Sfilo tra le sagome in movimento, procedo senza una meta precisa.


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Mentre cammino, sono d’improvviso raggiunto alle spalle da una leggera brezza. Un alito d’aria che mi accarezza la schiena e mi avvolge con il dolce e intenso profumo della primavera. I miei sensi sono catturati in un pericoloso vortice. La reazione è immediata. Mi volto di scatto alla ricerca di uno spazio aperto, di un passaggio attraverso il quale l’essenza della primavera possa essere transitata. Ripercorro tutte le pareti del capannone e ho la certezza che, escluso le piccole porte di ingresso, non v’è passaggio alcuno. Di nuovo una strana sensazione alle spalle, mi volto di scatto. Vedo lei, che balla disinvolta. Sorride. Penso: «Deve essere il suo profumo». Il vortice mi ha ancora in pugno, i miei sensi non reggono l’impatto, sono sollevato di peso e trasportato lontano. Non è straordinario come un profumo, da solo, abbia la capacità di risvegliare sensazioni così forti e incontenibili? Che straordinaria caratteristica quella dell’olfatto, di non richiedere alcuna cosciente elaborazione. Gli odori, catturati dai recettori, stimolano in modo diretto la sfera delle sensazioni e delle emozioni, consentendo, solo in un secondo tempo, di individuare il loro legame con la nostra memoria. Al momento, l’unica cosa di cui sono sicuro è che sono fermo a guardarla già da qualche minuto. Il suo profumo, intenso, armonioso, continua a scatenare in me sensazioni tali che, negli istanti di lucidità, sento il mio cuore non reggere più il battito. Una voce conosciuta mi arriva alle spalle. Mi dice: «Ti piace, non è vero?». È un altro mio amico, si chiama Dario. Come avrà fatto a trovarmi in mezzo a tutta questa gente? Minimizzo. Dico: «Sì, è carina... ma... beh... boh…». I miei occhi, però, tradiscono le mie parole. Dice: «Non prendermi in giro! È già qualche minuto che sei fermo qui, da solo, a guardarla come un fesso!». Dico: «È che non so cosa fare. Lo sai, mi conosci, in queste circostanze la folla, la musica alta… tutto mi mette in difficoltà. Farei la classica figura dell’arrapato che, tentando di fare colpo con le solite frasi sciocche, e per di più solo parzialmente comprensibili, è


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allontanato in pochi secondi con banali battute. È troppo umiliante!». Dario è un professionista, un architetto. Ha anche diversi interessi nel sociale, credo collabori con qualche associazione umanitaria. Inoltre, ed è la cosa che ritengo più importante, è un uomo che ne ha viste e vissute tante. Esperto e saggio. Anche se di una saggezza più pratica, che teorica. Mi guarda con aria seria. Dice: «Andiamo verso il bar. È arrivato il momento che io ti faccia un certo discorso». So già che mi costerà una bevuta, credo sia un prezzo equo da pagare per un suo consiglio. Sono curioso di ascoltarlo. Arriviamo al bar, ordino. Mi chiede: «Quanti anni hai?… (non mi lascia il tempo di rispondere) …va beh, non fa nulla, tanto sono di certo più grande di te». Prosegue: «Io sono stato con molte donne. Tempo fa, con una di queste, purtroppo, mi sono perfino sposato… (pausa, beviamo) ...credo, inoltre, sia evidente che non sono un bell’uomo, uno di quelli immaginati come icona sexy… (pausa, beviamo ancora) ...nonostante ciò, come ho già detto, non ho mai avuto grossi problemi con l’altro sesso». A questo punto, continuando a sorseggiare il suo margarita, e avendo cura di completare il tutto con un pizzico del sale prelevato dal bordo del bicchiere, mi guarda negli occhi e continua: «Ora dimmi, secondo te, secondo le tue insicurezze e secondo gli stereotipi dai quali vuoi fuggire, ma che intanto ti condizionano, come posso fare queste affermazioni?… (ancora una volta, non mi lascia il tempo di rispondere) ...Te lo dico io, perché non ho mai dato niente per scontato! Ho offerto quello di cui dispongo ed ho lasciato al libero mercato dei legami interpersonali la scelta finale. Ora... (pausa lunga, finisce di bere) ...mi devi spiegare perché una regola che vale per me non sarebbe altrettanto valida per te che, inoltre, a mio parere, non sei proprio malaccio. Si può sapere di cosa ti preoccupi?». Avverto il senso diretto delle parole di Dario. Comprendo che, se rimango tutta la sera a guardarla senza dirle nemmeno una parola, corro il rischio di sprecare tutto. Inoltre, per fortuna, ho abbastanza alcool in corpo per sopravvivere a un eventuale due di picche. Decido, quindi, di avvicinarmi a lei. Percorro lento la distanza in metri che ci separa.


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Quando ormai mancano pochi passi, mi accorgo dal suo sguardo che ha notato le mie intenzioni. Mi osserva incuriosita. Sorridente. Capace di fronteggiare la situazione, del tutto a proprio agio. A me, invece, il sangue si è gelato nelle vene. Sono di fronte a lei e, senza nemmeno sapere come, inizio a parlarle. Provo una strana sensazione. È come se tutto rimbombasse nella mia testa. Formulo un pensiero, ma il significato delle parole che pronuncio scivola via, non riesco a trattenerlo. La sua voce, invece, è leggera e piacevole da ascoltare. Soffice mi accarezza il suo alito, sfiorandomi il viso. Deciso mi avvolge il suo odore. Voglio sapere tutto di lei. Voglio spingere il mio naso fra i suoi capelli e riempirmi del suo odore. Voglio stare sdraiato con lei sull’amaca a guardare le stelle. Voglio fare l’amore con lei sulla sabbia calda di sole. Mentre penso a tutto questo, fluttuo nell’aria volubile della primavera. Le parole e la musica si perdono, per poi ritrovarsi e intrecciarsi in un vortice che di nuovo mi rapisce. Ha un meraviglioso sorriso, lucente come un prato di fiori bianchi. I suoi occhi sono così luminosi! Tutto di lei lascia trasparire una vivacità e una curiosità fuori dal comune. Continuo a parlare. Adesso ho la strana sensazione che le parole mi vengano piano piano a mancare. Prendo una lunga pausa, inspiro profondamente. Lei mi guarda. Il suo sguardo è penetrante, i suoi occhi riempiono l’angolo della mia visuale, i miei occhi non potrebbero desiderare un diverso oggetto d’attenzione. Vedo un ragazzo alle sue spalle. Si avvicina, cingendole con le mani la vita. Le sussurra qualcosa all’orecchio. Come si permette! Penso tra me e me: «Sparisci dalla mia vista e non osare toccarlaaa!!». Il mio viso, d’istinto, assume subito un’espressione minacciosa, di cui lei si accorge. La sua voce non cessa di essere dolce. Mi dice: «Scusami, i miei amici mi reclamano, non posso lasciarli soli tutta la sera». Detto questo, sorridendo, si volta.


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Tutta la sera?! Sono solo cinque minuti che stavamo parlando! È tutta colpa di quello stupido damerino da quattro soldi. Se solo mi si avvicina, gli faccio vedere io! «I miei amici mi reclamano», ecco la classica e banale frase che mi aspettavo e con cui mi ha scaricato. Che cosa faccio? Se resto qui imbambolato rischio di fare la figura del cretino ma, se vado via, corro il rischio ben maggiore di non vederla più, di non aver più l’occasione di parlarle, di essere accarezzato dalla sua voce, di perdermi nel suo profumo. Dario, che è rimasto a guardarmi e che ha avvertito la mia emozione per l’incontro, capisce che non posso restarle accanto da solo e, senza dire nulla, mi si avvicina, cercando di assumere l’atteggiamento indifferente di chi sta seguendo il concerto. Non so se rimanere qui, così vicino a lei, sia la mossa giusta. Poi, penso al discorso fatto poco prima da Dario. Quindi, decido di non farmi troppe domande e di non perderla d’occhio. La musica è cambiata, ora il concerto è entrato nel vivo. Il gruppo che suona non è uno di quelli che riempiono gli stadi o le copertine dei giornali, è però di certo più autentico e diretto dei suoni digitali che si ascoltano in discoteca. Niente deliri di massa e neanche cordoni di sicurezza sotto il palco. È per questa atmosfera paritaria che mi piace questo tipo di concerti. Sono ancora vicino a lei. Dario, che questa sera ha deciso di sacrificarsi, è rimasto al mio fianco. Continuo a guardarla, tentando di non sembrare troppo invadente. Solo piccoli e fugaci sguardi, di tanto in tanto ricambiati. Vedo Connor che, da lontano, mi fa cenno di raggiungerlo al bar. Sono accaldato e ho sete, ma non voglio allontanarmi da lei. Ho paura di perderla di vista. Prendo coraggio. Se non posso allontanarmi da lei penso che, se lo volesse, potrebbe essere lei a venire con me. Le sfioro un braccio. Dico: «Posso offrirti qualcosa da bere?». «No, grazie» mi risponde lei. Perfetto! Tattica infallibile! Decido, comunque, di allontanarmi. Inoltre, non voglio abusare della disponibilità che Dario ha dimostrato rimanendomi accanto. Andiamo verso Connor, che ha già ordinato da bere. Questa volta la


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coda l’ha fatta lui. Mi avvicino a lui. Dico: «Secondo te, dopo tutto quello che ti ho raccontato di me, è possibile che io mi sia innamorato, così, all’improvviso?». Connor sorride, non dice nulla. Dal suo silenzio capisco che è contento per me e per il mio mutato atteggiamento nei confronti della serata. Dico: «Cosa faccio adesso? È già tardi, so che tra poco se ne andrà. E se non la rivedessi mai più?!». Connor, tagliente, mi risponde: «Perché, per esempio, non le chiedi il numero di telefono? Dicono che sia uno strumento utile per mettere due persone in contatto tra loro». Non capisco se mi prende per scemo o se il suo suggerimento, nonostante l’ironia, sia infine la sola cosa giusta da fare. Per farlo, però, sono di nuovo costretto a richiamare alla memoria l’incoraggiamento di Dario: «Non bisogna dare nulla per scontato». Bevo tutto di un fiato, mi avvicino a lei. La musica è molto alta e per parlarle devo arrivare con le labbra in prossimità del suo orecchio. Mi gira la testa. Non è l’alcool, è che non riesco a resistere al suo profumo capace di ottenebrare i miei sensi. Deglutisco più volte. Cerco di schiarire la voce e di assumere un tono sicuro. Dico: «So che non mi conosci e che ti sarò sembrato il solito ragazzo inopportuno che tenta di abbordarti. Ti assicuro che non è così, almeno in parte. Forse ti chiedi per quale motivo ti dovresti fidare di me, forse hai addirittura già un fidanzato di cui sei innamorata. Posso solo dirti che, sebbene anch’io non possa dire di conoscerti, mi dispiacerebbe molto non rivederti mai più». Lei mi guarda, non parla, sorride. Forse anche per lei, questa sera, è accaduto qualcosa di particolare, qualcosa di chimico, qualcosa di magico che non riesce a spiegarsi. Ha un filo di voce, credo che abbia cantato troppo, come di solito accade ai concerti. Mi dice che vorrebbe darmi il suo numero di telefono, ma che non ha nulla per scriverlo. Le rispondo: «Dimmelo, e sta pur certa che non lo dimenticherò mai».


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Lei sorride, mi sussurra nell’orecchio il suo numero, mi bacia la guancia e se ne va. Torno a casa. Annuso le mie mani che solo per pochi attimi le hanno cinto la vita, ritrovo forte il suo odore. So che questa notte non riuscirò a dormire. Vado sul terrazzo, mi sdraio sull’amaca e mi perdo tra le braccia di Orione e dell’Orsa Maggiore. La notte è mite, il suo profumo non mi abbandona, la brezza mi culla. Prendo sonno.


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07 – IL RISVEGLIO

Che intense emozioni. Quanto tempo è trascorso dall’ultima volta in cui mi sono risvegliato così! Sento nel profondo, nell’anima, di essere finalmente “usato”. Libero dal torpore. Il solo ripensarci mi provoca un dolce affanno. Ieri sera era tardissimo. Eppure, senza programmarlo, mi sono svegliato presto. Prima del necessario. Sento ancora forte l’azione dell’alcool. Inumidisco le labbra e deglutisco. Avverto ancora quella strana sensazione alla bocca. È come se l’interno della bocca ed anche il palato fossero anestetizzati. La lingua ruvida e assetata rivela un sapore penetrante e amaro, le labbra sono secche come al termine di una seduta dal dentista. A dispetto della mente, già attiva e cosciente, il corpo non è ancora pronto. Infatti, nonostante gli sforzi, continua con diversi segnali a ricordarmi che dovrei rispettarlo un po’ di più. Non potendo reagire più di tanto, resto sdraiato, con gli occhi chiusi, vinto dalla loro resistenza alla luce. Conosco e rivivo nella memoria ciò che mi circonda, tutto quello che sarei in grado di vedere se aprissi gli occhi in questo istante. A quest’ora del mattino, la debole luce del sole, poggiandosi leggera, riesce appena ad accarezzare le cose, rendendo i loro confini sfuocati e incerti, i loro margini frastagliati e allungati. I profumi sono ancora delicati, giovani, carichi di fresca aria notturna, di brina, di vapore. Come se fossero sospesi a mezz’aria, restano immobili, intorno a me, ad asciugarsi al sole. I rumori percepibili sono ancora piccoli e lontani, indice della vita che riprende. Le nuvole, a poco a poco incendiate dal nascente sole, restituiscono i colori della natura, creando disegni da interpretare. L’esatta linea della realtà, per il momento, non può essere percepita per intero, ma solo ricomposta come un mosaico, attraverso la fantasia.


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Mentre rifletto su tutto ciò, mi convinco che non posso restare qui, disteso, senza muovermi. Ormai, sono sveglio! Sono deciso. Cerco con tenace fatica di aprire gli occhi, ma la poca e ancora tenue luce basta a infastidirmi. Così, dopo il primissimo senso di bruciore, li richiudo subito. L’orgoglio, però, non mi permette di darmi per vinto. Sono io il padrone di casa! Esercito sul mio torace una forte pressione e, mentre espiro con forza nel tentativo di cacciare via gli ultimi vapori etilici, contraggo gli addominali. Ora sono in piedi ed ho gli occhi aperti. Lo sforzo è stato sensibile! I dolori muscolari che avverto mi ricordano tutte le volte che sono rimasto a casa, seduto sul divano, invece di andare in palestra. Sento la necessità di fermarmi qualche istante, per riprendere contatto con il mio equilibrio e con la forza di gravità. Rimango così. Immobile e con gli occhi spalancati. Nell’attesa di riempirmi del mondo che ho intorno. Inspiro ed espiro profondamente. Bella sensazione, ma... devo andare a lavorare. Mi accorgo che l’amaca, nonostante il suo irresistibile e intramontabile fascino, non è il posto migliore dove trascorrere la notte. Ho la schiena dolente a causa della posizione ricurva in cui sono dovuto restare. Inoltre, dalla gola mi arriva una strana sensazione di fastidio, un intenso pizzicore, con tutta probabilità causato dall’aria notturna, ancora troppo fresca per trascorrere la notte sotto le stelle. Lo sforzo per vincere sia la stanchezza residua che la buona dose di alcool ingerita ieri sera, per un momento, mi aveva quasi consentito di dimenticare le forti emozioni che ancora sento agitarsi dentro di me. Infatti, è sufficiente un brevissimo accenno a esse per sentirle ancora meravigliose e vive. L’incisività del loro effetto è tale da rendermi inquieto. Sento che è necessaria una mia immediata reazione, per non esserne destabilizzato, indebolito, catturato. Decido di preparare la colazione.


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08 – LE LEGGI DELLA FISICA

Per me è molto importante preparare con cura la colazione. È un rituale importantissimo, quasi mistico. Ogni oggetto che ne è protagonista ha un suo preciso ruolo, ogni movimento un suo scopo, ogni attenzione un suo riscontro. Tutto è accuratamente studiato e calibrato, tutto deve avvenire secondo uno schema preciso e immutabile nel tempo. Sono sicuro che moltissime persone, la cui vita è dominata dalla necessità selettiva di ottimizzare i tempi, possano considerare queste mie attenzioni e abitudini inutili, noiose e improduttive. Il mio parere è che non lo siano affatto. Per come la vedo io, la cosa è semplice da spiegare: si tratta di ricercare, adottare e mantenere quelle che ritengo essere delle buone e soddisfacenti abitudini. Pensando alla loro utilità, mi chiedo: «Cosa c’è di più utile che accontentare se stessi?». Per iniziare, sciacquo con attenzione la tazza che, insieme agli altri piatti, da ieri aspetta ancora con pazienza di essere lavata. Non si tratta di una tazza qualsiasi, presa a caso tra le varie tazze che conservo all’interno del pensile, sopra il lavello. È la tazza con cui tutti i giorni faccio colazione. È il primo oggetto con cui vengo a contatto ogni singola mattina. Nel suo bordo sono ormai impressi i margini delle mie labbra, le sue pareti ricurve sono modellate per assecondare la linea delle mie dita. La sua dimensione è capace di soddisfare le mie esigenze. L’acqua bolle. Sento il fischio della teiera americana che mi hanno regalato, oggetto curioso che mi fa sentire cittadino del mondo. Posso immergere la bustina del the. Scelgo quello alla fragola, stamattina ho voglia di coccolarmi. Devo permettere alle piccole foglie, catturate in un rettangolino di


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stoffa con accuratezza ripiegato, di rilasciare nell’acqua bollente il loro aroma. Quindi, attendo. Quale sarà la ragione che ci obbliga, se vogliamo ottenere un risultato soddisfacente da ciò che facciamo, a munirci di tempo, pazienza e costanza? Ricordando che: «In certi casi è utile prendere la vita con un po’ di filosofia», temporeggio due minuti, forse tre, durante i quali, con quella straordinaria perizia che caratterizza tutti gli atti diretti a servire se stessi, in una logica egoistica connaturata alla stessa essenza dell’uomo, preparo con cura il necessario sul tavolo: biscotti, marmellate assortite, miele, un succo d’arancia. Decido di esagerare. Oggi che, vista l’ora, ne ho l’occasione, voglio rendere ancor più speciale questo momento, spesso trascurato e immolato sull’altare di qualche minuto in più di sonno. Premo il tasto “power” e inserisco nel lettore un cd di bossanova, quel particolare jazz brasiliano, che adoro. Dopo pochi secondi, una familiare melodia si diffonde nell’aria, rompendo il silenzio. Mi siedo, chiudo gli occhi, e assaporo senza fretta quest’infuso dolce e profumato. Percepisco sul viso i leggeri vapori aromatizzati che, salendo dalla tazza verso l’alto, prima mi accarezzano e poi m’invadono i sensi. Mentre osservo i vapori attraversarmi e disperdersi, sono sicuro che, in fondo, debba essere questo il misterioso disegno della natura. Deve essere in questa immediatezza di sensi che si spiegano e si risolvono i fenomeni del mondo. Forse, in ultima analisi, è per questo che l’aria calda tende per natura a salire verso l’alto. Per donare a noi piccoli esseri il piacere di questi momenti semplici di poesia. Mentre faccio colazione, penso alle molteplici sensazioni che provo e osservo ciò che mi circonda. Ripercorro i contorni imprecisi della mia casa. I quadri, lo stereo, i bonghi che non ho mai imparato a suonare, presi in una bancarella etnica. Il pensile che, sbadato, ho lasciato aperto, il divano basso preso in un mobilificio “alternativo” (rispetto a che cosa?). Il televisore, di cui ho imparato a diffidare. Il tavolino di bambù, la libreria verniciata di blu. Penso a lei, a quanto era bella immersa nella luce che lei stessa


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produceva.


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09 – IL PRIMO PASSO

È bastato un attimo. È bastato pensare a lei per qualche istante per ripiombare in uno stato di piacevole agitazione. Voglio darle il buongiorno. Mi serve un’idea! Voglio coccolarla e stupirla. Mi avvicino alla libreria e prendo una raccolta di sonetti d’amore. Sfoglio qualche pagina, mi fermo, ne leggo uno, poi proseguo. Voglio che sia breve, dolce, intenso, che nelle sue poche parole vi sia la forza di un messaggio senza confini, senza limiti, senza paure. Lo scelgo. Ricordo a memoria il suo numero. In nessun caso avrei potuto dimenticarlo. Prendo il telefonino. In realtà vorrei chiamarla, sentire di nuovo la sua voce dolce e soffice, percepire nelle sfumature dei suoi toni la morbidezza del sonno che ancora la tratteneva. Vorrei raccontarle che ho pensato solo a lei, che ho ancora il suo profumo tra le mani, che ho bisogno del suo sorriso. Meglio mandarle un messaggio. Come al solito, sono un codardo. Digito il necessario e invio. La bustina comparsa sul display conferma che il mio pensiero per lei sta viaggiando nell’etere. In pochi secondi il suo telefonino la avviserà della ricezione del messaggio. Continuo a pensare a lei, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Guidato dall’istinto, come se sapessi già come fare, come se dentro di me fosse già registrato un file a lei dedicato, come se non avessi mai pensato ad altro. Viaggio veloce con la mente. La immagino appena sveglia, leggera e splendida nella sua espressione assonnata, ancora immersa tra lenzuola cariche del suo profumo. La immagino, incuriosita dal segnale acustico del suo telefonino, compiere mille gesti incerti e carichi di sonno. La immagino intenta a


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recuperare nella mente il luogo esatto del comodino dove ha posato il cellulare. Di certo vorrà sapere subito chi, a quest’ora del mattino, sta pensando a lei. Chissà se sarà sorpresa, stupita, contenta, emozionata, vibrante. Chissà se le sue labbra si muoveranno lente, fino a formare un piccolo sorriso da dedicare a me. Forse mi illudo. Forse non è in casa. Forse è in altri luoghi in cui io non entrerò mai, luoghi privati della sua vita, luoghi privati della sua mente, luoghi in cui io non ho diritto d’accesso. È possibile che in questo momento sia sdraiata accanto al suo lui, che i suoi occhi lo stiano guardando, mentre le accarezza i capelli e la bacia con delicatezza, risalendo la linea sensuale del collo. Forse non sarò mai io a riempirmi del suo odore. La vedo. Adesso è scocciata e infastidita da questa mia indebita intrusione nella sua colazione. Chissà che cosa mangia a colazione, chissà se prende qualcosa a casa o se va al bar, chissà se lavora, studia o... chissà... I miei pensieri sono interrotti da un piccolo “bip”. Un suono breve, in altre occasioni perfino insignificante. Il solo suono che però, adesso, speravo di sentire. Guardo il telefonino. È illuminato. Sul display c’è disegnata una bustina e accanto la scritta: “Ricezione di un nuovo messaggio”. Leggo: «È un pensiero bellissimo... non credevo che ti saresti ricordato il mio numero... ti mando un bacio... a dopo». Anche se l’espressione “a dopo” può essere solo un modo di dire o di chiudere il discorso con toni semi-confidenziali, voglio pensare che sia sincera, che abbia voglia di risentirmi, che abbia ancora negli occhi la mia immagine. Voglio pensare che, come me, stia rivivendo le stesse emozioni di ieri. Galleggio per casa. L’avvenimento richiederebbe una pausa, un momento di riflessione. Ha la dignità per essere meritevole oggetto e soggetto di lunghi dondolamenti sull’amaca. Diciamo meglio: l’avvenimento meriterebbe di essere vissuto come un sublime momento di poesia. Purtroppo, adesso, non ho tempo.


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10 – PENSIERI NEL VENTO

Nonostante mi sia svegliato prima del necessario, non ho più tempo per rimanere qui. Adesso devo proprio andare. Mi volto verso la finestra rimasta spalancata. Voglio rendermi conto della situazione all’esterno. Ormai l’alba è passata e il cielo appare in piena luce. Un raggio di sole attraversa un cristallo appoggiato sul davanzale, proiettando sul muro bianco, accanto a me, una policromia instabile. L’aria è mite, il cielo è limpido. «Perfetto» dico pensando ad alta voce. La giornata ideale per utilizzare la moto, evitando così di restare fermo, bloccato in coda tra i clacson impazziti, a soli cento metri dall’ufficio. Adoro le sensazioni che trasmette il vento, quando ti aggredisce e ti scuote la giacca come se volesse strappartela di dosso, quando con forza ti percuote il torace fino a risalire, attraverso mille schioccanti vibrazioni, lungo la linea irregolare della schiena. Amo moltissimo le moto in generale. Amo la mia perché è sincera, non cerca di imbrogliarti con colori accattivanti, sfumature alla moda, adesivi e plastiche modellate. Ciò che vedi è semplice ed è quello che avrai. Non è l’ultimo modello presente sul mercato e non è neanche nuova. L’ho pagata il giusto. Ha degli ammortizzatori così duri che, quando l’asfalto è irregolare, sembra di essere in sella a un cavallo. Il suo rumore, però, è pieno e caldo. Le vibrazioni che produce riempiono l’aria intorno a me. È un evidente esempio di come i contenuti debbano sempre prevalere sulla forma. Quando viaggio sotto il sole, specchiandomi nelle sue cromature essenziali, non so come mai, ma vedo le cose in modo diverso. Mi sento potente. Sento racchiuse nelle mie mani velocità e agilità. Sfreccio accanto a conducenti ipnotizzati dal moto perpetuo del traffico,


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risvegliandoli con il rombo del motore. Intanto, io sono già sparito all’orizzonte. Contrasto con forza l’aria che preme prepotente sul mio petto, in un’eterna sfida tra me e il vento, una sfida senza vincitori, una sfida che mi fa sentire vivo. Come dicevo, questa mattina mi sono coccolato abbastanza. Ora, è arrivato il momento di uscire, di essere parte integrante di questa pulsante società, di immergermi nel traffico. Mi vesto in tutta fretta. Indosso jeans, camicia e giacca, senza badare troppo agli accostamenti. Poi, riflettendo su ciò che dovrò fare durante la giornata, impiego qualche istante a raccogliere in una tracolla tutto ciò di cui avrò bisogno al lavoro. Prendo con un unico gesto le chiavi della moto e i documenti di circolazione dal cassetto vicino all’entrata. Indosso con cura il casco che, fedele, mi attendeva appeso allo specchietto retrovisore. Parto. Mi sforzo di concentrare l’attenzione sulla guida. Ragiono, invece, su cento altre cose. Su ciò che dovrò fare appena arrivato in ufficio, su cosa farò quest’estate, sul fatto che sono andato a sciare solo una volta durante tutto l’inverno, sul fatto che devo portare l’auto a cambiare le gomme... È inutile. Ogni sforzo di portare la mia attenzione su argomenti diversi, pensando, ad esempio, che avrò una lunga giornata di lavoro, oppure al fatto che di certo dovrò, senza esclusione di colpi, litigare con il mio capo per quel casino che ho combinato la settimana scorsa nel chiudere quella pratica, non ha alcun esito. Tutto, oggi, passa in secondo piano. Il mio oggi è dedicato a lei. E poi, perché dovrei pensare ad altro? Intanto, incessante nella sua azione, l’aria profumata della primavera continua a turbinare i miei sensi in folli vortici emozionali, a rendere pericoloso e precario il mio equilibrio, a riportarmi ogni volta da lei e dal suo odore. Quale sarà la tattica giusta da utilizzare? Dovrò essere presente ma non troppo intraprendente, in modo tale da farla abituare alla confidenziale idea di un “me” come di un soggetto presente di diritto nella sua vita? Oppure dovrò essere scaltro e audace e cercare di farle vivere forti emozioni, poi quello che accadrà si vedrà?


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Cosa dovrò fare per non mandare tutto all’aria? È mai possibile?! Come si può essere obbligati a simili improbabili ragionamenti, a questa selezione così crudele e spersonalizzante, a dover nascondere le proprie emozioni per non risultare un ansioso perdente?! Ho l’animo sottosopra, ma il problema rimane. Faccio un patto con me stesso: non devo chiamarla, devo aspettare che lo faccia lei. O la va, o la spacca. Accelero, riempio la mente con il rumore della moto, inserisco la quinta ed entro nel cuore del vento.


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11 - APERITIVO

La mattina è trascorsa veloce. Ho cercato di non pensare a lei. Non ci sono riuscito. Nel desiderio di essere sempre reperibile, invece di spegnere il telefono, ho ritenuto più opportuno disattivare la suoneria e inserire la vibrazione. In questo modo sarei stato in grado di accorgermi, senza dare fastidio agli altri, di eventuali chiamate e messaggi. Tutto tace. Vado a prendere l’aperitivo. Sono d’accordo con Connor. Ci dobbiamo vedere a mezzo giorno al “Caffè dei Salici”. Un piccolo locale le cui superfici, ossia tutte le pareti, compreso il soffitto, sono trasparenti. Caratteristica affascinante, capace di restituire la sensazione d’essere all’interno di uno stravagante palcoscenico. Ciò che però mi ha fatto innamorare di questo piccolo posto, gestito da un signore di mezza età di origine francese, sta nella sua straordinaria posizione. Il locale è posto proprio sotto quattro enormi salici piangenti, che donano all’ambiente una straordinaria cornice verde, dalle originali forme sempre in trasformazione. Il movimento lento dei lunghi e leggeri rami dei salici, dà la sensazione di essere cullati e protetti. La luce del sole, dopo aver attraversato il filtro verde delle foglie sottili e allungate, ne esce trasformata, più delicata e colorata. È un ambiente intimo e rilassante. Vista la tensione per l’attesa di un suo segnale, al momento ho estremo bisogno di rilassarmi. Come al solito, Connor è in ritardo. Sul bancone ci sono molte tartine, ho fame e non faccio complimenti. Dopo la quarta tartina, vedo Connor entrare. La sua figura forte stona un po’ con la naturale delicatezza dell’ambiente. Vederlo mi fa immaginare un bracconiere in visita a una riserva naturale.


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Va diretto alla cassa, prende lo scontrino e mi si avvicina. Il suo volto è sorridente, ma so che lui non sorride, come al solito. Con gesto deciso chiama il barista. Dice: «Hei Pierre come va? Versami due calici speciali che dobbiamo festeggiare, il mio amico si è innamorato!». Ride. Dico a bassa voce: «Vigliacco! Io sono in crisi e tu mi deridi, sei proprio un bell’amico!». Intanto i due calici sono già pronti sul bancone. Butto giù un sorso. Connor mi dà una pacca sulla spalla e d’un tratto diventa serio, anche se la cosa non gli riesce in modo convincente. Mi chiede di raccontargli tutto. Gli parlo della primavera, del profumo dei suoi capelli, del suo sorriso, dei suoi occhi. Parlo di lei come se la conoscessi, come se fosse sempre stata parte di me. Parlo di lei come di me e di me come di lei. Non so più se c’è questa differenza, non so più dove finisco io e dove comincia lei. Parlo di me. Connor è visibilmente stupito. Ciò che gli sto dicendo non rientra nei discorsi che faccio di solito. Infatti, l’ho abituato alle mie pungenti critiche, alla mia razionalità, alla mia consapevolezza. Mi osserva attento, beve un sorso e subito ritorna su di me. So che non percepisce le mie sensazioni, lui è un tipo meno sensibile, ma si fida di me ed io, non so come, mi fido di lui. Usciamo dal bar. Ho continuato a parlare per tutto il tempo. Preso dall’emozione, ho proseguito tutto di un fiato, senza pause, senza riflessioni ulteriori se non quelle ispirate dall’istinto. A un certo punto, Connor, deciso, mi interrompe. Mi dice: «Hei fratello, lo sai che ti voglio bene, ma non ti sembra di esagerare? D’altronde non sai nulla di lei, fuorché il fatto che ti piace il suo profumo». Comprendo che, in effetti, non ho elementi concreti per descrivere la genuinità delle emozioni che ora abitano il mio animo, per convincerlo della necessaria auto-referenzialità delle sensazioni che provo. Non so come riuscire a spiegare che, anche se ciò potrà sembrare incredibile e avventato, le pulsazioni che avverto sono l’archetipo d’ogni molecola della mia essenza.


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Come faccio a dimostrargli che è proprio questo l’evento eccezionale, a dirgli che in fondo sono le reazioni chimiche a dominare l’uomo? Come posso renderlo partecipe delle mie più intime, ed anche a me ancora poco chiare, certezze? «È lei», gli rispondo secco. «So solo che è lei», aggiungo convinto. Connor mi guarda in silenzio, sorride e va via.


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12 – CHIARA

Torno al lavoro e continuo a pensare. Penso all’alchimia delle emozioni. Penso a Chiara, un breve flirt dopo Silvia. Era bella, dolce, gentile. Con lei mi riusciva di perdermi in conversazioni stimolanti e divertenti. Non posso dire che il periodo trascorso insieme non sia stato piacevole. Anzi, fino ad oggi è stata l’unica a dimostrarmi una matura generosità, una stabilità di pensiero e la giusta fermezza d’animo. In quel momento avevo bisogno di una donna in grado di capire le mie contrastate sensazioni. Una donna capace di stare in silenzio con naturalezza, di guardarti negli occhi con la giusta intensità, con l’animo ripulito da inutili rancori. Non è mai stata pressante, dimostrandosi in ogni occasione sempre consapevole del suo ruolo (ed io del mio). Non so ancora se sia stato un bene lasciar spegnere quella relazione. Di certo, per come si erano messe le cose, quello con Chiara non poteva in alcun modo essere un rapporto a lungo termine, privo com’era dei due elementi fondanti d’ogni relazione: la passione e la tenerezza. Di una cosa però sono certo. Non l’ho usata, non l’ho lasciata andare via perché avevo voglia di cambiare. La verità è che, sebbene possa sembrare banale, quella relazione era compiuta così com’era, non doveva avere alcun seguito. Aveva adempiuto la sua funzione e si era esaurita in uno spontaneo interscambio. Arrivati a non aver più bisogno l’uno dell’altra, anche la storia doveva finire, con la stessa naturalezza con cui era iniziata. L’avevo conosciuta per caso, in palestra. La notai subito, sorridente e vivace. Non restava ferma un attimo e questa è una cosa che mi piace molto, poiché denota curiosità e voglia di vivere. Un giorno, al termine di una lezione di spinning, ci siamo trovati a


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parlare. Così, senza uno scopo ben preciso. Un inaspettato approccio. Una conversazione come molte altre, nata solo perché avevamo due biciclette vicine ed io, come al solito, avevo dimenticato la bottiglietta dell’acqua. Lei, senza chiedermi nulla, si era voltata nella mia direzione e, con gesto spontaneo, mi aveva offerto la propria, allungando il braccio e sporgendomi la borraccia. Quell’incontro casuale non durò molto e, con un sorriso reciproco, ci salutammo pochi minuti dopo. Trascorsero pochi giorni. Tornato in palestra, incontrai la medesima istruttrice che, la sera in cui conobbi Chiara, aveva tenuto la lezione cui avevamo partecipato entrambi. Una ragazza rossa di capelli, longilinea, asciutta e con una straordinaria massa muscolare. Quello che però costituiva senza dubbio il suo tratto distintivo, era il forte temperamento, subito intuibile dall’espressione severa e perennemente corrucciata del suo viso. Mi conosceva da qualche tempo come assiduo frequentatore del suo corso di spinning e, nonostante ciò, fino allora non c’era mai stata molta confidenza. Per parte mia, avrei fatto volentieri a meno di modificare tale stato di cose. Quel giorno, appena entrato in palestra, mi accorsi subito che, dopo avermi con sfacciata insistenza scrutato da lontano, con passo rapido e deciso si stava dirigendo nella mia direzione. Il suo atteggiamento era in qualche modo inquietante. Giunta a pochi centimetri da me, guardandomi dritto negli occhi, mi afferrò il braccio. Riuscivo a sentire la tensione d’ogni suo muscolo ed ero io l’oggetto della sua attenzione. Poi, senza chiedere nulla, mi trascinò con fare ancor più deciso verso il distributore di integratori salini, moderno monumento al consumo, ormai presente in tutte le palestre. Arrogante, continuò a fissarmi dritto negli occhi, con atteggiamento diretto e privo di filtri. Senza usare alcuna cortesia in grado di mascherare l’evidente, e inopportuna, sua curiosità verso una situazione che non la riguardava, ma anzi vestendo atteggiamenti che sembrava le conferissero il pieno diritto di chiedere ciò che stava per chiedermi, aveva poi esordito dicendo: «Raccontami tutto!».


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Io rimasi interdetto per qualche secondo. Non riuscivo a capire che cosa volesse sapere da me questa pazza sconosciuta. Mi era noto solo il suo nome, e solo perché era scritto in bacheca accanto all’orario delle sue lezioni. Lei, invece, determinata più che mai, mi stava senza dubbio aggredendo. Come in un flash-back, mi apparve dinanzi gli occhi il ricordo dell’immagine di lei che, durante il mio casuale incontro con Chiara di qualche sera prima, vi aveva assistito. Sì, sono sicuro, mentre parlavo con Chiara si trovava nella stessa stanza, stava riordinando delle attrezzature. Quindi, pensai, mi sta facendo il terzo grado per qualcosa che ha a che fare con Chiara. «Non c’è nulla da raccontare» risposi in modo secco. «Abbiamo solo parlato per cinque minuti» avevo poi aggiunto, cercando di assumere l’aria di chi non è intenzionato a farsi mettere i piedi in testa. «Non dire cavolate!» era stata la sua risposta. Senza cedere nel suo atteggiamento inquisitorio, aveva poi proseguito con piglio deciso dicendo: «Io e quella ragazza dell’altra sera che, non so se te lo ricordi, si chiama Chiara, siamo amiche ed io le voglio molto bene. Dopo la lezione mi sono incontrata con lei in un pub qua vicino. Da allora sono tre giorni che, ripetitiva, mi chiede di te, mi racconta di quanto sei dolce e gentile. Insomma, si può sapere cosa è successo?!». Non riusciva più a contenere la curiosità, tanto che, dominata dall’assurdo desiderio di convincermi a confessare un’inesistente verità, non smise per un attimo di tenermi il braccio, serrando con sempre maggior intensità la presa in cui mi aveva stretto. Mostrando un evidente fastidio, le risposi ad alta voce: «Non è successo nulla ti dico!». Poi, con reazione rapida e decisa, mi liberai il braccio, ormai stretto in quella che si era trasformata in una vera e propria morsa. Ripreso infine il pieno possesso del mio braccio, avevo in seguito aggiunto: «Abbiamo parlato per cinque minuti, davanti a te, seduti sul sellino di queste immobili biciclette. Figurati che, a un certo punto, abbiamo addirittura parlato della lezione e della palestra!». Ricordo la sua accigliata reazione a questa mia risposta. Noncurante delle mie parole di poco prima, insistente, ripropose la sua tesi dicendo: «Si, si, tenta pure di sfottermi, tanto non la bevo. A Chiara


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ho detto che ti conosco, che frequenti le mie lezioni e che, per quanto mi riguarda, non vedo proprio nulla di speciale in te. Considerate le sue insistenze, le ho fatto presente che, se ti avessi rivisto a lezione, ti avrei detto qualche parola in proposito. Chiara mi ha anche chiesto di procurarle il tuo numero di telefono». Non le lasciai il tempo di terminare la frase e, manifestando tutto il fastidio che mi aveva arrecato la sua folle invadenza, insorsi dicendo: «Se tutto questo è per chiedermi il numero di telefono, potevi risparmiarti tante fatiche, lo trovi nell’elenco degli iscritti, prendilo pure, mi farebbe piacere poter rivedere Chiara». Lei, però, guardandomi con l’aria di chi ritiene confermato il proprio (pre)giudizio su di una persona, e mantenendo il suo stupido atteggiamento, riprese quella che aveva tutti i requisiti di una immotivata aggressione dicendo: «Pensi che non lo sappia dov’è il tuo numero? Si vede che non ci sai fare! Ti pare che adesso deve essere Chiara a telefonare a te?!». Detto ciò non aggiunse altro. Mi diede le spalle e, ritornando verso gli spogliatoi, picchiò la mano sul bancone posto all’entrata della palestra. Arrivato in prossimità del bancone, mi accorsi della presenza di un bigliettino su cui compariva un numero di telefono. Quella stessa sera, per la prima volta, le telefonai. Ricordo che la sua voce faceva trasparire una forte emozione e che ciò mi aveva trovato impreparato. Ricordo i lunghi discorsi dal sapore astratto e irreale, la dolce semplicità con cui passeggiavamo per i viali del centro, la serena assenza di reciproche pretese, di inutili tensioni, di ingombranti progetti. Poi, abbiamo fatto l’amore. E successo una sera come tante altre. Eravamo a casa sua, lei si stava asciugando i capelli. Dovevamo andare a cena fuori. Io ero sdraiato sul letto a guardare la televisione. A un certo punto la corrente venne a mancare. Mi alzai e, non conoscendo bene l’appartamento, tentai, procedendo con attenzione, di raggiungere la porta d’ingresso. Volevo accertarmi se la cosa riguardasse tutto il palazzo o solo l’alloggio di Chiara. Era una sera senza luna e tutto, intorno a me, era immerso in una fitta oscurità. Mentre camminavo in direzione della porta, sentii come un fiato avvicinarsi alle mie spalle. Ricordo che, per reazione, mi voltai di


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scatto. Lei finì tra le mie braccia. Toccai la sua pelle e mi accorsi che non indossava nulla. Il suo corpo fremeva, percorso da intensi brividi. La sentivo ansimare, mentre le mie mani disegnavano leggere curve sulla sua schiena. Sfiorai ogni parte del suo corpo carico di eccitazione. Con gesti lenti ed esperti mi spogliò. Con passi attenti, ma consapevoli, mi portò sul suo letto. Entrambi nudi, ci sdraiammo l’uno sopra l’altra. Abbiamo fatto l’amore a lungo, come in una lenta interazione, un complesso di piccoli atti al rallentatore. Esplorammo i nostri corpi fino a provare tutte le sensazioni che desideravamo. Alla fine, la strinsi forte a me e, affondando la testa nei suoi capelli, mi riempii i sensi del suo odore.


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13 – BUONANOTTE

Tra questi pensieri, nonostante la vana attesa di un suo qualsiasi segnale, il pomeriggio è trascorso veloce. È questo che penso, mentre dalla palestra torno a casa, maturando un nuovo desiderio di lei. Il profumo della primavera me l’ha ricordata. Arrivo a casa, sistemo i panni della palestra. Mi siedo sul divano, avvicino il tavolino e mangio. Annoiato dalla televisione, spengo e raggiungo l’amaca. Alzo il naso verso l’alto. Il cielo stasera è di un blu scuro e intenso. È bellissimo. Anche questa è una notte senza luna. All’improvviso accade: sento il telefonino squillare. Mi alzo di scatto e raggiungo il cellulare, che avevo lasciato sul tavolo. È il suo numero. Rispondo. Mi accoglie la sua voce, dolce e morbida come la ricordavo. Inebriato dalle sensazioni che irrompono dentro di me, mi sembra addirittura di percepire il suo profumo. Condotto dal vento, che all’improvviso ha spalancato una finestra, irrompendo nella stanza, mi invade l’odore della sua pelle. Le racconto di me, ma voglio anche ascoltarla. Voglio sapere chi è, conoscere a fondo le sue passioni. Voglio entrare e radicarmi nei suoi pensieri, ritagliando in essi un piccolo spazio tutto per me. Voglio essere accarezzato dalla sua voce, conoscere e condizionare le sue abitudini, cogliere le impercettibili sfumature che le riempiono la giornata. Mi conferma di aver apprezzato il sonetto che le ho inviato come messaggio di buongiorno, suggerendomi implicitamente di continuare a rendere speciale ogni suo risveglio. Continuiamo a parlare.


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Ho il batticuore. Non riesco a credere di essere al telefono con una creatura così simile a me, non riesco a credere d’essere così leggero. Prendo il libro dei sonetti e le recito il mio preferito. Ho terminato e resto in silenzio. Voglio la sua reazione. Non sento nulla, la chiamo. «Sono le parole più belle che io abbia mai sentito» risponde. Dallo strano timbro della sua voce capisco che è emozionata e sincera. Le do la buonanotte. Io mi addormenterò accanto a lei.


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14 – L’INCOGNITA DELLA CHIMICA

Non riesco a prendere sonno. Come smettere di pensare a lei quando la sua voce, le sue parole, le emozioni degli ultimi minuti hanno alterato fin nel profondo la mia condizione interiore? Dopo aver chiuso la conversazione, sono rimasto immobile per qualche secondo, paralizzato dal bisogno di lei, che continuo tuttora ad avere. Sento un fortissimo desiderio di richiamarla, dirle solo: «Ciao, ciao di nuovo, ti ricordi di me?». Vorrei chiederle di continuare a parlarmi, di non andare via, di restare con me questa notte. Sì, di restare con me, anche solo al telefono. Sarei soddisfatto di accontentarmi del suono del suo respiro, mentre dorme. Di galleggiare nell’immagine riflessa del suo sorriso. Vago per casa senza una meta. Accendo la tv, poi la spengo. Sfoglio un giornale, che subito lascio sul tavolo. Faccio, in modo distratto, rimbalzare una palla da tennis contro la parete. Mi interrogo sulle mie emozioni, sulle sue emozioni, su questa notte stellata, su dove vanno a finire i sogni, sulla paura e sul coraggio. Mi interrogo sull’essenza della primavera e su quello che significa per me. Vorrei decifrare i miei battiti criptati. Ritrovare un senso in ciò che sto vivendo. Stabilizzare il mio precario equilibrio. In generale sono una persona razionale. A volte, lo sono in modo eccessivo. Ora, però, non riesco a esserlo. Proprio ora che avrei bisogno di una massiccia dose di razionalità. Mi sforzo. Devo esserlo! Devo porre rimedio a questa inquietudine! Devo regolare il desiderio che ho di lei! Penso al profumo della primavera, alla sua aria leggera, alla reazione che procura al mio corpo, senza freni né inibizioni, con prorompente


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schiettezza. Penso alla chimica della vita, alla sovra-esposizione dei miei recettori. Prendo carta e penna. Libero il tavolo da tutto ciò che ne occupava l’intera superficie. Avvicino una sedia e mi siedo, convinto di riuscire a trovare una soluzione al mio stato d’animo. Ripercorro a ritroso i pensieri appena fatti. Tutto ciò mi suggerisce una possibile via di fuga dalle emozioni, un’idea cui aggrapparmi. Se il messaggio che percepisco è diretto e autoreferenziale, allora è probabile che anche le mie reazioni di fronte ad esso siano dotate di un certo automatismo. Una inevitabile risposta chimica a un messaggio chimico. Per me, così, sarebbe tutto più semplice. Potrei alleggerire il carico e considerare tutto questo come una formuletta chimica. Sì, una semplice formuletta, fatta di lettere singole o accoppiate, di segni più e di segni meno, di numeri. Una formuletta, composta di qualcosa di prestabilito e allo stesso tempo di infinitamente semplice. Composta di qualcosa che metta a nudo l’essenza ultima delle cose senza romanzarla o anche solo descriverla. Così procedendo, potrebbe essere più semplice formulare un qualsiasi giudizio su ciò che mi sta accadendo. Altrettanto facile sarebbe poi accettarlo come una conseguenza inevitabile, come qualcosa che ha a che fare solo con la natura, con l’aria volubile della primavera. Qualcosa che c’è e basta. Sembra una soluzione troppo semplice. Rimane, però, da considerare una circostanza determinante, che gode della forza della concretezza. Sebbene, secondo quanto ho ora ipotizzato, io abbia a che fare con un insieme di complesse formulette, fatte di segni più, di segni meno, di numeri e di lettere, di simboli, di spazi e di adiacenze, la loro somma totale è molto diversa dalla semplice unione delle varie singolarità. V’è qualcosa di più complesso e magico, vi sono moltissime variabili incontrollate e incontrollabili. Imprevedibili reazioni secondarie hanno la capacità di alterare il risultato, di amplificare le sfumature. Ho a che fare con una persona, semplice e complessa come me. Una persona fatta di logica e di contraddizioni, di paura e di coraggio, di scelte e di rimpianti, di mancate scelte e di rimpianti. Fatta di sogni,


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di speranze, di ambizioni, di generosità ed egoismo, di immagini di sé pre-confezionate, di sapori e di odori, di istinto, di recettori. Ho a che fare con una persona che, se mi espongo troppo nei suoi confronti, potrebbe ferirmi. Ho paura ad abbandonarmi ai segnali provenienti dal mio animo turbato. A parte i timori, sono sicuro che il messaggio chimico inviatomi sia stato interpretato in modo corretto da quella parte di me, così piccola e immateriale, e nonostante ciò straordinaria e fondamentale per la sopravvivenza dell’anima, a questo deputata. Sono sicuro che le emozioni che provo siano autentiche, forti e magiche. Non posso, però, garantire al mio cuore che sarà rispettato, amato e protetto. Insomma, non posso garantire a me stesso che i medesimi segnali chimici siano interpretati con eguale passione, forza e profondità anche da lei. Ecco la vera incognita dell’amore, la variabile su cui si sono accumulate decine e decine di cadaveri, la fossa comune dei cuori infranti. Mi guardo allo specchio. Riporto l’attenzione su di me, sulla mia immagine, su ciò che devo preservare. Riuscirò anche a dire: «Non importa?». Cancello con forza dalla mente quest’ultimo pensiero, che ha il sapore amaro della sconfitta, il sapore truce dell’abbandono.


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15 – I PUNTI FERMI (PRESUNTI)

Rifletto, medito, scavo nel passato, scavo dentro di me. Ripercorro le esperienze di giovane uomo, tutto il tempo già trascorso. Soprattutto, voglio ricordare quei particolari momenti in cui ho creduto di essere innamorato. Ricerco un punto fermo nella mia considerazione dell’amore, un pensiero concreto e dai confini precisi, una definizione data da me in una particolare circostanza, un’opinione espressa a qualche amico che, preoccupato o confuso, si è rivolto a me in passato. In realtà, mi sarebbe d’aiuto anche il ricordo di un consiglio ricevuto, di una definizione letta da qualche parte, di una frase scritta su una panchina o su un muretto, di una delle volte in cui ho picchiato il naso. Vorrei domandare al mondo intero cosa farebbe al mio posto. Vorrei un giudizio sul mio comportamento, sul mio slancio inaspettato verso il buio, sulla fragilità delle certezze. Cosa c’è, poi, di così spaventoso nel buio, oltre a me stesso? Cos’è l’amore? Dove e come può radicarsi nell’animo delle persone? Quante possibili interpretazioni ha? Perché ci si innamora? E poi, si può amare in modo profondo qualcuno e non essere amati in modo altrettanto intenso? Perché esiste in natura questa condizione crudele! Esco, ho bisogno di ossigeno. Voglio inspirare a fondo, riempirmi dell’aria carica di profumo. Chiedo presuntuose spiegazioni direttamente alla natura. È lei la colpevole degli sconvolgimenti della mia semplice vita. È a lei che posso e voglio attribuire i difetti del mio complesso circuito stampato. È lei che in ogni essere ripone una cellula, una proteina, un capello, un recettore, una molecola, un odore, un colore in grado di renderlo diverso da ogni altro. Un pezzo unico. Continuo a pensare a questa somma ingiustizia. Voglio scoprirne i segreti al solo scopo di mettermi al sicuro, di


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sintetizzare il vaccino, d’ottenere l’immunità. Voglio la combinazione utile ad aprire la porta che conduce alla salvezza e alla fuga. Tuttavia, ho già chiara la consapevolezza che gli strumenti a mia disposizione sono troppo lenti e inadeguati rispetto al risultato cui tendo, alla finalità del mio agire. Intanto, mi cullo nell’utopia del mio intento. Sconosciute alchimie non potranno essermi d’aiuto. Devo, quindi, usare gli unici strumenti disponibili: quelli della ragione, i soli che posso permettermi. Rientro in casa e con passo deciso riprendo posto al tavolo. Impugno la penna e fisso il foglio ancora bianco. Su di esso traccerò le linee delle mie convinzioni, fermerò i concetti in cui ritrovo le mie certezze. Voglio che il percorso logico da seguire sia privo di ipotesi fuorvianti, voglio sgombrare il campo prima di iniziare. Inizio. Per capire l’amore devo conoscere l’amore. Per conoscere l’amore devo analizzarlo. Per analizzare l’amore devo schematizzare quante più esperienze possibili. Prima ipotesi. Quanti sono quelli che si innamorano non di una persona, del suo odore, della complessità del suo sorriso, della magia di una sua carezza, del suo spirito, ma dell’immagine che, usando come riferimento un modello preconfezionato, si sono costruiti nella propria testa e nel proprio cuore? Tremo all’idea che questo possa essere il mio caso, che lei possa in qualche modo incarnare la proiezione olografica dei miei desideri e delle mie attese. Chi compie un tale gesto (e chi non l’ha mai compiuto!) non è in grado di vedere la realtà come gli si presenta e, sovente, riesce anche a negarne l’evidenza e la concretezza, ingannando se stesso e non credendo ai messaggi che chi gli sta intorno cerca di inviargli. Chiunque riesca a fare ciò e a conviverci per tutta la vita, tutto sommato, ha un’esistenza felice, benché inconsapevole. Convinto delle proprie idee su chi gli sta accanto, contento dei risultati del proprio amore, appagato da ciò che, sebbene egli creda provenga dall’altro, è in realtà prodotto da se stesso. Invia e riceve segnali in un circolo vizioso, da cui solo un estremo


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rientro alla realtà potrà farlo uscire. Ciò, è ovvio, avviene in modo un po’ brusco. Il risveglio non è mai, e non potrebbe mai essere, indolore. Ci si accorge di aver vissuto in un sogno (o in un incubo), in un quadro dipinto dalle proprie mani nello stile un po’ dozzinale di chi, invece di adottare le tecniche necessarie a evitare le imperfezioni, cerca di coprirle, di alterarle, di mascherarle allargando e allungando i margini delle cose, sfuocando il soggetto, cambiando pennello, trasformando, con una incauta e illusoria immaginazione, un cerchio rosso su uno sfondo bluastro in un bellissimo e romantico tramonto. La cosa peggiore è che il rimorso per l’inganno investe se stessi, investe l’unico autore, responsabile, ideatore, colpevole, artefice. Ci si sente stupidi e feriti. È molto difficile accettare d’essere stati vittime di una cecità autoindotta. Ancora più difficile è perdonare a se stessi un inganno tanto doloroso. Si rischia di annullare l’ingrediente fondamentale d’ogni vita degna d’essere vissuta: l’autostima. Stappo una birra, è una di quelle sere in cui è necessario ingerire un po’ d’alcool per non rendersi conto del pericolo in agguato, della delusione prodotta dalla disillusione. Non prendo il bicchiere. Voglio bere così, dalla bottiglia. Poco alla volta, a piccoli sorsi, a piccoli passi, come quelli che sto percorrendo, improvvisato docente di me stesso, sull’essenza e sulle variabili dell’amore. Abbandono il tavolo e l’idea di poter riprodurre, con semplici artifici grafici, un ragionamento di cui non intravedo ancora lo schema preciso. Sono sul divano, la schiena su un cuscino e le gambe sul bracciolo. Ho spento la luce. Non voglio che i miei sensi influiscano sull’ampiezza dei pensieri che sto affrontando, sulla sfida, tutta personale, tra logica e paradosso. Per essere lucido devo mettere da parte l’istintualità ereditata dal mio passato genetico. Riavvio i pensieri verso la meta che mi sono prefissato. Penso alle esperienze vissute, a quelle raccontatemi dagli amici, agli attimi di consapevolezza che ti investono, mentre fai il caffè o mentre guardi una vetrina di un negozio di scarpe. Seconda ipotesi. C’è, invece, chi non si inganna, chi non si illude, chi è consapevole dell’inadeguatezza di chi gli sta accanto, chi vive un amore che non è


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sincero. Insomma, chi si accontenta di un amore di terza scelta, di un amore che non è amore. È il caso di tutte quelle persone che non vedono nel partner nulla di speciale, nulla di stimolante o capace di provocare spontanee e autentiche emozioni e, tuttavia, continuano a vivere un rapporto di coppia in cui non credono. Prevale allora un insano senso del dovere, l’errata convinzione che in questo modo si può vivere e che in fondo amare non sia indispensabile. Poveri stupidi! Come si può vivere senza usare la parte più poetica, vivace, passionale, fantasiosa e pericolosa di cui la natura ci ha dotato? Come è possibile anestetizzare la propria anima, addormentare il proprio spirito? L’idea di ciò mi provoca un forte dolore alla bocca dello stomaco. Bevo un po’ di birra, devo annullare con l’alcool le mie sensazioni fisiche. Mi convinco che tutto ciò può essere attuato solo da chi non ha mai amato, da chi non è in grado di tremare, da chi non si emoziona per una canzone, un film, un bacio dato con dolcezza, il pianto di un figlio, l’aria inebriante della primavera. È una gabbia dalle sbarre invisibili. Una condizione di dormienza, l’assenza di uno scopo, il moto forzoso e forzato di chi procede solo per inerzia. Inoltre, è anche un gesto di una estrema crudeltà. È l’ipocrisia del dovere, la parodia di un essere umano. Un gesto crudo, violento, subdolo e ingiustificabile. L’amore non accetta vie di mezzo. Accontentarsi di una soluzione intermedia, compromissoria, fatta di piccoli attimi di retorica complicità e di piccoli attimi di banale sesso, non può essere considerato accettabile. Con quale responsabilità si dovrà poi convivere?! La responsabilità di una violenza priva di giustificazioni, di un comportamento che offende la purezza delle sensazioni. Diffido di una persona che non impallidisce di fronte a una tale condotta. Dubito di una persona cui non importa di spegnere la luce che chi gli sta accanto, spinto dai propri sentimenti, tenta con forza di accendere e mantenere vitale. Ho conosciuto sia gli artefici sia i soggetti passivi di tali circostanze. Oltre alla sconvolgente mancanza di compassione da parte di chi, in questa situazione, è il soggetto dominante, la cosa che mi ha sempre


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impressionato è, invece, l’estrema consapevolezza di chi si trova a subirla. Il solo pensiero mi provoca affanno e sensazione di asfissia. Immagino i tentativi, sempre vani, sempre inosservati, di attirare l’attenzione. Immagino i solchi sui muri di questa invisibile prigione, la sofferenza. Immagino i sogni, i bellissimi sogni, con crudeltà infranti. Immagino i dolci pensieri e le attenzioni, la rassegnazione unita alla perenne aspettativa. Immagino la speranza di uscire dal bozzolo, di riscattare il proprio diritto a volare, il proprio diritto alla sincerità di un sentimento caldo di sole. Penso alla cruda ipocrisia di fondo, all’incredibile convinzione di essere in grado di appagare qualcuno essendo soltanto fisicamente presenti. Alzo un po’ le ginocchia e affondo la testa nel cuscino. Sono alla ricerca di qualcosa che mi avvolga, di una sensazione di protezione contro la sconvolgente concretezza dei miei pensieri. Vorrei abbandonare questo percorso, poter beneficiare del sollievo dato dall’oblio. Vorrei non essere in grado di provare sensazioni, essere parte di questo divano. Vorrei essere anch’io composto di semplice stoffa colorata, prodotta per uno scopo specifico e a ciò destinata da tutti. Non ci sono sorprese, non ci sono variabili, non c’è libero arbitrio. Immagino il sollievo dato dalla consapevolezza del proprio destino e del proprio ruolo. La forza magnetica della logica mi riporta sul percorso vorticoso delle variabili. Per quanto tempo un sistema di inganni può reggere alla spinta della consapevolezza? Può mai essere che queste due parti, attiva e passiva, restino intrappolate nella rassegnazione che un’altra vita non è possibile, vittime di un fatalismo che le vede perdenti di fronte ai piaceri puri dei loro corpi? Poco coraggio e poca iniziativa sono presenti in persone del genere. La codardia delle sensazioni, la vigliaccheria di fronte alla sfida, la paura di vivere senza restrizioni. Rimango ancora sul divano, in immobile attesa. Aspetto che le idee si formino, assumano confini, divengano interpretabili. Terza ipotesi. Accanto a chi è in grado di intervenire sui propri recettori, indirizzandoli, in modo più o meno soddisfacente o ipocrita, verso un


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soggetto che resta determinato nel tempo, vi è una lunga serie di persone la cui capacità razionale, ridotta ai minimi termini, è causa di una situazione in cui si è in balia delle sensazioni. È la condizione di chi non si innamora di una persona, di un carattere, di un viso, di un sorriso, di un profumo, ma delle sensazioni che egli stesso prova. Esistono persone che amano innamorarsi, amando ciò che questo provoca in loro e amando loro stessi mentre si innamorano. L’oggetto dell’amore non è un’altra individualità, ma è in realtà irrilevante. L’uno vale l’altro, non importa. Si tratta di una condizione piuttosto comune. Chi non vive per quei piccoli brividi che, solleticanti, percorrono il collo, per l’imbarazzo dell’approccio, capace di spezzarti il fiato, per quella poetica assenza di autocontrollo, per l’emersione dell’istintualità e dell’immediatezza? Quando ci si innamora, in un sol colpo, cambia l’umore, l’espressione del viso, l’odore della pelle. Cambia l’immagine che decifriamo delle cose. È possibile dubitare del fatto che l’osservatore innamorato assuma una posizione tanto diversa da chi, pur osservando le medesime cose, fiori, tramonti, persone, innamorato non è? Forse, solo chi innamorato non è mai stato, può contraddire una tale assoluta verità. Per chiunque altro, invece, non esistono argomentazioni in grado di negare che agli occhi di un innamorato le cose, nella loro fredda materialità e rigida consistenza, assumono confini variabili e indefiniti. I fiori, poetici messaggeri, divengono più brillanti e colorati. Le loro fantasie più originali e stupefacenti, il loro profumo più penetrante e familiare, tanto da convincersi di non poterne fare a meno. I tramonti infuocati restituiscono maggiori sensazioni, maggiore calore e profondità, maggiore meraviglia per ciò che la natura è in grado di creare e donare. I rapporti con le persone passano su piani diversi, più intimi, emozionali. Si arriva alla convinzione di essere in grado di interagire con il mondo intero, a maturare la netta sensazione di esserne parte viva e vitale. Sebbene sia semplice intuire quanto facile sia il lasciarsi catturare e dominare dal fascino di queste sensazioni, bisogna considerare che l’innamoramento non è una condizione permanente. Non credo a chi ritiene possibile agire in modo tale da conquistare ogni


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giorno il proprio partner. L’innamoramento affascina perché stupisce, perché rapisce, perché mette in disordine, perché ci proietta in nuove dimensioni non familiari e non permanenti, in un luogo dove ancora non c’è confidenza né terra battuta, dove non ci sono regole né indicazioni, in un luogo da esplorare con slanci emozionali. La fase successiva, cui senza dubbio si perviene dopo qualche tempo, è la familiarità, la conoscenza, la quotidianità, l’assenza di meraviglia. L’amore, dissoltasi la nebbia iniziale, è soprattutto questo. È svegliarsi accanto ad un profilo conosciuto. Amore è la sensazione tattile di un corpo già esplorato, la percezione olfattiva di un profumo che è il prodotto di una mescolanza definitiva. Tutto ciò suona poetico e rassicurante ma è, soprattutto, labile e delicato. L’assenza di forti emozioni ci rende più sensibili ai dettagli, meno accondiscendenti. È il trionfo della logica sull’istinto. Si finisce per essere troppo presenti e coscienti, avidi di quelle emozioni svanite in un punto imprecisato del passato. Faccio rotolare sul pavimento la bottiglia ormai vuota, mentre io continuo a riempirmi dei miei pensieri. La stanza ormai non è più buia. Posso distinguere la sagoma degli oggetti che mi circondano. Metto a fuoco le immagini imprecise delle foto riposte sulla mensola, sopra il televisore. Immagini di recente vita passata, istantanee dotate di forza permanente e continua. Penso a quanti innamoramenti sono racchiusi nei negativi non sviluppati delle mie foto, nelle relazioni che ho lasciato incompiute. A quante volte, svanita la magia di ciò che sentivo, non ho avuto il coraggio di trasformare in ricchezza le differenze emerse. Ritorno al ragionamento. Mi chiedo come potrebbe reagire chi, nella medesima circostanza, si trova dall’altra parte? Come reagirebbe costui se, ignaro di tutto, ritenesse d’aver trovato nel proprio sentimento il coraggio e il desiderio di una stabile unione? Come si salverà colui il quale ha determinato la fine di qualcosa di prezioso e irripetibile, di qualcosa che altrimenti poteva avere il fascino e la stabilità delle cose familiari, produrre quella dolce nostalgia nei brevi periodi di lontananza, determinare profonda gioia nei momenti


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dell’amore, essere presente nell’aria come le piccole cose che rendono ogni attimo degno di essere vissuto? Ripercorro le tracce del mio cammino. Percepisco un’estrema sensazione di familiarità in ogni riflessione. Riconosco la mia immagine negli strascichi di un pensiero che, in un luogo e in un momento diverso, è stato mio, mi ha coinvolto, reso responsabile e vittima. Consapevole della complessità d’ogni singola esperienza, mi sembra d’essere in un labirinto, strozzato dallo sgomento conseguente alla certezza di non aver segnato il percorso fatto. Mi sorprende l’impotenza di fronte ad un incrocio privo di indicazioni in una città straniera, nelle cui strade è presente il vissuto di ogni passaggio. Posso io essere così complesso, può la mia singola esperienza comprenderne così tante altre, con le loro mille incomprensioni, distrazioni, peculiarità. Può una singola vita contenere in sé mille altre vite. Il pensiero di me come di un essere capace di interpretare in un solo momento la parte della vittima e del carnefice, capace di sperare e di accontentarmi, mi sconvolge e mi percorre come una scossa elettrica. D’improvviso non sono più sdraiato, non sopporto più l’immobilità. Sono seduto, sono in piedi, cammino per la stanza, mi fermo. Cerco un equilibrio cui aggrapparmi per non scivolare nell’incoerenza della mia complessità. Comprendo che, in realtà, ciò di cui ho egoisticamente paura, è della possibile molteplicità delle esperienze nascosta dietro al suo sorriso, alla chimica del suo profumo, alle aspettative dei suoi sentimenti. Realizzo la possibilità di diventare vittima di un suo desiderio momentaneo, il fumo pallido di una reazione chimica esauritasi. Il pericolo costituito dalla potenziale assenza di reciprocità mi rende inquieto. Cerco di ritrovare il mio equilibrio. Mi sforzo per contrastare la forza di gravità che approfitta d’ogni piccola incertezza per schiacciarmi al suolo, senza rimorsi, senza filtri, una semplice dimostrazione concreta di un principio della fisica, un vettore posto sulla mia testa. Mi rendo conto dell’assenza di una qualsivoglia garanzia che anche lei sia pervasa dalle medesime sensazioni che avvolgono me. È certo possibile che lei non abbia alcuna difficoltà a mantenere una


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situazione di perfetto equilibrio a prescindere da me, dall’avermi o no accanto a sé. È possibile, infatti, che lei sia appagata da ciò che la circonda e che non abbia nessuna intenzione di condividerlo, nessun bisogno di motivazioni, di speranze, di aspettative, di segnali. Mi spaventa ammetterlo, ma non è certo improbabile che lei non abbia alcun bisogno di me. Ed io? Di cosa ho bisogno io? Ho realmente bisogno di lei, del suo profumo, della sua dolcezza, della curva del suo viso, della luce dei suoi occhi, del battito del suo cuore, della motivazione della sua attenzione? Sono confuso. Non riesco a provare alcuna sensazione in grado di apparirmi definitiva. Ho bisogno di esempi. So che non posso ritrovare in loro nessuna risposta, ma ne ho bisogno. Penso a una coppia che ho conosciuto per motivi di lavoro. L’atteggiamento di quelle due persone mi ha da subito colpito. Era come se si bilanciassero in un gioco di pesi e contrappesi. La magia che mi derivava dal contatto con loro, era la stessa che prova chi osserva il perfetto sincronismo del volo di uno stormo di uccelli migratori. Ogni battito d’ali spinge l’intera squadra a una impercettibile variazione del percorso. Non ci sono recuperi, non c’è chi resta indietro, non ci sono scontri o sbandamenti. Si realizza un istintivo lavoro di gruppo, una forza derivante dall’unione di tante piccole forze. C’è la solidarietà compatta di chi adegua in modo automatico il proprio battito a quello degli altri, senza ricorrere a protagonismi o vittimismi. Tutto in queste circostanze si svolge con naturalezza, ma anche con attenzione ai dettagli, agli imprevisti. Un automatismo vigile e non certo privo di sensibilità. Ricordo di aver dedicato a loro il doppio del tempo che di solito dedico a questo tipo di pratiche. Ricordo il benessere e la fiducia che erano capaci di trasmettermi. Dopo gli incontri con loro mi sentivo bene. Percepivo forte la convinzione che anche per me, alla fine, sarebbe arrivato il momento in cui sarei riuscito a volare in magica sincronia, senza correzioni, senza filtri, in una danza aerea complessa, ma naturale da comprendere. Quando, terminata la loro pratica, sono stato costretto a non vederli più, la cosa mi ha provocato un forte dispiacere. Era come allontanarmi dalla risposta alla domanda: «È possibile?».


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Sebbene da allora io abbia capito che tutto ciò esiste ed è possibile, non mi è ancora mai capitato di provare l’ebbrezza della sincronia. Ho bisogno di rientrare, di disilludermi, di riprendere le redini del presente, di cambiare prospettiva e angolo di visuale. Vado in bagno. Quando mi trovo in queste situazioni, in un’empasse emozionale, so cosa fare. Ho bisogno di una doccia. Sento la necessità che l’acqua bollente, con i suoi intensi fumi, mi scorra dolorosamente addosso. Devo ritornare a sentire sulla pelle la concretezza dell’adesso. L’acqua scende fitta sul mio viso, chiudo gli occhi e ne assaporo i vapori. In fondo l’amore provoca anche molti effetti collaterali. Ad alcuni di essi è facile far fronte, in quanto logica conseguenza dei sentimenti che si provano nei confronti di un’altra persona. Mi riferisco alla fedeltà, all’affetto, al doveroso rispetto per ciò che c’è dato e alla gioia di dare. Penso al tempo da trascorrere insieme, ai progetti a breve e lunga scadenza, alla fantasia e ai sogni, ai sorrisi gratuiti e alle carezze nell’oscurità delle coperte. Penso alle cene a lume di candela, alle sbronze il sabato sera, alle foto durante le vacanze. Penso alla comprensione, ai pianti per un dolore improvviso, agli abbracci forti. Altri effetti, invece, sono insopportabili e malvagi. Derivano dai lati oscuri, dalle ombre delle cose, dall’istinto animale. Comprendono l’invidia, l’insoddisfazione, la materialità, l’eccessiva concretezza spoetizzante. Determinano l’assenza di spazi garantiti, l’asfissia dei compromessi, la mancanza di complicità. Di fronte a essi si è impotenti. Si realizza l’assenza drammatica di opportune decodificazioni, la ricorrenza di inevitabili incomprensioni, la mancanza di argomenti. Costituisce concreto esempio dei possibili effetti negativi, il sopraggiungere della possessività e della gelosia accecante. Non sono mai riuscito a capire le ragioni ultime della gelosia nei confronti della persona che si ama. Partendo dal presupposto che mi sembra assurdo essere gelosi di qualcuno che non amiamo, poiché la possibilità di un suo futuro allontanamento non dovrebbe provocare sofferenza, la questione si riduce all’alternativa tra la consapevolezza di essere innamorati di una


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persona dominata dagli istinti, senza scrupoli, che non ci rispetta, che non mantiene gli impegni, e la consapevolezza di non essere sufficienti ad appagare le aspettative del partner e, quindi, della probabilità che questi possa trovare rimedio a tale mancanza avvicinandosi a un’altra persona che tali mancanze non ha. Sento la semplificazione insita nel mio ragionamento, sento i possibili benefici che ne possono derivare. Voglio continuare, esco dalla doccia. Mi asciugo con un asciugamano troppo piccolo, che diventa subito fradicio. Poi, inserita la spina nella presa elettrica adiacente al lavabo, l’incessante ronzio dell’asciugacapelli mi riporta ai miei pensieri. Non voglio accontentarmi di una semplificazione. Voglio testare il ragionamento fatto, metterlo alla prova. Parto dalla prima delle due ipotesi. Mi sembra che in essa non vi sia alcuna carenza. È certo possibile innamorarsi di qualcuno che si considera poco affidabile, forse nell’illusoria convinzione di poterne determinare un cambiamento. L’ipotesi non è, però, priva di incongruenze. Se si è stati così folli, nonostante i presagi, da innamorarsi di una persona il cui comportamento con tutta probabilità ci avrebbe determinato sofferenza e dolore, e ancora più folli da aver solo immaginato, sperato, creduto di poterla cambiare, di chi è la responsabilità se poi tutto ciò di cui avevamo paura si avvera? O meglio, di chi è la responsabilità se si avvera la paura che avevamo di arrivare a temere i possibili, ma non per forza concreti, comportamenti di chi amiamo? Siamo giustificati per questo a tracciare una fitta rete di divieti e limitazioni intorno alla sfera vitale di chi ci siamo scelti? Siamo giustificati a rendere la sua e la nostra vita un inferno? Ho sempre dato risposta negativa a questi interrogativi, riportando alla mente, forse anche in maniera un po’ riduttiva, il detto per cui: «Chi è causa del suo mal pianga se stesso». Sono sempre stato convinto che sia impossibile riuscire a imbrogliare le proprie sensazioni. Tolta di mezzo la prima ipotesi, in cui mi sembra chiaro che la responsabilità sia di chi si fa coinvolgere da una situazione che sa a priori essere negativa, resta da considerare la seconda. Mi rendo subito conto della pericolosità, ed anche della profonda verità,


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che vi si nasconde dietro. Di sicuro, però, una persona gelosa non potrebbe mai arrivare a una tale conclusione sul proprio comportamento, senza una profonda e coraggiosa introspezione, in cui verranno senza dubbio coinvolti concetti come amor proprio, autostima, personalità, carattere e il cui risultato potrebbe determinare un pericoloso sbandamento. Ragionandoci su, è possibile arrivare alla conclusione che l’aggressività sia senza dubbio una frequente conseguenza dell’insicurezza. Non essere sicuri di se stessi, delle proprie capacità, dell’interesse che possiamo suscitare in chi ci sta intorno, ci rende invidiosi delle persone che invece possiedono tale sicurezza. La gelosia e l’aggressività aumentano, quando poi ci si rende conto che anche chi ci circonda si accorge della differenza. Se poi comprendiamo che questa differenza è percepita soprattutto dalla persona amata, allora scatta il naturale istinto di proteggere il territorio da qualcosa che è, alla fine dei conti, scarso amore, scarsa stima, scarso rispetto che proviamo per noi stessi. Anche in questo caso la domanda è precisa: possiamo far pagare a qualcun altro il prezzo delle nostre insicurezze? Possiamo pretendere che qualcuno ci accetti per quello che siamo, con i nostri pregi e i nostri difetti, con la nostra fantasia e la nostra banalità, con la nostra dolcezza e la nostra concretezza spoetizzante, con il nostro sorriso e le nostre lacrime, con i nostri sogni e la nostra veglia, se siamo noi stessi i primi a non farlo? Possiamo determinare una variazione nelle sue attese direttamente proporzionale al nostro senso di inferiorità? Possiamo tracciare una fitta rete di regole e divieti, il cui risultato altro non sarà se non quello di accentuare le nostre insicurezze, spingendo chi ci sta accanto a maturare un sempre più profondo desiderio di fuga dalle nostre manie? I capelli ormai sono asciutti, ma non hanno la forma che mi aspettavo. Spengo la luce e sono fuori dal bagno. Questo tuffo negli effetti collaterali, resi più convincenti dall’esserne stato più volte vittima, mi ha riportato a una condizione di coscienza, ha spento le vampe d’innamoramento che mi stavano avvolgendo. Rientro in uno stato razionale in cui una cosa è una cosa, un fiore è un fiore, un tramonto è un tramonto e le persone sono quello che sono. Maturo la convinzione che, comunque, non c’è nulla da guadagnarci, che sarei di sicuro avvolto nel vortice delle spiegazioni, dei


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compromessi, delle gelosie, degli orari, dei doveri. Nonché l’ulteriore convinzione che, a parte quello che succede in questa fase iniziale, se tra noi andasse avanti, tra poco più di un mese o di un anno, non troverò più quella luce nei suoi occhi o l’emozione nel suo sorriso, non annuserò più le mie mani cercandovi il suo odore, non coglierò più la sfumatura roca e dolce della sua voce. Ogni cosa lascerà il posto alla routine, alla quotidianità di scelte definitive, all’immobilismo, all’inevitabile sfuggire del tempo che, con sé, porterà via anche la parte più intima del mio essere. Un po’ come accade con le piccole ferite, quelle attraverso cui per pochi giorni riesci a vedere la meraviglia dei tessuti di cui sei composto, anche se farlo comporta un leggero e localizzato dolore, ma che, prima che te ne possa accorgere, sono già scomparse dietro la curva delle tue impronte. Diverse da quelle di ogni altro e uguali nella loro impermeabilità esterna. Guardo l’orologio. Esco, voglio assaggiare la notte. È notte fonda, eppure non mi sembra che faccia freddo. Mi guardo attorno, percepisco deboli spostamenti di vite notturne. Una lieve folata di vento attira la mia attenzione. Inspiro a fondo riempiendo lo spazio interno al mio torace e, prima che me ne possa accorgere, la straordinaria aria della primavera ha già infranto ogni razionalità appena conquistata.


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16 – HO SOGNATO LEI

Avverto il contatto con la superficie sottostante. Percepisco il movimento rapido delle palpebre, il fruscio delle dita che sfiorano la gamba destra, la forza di gravità che schiaccia la mia testa sul cuscino. Sono sveglio. Sono sveglio e non vorrei esserlo. La realtà, oggi, non riesce a eguagliare il sogno trascorso. Questa notte l’ho sognata. Ancora una volta. Ho accarezzato con avidità il suo volto. Era così reale! Questa notte ero con lei, avvolto nel suo profumo, avvolto nella passionale aria della primavera. Questa notte, questa notte... ho sognato. Ho sognato un’ombra che si espandeva, un vortice d’aria che mi avvolgeva e che, tenendomi stretto a se, mi coccolava. Ho sognato un’amante piena di passione con cui facevo l’amore. Ho sognato la mia idea di lei. La mia, idea di lei. Rapido mi volto e spingo forte la faccia sul cuscino. Stringo le palpebre affinché la luce non possa filtrare fino agli occhi. Impongo ai miei recettori di azzerare la percezione del mondo esterno che mi circonda. Tento di riaddormentarmi. Voglio essere paracadutato nell’istante esatto in cui il mio sogno è stato interrotto. Voglio ritornare nella dimensione in cui io e lei siamo già uniti, in cui ho l’assoluto privilegio di giacere nudo con lei tra le calde coperte, in cui il mio nome è la più familiare delle parole che ogni giorno pronuncia, in cui il mio viso è l’icona della sua quotidianità, in cui lei è mia. Il mio intento svanisce dinanzi all’innegabile evidenza che ormai sono sveglio. Ma non dimentico. Un improvviso attimo di lucidità mi ricorda che, nella realtà, è questo il momento dedicato a lei. Il momento in cui posso esserle, anche se non


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fisicamente, vicino. È questo l’istante del mio oggi con lei. Non posso mancare all’appuntamento con il suo sorriso. Non posso rinunciare all’idea di essere io a provocarlo. Non posso deluderla. Metto a fuoco l’idea di me stesso che si alza. Concretizzo i gesti che mi servono a raggiungere l’obiettivo, la connessione di contrazioni muscolari necessarie a determinare il movimento cinetico del mio corpo. Strappo me stesso alla persistente idea di rientrare nel sogno, trovando facile rifugio in una fantasia capace di materialità. In modo più goffo, impreciso e improvvisato rispetto a quello ricostruito nella mia mente, arrivo precipitoso nell’altra stanza. Decido di ispirarmi a un altro libro e, dopo averlo individuato, lo sfilo dall’insieme ordinato dei testi in attesa sullo scaffale. La decisione di utilizzare qualcosa che altri hanno scritto, non deriva da mancanza di idee personali o di possibili argomenti. Lo scopo, non so quanto sensato e coraggioso, ma al momento convincente, è quello di condividere con lei le emozioni che io stesso ho vissuto avvicinandomi a quei testi. Ulteriore esito sperato è quello di eliminare il rischio di utilizzare argomentazioni retoriche o di scontato accesso, che di sicuro sceglierei per ottenere il massimo risultato. È troppo forte il desiderio di testare la nostra vicinanza, la nostra affinità. Oggi non scelgo un libro di poesie, ma un romanzo. Si tratta di un libro che ho letto alcuni anni fa e che mi aveva colpito per la semplicità e immediatezza delle sensazioni che descriveva. In esso trovai piccole parole cariche di significati, piccole frasi ispiratrici di riflessioni introspettive, piccole pagine in cui ritrovare la propria passione. Ora ho bisogno proprio di questo. Lo sfoglio passando con rapidità da un punto all’altro. Senza soffermarmi un attimo di troppo, scarto tutte le dichiarazioni convenzionali, le scontate valutazioni, i generici riferimenti, le autocelebrazioni. Voglio un episodio di vita, una circostanza che abbia elementi di astratta concretezza, una situazione banalmente speciale. Voglio pensare a noi insieme.


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Il tipico profumo della carta stampata, complice il rapido scorrere delle pagine, si diffonde nell’aria riempiendomi le narici. I fogli ruvidi sfilano veloci sotto le dita frettolose. Penso a ciò che voglio esprimerle e mi ritorna alla mente un capitolo in particolare, un insieme individuato di parole allineate secondo regole sintattiche e semantiche. Ho scelto. Digito e invio. Penso alle paure che mi hanno dominato fino a poche ore fa e ricado nel timore dell’incertezza. Devo andare avanti ma, nello stesso tempo, mi trovo nella necessità emotiva di erigere una barriera a mia difesa, una trincea che mi consenta di vedere senza essere visto, una protezione che mi conservi da eventuali e inaspettati attacchi. Utilizzo una barriera di fortuna, capace di adattarsi a molte situazioni. Cerco di illudermi che non ho bisogno della sua risposta. Mento a me stesso dicendo di essere interessato a lei solo perché mi è sembrata una ragazza carina, perché era vestita bene, perché mi affascinava il suo modo di ballare, la sua voce, il suo sorriso. Perché....?! Devo evadere, devo vestirmi e uscire. Ho perso tempo, non posso fare colazione. Pazienza. Prendo la moto. L’accensione e diretta, il rumore pieno e caldo, le vibrazioni poderose. Indosso il giubbotto chiudendolo fino alla gola, calzo i guanti di pelle nera, tiro indietro i capelli e infilo il casco allacciandolo con cura. Avverto subito la pressione sotto il mento, il dolore della sicurezza. Inspiro e riempio i polmoni di un nuovo giorno di primavera. Una piccola pressione verso il basso con il piede sinistro e parto.


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17 – QUINDICI ANNI

Sto viaggiando veloce a soli trenta centimetri da terra. I miei occhi guardano verso il basso l’asfalto grigio e granuloso che sfila via sfocato, senza soluzione di continuità. Navigo nelle acque scure del tempo, pensando al mio passato. Quanto mi piacerebbe rivivere oggi le emozioni dei miei quindici anni. Quando avevo, come tutti i miei coetanei, il diritto di sognare senza ambasce di alcun tipo, senza quella gabbia di doveri che finisce in modo inevitabile per circondarti, facendoti dapprima compiacere del fatto che stai crescendo, per poi farti rimpiangere la libertà adolescenziale. All’età di quindici anni a chiunque è riconosciuto il diritto di sognare e il tempo per farlo. A quindici anni si è apprezzati proprio in relazione ai sogni che si è in grado di fare, alla loro capacità di esprimere libertà e di emozionare chi li ascolta. Non ricordo quale sia stato il crocevia, lo spartiacque. Quando il momento, l’attimo. Quali le condizioni, le circostanze in cui i sogni che facevo sono cambiati. Non ricordo a che punto del mio percorso i sogni che mi sembravano realizzabili e vicini, sono fuggiti via, verso un punto incerto e irraggiungibile, lasciandomi solo la possibilità di osservarli da lontano. Ho scarsa memoria di quello che sognavo a quell’età. Di sicuro non volevo diventare un ballerino, un cantante o una star del cinema. Oggi so di non volere queste cose. Forse il mio desiderio è sempre stato quello di essere capace di emozionare chi stava intorno a me, di essere capace di amare, di essere amato. Di essere importante per qualcuno, di essere considerato una persona nelle cui mani affidare la propria vita. Ripenso a quante volte sono stato innamorato, ripenso a quante volte il suo cuore non è stato mio. Ripenso al mio primo amore. Avevo, appunto, quindici anni.


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Lei era splendida e dolce. Ai miei occhi risultava la ragazza più bella che avessi mai visto. Mi innamorai subito di lei. I molti anni trascorsi non hanno in alcun modo intaccato il pensiero di lei, che conservo ancora prezioso e nitido nella mia memoria. Altrettanto è avvenuto per la sua immagine chiara e completa, che posso rivivere davanti ai miei occhi in ogni istante. Quanto mi sentivo vivo vicino a lei, quanta gioia a ogni suo sorriso, quanta voglia di ascoltare la sua voce, quanto essenziali erano i pochi attimi che riuscivo a strapparle! Ricordo di aver cercato infinite scuse per incontrarla, quelle possibili e quelle davvero poco credibili. Intanto, il suo cuore apparteneva ancora a un altro. Ricordo di averle consentito di piangere sulla mia spalla quando lui la lasciò, quando volevo dirle che il mio amore era diverso da quello di tutti gli altri e che solo io ero sincero. Ricordo quando avrei venduto l’anima, pur di poter essere io l’oggetto dei suoi desideri. Quando era intenso il desiderio di stringerla forte e baciarla, quando l’aria profumata della primavera già travolgeva i miei sensi. Sono indimenticabili tutti i più piccoli dettagli delle giornate trascorse accanto a lei. Altrettanto preziose le emozioni che era capace di scatenare nel mio giovane animo. Il solo ricordo di quei momenti mi riporta alla passione accecante che annebbiava i miei pensieri, al magico turbamento che provai quando, forse dopo un anno abbondante da quei fatti, la baciai per la prima volta. Quel giorno il cielo era scuro e minaccioso. Io ero più che mai fragile davanti a lei. Ci incontrammo sotto la pioggia che cadeva fitta e rapida sulle nostre teste. Come tutti gli adolescenti odiavamo gli ombrelli ed eravamo zuppi d’acqua. Ricordo di essermi retto a fatica quando, in un impeto di coraggio, mi decisi e le presi la mano. Lei mi assecondò, facendomi capire di piacerle. Ciò mi rese sicuro di me e impaurito nello stesso tempo. Camminammo sotto la pioggia senza parlare, senza guardarci, senza imbarazzo. La camicetta bagnata le avvolgeva il corpo, mostrandone senza filtri i seni già sviluppati e tondi.


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Volevamo baciarci, lo sentivo. Le mani bagnate erano strette in una presa dolce e decisa, le dita intrecciate fremevano del desiderio di esplorare i nostri corpi. Ci sedemmo su una panchina bagnata e scolorita, tra le scritte di chi ci aveva preceduto, scegliendo quel luogo come rifugio. Presi coraggio, tutto il coraggio che avevo e alzai lo sguardo fino ad incrociare il suo. La guardai negli occhi, in silenzio, per qualche attimo. Erano bellissimi, tutto di lei mi piaceva. Anche la situazione sembrava essere perfetta, di quella perfezione che capita forse una sola volta nella vita. Iniziai a tremare fortissimo, come un fuscello, al punto d’aver fatto fatica a tenerle la mano. Non comprendevo cosa mi stesse capitando, avevo completamente perso il controllo, tremavo dentro. Ricordo il suo sguardo, incredulo ma compiaciuto all’idea di poter essere lei a provocare in me una tale emozione. Mi sorrise felice. Non sentivo freddo e non stavo male. Glielo dissi, ma lei lo sapeva già. In pochi attimi aveva preso coscienza di essere lei la causa della mia instabilità. Erano le sensazioni che mi faceva provare, ero indifeso di fronte a lei. Continuò a sorridermi con grande dolcezza ed io la baciai, mentre continuavo a tremare. Fu naturale e bellissimo. Per i suoi contenuti d’amore giovane, incondizionato e non ancora deformato dai paradossi della vita, né dal peso del futuro rispetto a quel momento, quel bacio bagnato dalla pioggia primaverile, su quella panchina scolorita, in quel preciso istante, è stato senza dubbio l’unico vero bacio della mia vita. Non potrò mai scordarlo. Spero che anche lei non lo abbia dimenticato. Rimanemmo su quella panchina per qualche ora a ridere e a baciarci. Intanto, io continuavo a tremare. Più ridevamo e più io, senza riuscire a controllarmi, continuavo a tremare. Ricordo che, come aveva fatto chi mi aveva preceduto, armato di giovanile intraprendenza e di un piccolo ferro trovato lì vicino, incisi i nostri nomi su quella panchina. Ancora oggi, ogni tanto, quando ho bisogno di un sorriso, ritorno in quel posto, mi siedo sulla stessa panchina e ripenso a quella giornata. A quanto il mio piccolo cuore di quindicenne amò, in quell’esatto punto del tempo e dello spazio.


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Chi è che sostiene che gli amori adolescenziali non sono veri amori?! Ancora oggi mi capita di sognarla. Sogno d’aver dinanzi a me l’immagine adulta di lei, sogno di tremare come in quel pomeriggio e tremo per la certezza che non mi capiterà mai più di farlo. Dopo qualche giorno smise di piovere e con la pioggia svanì anche il nostro giovane amore. Lei era sempre bellissima ed io, come ogni piccolo uomo, ero già preda dell’aria volubile della primavera.


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18 – SIAMO TROPPO DIVERSI

Sono ancora in mezzo al traffico, arriverò in ritardo. Adesso non m’importa. La mia mente è altrove. Lontano dalla strada, dal lavoro, dal tempo. Sto di nuovo pensando a lei. Immagino il suo volto e l’espressione che spero abbia assunto, leggendo il messaggio che le ho inviato. Chissà se mi pensa? Se lo sta facendo, quale sfumatura avranno i suoi splendidi occhi, quale sensualità le sue labbra? La immagino chinare il capo verso il display del telefonino. La vedo, mentre lenta raccoglie i capelli, lasciandoli poi ricadere fino ad appoggiarsi sulle spalle. Chissà quando potrò rivederla. Devo sforzarmi di non pensarci troppo. Non voglio essere vulnerabile e dipendente da lei. Non deve monopolizzare i miei pensieri, rendendomi insicuro. Non devo arrivare a essere dominato dagli effetti collaterali, finirei per rovinare tutto. L’aria leggera della primavera è di nuovo dentro di me. Sto volando sulle colline in fiore, sui mari, sui boschi. Mi divido in piccole particelle di polline che, sospinte dal vento, planano lievi, ricoprendo del loro manto tutto ciò che le circonda. D’un tratto mi risveglio dalle mie fantasie, il sole è già alto ed io sono in pausa pranzo. Cammino per i marciapiedi del centro con la faccia all’insù. Lascio che i raggi del sole mi riscaldino le guance, che mi inducano a stringere le palpebre per proteggere gli occhi dall’intensa luce. Telefono a Connor. Ho bisogno della sua materialità per tornare allo stato vigile, ho bisogno della sua istintualità per riscoprire il mio involucro di animale su due zampe.


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Devo incontrarlo, devo portare l’attenzione sui livelli più bassi, non eterei, non astratti. Devo ingerire al più presto un po’ d’alcool. Sentire il bruciore giungere allo stomaco per dirmi che sono vivo, che sono carne e sangue, che sono banalmente uomo. Connor arriva. In ritardo. Anch’io questa volta non ho rispettato i patti. Mi vede e mi fa un cenno di saluto, poi si dirige alla cassa. Come al solito, vuole offrire lui. È un tipo generoso, mi piace per questo. Di sicuro è stato cresciuto in questo modo, i suoi genitori devono essere due brave persone. «Hei gringo» mi dice dandomi una vigorosa pacca sulla spalla, forse per cercare di riportarmi alla realtà dell’adesso. «Sei ancora sotto effetto ipnotico?» continua ironico. Poi, dopo una brevissima pausa, aggiunge: «Si vede che ancora non te l’ha data, vedrai che dopo ti passa! Succede sempre così, prima ti fanno sognare con le loro mutandine di pizzo e il loro push-up, con le loro vocine delicate e le loro carezze ingenuamente maliziose. Poi, appena ti hanno in trappola, schiavo delle loro attenzioni, un bel giorno svelano tutta la loro vera natura, sommergendoti: doveri, impegni, gelosie, incomprensioni e tutte le altre cose odiose tipiche delle donne. Beviamoci su!». Sapevo che la pensava come me sull’insicurezza femminile, sapevo che i suoi toni sarebbero stati ancora più disillusi dei miei. Avevo bisogno di questo. Avevo bisogno di ricordare a me stesso che i rapporti di coppia sono una trappola e che, come si dice: «Siamo troppo diversi». Con il rischio di inciampare nella retorica, sempre presente in questo tipo di riflessioni, alla precedente affermazione deve essere riconosciuta assoluta validità. La verità, infatti, è che siamo diversi, occupiamo anche spazi diversi. La verità è che, salvo un generico insieme di comuni caratteristiche, abbiamo necessità diverse. Da uomo, posso dire di essermi spesso trovato nella condizione di non essere compreso dalle donne con cui ho condiviso i miei momenti. Da uomo, ho bisogno di spazio, di sognare, di farmi trasportare dal vento come se fossi polline, di sdraiarmi sull’amaca a guardare le stelle, di essere rapito da emozioni così forti da eliminare il mio equilibrio. So che queste sono semplici sensazioni e che solo di esse non si può vivere. Mi è altrettanto chiara l’esistenza, nel corso della vita, di


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particolari circostanze che richiedono come necessaria una certa praticità. Le donne che fino ad ora ho incontrato, però, non si sono limitate a qualche generica indicazione su quali potessero essere i momenti in cui desideravano che io fossi più concreto, ma hanno sempre rivelato una estrema concretezza che, come prevedibile, era inconciliabile con il mio spirito. Come mai le donne diventano così concrete? Come mai rivelano interesse prevalente per una realtà fatta solo di bollette, casa, spesa...? Connor mi racconta della sua lei. Di come la loro convivenza si faccia sempre più difficile. Non è un tipo che nelle descrizioni risparmia i particolari più scottanti. Infatti, mi descrive, senza risparmiare i dettagli, con quali incomprensioni quotidiane si deve confrontare. Mi parla delle pressanti gelosie, dei gesti troppo carichi di risentimento. Ritorno alla realtà.


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19 – IL LIMITE DELL’INSICUREZZA

La pausa è finita, ed io devo tornare a produrre, devo ritornare formica. Non posso fare a meno di pensare che non mi abbia ancora risposto. Voglio credere che sia impegnata. Forse sta lavorando, forse studia, forse non le interessa rispondermi. D’istinto cerco di cacciare via tale doloroso dubbio. Non voglio pensare a questa possibilità. Non voglio affrontare la cosa più ovvia. E se il suo cuore fosse già dedicato a qualcun altro? Se avesse già chi la sveglia, magari con un bacio, dopo averle dormito accanto, dopo aver respirato il suo profumo, dopo essersi saziato del sapore della sua pelle? Non voglio pensarci! Mi concentro sul lavoro, non voglio essere preda delle emozioni. Devo resistere alla primavera che a ogni respiro mi attraversa e destabilizza. D’un tratto percepisco una piccola vibrazione. Il segnale viaggia veloce, attraversa i canali dei miei recettori, giunge al sistema nervoso centrale. In un attimo le mie mani sono dentro le tasche. Come un cercatore d’oro setaccio il loro contenuto fino a individuare il telefonino. «Nuovo messaggio di testo». Questo è ciò che leggo sul display, illuminato da una luce verde chiaro. Tremo. Schiaccio il tasto del menù, accedo alla cartella dei messaggi. È lei! Si scusa per non aver risposto prima. Mi dice che sono dolce e della sua speranza, ogni sera, prima di addormentarsi, che un mio messaggio le doni un risveglio speciale. Aggiunge che desidera essere nei miei pensieri, che vuole rivedermi. Sto volando come un granello di polline. Non controllo più le mie emozioni. Le rispondo! No. Forse è meglio di no.


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Forse è meglio lasciarla ancora nell’idea di me che si è fatta. Tattica maschile. Insicurezza... (ma chi, io?!). Pensavo che la sua risposta mi avrebbe liberato dalla tachicardia con cui convivo da stamattina. Beh, non è successo. Il lavoro non impegna neanche un neurone del mio cervello. I miei pensieri sono lontanissimi mentre, distratto, cerco di riempire dei pallosissimi moduli e tutte le altre cartacce burocratiche che pretende il mio capo. L’inutilità di ciò che sto facendo, non mi aiuta neanche un po’ nel vano tentativo di impormi di non pensare a lei. Per la verità, al momento, non c’è altro cui vorrei pensare. È passato l’intero pomeriggio. Ora sono a casa, e mi rendo conto che nessuno dei tentativi, cui sono ricorso durante l’intera giornata, è bastato a distrarmi, a farmi dimenticare il bisogno che sento di provare la sensazione tattile prodotta dalle mie mani sulla sua pelle. Nonostante ciò, resto della stessa idea. Non voglio chiamarla. Mi scoprirei troppo, non voglio farlo. La chiamo. «Ciao» mi dice senza neanche chiedere chi è che parla. Provo un senso di piacere. Deve avere il mio numero memorizzato! Muoio dalla voglia di scoprire se lo ha registrato con il mio nome o con un nome di fantasia che ha scelto per me, sono curioso di sentire quale tipo di suoneria ha scelto per avvisarla del fatto che ho voglia della sua voce. «Ciao» rispondo. La sua voce è dolce e morbida come la ricordavo. Mi sposto, vado fuori e mi sdraio sull’amaca. Non è ancora buio, ma si vede già la luna alta nel cielo. Questa notte niente stelle. Le chiedo cosa pensa della primavera, del suo profumo. Le chiedo quali sensazioni tutto questo le suscita. La sua voce esita un istante, lasciandomi capire che non ha inteso il senso della mia domanda. Assumendo un falso tono indispettito, mi dice: «Hai forse deciso di prendermi in giro!». Le domando: «Sei in casa?». «Si» mi risponde. Dico: «Hai un terrazzo, un balconcino, una finestra che si affaccia in direzione di un gruppo di alberi, di un giardino o di qualcosa del


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genere? L’accesso a un luogo dove puoi avere un contatto diretto con la natura, verso uno spazio aperto, ventilato?». Lei mi risponde: «Sì, certo, cosa devo fare?». La guido, mentre cammina per casa. Sono con lei, mentre apre la finestra. Le dico di affacciarsi, di chiudere gli occhi e di rilassarsi. Poi le dico di inspirare profondamente, di non fermarsi all’odore superficiale dell’aria, di cercare un profumo dolce, fresco, morbido. Le dico di rimanere con gli occhi chiusi, per non permettere alla vista di deviare l’olfatto da questa ricerca, per non permettere alle cose che la circondano di invadere la sfera delle sensazioni pure, alterandola. Le dico di cogliere le emozioni istantanee, quelle che le arrivano senza bisogno di elaborazione. Dopo un po’ di silenzio, dice: «Sento il tuo profumo». Rimango senza fiato. Mi chiede: «Ci sei?». La sua voce è consapevole e un po’ divertita. Le dico: «Parli sul serio, è questo che hai sentito, è quello che pensi?». Lei risponde: «Sì, sento il tuo profumo e le tue parole, così leggere. Anche il vento ne è rimasto incantato, permettendoti di arrivare fino a me». Non so più cosa dire. O il mio cuore si è fermato, oppure batte così forte da non potersi permettere neanche la più piccola delle pause. L’unica cosa che riesco a dirle è: «Voglio vederti». Lei risponde che per il momento non può muoversi, mi dice che vorrebbe tanto venirmi a trovare ma che non è ancora il caso. Vorrei correre, bruciare le distanze, esserle accanto, averla accanto. Le auguro la buona notte. Domani sarò lì al suo risveglio. Resto a guardare la luna crescere. L’accompagno nel suo percorso notturno attraverso il cielo.


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20 – È QUESTIONE DI SINTONIA

Mi ha stupito. Non avrei mai pensato che qualcuno ci potesse riuscire. Non avrei mai pensato che ci potesse riuscire in questo modo. Non è un fatto di presunzione. Non penso di essere superiore o diverso da chi mi circonda, ma credo che per stupire una persona sia necessario il realizzarsi di una concreta e profonda sintonia. La questione più importante da risolvere nei rapporti interpersonali, è il mancato realizzarsi di una tale intesa. Da ciò deriva l’incomunicabilità, l’assenza di stupore. Ci sono persone le cui frequenze, meglio accessibili, portano a una maggiore facilità nell’intendersi, anche con essenze diverse dalle loro. Io credo, invece, di avere frequenze poco accessibili. Tutto qua. Quando si colgono le frequenze giuste, si realizza una perfetta sintonia. Ciò che esprimi sarà percepito nello stesso modo in cui tu lo percepisci. Quante volte succede? A me non è mai capitato, salvo questa volta. È la cosa mi ha sconvolto e sorpreso. Avevo intuito che tra noi ci fosse affinità, ma non credevo che si potesse arrivare a questo, che si potesse arrivare a usare le stesse parole per descrivere la stessa sensazione. Detto così sembra anche ridicolo. Si potrebbe pensare che, se le sensazioni sono le stesse, è probabile che anche le parole usate per descriverle siano le stesse. In quanti modi può essere definita la sensazione di amare una persona? Come questa sensazione può essere comunicata alla persona che si ama? Volendolo comunicare a parole, quali e quante parole possono essere usate? No, non è stata una coincidenza. Ho percepito in cuor mio l’eccezionalità dell’evento. Tutto sta, adesso, a non permettere che la sintonia appena nata possa scomparire nei mille solventi che la quotidianità ci scarica addosso.


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Devo continuare a stupirla, a incantarla, a farla sognare. Devo convincerla che ciò che ci sta accadendo è speciale. Resto sull’amaca, non andrò a letto. Questa notte il vento mi sarà complice, cullandomi. Guardo la luna un’ultima volta, immagino di vedervi il suo volto riflesso. Forse anche lei, come me, la sta ammirando. Forse è rimasta, come me, incantata e ferma sulla finestra. Forse anche lei percepisce l’aria volubile della primavera. Forse anche lei sta sognando come me un amore che ancora non esiste. Forse, forse, forse... dormo.


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21 – LA NECESSITA’ DI ANDARE

Sono passati diversi giorni. Ho finalizzato ogni singolo minuto, secondo, istante. La luna ha tracciato il suo percorso luminoso nel cielo, le stelle hanno cambiato posizione. Infiniti i pensieri che hanno riempito e svuotato il mio animo, migliaia i battiti del cuore che ci separano ancora. Ogni mia espressione, atteggiamento, postura, riflette il contenuto dei miei sogni. Ogni sogno che faccio brilla della luce del suo sorriso. Tutte le mattine, appena sveglio, è lei il primo pensiero. Tutte le mattine, cerco di rendere romantico e speciale il suo risveglio. Ogni alba è accompagnata da un piccolo messaggio, diretto a restituirle le emozioni che mi sa trasmettere. Cerco di esserle accanto, di rapirla con parole inebrianti, di trasportarla sull’onda dell’aria leggera della primavera. Voglio coccolarla, non devo permettere alla magia che ci ha unito di svanire. I tentativi di non farmi monopolizzare dall’idea di lei, dal suo profumo, di cui conservo in un angolo della mente intatta memoria, sono falliti. Non ricordavo questo dolce dolore, non ricordavo l’amore. È da molto che non dedicavo i miei pensieri a qualcuno. Questa improvvisa constatazione mi coglie, mentre faccio colazione, mentre mi vesto, mentre accendo la moto. Il rumore della marmitta riempie l’aria di un suono caldo e vibrante. Domino la strada, oggi niente lavoro. Quando ieri il capo mi ha comunicato: «Senti, domani stai pure a casa, prenditi un giorno libero. Hai diverse ore accumulate e sai bene che la politica aziendale è quella di non pagare gli extra», il primo pensiero, quello immediato, istintivo, quello che ti stringe il petto, è stato per lei. Volevo andare da lei, volevo raggiungerla, volevo accarezzarla, volevo... Poi ho capito che sarei stato troppo vulnerabile ed ho avuto paura di


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chiamarla. Ho avuto paura di chiederle di passare una giornata con me. Ho avuto paura del suo possibile rifiuto. Cos’altro fare se non partire senza meta, assaporando l’aria, con l’animo leggero di chi viaggia inseguendo il sole. Vado verso sud. A chi non è mai venuto in mente di farlo? Di partire senza interrogativi, libero dai risultati, dal tempo. Del tutto libero, però, non sono. Vorrei che lei fosse con me, vivere insieme questa avventura di un giorno. Prendo l’autostrada, non voglio lasciare incompiuta la mia fuga. Devo andare lontano, il più lontano possibile. L’asfalto corre veloce a trenta centimetri da me, sento il ronzio degli pneumatici consumati dai chilometri. L’aria è calda. Ho già passato molti caselli, inizio a vedere il mare. Voglio arrivare al mare! La costa mi accoglie in tutto il suo splendore. Fermo la moto in un punto panoramico, respiro e percepisco l’odore del sale. Il sole si riflette sul serbatoio. Metto la moto sul cavalletto e stiro i muscoli irrigiditi. Inizio ad avvertire un certo appetito. Riprendo la posizione e mi guardo intorno. Dirigo la moto verso un bar con una grande terrazza, da dove posso osservare l’intero golfo. Mangio con voracità. Oggi ho bisogno di materialità, di appagare i miei istinti. Voglio staccarmi dall’idea di lei, dalla dipendenza da lei. Spengo il cellulare. Ci sono dei giorni in cui bisogna stare vuoti e soli con se stessi. Percorro il lungo mare. Doso con cura l’acceleratore, non voglio bruciare i tempi. Ormai è pomeriggio e l’aria è ancora più calda. Qui il profumo della primavera è più tenue, come vinto dagli altri forti odori che percepisco. Meglio così, oggi riuscirò forse a essere lucido. Mi fermo e parcheggio. Inizio a camminare lento, un passo alla volta, ponderando tutti gli equilibri. Il marciapiede ha un disegno a scacchi. Cammino solo sulle mattonelle


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chiare, poi solo sugli incroci, poi solo sulle linee dei bordi. Voglio sentire la sabbia calda sotto i piedi. Percorro un pezzo di asfalto, poi una passerella di legno e sono sulla sabbia. Tolgo le scarpe e affondo i piedi tra i piccoli granelli. La sensazione è quella di un forte calore, piacevole e doloroso. Attraverso piano la spiaggia, ad ogni passo spingo con forza le dita verso il basso. Il sole mi abbaglia. Ruoto la testa, osservo tutto ciò che mi circonda, osservo i gabbiani volare in alto, osservo la leggera schiuma del mare che si infrange sui vicini scogli. C’è un po’ di vento, che porta piccole particelle d’acqua fino al contatto con il mio viso. Vedo una ragazza seduta in riva al mare, lontano da tutti. Sono un tipo cui non piacciono gli approcci, credo di essere un vero fallimento in materia. Oggi, però, non voglio essere in alcun modo condizionato dal mio carattere “cervellotico”. Voglio fare solo ciò che mi passa per la testa. Quindi, mi avvicino e mi siedo accanto a lei. Ha gli occhi chiusi, forse non si è accorta di me. Passa qualche minuto, mentre lei resta immobile. Non posso credere che non si sia accorta di me, forse vuole giocare. Resto anch’io in silenzio, fermo accanto a lei. Piccole goccioline salate continuano a rinfrescarmi il viso. Sposto la mia attenzione sul mare e sul suo movimento ripetitivo, sulla natura romantica dei misteri celati tra i suoi sconfinati spazi. Non voglio perdermi. Ritorno sulla materialità delle cose che mi circondano. Affondo le mani nella sabbia calda, gioco con i granelli, le tocco una mano. «Ero curiosa, volevo vedere quanto resistevi» mi dice, con un filo di voce. «Resistevo a cosa?» le rispondo io, consapevole di quello che intende. «Alla tentazione di provarci, alla spinta della tua natura di uomo, di cacciatore indirizzato dai propri ormoni» mi risponde. Resto per un attimo spiazzato. Di rado mi è capitato di incontrare ragazze così capaci di essere dirette e chiare. Mi stupisce la semplicità con cui si è rivolta a me anche senza conoscermi, l’assenza di barriere


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intorno a lei. Rispondo: «Guarda che non ho nessuna intenzione di provarci, ti ho toccato senza volerlo (sto mentendo). Anzi, ti chiedo scusa se la cosa ti ha in qualche modo dato fastidio». Nel dire queste parole, cerco di modificare il mio tono di voce, in modo tale da farlo apparire sicuro ed impostato. Lei scoppia a ridere e, alla fine, apre gli occhi. Sono nerissimi, intensi, profondi e vispi. Dice: «Certo che sei proprio sfacciato!». Dopo qualche istante, senza smettere di ridere, continua dicendo: «Adesso scommetto che mi dirai anche che ti sei seduto vicino a me perché tutto il resto della spiaggia era occupato!». Che figura da stupido. «Devi scusarmi» le dico cercando di apparire imbarazzato (dentro di me un interrogativo: «Perché si tende a essere accondiscendenti con le persone che ci appaiono imbarazzate?»). Aggiungo: «Mi sono seduto accanto a te perché avevo bisogno di essere fisicamente vicino a qualcuno». Lei mi guarda in silenzio, si gira verso il mare e poi torna su di me. Mi dice: «Capisco cosa vuoi dire, anche a me capita. Comunque non mi hai dato fastidio, non ti devi scusare». Siamo di nuovo in silenzio, senza imbarazzo, senza bisogno di comunicare, due entità immobili nello spazio e nel tempo. Guardo il suo profilo di nascosto, la linea del volto e la curva morbida dei seni. Ha i capelli molto lunghi, le percorrono la schiena fino ad appoggiarsi delicati sulla sabbia. Continuo a guardarla. Sorride e si volta verso di me. Il suo sorriso è carico di energia, di forza inespressa, di parole da dire e non dette, di baci da dare e non dati. Le parlo. Dico: «Raccontami di te». «Cosa vuoi sapere?» risponde lei, per nulla sorpresa dalla mia domanda. Non ho la più pallida idea di cosa chiederle, in fondo non la conosco neanche. Sono qui per caso. Avrei potuto scegliere di fermarmi al paese accanto, alla via precedente o anche di sedermi lontano da lei, vicino


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agli scogli. Vederla di fronte non mi lascia indifferente, di questo sono sicuro. «Vuoi sapere quanti anni ho, come mai sono qui, da sola, sulla spiaggia, seduta a guardare il mare? Vuoi sapere se porto le mutandine o il perizoma...?». Mi piace il suo modo di fare un po’ provocante e, poiché dalla piega dei suoi pantaloni ho già capito che indossa il perizoma, le chiedo di raccontarmi cosa l’ha spinta sulla riva del mare. Voglio sapere se è una cosa che fa spesso. Quali sono i suoi sogni, quali le sue paure. Mi racconta della sua famiglia, dei suoi genitori divorziati che non ci sono mai. Mi parla del silenzio che da allora è calato in casa sua, di come è cresciuta sulla riva del mare guardando il sole immergersi tra le acque infuocate. Mi racconta di lei e del suo sogno nel cassetto. Vuole girare il mondo, entrare in una di quelle organizzazioni non governative, no-profit, che portano avanti programmi umanitari. Desidera accogliere facce diverse tra le sue braccia, essere parte responsabile del mondo, contribuire a curarne i mali. Regalare sorrisi a chiunque glieli chieda, quei sorrisi che “qui da noi” non contano più nulla. È bello essere qui, in compagnia di questa ragazza che con estrema naturalezza si sta svelando. È rassicurante la calma con cui parla. Vorrei essere io a continuare questa conversazione, a raccontarle di me, di quello che penso, sogno, desidero, delle cicatrici e dei sorrisi. Vorrei, ma mi accorgo che non so cosa dirle, un po’ per timidezza, un po’ per paura di non trovare l’argomento giusto, di non riuscire a stupirla (come mai voglio stupirla?!). Resto zitto, ma non smetto di guardarla. Non riesco a distogliere lo sguardo dal suo profilo. Non posso nascondere che il suo modo di fare abbia esercitato un certo fascino su di me. Sono attratto da questa ragazza in modo spontaneo, come se sapessi già come fare. Qualche minuto insieme a lei e già desidero che, questo pomeriggio, il mio tempo trascorra lento. Adesso anche lei mi guarda. Ha un’espressione interrogativa. La cosa in un certo modo mi imbarazza e spero sia lei a rompere il silenzio. «E tu come mai sei qui?» esordisce lei. Mi diverte il tono che ha assunto la sua voce, come se parlare di lei per


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un attimo l’avesse distratta, facendole dimenticare che, dopo tutto, sono un estraneo. Aggiunge: «Non mi hai ancora detto nulla su di te. A questo punto, credo di aver diritto anch’io alla mia porzione di affari tuoi, o no?...». Potrà sembrare strano, ma è la domanda più difficile che mi abbiano mai fatto. Come posso spiegarle che sono arrivato qua spinto dal profumo della primavera?! Dico: «Ti è mai capitato di avere la certezza che tutto quello che vuoi sia da un’altra parte, ma di non sapere né dove, né perché, né quando? Di aver il desiderio di raggiungere i tuoi sogni semplicemente accelerando? Ecco, questo è motivo per il quale mi trovo qui. Sapevo di dover andare via, ma non sapevo dove». Mi accorgo che le mie parole hanno colto nel segno, ho avuto la certezza di essere compreso, i suoi gesti e l’espressione del suo viso me l’hanno confermato. All’inizio della conversazione lei era girata verso il mare, poi ho catturato la sua attenzione. Adesso mi è di fronte, seduta sulla sabbia a gambe incrociate, quasi in segno di difesa contro qualcosa che è arrivato a colpirla nel profondo. Con le dita giocherella pensierosa sulla sabbia, con lo sguardo si perde tra i granelli, quasi a cercare un primitivo disegno di quel luogo o della sua vita. Continuo a parlare evocando immagini astratte. Continuo in modo spontaneo, senza soffermarmi sui singoli contenuti, nell’intento di tradurre sensazioni pure in verbo. Plasmo le parole affinché possano contenere ciò che è appena palpabile. Svelo pensieri profondi, capaci di richiamare sensazioni dei cui confini io stesso non sono ancora sicuro. Cammino al buio, percorrendo il sentiero delle mie emozioni. Voglio renderne un’immagine fedele. Voglio comprenderle attraverso le spiegazioni che riesco a dare a lei. Mentre parlo, ci alziamo e siamo in strada. Il sole è tramontato e la temperatura non è ancora pronta ad accogliere due pellegrini sulla sabbia. Camminiamo lenti, sul piccolo marciapiede del lungomare. I bar sono chiusi. Non è ancora il momento dei dehors vista mare o dei chioschi, aperti vicino ai muretti popolati di studenti in vacanza. Lei ascolta e ogni tanto annuisce, quasi a confermare il mio misero tentativo di comunicare.


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Ci fermiamo vicino a un albero dai rami cadenti, appoggiati ad una piccola ringhiera dipinta di blu. Mi dice: «Ti va di stare ancora un po’ con me?». Mentre pronuncia questa frase guardandomi negli occhi, con un gesto diretto mi prende entrambe le mani, stringendole forte tra le sue. La domanda mi spiazza. La richiesta così diretta porta il nostro incontro su di un piano che ancora non avevo considerato (non è vero!). Lei mi piace, è dotata di una semplicità estrema, affascinante. Ha negli occhi l’ombra di una luce che tenta di ritornare a brillare, e dalle sue parole traspare il desiderio di essere parte di qualcuno, traspare la convinzione di non essere completa. Penso che mi è già capitato altre volte. Ho un po’ di timore, non credo di essere in grado di colmare questo suo vuoto. Non posso farlo ora.


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22 – IL MECCANISMO DELLE SINGOLARITA’

Sono già in moto. Ho lasciato la visiera alzata, voglio che il vento mi colpisca la faccia, non voglio scudi o protezioni. Mi sento in colpa. Le ho detto che per me era già tardi, che mi aspettava ancora un lungo viaggio fino a casa. Mi sento in colpa per averla lasciata sola, con il suo vuoto intatto e con quella luce sommessa negli occhi. Ho sempre avuto paura di affrontare una situazione del genere, ho sempre avuto timore delle persone che aspirano alla fusione di due singolarità in un’unione poco credibile. Trovo che questo sia un equilibrio molto delicato per me, un equilibrio all’interno del quale non saprei come equilibrarmi. Sono certo che sarebbe troppo forte il desiderio di scappare via, di liberarmi del mio contrappeso. Penso di essere solo ancora un po’ immaturo. Comunque, sono convinto sia difficile che nelle due singolarità di una coppia esistano e persistano le stesse consapevolezze e gli stessi bisogni. Qualcuno dice che i rapporti di coppia siano un delicato meccanismo, per il cui funzionamento una delle due singolarità deve cedere una porzione di se stessa all’altra, in un estremo sacrificio, in una suprema immolazione dei propri sogni a favore della semplice esistenza di quest’essenza plurale, sicché, al posto di divenire elemento di qualcosa di più grande che in tutto la comprenda, diviene mero strumento per l’attuazione di scopi che non sono neanche in parte i propri. Non credo di essere in grado sopportare ciò, non credo di poter essere parte di questo meccanismo, neanche se ne fossi la parte dominante. Sono confuso. Non riesco a mettere a fuoco l’idea che ho dell’amore. Non riesco a capire cosa sia stato a spingermi a fuggire in questo modo e cosa, invece, mi tenga legato con avidità a un messaggio, destinato a rendere


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speciale il risveglio di una persona altrettanto sconosciuta. Mi chiedo se sia possibile essere suscettibile di divenire, secondo i casi, la parte dominante, ovvero colui che deve essere disposto a rinunciare a una parte di sé. Tento con forza di evocare alla memoria esempi di equilibrio di cui ho avuto prova, anche se in modo mediato, attraverso il semplice racconto di qualcuno. Può l’egoismo delle proprie sensazioni trovare un contrappeso tale da non essere messo in pericolo? Un contrappeso che consenta il semplice bilanciamento, senza commistioni di alcun genere? Una coppia che sia piacere allo stato puro, senza dipendenza alcuna? È possibile che una cosa del genere possa essere chiamata amore? O forse nell’amore è implicito il bisogno? È possibile essere così pazienti e rispettosi, da non confondere a tutti i costi la propria vita con quella di qualcun’altro, viaggiando insieme su due binari paralleli, con l’unica cautela di effettuare quegli spostamenti necessari al tragitto? È possibile amare qualcuno, essere estasiati dalla sua sola presenza, vedere negli occhi di chi ci sta accanto la propria vita, avere la sensazione di ritrovare nell’altro la propria verità, il proprio orizzonte, il proprio confine? Forse non ho mai amato. È questa la conclusione cui arrivo mentre la strada scorre veloce a trenta centimetri da me. Non ho mai avuto l’impressione di non poter vivere senza qualcuno, di essere senza fiato a causa dell’assenza della persona che, a questo punto, credevo di amare. Vorrei essere diverso. Vorrei essere capace di privarmi di me stesso per il mio amore, di vivere le emozioni forti dell’assenza e della presenza, di brillare nelle conferme e spegnermi nelle crisi, di volare chiudendo gli occhi accanto a lei e precipitare guardando le stelle da solo. Vorrei provare tutte ciò sulla mia pelle, vorrei sentirmi vivo. Continuo a viaggiare veloce con questi interrogativi nella mente. Accelero cercando di lasciarmeli alle spalle. Sono a casa. Il telefonino è ancora spento. Non so perché, ma ho paura di accenderlo.


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Sono combattuto tra il desiderio di trovare un suo messaggio e quello di non arrivare a rovinare le sensazioni che fino adesso questo nonrapporto mi ha dato. Vorrei che il mio batticuore durasse per sempre, nell’affanno di inseguire l’idea di un amore che mi è fuggito tra le mani, di un treno che non sono riuscito a prendere. Accendo. Non trovo alcun messaggio. Il mio batticuore aumenta, mi siedo sconfitto. Ho preso troppo freddo in moto, questa notte non guarderò le stelle. Rimarrò dentro casa. Mi sdraio sul letto. Tento di riordinare la confusione presente nella mia mente e nelle mie emozioni, cerco di ricomporre i confini tra la razionalità dell’amore e l’irrazionalità dell’innamoramento. Voglio sfuggire alle mie paure. Sogno. Ci sono io in mezzo al vuoto. D’improvviso avverto la sensazione di essere sbalzato a gran velocità verso l’alto, perdendo il contatto con il terreno. Intorno a me emergono figure simili per forma a delle nuvole, ma più consistenti. Tento di toccarle, ma non ci riesco. Sento un’incolmabile distanza. Poi, di nuovo il vuoto intorno a me. Altre figure sostituiscono gli spazi vuoti e mi circondano. Sono desideri, sensazioni, paure. Tutto è immerso in un’oscurità irrazionale, fatta di impossibili codificazioni. Un’oscurità che non mi consente di avanzare, troppo tortuosa, in perenne mutazione. Tanto densa che mi impedisce di vivere di pure sensazioni, semplici, immediate come ciò che è più naturale provare. Sono sopraffatto dall’affanno, sono stremato dal tentativo di nuotare dentro questa melma che, con estrema violenza, mi avvolge e mi allontana da ciò che desidero, nel più profondo senso di vuoto. Sono sveglio. Nell’aria c’è un suono remoto. Confuso e spaventato non capisco cos’è. Guardo la sveglia ed è notte. Realizzo. Ciò che percepisco è la suoneria del telefonino! L’intento di arrivare in tempo a rispondere è reso più difficile dall’incertezza dei miei passi, nel buio della stanza. «Ciao» esordisce. È lei ed ha una voce incredibilmente sicura, una voce che nasconde l’assenza di bisogni e che vive di puro piacere, senza costrizioni,


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doveri, obblighi o ipoteche. «Mi divertiva l’idea di svegliarti, volevo sentirti» continua. Le sue parole mi raggiungono. Con stupore, mi rendo conto di sentire di nuovo l’aria inebriante della primavera che mi avvolge. In lei non esiste bisogno, solo piacere istantaneo, concentrato su ciò che sta vivendo. Sento nella sua voce un mondo diverso dal mio, l’assenza di razionalità. Le dico che desideravo sentirla e che ho pensato a lei. Mi accorgo che nelle mie parole, invece, c’è un estremo bisogno di contatto. Voglio essere coinvolto da lei e dalla sua personalità. Mi dice: «Sei sicuro che è tutto a posto, ti sento strano, forse ti disturbo?». Capisco di non essere riuscito a suscitare in lei le sensazioni che desideravo. Nella sua voce c’è il distacco di chi sente il peso del bisogno altrui. Comprendo di essere nella stessa posizione creatasi tra me e la ragazza della spiaggia. Voglio uscirne subito! Tergiverso, pronuncio qualche parola senza senso. Le dico che ho avuto una giornata strana e che ho fatto un brutto sogno. Mi dice: «Mi dispiace. Invece io oggi ti ho pensato tanto, ho letto tutti i messaggi che mi hai mandato. Sai che li ho trascritti tutti? Sono così belli! Non mi è mai capitato di incontrare una persona come te. Di solito i contenuti sono molto più diretti e banali». Le sue parole così spontanee mi fanno sorridere. È capace di rendermi allegro. Sono affascinato dalla vitalità che esprime con il suo modo di fare. Vorrei che continuasse a parlarmi per tutta la notte. Vorrei essere cullato dalla sua curiosità viva, dalla semplicità che esprime. Vorrei essere avvolto dal suo profumo. Mi dice: «Buona notte. Spero che, adesso che ci siamo sentiti, tu possa fare un bel sogno. Sarei felice di trovare un tuo messaggio al mio risveglio, così anche domani sarà un giorno speciale». Resto immobile, sdraiato a pancia in su. La stanza è illuminata da una morbida luce che proviene da fuori. Tutto intorno a me risuona ancora la sua voce che, come un petalo, resta sospesa a mezz’aria. La finestra, aperta con delicatezza dal vento, lascia passare un soffio di primavera richiamata dalla sua presenza nei miei pensieri, dalla forza magnetica del mio desiderio di lei.


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Penso alla ragazza della spiaggia e alla molteplicità di esperienze presenti nello stesso momento in luoghi diversi. Penso a come le sensazioni non siano sempre reciproche. Sono colto dal desiderio di saziarmi di queste diversità. Vorrei trovare la chiave di volta delle emozioni pure, riuscire a viverle nello stesso modo in cui le vive lei, seduta in riva al mare, sognando di fuggire e di essere importante per qualcuno. Amareggiata dalle coincidenze della sua vita, dall’assenza di stimoli, desiderosa di offrire se stessa senza vincoli, di dissolversi nell’amore in un estremo gesto. Penso e rimango vigile nel silenzio della mia stanza, nel rumore dei battiti del mio cuore, cercando il ritmo del mio respiro. Penso a quanto è facile amare e alle difficoltà insite nell’essere amati. Penso alla possibilità di modificare la vita di qualcun altro e alla responsabilità che ne deriva. Ho paura di questa responsabilità, non la voglio! Sento di essere in grado di reagire alle mie sensazioni, anche alle più dolorose, alla tristezza, allo sconforto, al pessimismo. So come reagire a me stesso, come riprendere le redini della mia vita, come tirarle e sostare, come calciare e ritornare al galoppo. Ma ho anche la piena consapevolezza di trovarmi lontano anni luce dalla capacità di essere amato, dalla capacità di consentire a chiunque l’ingresso nella mia vita. Inoltre, ho paura delle emozioni negative che posso provocare e non voglio avere questo peso sulla coscienza. Non mi sento pronto per le aspettative. Chissà dov’è in questo momento la ragazza della spiaggia. Chissà quali emozioni le ho trasmesso. Forse è tornata in riva al mare. Vivere la magia dell’alba, accogliere il risveglio di una cosa importante, un desiderio, un sogno. Avere un raggio di sole tutto per sé. Raggi di un’altra vita che sorge e tramonta in modo indipendente da lei e me, una vita che in quel momento e in quel posto e lì per lei, è lì per risvegliarla, è lì per coccolarla e per illuminarla. Chissà se quella luce sommessa troverà mai il modo di brillare e illuminare ciò che la circonda. Perché è più facile essere affascinati da chi quella luce riesce a viverla in modo autonomo, piuttosto che dall’idea di essere l’artefice della nascita di un nuovo bagliore, di un bagliore che potrebbe oscurare


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perfino il sole, in un’eclissi emozionale? Sento la responsabilità di non averci provato, sento la sconfitta derivante dall’aver cercato la soluzione più facile. Di essermi fermato alla copertina di un libro scritto in una lingua diversa dalla mia, senza tentare nemmeno una traduzione, anche parziale, anche imprecisa, anche fantasiosa. Sento la sconfitta di non aver considerato le potenzialità di quel bagliore, di aver inseguito una luce già viva e indipendente da me, piuttosto che tentare di avere una luce tutta mia, che brilla per me e solo per me. Ed io? Qual è la mia luce? È presente in me questa luce, oppure è ormai offuscata dalla razionalità cronica che mi incatena? Legata dall’introspezione improduttiva? L’alba rischiara anche la mia stanza. Chiudo gli occhi. Voglio volare via ed essere con lei. Non voglio che sia sola. Sono seduto accanto a lei in riva al mare. Le tengo la mano, la brezza muove i suoi capelli e mi sfiora il viso. Lei chiude gli occhi e inspira. Nel rossore diffuso dell’alba, la luce le accarezza le palpebre. Mi stringe la mano. Resto accanto a lei. Sento il suo profumo e quello del mare. Sento il mio profumo in quel momento e in quel posto. Sento la gioia di non averla lasciata sola. Vedo le sfumature del suo viso, illuminato dal primo sole del mattino. Spero che quella luminosità resti impressa sul suo volto e che la ricerca di quel sole divenga il suo scopo recondito. Ritorno alla mia stanza, consapevole che ciò non è accaduto e che io non sono lì con lei. Prego, affinché anche una piccola parte dei miei pensieri le sia arrivata. Non so come, ma spero che li abbia percepiti nell’aria e nei raggi generosi del sole, nella brezza del mare e nell’immagine riflessa nelle sue palpebre chiuse. Nel rossore diffuso del cielo e... Resto sul letto. Ho la sensazione di non comprendere più il disegno presente dentro di me. Ho la sensazione di essere lo spettatore di uno spettacolo che avanza senza controllo. Come se stessi viaggiando guardando fuori dal finestrino, senza riuscire a cogliere i confini di ciò che vedo, senza distinguere le sfumature.


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Penso alle sfumature della mia vita e mi chiedo se sono riuscito a coglierle o se ho continuato a viaggiare come un semplice e distratto spettatore. Se almeno le ho percepite anche senza interpretarle o viverle in pieno, se esiste in me una minima consapevolezza del percorso che devo fare. Mi chiedo quali sfumature produco io nella vita degli altri. Ammesso che io sia in grado di produrle, mi chiedo se io abbia mai consentito a qualcuno di viverle e di coglierle. Mi chiedo se il percorso che sto facendo sono riuscito a sceglierlo. Forse ho scelto il percorso piÚ semplice, rinnegando l’essenza pura delle mie sensazioni.


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23 – IL RICHIAMO DEL BATTITO

Sono sdraiato sul letto. Respiro. Sono immobile. Nulla intorno a me è in movimento. Nessuna presenza oltre la mia. Distinguo il ronzio dei miei pensieri. Guardo il soffitto. Mi soffermo sul lampadario. Innumerevoli le volte in cui, osservandolo, mi sono ripromesso di cambiarlo e non l’ho mai fatto. Percorro il perimetro dei muri che mi circondano, scruto in ogni angolo. Dentro ogni ombra immagino un segreto, dentro ogni cassetto è presente un sogno inevaso. Ormai è mattina. Cerco il calore dei raggi del sole sui piedi, vicino alla finestra. Mi sporgo un po’ per guardare fuori, ma non scorgo molto. Le tendine chiare sulle mie finestre non permettono immagini nitide, sono come un filtro, una protezione contro sguardi indiscreti che nessuno farà mai. Come una piccola rondine che non ha ancora imparato a volare, muovo ripetutamente le braccia come fossero ali. Sfrego con forza il palmo delle mani sulle coperte che mi circondano e le sento fredde, ruvide, tese e vuote. Non ho dormito neanche un minuto per tutta la notte. Non sono riuscito a contenere l’emozione, la paura, il susseguirsi nei miei pensieri di mille aspettative, di immagini. Di parole, che so già di non avere il coraggio di pronunciare. Oggi, dopo una lunga attesa, la rivedrò. Ho sete del suo profumo, non posso più resistere. Ripenso a quando ieri, al telefono, mentre ero per strada, me lo ha comunicato. Mi ha detto: «Ti va se ci vediamo domani?». Ha pronunciato questa frase come se per lei fosse naturale, come se non avesse patito per nulla l’attesa, come se tutto ciò non fosse per lei altro che un divertimento.


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E in fondo che cos’è? In fondo, non è forse solo un anonimo divertimento? Cosa c’è di serio o di sicuro, su quali punti fermi posso contare o fare affidamento? Quali punti fermi le ho dato? Sono confuso. Non mi è ancora chiaro quale sia il mio ruolo, quale il suo, quale il motivo del batticuore che non mi dà tregua. Quale il motivo di questo affannarsi, di questo rincorrerla, di queste attenzioni, di queste dolcezze, di questi pensieri. Cosa mi aspetto di vivere? Un grande amore? Una storia fantastica da romanzo o da cinematografo? Una passione sconvolgente? Un po’ di sesso senza troppe pretese? Io cosa posso dare? Sono in grado di amare, sono in grado di bruciare di passione? Non lo so. Non lo so. Allora?! Mi volto. La luce inizia a darmi fastidio. Nonostante ciò, non ho alcuna voglia di alzarmi per chiudere le persiane. Affondo la faccia nel materasso, sotto il cuscino, che tengo schiacciato sulla nuca. Provo una piacevole sensazione di isolamento. I rumori mi arrivano lontani e ovattati, frutto di un’incerta eco. Con l’indice della mano destra disegno piccoli cerchi sulle coperte e con i piedi tamburello sul materasso. Ricordo un gioco che facevo da bambino, prima di addormentarmi. Bisogna essere in grado di trattenere il fiato il più a lungo possibile. Si deve appoggiare un orecchio sul materasso in modo che aderisca bene e coprire l’altro con il cuscino. Bisogna esercitare una certa pressione, in modo da riuscire a non sentire più alcun rumore. Quindi, è necessario chiudere gli occhi, cercando di annullare tutti i sensi. Solo l’udito deve essere pronto a percepire il battito del proprio cuore. Questo inconsueto gioco richiede molta concentrazione. La contrazione regolare e cadenzata del muscolo cardiaco, produce delle vibrazioni che si trasformano in un suono molto leggero, in genere non percepito, salvo che si posi l’orecchio sul petto di qualcun altro. Qui, però, è diverso. Qui si deve sentire il proprio battito, non quello di


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un’altra persona. Con l’orecchio sul materasso si può, usando come insolito e inusuale mezzo di conduzione il tessuto sottostante. Poggio l’orecchio sul materasso, trattengo il fiato e dopo qualche secondo sento il battito, il battito del mio cuore. Sento il battito che sta pronunciando il suo nome. Sento il battito che non conosce attese, il battito che vorrebbe bruciare tempo e spazio, che non concepisce limiti, che non ha freni.


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24 – ANCORA QUALCHE ORA

Dovrò aspettare ancora qualche ora prima di rivederla. L’appuntamento è alle sei di questa sera e ora sono solo le dieci del mattino. Oggi, per la prima volta da quando la conosco, non le ho mandato il messaggio del buon giorno. Oggi, voglio che anche lei conti le ore, che senta la mia mancanza, desideri il mio odore. Non posso fare a meno di pensare a cosa stia facendo, a cosa ha fatto in tutto questo tempo. Mi rendo conto che non conosco la sua vita se non attraverso le sue poche parole. Rifletto. Se considero il fatto che anch’io, come molti altri, nel descrivere la mia vita non potrei essere definito una persona che si attiene alla stretta realtà delle cose, forse non so proprio nulla di lei. La cosa strana è che, nell’assumere io questo atteggiamento, ero convinto di alterare in modo innocente la realtà e di farlo a fin di bene. Credevo di aggiungere soltanto qualcosa di non fondamentale. Ora, invece, mi rendo conto di quanto, in queste situazioni, tutto sia fondamentale. Mi è chiaro come ogni dettaglio sia preso, pesato e considerato importante e come tutte le azioni conseguenti siano calibrate su queste labili certezze. Quindi, riassumendo, non ho certezze. I dubbi, al contrario, sono innumerevoli. Come mi dovrò comportare? Quali vestiti dovrò indossare? In che posto dovrò portarla? Con che tono di voce dovrò iniziare la conversazione? Di cosa dovrò parlare? Come mi dovrò pettinare? Quali caramelle dovrò mangiare per evitare di emanare cattivi odori? Le domande piovono fitte nella mia mente, formano pozze profonde, trascinano come una valanga tutto ciò che trovano. Vorrei che il nostro incontro fosse speciale. Vorrei che l’aria semplice


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della primavera mi aiutasse a trovare le parole giuste, parole dolci da sussurrarle piano. Vorrei un angolo illuminato da una candela. Vorrei che della musica dolce accompagnasse ogni nostro gesto. Vorrei perdermi nella luce dei suoi occhi. Vorrei sciogliermi sulle sue labbra morbide, cogliere ogni suo sorriso e chiamare una stella con il suo nome. Questa attesa è insopportabile! Continuo a sentire il battito del mio cuore che, come un orologio, segue lo scorrere del tempo. Piccolo cuore mio non ti affaticare, non battere più veloce del necessario, tanto l’odioso tempo non accelererà il suo corso. Lui non si cura dei tuoi desideri, non accetta compromessi, non prova pena per le tue sofferenze. Il tempo non ha sentimenti, non ha bisogni ne desideri. Non conosce le distanze, per lui ogni luogo è tutti i luoghi, ogni momento è tutti i momenti. Questo è il tempo. Impaziente e avido di rivederla, seguo come sotto ipnosi la lancetta dei secondi, che scorre lenta ed impassibile. Continuo a fissare la sveglia blu, appoggiata sul comodino, in un angolo. Mi chiedo come mai, quando si desidera che trascorra lento, il tempo sembra correre a più non posso, anticipando, privandoti del sapore d’ogni istante. Adesso, invece, che darei qualsiasi cosa per veder sfilare via i minuti uno dietro l’altro, ogni minuscolo secondo è capace di contenere innumerevoli pensieri. Sono irrequieto. Mi alzo e cammino senza meta per la casa. Esco dalla camera ed entro nel soggiorno. Accendo la tv, ma non ho voglia di guardarla e la spengo subito. Per qualche istante osservo ciò che mi sta intorno. Poi proseguo verso la cucina. Accendo il fuoco. Prelevo un pentolino dallo scolapiatti, vi verso dentro un po’ d’acqua e lo poggio sopra il fornello. Vedo le pareti metalliche appannarsi in un attimo e, con la stessa rapidità, tornare lucide e riflettenti. Dal pensile aperto arriva forte l’odore del the, di cui conservo una selezione di gusti e aromi. Ogni scelta, adesso, mi è impossibile. Allungo la mano e prendo la prima scatola che mi capita. Una tisana.


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Forse è proprio ciò che mi occorre. Sento il bisogno di rilassarmi un po’ o, almeno, di trovare il modo di sopportare l’attesa. L’infuso è pronto. Apro la porta. Mi siedo fuori e sorseggio piano dalla tazza fumante. Guardo le nuvole bianche e pannose affollare il cielo e gli uccellini svolazzare allegri. Una leggera brezza muove le foglie, animando il paesaggio. Voglio essere ottimista e fiducioso, voglio credere che sarà una serata speciale, che il suo profumo mi farà girare la testa, che le sue mani stringeranno forte le mie, che le mie labbra solcheranno le linee sensuali del suo collo. Penso a quanti primi appuntamenti ci sono alle mie spalle, penso a quanto è bello ritrovarsi di nuovo a provare queste emozioni. Inspiro l’aria profumata della primavera, che subito avvolge i miei pensieri, colorandoli. Tengo la tazza con entrambe le mani. Ne ricavo una piacevole sensazione di tiepido calore. Il sound delicato di un blues d’autore mi accarezza mentre, al centro della pista, sono vivo e vitale nel mondo. Riscopro morbide sensazioni propositive, atteggiamenti trainanti e coraggiosi. Desidero affrontare la vita, vada come vada.


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25 – OGGI USERÒ LA MACCHINA

Sono in bagno. Osservo attento il mio viso riflesso nello specchio, sopra il lavabo. Cerco di ritrovare nella memoria una precisa idea di me, nei miei occhi un barlume di concretezza. Guardo un’ultima volta l’orologio. È quasi ora di partire, devo sbrigarmi. Anche gli ultimi ritocchi falliscono, come del resto tutti i tentativi precedenti. È strano, ma non riesco mai ad avere l’aspetto che desidero. Speriamo che gli altri non mi vedano come io vedo me stesso. Occorre una terapia d’urto: riempio le mani di spuma e le agito con forza sui capelli, distruggo ogni ordine e poi li lascio andare. Sono le cinque e devo percorrere parecchia strada per poterla raggiungere. Oggi userò la macchina. Non posso rischiare di presentarmi in moto e di farla morire di freddo. Io sono un vagabondo, lei un fiorellino delicato. Quindi, massimo rispetto. Le chiavi sono nel cassetto, un piccolo gesto e le ho in pugno. La macchina, come al solito, è impolverata. Lungo la strada, con una piccola deviazione, dovrò riuscire a fermarmi in un autolavaggio. Pulire e profumare: shampoo, spugna e deodorante. Mi siedo al volante, inserisco la chiave e metto in moto. Attendo qualche istante, controllo spie e carburante. Motore caldo, giri regolari. Sinistra e avanti, infilo la prima. Ora posso partire per il mio appuntamento. Spero di non aver esagerato con il profumo, di aver messo gli abiti giusti, di aver pensato a tutto. Mi auguro che non faccia troppa attenzione ai miei capelli, li sto guardando dallo specchietto retrovisore e sono orrendi! Arrivo all’autolavaggio. Uno di quelli automatici.


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Primo step. Per cominciare è bene preventivare almeno un quarto d’ora, necessario al solo fine di riuscire a infilare una stramaledetta banconota da cinque euro nella fessura del cambiamonete. Di solito, tale fase è arricchita da alcuni insulti lanciati alla cassiera del supermercato che, l’ultima volta che hai fatto la spesa, ti ha dato per resto una banconota masticata da un mastino. Inutili poi i tentativi di farti cambiare quella banconota dalle persone che ti circondano. Secondo step. Solo un fisico atletico ti potrà consentire di oltrepassare per tempo le paratie di protezione, salvandoti dalla pioggia di schizzi che altrimenti ti colpiranno, quando i getti d’acqua partiranno all’improvviso. Occorre inoltre precisare che, come è ovvio, almeno nella prima fase, non si tratta di acqua troppo pulita. Terzo step. Recuperare la macchina. Detto così sembra facile, ma bisogna considerare la necessità di oltrepassare la pozza creatasi intorno alle portiere, cercando di non vanificare la fatica fatta per pulire i tappetini. Quarto step. Per finire, quando la macchina si sarà asciugata, rimanendo tutta macchiata e graffiata dalle spazzole, sarà necessario fare affidamento a tutta la propria pazienza per non sentirsi come uno stupido che, consapevole di ciò che lo aspettava, ha comunque deciso di fermarsi a lavare la macchina. Comunque, ora non ho tempo per esaminare come al solito tutto ciò che mi circonda, devo lavare la macchina e ripartire. Non bisogna mai fare attendere le signore. Sto viaggiando con il sole in faccia. Ormai sta per tramontare e la sua luce rossa non è più fastidiosa. Con questa brezza, quando arriverò la temperatura sarà di certo più bassa. La serata ideale per un posto intimo e caldo. Se sentirà freddo, come un vero cavaliere, le coprirò le spalle con la mia giacca e, se vorrà, la stringerò tra le mie braccia. Il cielo poco a poco assume toni sempre più rossastri, la luna si lascia già intravedere, bianca, nel cielo. C’è un po’ di traffico. Credo che, comunque, riuscirò ad arrivare in tempo. Davanti a me si accendono le luci rosse delle macchine che mi


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precedono. Nel lettore un cd che adoro. Canticchio, mentre sono fermo in coda al semaforo. Mi sento bene. Tengo sotto controllo i battiti del cuore, scarico i nervi tamburellando con le dita sul volante. Alzo il volume, devo stordire i sensi. Alzo anche il finestrino, devo tenere lontano l’aria inebriante della primavera. Devo arrivare da lei lucido, devo mantenere l’equilibrio. Percorro il corso principale, ormai sono vicino. Ancora poche traverse, pochi semafori, poche aiuole e sarò arrivato da lei. Sfreccio deciso tra le luci dei lampioni che mi illuminano il viso. Eccola, la vedo. Mi sta aspettando!


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26 - L’APPUNTAMENTO

Un’esplosione sconvolge il mio petto, una raffica di sensazioni rimescola l’equilibrio che credevo di aver raggiunto. Accosto la macchina vicino al lei e scendo. I pochi passi che ci separano sono difficili da percorrere. La visione del suo volto sorridente mi arriva come in un replay mal sincronizzato. I miei sensi sono azzerati. Su tutto emerge il suo profumo, diretto e immediato mi arriva come un pugno nello stomaco. Sono senza fiato. Percepisco il movimento delle mie labbra che la salutano, ma non sento il suono delle mie parole, tutto è ovattato e filtrato dall’aria sensuale della primavera. Ho paura di essere in un sogno, di trovarmi addormentato con l’orecchio sul materasso e il cuscino sopra la testa. Per fortuna non è così, anche se ciò che vivo è stupendo come un sogno. Lei è di fronte a me, questa è la realtà. Me ne accorgo quando, per salutarmi, mi sfiora un braccio con la mano. Come due amici, ci baciamo sulle guance. Il suo viso è freddo. Mi odio per averla fatta aspettare e le chiedo se è da molto che mi attende. Tremo, mentre apro la portiera della macchina per farla salire. Seguo con lo sguardo le sue gambe scivolare fuori dalla gonna, mentre si siede. Il respiro si spezza quando, sorridendomi, si aggiusta una ciocca di capelli che le era scivolata davanti al volto. Chiudo la portiera con delicatezza e, per qualche attimo, resto immobile a fissarla dal finestrino. Lei mi guarda e sorride. Dopo aver realizzato che forse è meglio smettere di fissarla, con passi lenti e provati dall’emozione, giro intorno alla macchina e salgo anch’io. Sono in macchina con lei. Guido piano per non bruciare alcun momento. La radio accesa con il


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volume basso, per non rischiare di contaminare la dolcezza della sua voce. Seguo rispettoso le linee bianche disegnate per terra, come fossero un binario. È bella come la ricordavo. L’aria già fresca ha disegnato due piccoli cerchi rossi sulle sue guance candide. Con le mani stringe sul petto la giacca. Deve essere ancora infreddolita. Con un rapido gesto ruoto la manopola dell’aria, fino a portare l’indicatore in corrispondenza della striscia rossa: un po’ d’aria calda, forse, le farà piacere. Io, invece, già così sto morendo di caldo. Sarà l’insieme di tutte le forti emozioni che in questo istante occupano ogni mia cellula. Mi piace lo stile che esprime, come è vestita, il gusto che ha messo nell’abbinare i capi, la pettinatura che ha scelto per me. È come se galleggiassi in un vuoto spazio-temporale. Non c’è altro luogo al mondo dove, in questo preciso momento, vorrei essere, se non con lei, qui, ora. Cerco di mantenere lo sguardo sulla strada, cerco di apparire sicuro e affascinante. In realtà, sto morendo dalla voglia di baciarla. In realtà, non mi frega niente della strada, delle altre macchine, dei semafori. Vorrei solo poterla guardare negli occhi e far esplodere il mio cuore. Vorrei stringere le sue mani infreddolite tra le mie. Vorrei assaporare il suo sorriso e il profumo delle sue labbra. Invece, devo continuare a guidare, fingere di essere in grado di mantenere il controllo. Sono costretto dalle circostanze a dominare e reprimere i miei istinti, se voglio mantenermi lucido e presente. Lei, seduta di fianco a me, tenuta ingiustamente a distanza dal cambio e dal freno a mano, mi racconta della sua giornata e di uno strano incontro che ha fatto nella mattinata. Mi racconta di come ha trascritto e conservato tutti i miei messaggi, mi racconta del profumo che ha sentito affacciata alla finestra. Il suono della sua voce riempie l’aria intorno a me. Sorrido e sono felice di averla qui. Siamo arrivati al “caffè dei salici”. Voglio portarla nei miei posti, voglio vedere se piacciono anche a lei. Esco dalla macchina e sono subito pronto ad aprirle la portiera per farla


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scendere. Sono un uomo all’antica, gentile e ben educato. Mi piace la leggerezza con cui mi porge la mano, per aiutarla a uscire dalla macchina. Una fitta al cuore. Adesso è di fronte a me, i miei occhi nei suoi occhi, le sue mani tra le mie, il suo respiro a confondersi con il mio: è un attimo, una frazione di secondo, una reazione chimica. Con estrema delicatezza prendo la sua mano e la porto a stringere il mio braccio. Procediamo così per i pochi metri che ci separano dall’aperitivo. Mentre camminiamo, raccolgo il suo stupore per quel piccolo locale immerso tra i salici, per l’aria poetica e riservata che esprime. Mentre camminiamo, raccolgo le mie conferme. Ci fermiamo poco, giusto il tempo di bere qualcosa, di poter godere del suo sorriso. L’aria leggera della primavera è per me questa sera straordinaria e densa. Esprime una forza magnetica mai provata prima. Sono con lei da poco e il suo profumo ha già alterato il mio equilibrio, sovraccaricato i miei recettori, sovraesposto la mia fragilità, rivelandola. Pierre, il proprietario del “caffè dei salici”, mi conosce bene, sa che musica mi piace e, compreso il particolare momento, provvede subito a fornire alla serata una splendida colonna sonora, l’unica cosa che ancora mancava. Scegliamo un tavolino piccolo, in un angolo, in penombra. Una candela accesa fornisce alle cose che ci circondano contorni incerti e tremolanti. Per non venir meno allo standard cavalleresco che mi sono imposto, sono pronto ad aiutarla, quando deve sfilarsi la giacca e a porgerle la sedia su cui sedersi. Faccio qualche passo per riporre la sua giacca, che emana un profumo travolgente. Quando mi volto di nuovo verso di lei, rimango paralizzato alla visione dei suoi occhi che mi seguono, delle sue labbra lucide che mi sorridono, della sua figura delicata che mi attende in quell’angolo rossastro e tremolante. Perdo almeno dieci secondi per superare l’impatto emozionale e per sedermi di fronte a lei, a lume di candela.


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Scelgo un vino rosso corposo e profumato, un gusto fruttato e rotondo. Il suo palato deve esserne accarezzato e coinvolto. Mentre beviamo, siamo così vicini che il contatto è inevitabile. I miei occhi sono fissi nei suoi, mentre parliamo. Ogni sguardo è percepito e accompagnato da un’emozione nuova. Ogni parola assume margini sfuocati, ogni contenuto si perde nel significato della nostra presenza qui, ora. Osservo con avidità le sue labbra muoversi lente, per poi aprirsi in un incantevole sorriso. Osservo la sua postura intrisa di femminilità ed eleganza, la linea sensuale del suo corpo fasciato in un abito aderente, le leggere ombre che le accarezzano il collo, le piccole e irregolari onde dei suoi capelli che, soffici, ricadono sulle spalle seducenti, lasciate intravedere dalla scollatura. È strano, ma d’improvviso avverto progressiva una sensazione di distacco, una variazione nella percezione tattile delle cose che mi circondano. Sono sbalzato in alto, come nel sogno. Sono sospeso sopra il tavolino e osservo me stesso insieme a lei. Vesto i panni di un insolito spettatore esterno di me stesso. Posizione che mi consente di essere oggettivo. Bastano pochi attimi e tutto, dentro di me, cambia. Un battito irregolare e le sensazioni che provo percorrono nuove strade. Un allarme biologico, attivato dall’istinto di sopravvivenza e protezione, mi richiama all’attenzione. Un pensiero invadente irrompe nella dolce poesia di questi attimi. Cosa succede, che tipo di reazioni chimiche stanno producendo questa fitta nebbia che mi allontana dal piacere di averla accanto, che disillude le mie aspettative, che frena il mio passo? Prendo tempo. Le dico che devo andare in bagno. Mi alzo e, con fare incerto, mi dirigo verso una porta su cui è appesa una targhetta con scritto “messieurs”. Le gambe mi tremano e arrivare al lavandino non è così facile come credevo. Chiudo la porta a chiave, ho l’estremo bisogno di qualche secondo di assoluta privacy. Se qualcun altro avesse bisogno del bagno, dovrà per forza aspettare. Con la mano sinistra ruoto in senso antiorario il rubinetto dell’acqua fredda, mentre con la mano destra sorreggo il mio peso, scaricandolo


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sul lavandino. Un respiro profondo. Cingo le mani fino a formare una piccola conca che riempio d’acqua fredda. Ho il viso gocciolante. I ripetuti risciacqui con l’acqua fredda gli hanno donato un tono rossastro. Di fronte agli occhi, la mia immagine riflessa nello specchio. Guardo le piccole goccioline che, dopo aver percorso tutto il viso, scompaiono dietro l’angolo del mento. Percepisco la sensazione tattile del loro percorso lungo il collo, fino a perdersi dentro il colletto della camicia. Ho paura. Sono sicuro di aver avuto paura di lei, mentre la guardavo, poco fa, al tavolo. Mentre la piccola fiamma della candela faceva risplendere il suo viso di una luce calda e romantica, ho compreso la sua determinatezza e la sua forza. I suoi modi e la sua immagine esprimevano una sicurezza affascinante. I suoi gesti, intriganti e attraenti. Penso: «Tutto ciò è pericoloso!». È questa la frase che continua a scorrermi in testa. Si ripete come nell’incessante rotazione di un disco graffiato, anche adesso che sono tornato al tavolo. Le sono di fronte, mentre i gomiti appoggiati sul tavolino sorreggono il peso dei miei pensieri. Il suo atteggiamento mi avverte che ha compreso qualcosa, che ha il sospetto del mio cedimento. Le sue mani si muovono con fare alterato. Mentre parla, il suo sguardo deciso e diretto arriva penetrante. Ogni volta che lo incrocio sono costretto ad abbassare il mio, per non esserne travolto. Anche stasera nei suoi occhi vedo risplendere il bagliore di una luce, la stessa luce che avevo già notato. Una luce priva di necessità, di bisogni. Una luce auto-alimentata, espressione di appagamento e soddisfazione per ciò che è, per il suo mondo, per la sua vita. In un attimo, capisco che la mia presenza è intercambiabile. Infatti, quella luce che vedo non sta brillando per me. La sicurezza e la magia che è capace di esprimere prescindono dalla mia presenza, sono indipendenti dalla mia presenza. «Ed io?!», mi chiedo spaurito.


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«Può una persona del genere regalare quella sensazione di indispensabilità necessaria alla propria autostima?», ripeto dentro di me. «Può lei mantenere accesa, con la sua sicurezza autoreferenziale, la luce nei miei occhi?». Concludo, conoscendo già tutte le risposte. È sufficiente un istante, breve come un battito d’ali, e i miei pensieri ripercorrono l’autostrada, i caselli, le curve, le salite e si tuffano rapidi nella vallata fino al mare. Basta un leggero soffio dell’aria incessante della primavera e sono accanto alla ragazza della spiaggia. La luna, alta in mezzo al cielo, illumina la sua immagine, trascinando l’ombra che ne deriva per molti metri, fino a me. Il rumore delle onde, che si infrangono sui vicini scogli, basta a fare da colonna sonora al nostro nuovo incontro. Mi avvicino a lei e vorrei stringerla. Invece, la guardo negli occhi e mi siedo sulla sabbia di fronte a lei. Pochi battiti del cuore mi indicano la meritata fine della mia estenuante ricerca. Il sorriso che, nel vedermi, le arricchisce il viso, teme per bellezza solo la luce finalmente accesa e brillante dei suoi occhi. La luce che, in questo caso, brilla solo per me. Ritorno. È stato solo il piacere di un attimo, un sogno momentaneo, una breve fuga della fantasia, subito interrotta dalla realtà di questo tavolino e di questa candela, dalla realtà della sua forza magnetica, dall’attrazione che comunque continuo a provare per lei, mentre è davanti a me, illuminata dalla luce che lei stessa produce. Ci alziamo. È solo grazie al vino bevuto, che ora sento arrotondati i pericolosi e graffianti angoli delle mie sensazioni. Percorro con inaspettata facilità la strada che ci separa dalla macchina. Non tremo più al contatto con la sua mano che cinge la mia. Acquisto fiducia nella mia posizione e nel mio status. Dopo tutto, in questo istante, sono io l’uomo su cui si sta appoggiando, la presenza forte che la protegge dalle oscure figure della notte. La luce dei lampioni ci arriva filtrata dalle numerose foglie dei salici. L’aria inebriante della primavera esalta i profumi che ci circondano. Mi chiedo: «Cosa mi è preso un attimo fa?». E aggiungo: «Perché mai dovrei scappare? Per quale motivo devo


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subire queste assurde soggezioni? Io non sono una persona insicura!!». Apro lo sportello per farla accomodare. Abbandono i suoi occhi solo per un attimo, mentre giro intorno alla macchina e salgo. Sto guidando e la sua mano mi accarezza i capelli. Non so più cosa pensare. Adesso, non percepisco più alcuna paura. Solo il suo profumo, la dolcezza della sua voce e del suo modo di fare, del suo corteggiarmi, del suo sfiorarmi il collo con le labbra, dell’odore travolgente della sua bocca. Mi chiede come mai questa mattina non ha trovato il mio messaggio. La sua voce trema, quando mi dice di aver pensato che mi fossi stancato, quando mi chiede se questo è ciò che faccio con tutte le ragazze che incontro. Le sue parole mi fanno capire di averla fatta sentire speciale, mi fanno capire di essere sconosciuto a lei tanto quanto lei lo è per me. La rassicuro: «Ti garantisco che non è questo il mio abituale modo di comportarmi». Le dico che solo una persona sensibile e dolce come lei è meritevole di altrettanta sensibilità e dolcezza, che solo se ispirati da una musa speciale si può essere in grado di provocare emozioni speciali. Siamo a casa mia, seduti sul tappeto del soggiorno. Non ho molto da offrirle, ma non credo che in questo momento ciò sia importante. La stanza è in penombra. L’unica fonte luminosa proviene da una lampada, poggiata su un piccolo tavolino nell’angolo. Lei stringe a se un cuscino che di solito tengo sul divano. Mentre parliamo, raccoglie le gambe e sposta i capelli da un lato. La scollatura mostra ciò che basta per alzare la temperatura del mio corpo. La sua immagine assume contorni femminili e sensuali. Cerco di essere disinvolto, ma ho paura di non riuscire a trattenere a sufficienza il desiderio che ho di baciarla, di stringerla, di fare l’amore con lei. Le racconto di quando sono andato in vacanza in Egitto, delle persone che ho incontrato, della meravigliosa barriera corallina che arricchisce quei mari. Mi chiede di mostrarle le foto che ho fatto ai pesci colorati e al deserto roccioso. La avverto che non ho alcun album e che tengo le foto in un piccolo


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cofanetto, tutte insieme. Se le vuole vedere, allora sarà necessario cercarle nel mucchio. Un cenno della testa mi conferma la sua intenzione. Prendo il contenitore delle foto e mi siedo accanto a lei. Tolgo il coperchio. Vedo e sento le nostre mani che si sfiorano, mentre raccogliamo le foto. Il suo profumo rinnova ancora di più le potenti reazioni che sento. I suoi capelli sfiorano leggeri le mie guance quando, insieme, chiniamo la testa sul cofanetto appoggiato sul tappeto. L’odore della sua bocca è irresistibile. Perdo il conto dei battiti del mio cuore, quando le accarezzo il viso e avvicino la mia bocca alla sua. Sento le sue braccia stringermi, mentre passo una mano tra i suoi capelli sciolti. Pochi gesti mi bastano a sfilarle il vestito e a perdermi nella sua femminilità. In pochi istanti, i momenti di dubbio, di esitazione e di dolcezza lasciano il posto a irrefrenabili sconvolgimenti, a passioni accecanti, a incontenibile frenesia. Perdiamo il controllo quando, in un unico gesto, restiamo nudi. Quando, senza filtri, sento il suo odore salire verso me, inebriarmi, sconvolgermi. È forte e dirompente l’emozione mentre faccio l’amore con lei sul tappeto, immersi nell’aria densa della primavera.


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27 – È ANDATA VIA

Sono ancora sudato, emozionato, stanco, sconvolto. Fatico a riprendere fiato, a controllare il battito cardiaco, a restare in equilibrio. Sento in bocca il suo sapore, nelle mani il ricordo della sua pelle e dei suoi seni, nelle narici il suo profumo che, forte, mi riempie i sensi. Sono spettinato. Indosso solo i boxer e una maglietta stropicciata, di quelle che rimangono sempre in fondo ai cassetti, dimenticate. Lei, invece, non ha perso tempo. Non ha avuto alcun bisogno di metabolizzare le passioni che ci hanno preso. Con gesti controllati, ha ripercorso i luoghi che ci hanno accolto, raccogliendo le sue cose. Una breve sosta in bagno. Rumore d’acqua che scroscia, seguito da enigmatici silenzi. Quando esce, è già vestita. Nulla fuori posto: capelli raccolti, viso rilassato. Mi sorride e, senza perdere tempo, afferra il cellulare e compone il numero del servizio taxi. La voce al telefono dice che l’auto arriverà in pochi minuti. Si siede accanto a me, che invece sono uno straccio. Mi accarezza i capelli, cercando di ricomporre un ordine che non c’è mai stato. Il suono emesso dal citofono ci avverte dell’arrivo del taxi che la porterà via. È notte fonda. Le stelle popolano numerose il cielo, mentre lei scompare nell’oscurità delle mie incertezze. È andata via. Ha deciso di tornare a casa, di farlo nonostante fosse molto tardi. È appena andata via ed io sento ancora intensa una irrefrenabile voglia di continuare a mescolare i nostri sensi.


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Avrei voluto che provasse a interpretare per una notte un ruolo che forse, in un altro momento, potrebbe anche decidere di desiderare. È andata via senza lasciarmi il tempo di fissare nella memoria questi attimi che ci hanno uniti. Sto male. Non riuscivo a staccarmi dalle sue labbra e dal suo sapore, dalla sua voce e dal suo sorriso, dai piccoli gemiti che ci hanno travolto, coinvolto, distrutto e ricostruito in una mescolanza organica. Nessun pensiero rimane stabile per il tempo necessario a farmi consapevole del suo contenuto, nessuna sensazione è così definita da poter essere univocamente descritta e riconosciuta. Chiudere la porta dietro le sue spalle è doloroso e ingiusto. È questo che penso mentre, senza scopi immediati, rientro in casa e mi dirigo verso il bagno. Voglio fare una doccia. Voglio lavare via queste sgradevoli sensazioni. Voglio riscoprire e recuperare un equilibrio, qualunque esso sia. Voglio poter dire che è stata solo una bella avventura. Anzi, una banale avventura, come ne capitano molte, senza contenuto, senza futuro, solo piacere immediato. Ci sono molte cose avvenute questa notte di cui non ho ancora compreso gli aspetti più significativi. Ci sono molti miei comportamenti che hanno il sapore patologico di traumi subiti, di tare inevase, di auto-incomprensioni. Sono sotto la doccia. L’acqua calda e il vapore alzano la temperatura del mio corpo, che è spento e svuotato dalla sua assenza. Strofino con forza la spugna sulla pelle. Gesti ripetuti, che rivelano la necessità di cancellare anche la memoria del tatto, la residua presenza del suo corpo sopra il mio. Mi siedo per terra e lascio che l’acqua mi colpisca dall’alto, come pioggia bollente. Mi siedo perché sento le gambe cedermi al pensiero di non averla più con me. Non posso mentire a me stesso, neanche per un attimo, neanche se è in gioco il mio equilibrio. Non voglio cancellarla. È stata l’esperienza più coinvolgente che io abbia mai provato! Le sensazioni, le emozioni che ho sperimentato, incontrollate e


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incontrollabili, hanno dal profondo rimescolato il mio animo ed i miei sensi. Chi, o cosa, è stato il vero artefice di questi momenti indimenticabili, di queste sensazioni mai provate? È realmente dipeso tutto da lei? È veramente merito suo l’aver scatenato in me la carica della primavera? Oppure sono io ad aver fatto tutto? Condizionato dalle mie aspettative e dai miei desideri, mi sono da solo posto nelle condizioni di provare ciò che ho provato questa notte? Non ne sono ancora cosciente. Chiudo gli occhi e li stringo con forza per non dimenticare, per imprimere nella memoria le immagini di questa notte. Non posso permettermi di dimenticare. Trattengo impaurito l’immagine del suo viso, ripenso al vuoto lasciato dentro di me dal suo scomparire all’interno della sagoma bianca del taxi. Perché ha desiderato andare via? Esiste per lei un altro luogo che poteva avere maggiore significato in quel momento? Per quale motivo ha voluto fuggire dalle mie braccia? Tra i fitti pensieri che mi affollano la mente, fra le tante sensazioni che sto provando in questi attimi, dall’oscurità umida di questa doccia bollente, emerge prepotente un pensiero che, come un acuminato pugnale, trafigge e squarcia questo momento di stasi. Perché, mentre eravamo seduti al “caffè dei salici”, soggetti volontari di un quadretto intimo e romantico, sono stato aggredito da quelle paure e da quelle insopportabili sensazioni? Perché ho pensato subito alla ragazza della spiaggia e al giorno in cui, mentre guardavo il mare cercando di fuggire, l’ho conosciuta? Perché...?


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28 – COSA VOGLIO

Sono sdraiato sul letto. In testa, il ronzio insopportabile dei pensieri. Il peso di un interrogativo privo di risposte. Tra le coperte, stropicciate dalla confusa memoria di questa incomprensibile notte, il suo profumo sconvolge ancora i miei sensi. Devo capire. Quale spiegazione posso dare a me stesso? Quale la motivazione alla base del mio comportamento? Sono io ad aver vissuto quell’attimo, eppure esso mi risulta così inaccessibile! Devo riflettere. Ci sarà pure una spiegazione razionale, capace di fornire una giustificazione adeguata del mio comportamento?! Già... la razionalità, il mio solito cruccio! Una volta per tutte devo convincermi che non sempre è individuabile una spiegazione razionale, soprattutto se con essa si vuole svelare il significato di circostanze che non hanno, e non devono avere, niente a che fare con la razionalità! Dove, allora, posso e devo ricercare la spiegazione dei miei incomprensibili pensieri? Quale la giustificazione utile a svelare il motivo per cui ho pensato alla ragazza della spiaggia, al nostro posto, al suo sorriso, proprio quando stavo vivendo il momento che avevo tanto sognato e atteso?! Il solo tentativo di ricercare una valida risposta a questa domanda, così diretta quanto inevitabile, mi rende timoroso per le sconosciute consapevolezze che possono emergere dal mio animo, del quale ormai temo di aver perso ogni controllo. Forse, dentro di me, nel profondo, ho avuto paura di lei! Per la prima volta in soggezione, ho barcollato. In effetti, era proprio questa la sensazione che dapprincipio mi ha colto. Ma poi? Poi la paura è svanita, dissolta dall’orgoglioso istinto di sopravvivenza,


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che si impone su tutto. Poi la paura è svanita, per la mia ostinazione di dover ricondurre tutto a razionalità. Poi, la paura è svanita. Mi rendo conto che, in realtà, non so ancora perché. Penso ai suoi capelli lunghi, ai granelli di sabbia con cui giocava, mentre le parlavo, mentre mi parlava, con gli occhi bassi, con lo sguardo insicuro e ferito, con la voce incerta. Rivedo le sue mani intrecciarsi irrequiete, nonostante l’atteggiamento disinvolto e provocante che tentava in tutti i modi di ostentare. Mi vergogno dei miei pensieri. A parte tutto, ho sempre creduto di essere rispettoso del prossimo, e mi appare indelicato pensare a lei proprio adesso, dopo averla rifiutata, dopo aver fatto l’amore con un’altra ragazza. Devo capire e, per capire, devo rivederla.


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29 – TORNO DA LEI

Non ho dormito, non mi sono fatto la barba, non mi sono pettinato, non ho stirato i panni che ora indosso. Non ho perso tempo. Tutto passa in secondo piano, rispetto all’idea di prendere la moto per andare a cercarla. L’aria fresca contribuisce ad allontanare l’inevitabile sonnolenza, la luce del sole mi aiuta a tenere gli occhi aperti. Mentre, d’istinto, guido verso il mare, continuo a riflettere su ciò che sto facendo. Cos’è che in realtà voglio capire? Chi mi aspetto di trovare sulla spiaggia? Penso a tutto e a nulla nello stesso momento. Improvvise e opposte considerazioni, turbinando impetuose, sconvolgono la mia mente. Sono sempre più confuso ed ho perso il controllo delle mie azioni. Come erano belli i suoi occhi! Quale emozionante sfida lanciavano a chi fosse stato in grado di accendervi una luce! Quale straordinaria ricompensa saranno in grado di dare a costui! Intorno a me, il paesaggio scorre veloce. L’acceleratore è a fine corsa, il rumore del motore sgorga violento. Il vento cerca di piegarmi, ma resisto. Il desiderio di ritrovarla si fa più intenso. Sovrasta e travolge il dubbio di essere sull’orlo del precipizio. Ho perso il conto della distanza percorsa. Tutto ciò che mi circonda, mi sfreccia accanto. Nessun rumore oltre a quello dell’aria che colpisce il casco. Nonostante l’effetto ipnotico delle strisce bianche, che corrono parallele a me sull’asfalto, mi faccia apparire la strada come interminabile, come un tutt’uno con l’orizzonte, credo di essere quasi arrivato. Come una rivelazione, appare davanti a me la vista del golfo. Mille piccoli bagliori illuminano il mare, restituendo un effetto ottico di


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movimento. Il sole, alto nel cielo, riscalda le piume bianche dei gabbiani che, nella loro danza aerea, sfiorano le case prima di riprendere quota, per poi rituffarsi rapidi verso il basso. Esco dall’autostrada e mi immetto nella statale che mi porterà da lei. Come in una rapida altalena, seguo le curve che mi si presentano davanti. Il sole, intanto, mi illumina a tratti, perso tra le numerose foglie che pendono dai rami degli alberi lungo la via. Un semaforo mi trattiene con la sua prepotente luce rossa. Dentro di me una voce grida: «Come ti permetti di trattenermi, squallido palo luminescente, insignificante corpo inerte privo di emozioni?! Come ti permetti di frapporti tra me e lei e di ritardare il mio passo?! Io devo capire, non lo sai?!». Percorro il lungo mare a folle velocità. Il desiderio di ritrovarla è incontenibile. Con un piccolo gesto ruoto il cavalletto verso il basso e ci appoggio il peso della moto, scaricandolo dalle mie braccia stanche. Mi guardo intorno, nella speranza di orientarmi in quel luogo sconosciuto. Mi sforzo di ricordare in quale punto della spiaggia l’avevo vista la prima volta. Cammino lento, osservando la sabbia. Guardo in basso e, come un improvvisato archeologo, tento di ritrovare le mie orme lasciate in quel posto. Ma la sabbia è priva di memoria, già rimescolata più volte dal vento. Mi abbandono per terra nell’inevitabile constatazione che lei non c’è. Dormo sulla tiepida sabbia di questa strana giornata di primavera.


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30 – NUOVE EMOZIONI

Una mano mi sfiora il viso. Forse sto sognando. Adesso sento una voce. Forse sto sognando. Il mio corpo è scosso da una forza che non riconosco e che non riesco a identificare. Forse sto sognando. Apro gli occhi. È lei. Forse sto sognando. Ho il viso sporco di sabbia e la gola secca di sale. Gli occhi, che nonostante gli sforzi riesco solo a tenere appena socchiusi, sono infastiditi dalla luce che li colpisce. Ciò che invece continua a essermi chiaro è il motivo per cui sono venuto fino qui. Lei è davanti a me. Mi sorride con la faccia interrogativa di chi è contento di vedere qualcuno, ma avverte la stranezza dell’episodio. Mi dice: «Cosa fai qui? Ero convinta che non ti avrei più rivisto! Sono contenta che tu sia venuto a trovarmi!». Ho compreso il significato delle sue parole, ma non sono ancora in grado di formulare una frase di senso compiuto. Le faccio un cenno con la mano, indicandole di avere un attimo di pazienza. Ho bisogno ancora di qualche istante, per riprendere coscienza e recuperare i pensieri. Lei, rimasta ferma di fronte a me, capisce il mio stato e sorride divertita. Passeggiamo a lungo sul bagnasciuga con le scarpe in mano. L’acqua, ancora fredda, ci bagna di tanto in tanto i piedi, portandosi via la sabbia accumulata. Ho dormito per alcune ore sulla spiaggia. Il sole, prima alto, ora sta quasi per tramontare, regalando splendide sfumature di colore. Cammino accanto a lei, lento. Ad ogni passo la guardo e vedo una persona felice. Ad ogni passo la osservo e mi sento indispensabile. Non mi ha più chiesto quale fosse il motivo per cui sono qui. Forse non lo vuole sapere e preferisce continuare a pensare che sono venuto per


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lei, senza correre il rischio di conoscere una verità meno piacevole. «Sono venuto per te» le dico. Voglio che lo sappia con certezza. Lei continua a camminare con passi corti e misurati, con lo sguardo basso. Intanto, una tenue brezza le spinge alcune leggere ciocche di capelli davanti al viso. Scorgo un sorriso sulla linea regolare delle sue labbra, un sorriso spontaneo e vulnerabile. Non dice nulla. Mi prende la mano. Nuove semplici emozioni ci accompagnano, mentre continuiamo a camminare. Mi batte forte il cuore e sento che anche il suo ha alterato il suo normale ritmo. Ci fermiamo vicino a un muretto e ci sediamo come due bambini che, stanchi dei giochi, riprendono fiato. Le nostre bocche non producono alcun suono ma, nonostante ciò, sono molte le informazioni che ci stiamo scambiando. Le nostre mani, poggiate sul muretto, emettono vibrazioni percepibili. Il nostro sguardo, perso tra le onde e la sabbia, si rivolge spesso verso il basso, incapace di reggere l’emozione di questo istante. Mi sfugge: «Ho voglia di baciarti». È questo che dico senza neanche rendermene conto, senza aver mai desiderato qualcosa come ora desidero lei. Un suo piccolo respiro e le sue mani, che in un attimo diventano fredde, mi comunicano l’impatto della mia affermazione. Lei abbassa il capo e con la lingua si inumidisce le labbra. Con un delicato movimento ruota la testa nella mia direzione e mi guarda negli occhi. Senza dire nulla, raccoglie il mio viso tra le sue mani e mi bacia. Sono avvolto dall’aria leggera della primavera e dall’odore del suo alito profumato di rosa. Ci baciamo come due anime che si incontrano nel buio, come due vagabondi che ritrovano la strada di casa, come due granelli di polline sospinti dal vento. Siamo seduti uno di fronte all’altra, sulla sabbia, illuminati solo dalla soffice luce della luna. Parliamo e sorridiamo, ci baciamo e scherziamo sulle nostre ombre proiettate dietro di noi. Nessuna domanda nei nostri discorsi, nessun progetto, niente programmi, alcuna aspettativa. Nessuna convinzione né punti fermi.


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Parliamo dell’adesso e dell’oggi. Parliamo di tutto ciò che d’istinto ci passa per la testa. Parliamo senza esaminarci, senza fare una previsione sulla nostra compatibilità, senza affrontare quei particolari argomenti su cui, all’inizio di un rapporto, si è costretti a “mettere i puntini sulle i”. Non c’è nessun rapporto. Non c’è altro da fare se non restare qui, ora. Ci siamo solo noi, la luna e il battito del cuore che ci unisce, quando ci sfioriamo le labbra. A volte, accade che non ci sia bisogno di parlare. A volte, accade che non ci sia bisogno di rendere a chi ci sta di fronte un’idea di noi stessi che ci soddisfi, che ci renda orgogliosi di ciò che siamo o potremo diventare. A volte, ciò che più ci rassicura sul valore della nostra esistenza è la semplice presenza di una particolare persona accanto a noi. Non le ho detto quando ci saremmo rivisti, né lei me lo ha chiesto. Forse preferisce sperare in un’altra sorpresa. Forse immagina di trovarmi addormentato sulla spiaggia anche domani, dopodomani o chissà. Il dolce ricordo delle sue labbra si confonde con l’odore acre e pungente delle foglie, inumidite dalla fresca aria notturna. Con l’odore che mi rincorre, mentre ripercorro le curve della statale, diretto verso l’autostrada, verso casa.


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31 – COSA FARE

Molte e autentiche le emozioni che ho provato rivedendola. Molti di più i dubbi che mi sono rimasti in testa. Reagisco a questa situazione di incertezza accelerando, aggredendo l’asfalto nero. Non voglio pormi nell’ottica di chi deve fare una scelta. Solo l’idea di scegliere tra due persone, come se fossi il loro padrone, il proprietario di un harem personale, mi fa vergognare di me stesso e mi fa sentire un vile. Mi ripeto deciso: “Non si usano le persone!”. So che le cose non stanno così. So di non essere quel tipo di individuo. Ora devo comportarmi in modo tale da non smentire, con i miei atteggiamenti, l’idea di me stesso che voglio continuare ad avere. Come posso uscire da questa empasse emozionale che mi attanaglia e mi confonde? Come posso affrontare questo girotondo di sensazioni che mi stringono nel loro vortice? Come devo agire, adesso che ho legato i battiti del mio cuore a due persone così diverse e così capaci di rapirmi? Provo a pormi la questione in termini razionali. Provo a trasformare queste due “lei”, così speciali e importanti, in una lista di pregi e difetti, da analizzare come uno spietato contabile dei sentimenti. Provo a frenare le mie emozioni, ragionando in termini di convenienza, di opportunità, di opportunismo. Quale delle due avrà il conto in banca più invitante? Mi scopro a urlare con tutto il fiato che ho in gola, in un’estrema reazione contro questa mia natura miserevole e codarda, contro questa mia perenne insoddisfazione, contro il pensiero di poter operare come un parassita dei sentimenti, un bieco speculatore. Non sono mai stato convinto di una cosa come lo sono ora del fatto che, in questa circostanza, la razionalità non mi porterà a nessuna risposta su


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ciò che dovrò fare. Perché continuo a chiedermi cosa “devo” fare e non cosa “voglio” fare? Mi coglie la paura di non essere in grado di prendere una posizione ferma e decisa su quelli che saranno i miei comportamenti. Annullo ogni pensiero e mi concentro sulla strada, sui fari posteriori delle macchine che mi precedono e che vedo poi scomparire nello specchietto retrovisore. Riempio i polmoni di aria fresca, quasi a lavare via anche il più piccolo residuo di profumo che possa confondermi, rendermi parziale, soggiogare la mia anima. Penso alla luce dei loro occhi. Penso alla comodità e alla certezza di una luce auto-alimentata, capace di condividere senza oppressive dipendenze. Penso alla soddisfazione derivante da una luce che brilla alimentata dalle mie attenzioni, capace di rendermi indispensabile. Penso a me stesso. Sono forse io il vero perno del discorso? Chi sono? Cosa voglio? Cosa mi soddisfa? Cosa mi rende felice? Cosa...? Rientro a casa. Mi muovo al buio tra gli angoli e le ombre. È notte fonda e non ho mangiato nulla nelle ultime venti ore. Apro la porta del frigorifero e, servendomi della sua pallida luce di elettrodomestico, ammucchio in un piatto un po’ di cibo. Mi siedo per terra, vicino alla poltrona che utilizzo come base d’appoggio. Non voglio comodità. Nessun comfort, solo il bisogno di soddisfare un istinto primario. Mangio in modo vorace tutto ciò che ho nel piatto. Mi alzo per rifornirmi di nuovo. Intanto, stappo una bottiglia di vino e ne verso un po’ in un bicchiere. Forse un certo quantitativo di alcool mi aiuterà ad ammorbidire i pensieri e a rilassarmi. I pochi minuti trascorsi hanno già consentito ai miei occhi di adattarsi al buio che mi circonda. Poco a poco, tutto intorno a me diviene visibile. Mi chiedo perché non possa valere il medesimo principio per i dubbi che mi incasinano la mente? Perché, dopo un po’ che si pensa a qualcosa, questo qualcosa non diviene più chiaro, visibile nei suoi contorni e dettagli? Più


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comprensibile? Troppe domande. Nessuna risposta. Ho finito di mangiare tutto ciò che avevo nel piatto. Sono sazio, ma non di cibo. Continuo a sorseggiare il vino. Apro la porta ed esco. Anche oggi ho fatto l’alba, me ne accorgo dal cambiamento di colore del cielo. Mi sdraio sull’amaca e mi dico: «Va beh..., tanto non riuscirei a dormire». Lascio che un piede tocchi per terra, per potermi dondolare. Decido di godermi l’emozione dell’inizio di un nuovo giorno. Forse, mi dico, dovrei prendere esempio dalla natura, dai suoi ritmi, dai suoi mutamenti regolari e controllati. Ogni cosa deve accadere quando è il momento giusto, quando i tempi sono maturi. Sono sicuro che arriverà il tempo della comprensione, l’istante in cui avrò chiaro di fronte a me ciò che realmente desidero e la strada da scegliere. Per il momento resterò qui, a dondolarmi e a godermi l’inizio di questo nuovo giorno, rapito e cullato dall’aria densa della primavera.


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32 – FUGA E RITORNO

È così riguardo alle scelte. Le vicende della vita finiscono sempre per sorprenderti, facendoti dubitare della tua intelligenza, per aver vissuto fino a quel momento supportato da convinzioni false. Come è stato possibile pensare, anche se solo per un attimo, che le cose sarebbero andate come si desiderava e non come ce le si aspettava? Tutto ciò è la conseguenza della presunzione d’essere capace di sottrarsi all’inevitabile ripetizione delle più comuni esperienze umane. Poi, si rimane sbalorditi ad ascoltare l’eco delle proprie parole. La osservo di nascosto, come un ladro, come una spia. Cerco di essere cauto, non voglio che mi veda. Non deve accorgersi di essere osservata. Non deve in alcun modo modificare il suo atteggiamento, la sua spontaneità, la semplicità di quest’attimo. Ciò che voglio catturare è l’immagine della sua vera natura. Sono fermo. Immobile e con i nervi tesi a percepire ogni piccolo mutamento della situazione, ogni movimento improvviso, ogni sguardo furtivo. Controllo il respiro e il rumore che produco espandendo e contraendo il torace, regolo il fruscio causato dai miei vestiti che sfregano contro il muro. Prendo le misure del mio naso. Devo fare attenzione a non fargli oltrepassare l’angolo dell’intelaiatura della finestra, aperta, accanto a me. Sono in piedi, appoggiato al muro dietro di lei, alle sue spalle, a osservare ogni suo minimo dettaglio. Percorro idealmente le numerose curve del suo corpo. Lento, con passi misurati. Come una formica mi infilo tra le piccole insenature, come un marinaio domino il battello tra le onde irregolari del suo involucro.


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Parto dalle gambe lisce, esito per qualche istante all’altezza del ventre e poi, come spinto da un’improvvisa marea, percorro a gran velocità tutto il suo corpo. I suoi seni, l’angolo del mento, le dolci sporgenze delle labbra, la linea sottile della fronte e... il cuore batte, il respiro rallenta e... già mi perdo tra i capelli sciolti, che dondolano verso il basso, sfiorando il pavimento. La guardo come si guarda una creatura affascinante e misteriosa. Catturato dall’odore della sua pelle. La guardo. Forse, la invidio. Invidio la sua natura, la sua determinazione di donna, le sue orgogliose convinzioni, l’irriducibile tenacia che la contraddistingue. Mi affascinano e mi intimoriscono gli obiettivi che, con grande perizia di particolari, ha già fissato per me e per lei. Mi sento inadeguato di fronte all’amorevole pazienza che, incessante, mette nel tentativo di insegnarmi i passi di questa complicatissima danza a due. Resto fermo. Un suo inaspettato movimento mi ha congelato nella posizione in cui mi trovavo. Non voglio che si accorga di me, che avverta d’essere osservata. Non voglio che riesca a scoprire i miei patetici tentativi di analizzarla, di setacciare i suoi pensieri, di entrare nel fitto intreccio dei suoi atteggiamenti, di apprenderne la logica, il senso profondo. Non deve capire che ho perso tutta la mia sicurezza. Non deve sapere che nulla è rimasto delle mie certezze e del mio essere all’altezza di affrontare tutte le situazioni. Non voglio essere debole ai suoi occhi più di quanto non lo sono già. È necessario che non io perda il suo rispetto. Ricordo le dolci parole di quando, alla fine, ci siamo incontrati. Non potrò mai dimenticare i suoi occhi, ciò che esprimevano. Felice e curiosa all’idea di esplorare la vita con me. Ma anche coinvolta da una dolce insicurezza che, per me, era così rassicurante. Quella stimolante sensazione, che si prova quanto si sta per intraprendere un viaggio, mi faceva sentire giovane e pronto ad affrontare la vita. Continuo a osservarla, mentre dondola. Osservo la sua determinazione insistere con il proprio carico sulla


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stessa amaca che, fino a poco tempo fa, ha sopportato solo il peso incerto e onnivagante dei miei pensieri. Quella stessa amaca che ha attraversato più volte la galassia, sul carro dorato della mia fantasia. Quella stessa amaca che, adesso, dondola determinata come lei. A ogni spinta corrisponde un’esatta oscillazione, priva di incertezze, già disegnata nella concretezza dei suoi pensieri. Mi interrogo. Esamino a fondo la paura che ho di perderla e la sensazione di non essere alla sua altezza, di non essere bravo quanto lei ad affrontare la vita che mi aspetta. La vita con lei. So che la mia natura non è cambiata. È per questo motivo che, quando penso all’esistenza geometrica, di cui sarò costretto a disegnare le proiezioni sulla tela della vita, nutro un profondo timore. Una tela che, sebbene bianca all’apparenza, presenta già le tracce che dovrò seguire, tracce su cui non credo di poter influire. Sono le tracce della vita, della doverosa evoluzione che dovrò compiere, delle responsabilità e della famiglia. Le medesime tracce che molti prima di me hanno già seguito, rispettato. Anche lei dovrà rispettarle ed essere in grado di seguirle. È da qualche tempo che i miei pensieri si affannano in questi improduttivi tentativi di ricostruire, in una logica a me comprensibile, una trasformazione che non conoscevo e di cui non ero stato informato. In realtà non è così, mento a me stesso. Molti gli avvertimenti che avrebbero dovuto mettermi in guardia. Sono stato io a giudicare quelle ammonizioni, dal sapore tanto minaccioso quanto improbabile, come banali storielle tramandate per via orale e consuetudinaria da molte generazioni di uomini, tutti già sposati. Pensavo, come molti altri prima di me, di essere diverso, di avere pronto per me un percorso alternativo. Invece eccomi, spogliato delle mie presunzioni, dinanzi alla verità. L’idea che, per ognuno di noi, la vita abbia mutevoli facce e mutevoli forme è solo un’illusione adolescenziale alla quale, inconsapevoli, rimaniamo aggrappati. Purtroppo esistono delle costanti, delle circostanze da cui, soprattutto in amore, nessuno è esentato: certi silenzi, certi toni, certe concorrenze. Sento il peso del fallimento di tutte le analisi fatte nel passato. Avverto con forza la tremenda sensazione di chi già conosceva la conclusione, di chi ha creduto troppo nelle proprie forze e nei propri


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ragionamenti, di chi era convinto che tutto ciò avesse un’immediatezza matematica, di chi affonda nelle sabbie mobili delle insicurezze e delle tare. Sono sicuro di amarla. È ovvio, la amo come io so amare. Il mio sentimento segue la linea di quelle verità assolute, che sono poste alla base del mio essere e che sono nate con me. Verità che conservo negli spazi dove solo io posso entrare. Verità che hanno l’unicità delle impronte digitali. Sono anche sicuro di essere amato. Percepisco il bisogno che ha di me, il suo interesse, la sua voglia di starmi vicino quando ci addormentiamo, la dolce fantasia dei suoi progetti per il nostro futuro. Un futuro in cui saremo insieme come nelle fiabe. Un piccolo bilocale comodo ai servizi e con posto auto sarà il nostro castello. L’auto, comprata a rate con interessi zero, sarà la carrozza su cui la trasporterò come suo principe. L’immagine della strega cattiva sarà, a turno, interpretata dai miei o dai suoi genitori, come nelle migliori famiglie. Da qualche tempo faccio uno strano sogno. Cammino a lungo sulla sabbia, in riva al mare. Sento un’infinità di minuscoli granelli massaggiarmi i piedi scalzi. Sulle caviglie gli spruzzi freddi delle onde che si infrangono sul bagnasciuga, a pochi centimetri da me. Nel sogno però, benché io stia camminando sulla sabbia, non resta nessuna traccia del mio passaggio. Ho parlato di questa cosa con Connor che, guardandomi con un misto tra comprensione e rimprovero, nemmeno a dirlo, è stato zitto. Nel suo silenzio la consapevolezza dell’inevitabilità. La cosa che più mi ha colpito in questo strano sogno, oltre al suo larvato messaggio, è la banalità dissimulata da cui non credevo di essere sedotto. Ho sempre immaginato la mia vita in termini di unicità. Una vita non imprigionabile in un destino preconfezionato. Sono ancora dietro di lei. Immobile. Continuo a osservarla, senza stancarmi. Rapito dal suo mistero, stregato dalla sua essenza di donna. Mi convinco che ciò che sto osservando, la sua immagine, la sua figura, non sia in grado di rivelare le sue profondità. Si mostra docile e vulnerabile, ma è un inganno. Forza, tenacia, capacità di adattamento, certezza dei propri bisogni e desideri. È questo che nasconde dietro i suoi sorrisi accomodanti.


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Ora che devo passare dalle parole ai fatti, ora che da me si pretende dimostrazione del mio valore, spero di essere sorretto da lei lungo il tragitto della mia riscoperta insicurezza. Con questa speranza di buona volontà, le offro tutta la mia poca forza. Tengo troppo a lei e non voglio rovinare tutto. Continuo a studiare i suoi gesti e il moto irregolare dei suoi capelli. Sono alla ricerca di una sicura chiave d’accesso al contenuto profondo del suo essere. Unica e diversa da me. Quando ci siamo sposati, era primavera. L’aria della primavera ci avvolgeva, dando impulso ai suoi molti profumi e a tutto ciò che esprimevano per me. Ricordo che in quel momento non mi smarrii, mantenendo integri propositi e sentimenti. Determinato nel mio intento, rimasi presente a me stesso. Lei era così bella. Indossava un vestito semplice ed elegante. I suoi occhi erano splendenti come gemme preziose, le sue labbra avevano il sapore della felicità, il suo odore era dolce e intenso, il profumo della sua bocca era pura armonia. Ricordo di essere stato orgoglioso di averla per me, solo per me, e di aver nutrito l’incessante curiosità di poterle contare le rughe, una volta raggiunta la vecchiaia insieme. Mi strinse forte a se, come mai prima di allora. Ricordo che mi disse di essere, dopo tanto tempo, felice. Mi disse anche che non mi sarei mai pentito di averla sposata, che mi sarebbe stata sempre accanto e che tutti i giorni della sua vita mi avrebbe restituito la felicità di quel momento. Ricordo la cerimonia e il giovane prete che l’ha celebrata. Le sue parole, la solennità del momento, la sua serietà nel pronunciare formule antiche. Ricordo che fui colpito da una frase in bilico tra una solennità ultraterrena e la bieca negligenza umana: «L’uomo non osi dividere ciò che Dio ha unito». In pochi istanti, sulla mia pelle i segni dell’impatto, la reazione fisica prima di quella emozionale. Tanti i pensieri che colmarono la mia mente. La predestinazione. Le scelte. Gli incontri casuali. Il perfetto incastro che deve risultare dall’unione di due individualità. La magia che


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riempie l’aria. Ma anche l’uomo. Già, l’uomo. La sua folle capacità di non apprezzare nemmeno ciò che si dimostra raro e prezioso. La sua capacità di corrompere, di profanare, di viziare, di complicare ciò che per sua natura deve essere semplice, che per essere apprezzato deve essere spontaneo, immediato, privo di intermediari e di interferenze. Ho sentito il peso dell’incertezza, della natura contorta dell’essere umano. Il peso delle inevitabili incomprensioni, delle piccole cose che colmano l’infinità dell’anima. Chi è il destinatario della solenne ammonizione? Da come è posta sembra diretta verso chi è all’esterno della coppia. Sono costoro che, con il loro irrispettoso atteggiamento, potrebbero creare le condizioni capaci di minacciarla e metterla in pericolo. Poi, un altro pensiero. Se invece l’ammonizione fosse diretta soprattutto ai suoi componenti? Se il suo scopo fosse quello di avvisarli della sanzione, della pena per chi disobbedisce, mettendo in guardia chi, con il proprio comportamento dissacrante, reca offesa alla somma autorità? Quella stessa autorità cui si è rivolto, chiedendo la benedizione della propria unione? Gli istinti terreni, il bisogno dei propri spazi, la mancata intesa sessuale, le immancabili incompatibilità di carattere sono forse sufficienti per le commediucce in scena dentro i tribunali degli uomini, ma di certo non sono sufficienti a chiedere il perdono divino. Ancora oggi quelle solenni parole hanno per me un’estrema importanza, mi ricordano la punizione divina che dovrò subire se fallirò. Se non sarò alla sua altezza, se mi farò sopraffare dall’immobilismo, da ciò che è dato per scontato, dalla facilità con cui si scaricano i pesi e le responsabilità, dagli istintuali egoismi, dalla determinatezza incompatibile con la mia natura. Continuo a guardarla e ne subisco la forza, l’attrazione magnetica. Vedo in lei il confine e il muro di cinta all’interno del quale mi sento protetto. Vedo in lei la sentinella sulla torre di guardia. Mi sorveglia e, nel suo assordante silenzio, non reagisce, ma memorizza. So che mi ama, che è disposta a vedere il suo futuro attraverso me. So che nei suoi pensieri ho sede privilegiata. Conosco la potenza del suo sentimento, la fermezza del suo spirito.


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Tutti i suoi gesti troveranno unica ispirazione nella costruzione di una vita in cui non esiste individualità, ma solo magiche interdipendenze. Ho paura di non avere il dono di accedere alle stesse ispirazioni. Come imparerò a immaginare, progettare e concretizzare le stesse finalità? E se fossi solo la parodia di un marito? La dozzinale caricatura di quello che dovrebbe essere il mio ruolo? Cerco di convincermi che non ci sono regole. Penso che so di amarla e che non so amare in altro modo. Ritengo che lei dovrebbe capire. Se davvero mi ama, deve capire chi sono, accettarmi e aiutarmi a seguirla. I suoi gesti hanno la fermezza di chi è diventata donna, di chi ha ormai superato l’incertezza post-adolescenziale, di chi ha una chiara consapevolezza del proprio ruolo, di chi afferra a due mani i doveri, senza curarsi di quelli che erano i propri sogni o l’idea che aveva di se stessa. Temo di deluderla e di deludere me stesso. Non riuscirei a perdonarmi la dimostrazione d’essere uguale a tutti quegli uomini che ho sempre disprezzato, convincendomi di avere per me un destino diverso dal loro. Come capire se anch’io sono stato contaminato dalla banale realtà maschile? Penso al sorriso, allo splendido sorriso che mi dona. Alla tenerezza dei suoi occhi quando la coccolo, quando si abbandona senza peso tra le mie braccia, immersa nel mio odore, immersa in se stessa. Lei è una cosa preziosa, un diamante che brilla candido solo per me. Nei suoi sogni la melodia di un organo di una chiesa lontana. So che è consapevole delle mie paure. So che le sente e che per questo soffre in silenzio. Nei suoi desideri vorrebbe vedermi percorso dall’identico brivido di emozioni di cui lei è invece padrona. E se non fossi in grado di amare nel senso proprio del termine, qualunque esso sia? Di certo, sono le mie paure e incertezze a non permettermi di cogliere la leggerezza dell’amore, a non permettermi di contribuire alla magia che dovrebbe percorrere ogni singola molecola del nostro essere. Forse l’amore è fatto solo per persone come lei. Qualsiasi risultato io voglia ottenere, devo convincermi della necessità di abbandonare ogni razionalità, ogni ragionamento e abbracciare le emozioni, viverle senza freni. Se solo trovassi il coraggio per immaginare che dinanzi a me non ci sia


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un confine statico, simbolo di protezione ma anche di codardia, ma un orizzonte tanto vasto quanto incerto. Un orizzonte al di la del quale c’è l’inizio di un percorso, la cui direzione e meta, senza dubbio, dipenderanno anche da me. Mi vergogno. È questo che provo, quando sto con lei. Provo vergogna perché non sono capace di farle spiccare il volo, perché le sto donando una vita di emozioni contenute, di prevedibili circostanze. Dov’è la poesia, dov’è l’amore che anch’io sognavo di poter dare? Dove gli slanci, i profumi, i colori? Dove le immagini con cui più volte ho cercato di saziare la mia fantasia? Perché dentro di me solo l’arido deserto? In quale miseria è caduto il mio animo? Quale la causa del mio atteggiamento? Come potrò spiegarle che la sensibilità di cui tanto mi vantavo, insieme alla fantasia che doveva farla sognare, sono d’improvviso scomparse dietro la più banale delle paure? Il suo amore, le sue dolcezze, le sue attenzioni, le sue premure per i miei bisogni, per le mie aspirazioni, per quanto potranno resistere? Per quanto tempo saranno in grado di lavorare per due? D’improvviso, quell’amore potrebbe arrivare a cedere. Ormai stanco della mia inadeguatezza, potrebbe accorgersi dell’illusoria e fittizia immagine che mostravo agli altri. Privato delle proprie forze, potrebbe lasciare il posto all’egoismo. A un amore egoista che non si preoccupa più dei bisogni altrui, ma solo dei propri. L’istinto di sopravvivenza non ammette deroghe. Tutto, in seguito, dovrà avvenire secondo i suoi canoni, anche l’amore che riceve. Mi accorgo di amarla e odiarla allo stesso tempo. Avverto la consapevolezza di navigare senza mappa in mari ostili e sconosciuti. Sono terrorizzato dalla mia insufficienza. In preda a turbini di emozioni e sentimenti, ho la necessità di contenere gli effetti collaterali di questa instabilità. Devo frenare sul nascere il desiderio di scappare per non deluderla. Poi, penso che in fondo non ho la più pallida idea di cosa voglio. Certo è che non devo permettere a me stesso di farle del male. Lei è così fragile. Io? Anche. Sono fermo, ancora in piedi, dietro le sue spalle. Continuo a guardarla, preso dal vago tentativo di riconoscere in lei


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qualcosa di familiare. Osservo i suoi gesti, nella speranza di ritrovarvi qualcosa che mi ricordi come io abbia fatto ad arrivare fino a questo punto. Come ho fatto a non riconoscermi più? A volte, quando mi guardo allo specchio, ho la netta sensazione di essere di fronte ad uno sconosciuto. Quello riflesso nello specchio è un individuo diverso da me. È una sensazione strana. È ciò che provo. Allora, forte si accende in me il desiderio di allontanarmi da una realtà che non comprendo più, nella quale gioia e fantasia sono svilite, sopraffatte dalla paura che ho di perderla. Tra i miei sensi assopiti, privati come sono del meraviglioso profumo dell’aria leggera della primavera e delle emozioni che essa sa dare, si fa strada l’idea della fuga. Nella mia mente, che ha ormai smesso di viaggiare sospinta e sorretta dall’aria volubile della primavera, si fa strada l’idea della fuga. Si sta alzando. I capelli le cadono disordinati sulle spalle. Il suo viso è accigliato, per contrastare la forte luce del sole. Sta entrando in casa. Mi siedo. Non voglio che capisca che la guardavo, non voglio che mi veda vulnerabile. Poche parole prima di uscire di nuovo. Dove sono finiti gli interminabili sorrisi, le complicità maliziose, la dolce tenerezza, le coccole, i baci e le carezze? Dove sono finito io, rifugiato nella mia tana di insoddisfazione, di aspettative tradite, di ridotta dignità. Eppure non credevo di soffrire in questo modo. Mai avrei immaginato che, a causa di insicurezze che non sapevo nemmeno d’avere, la scelta naturale di condividere la mia vita con la persona che amo potesse svelare in me così tanti aspetti negativi. Gli stessi aspetti che già in luoghi e tempi diversi mi sono stati più volte mostrati e rispetto ai quali io non fui in grado di reagire con la giusta comprensione. I miei sogni sono sempre stati ponderati e, nonostante ciò, sempre al di sopra della mia capacità di realizzarli. Mai sono stato in grado di portarli a termine, di crederci fino in fondo. Speravo in una famiglia che mi comprendesse, senza dover giustificare ogni mia mossa. Una famiglia priva di possessività e di tensioni. Una


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moglie attenta e mai sottomessa. Una donna fiera, lungimirante, coraggiosa, di cui sentirmi orgoglioso. La cosa buffa è che tutto questo c’è, fa parte della mia realtà, salvo che per i miei atteggiamenti poco coraggiosi e maturi, di certo insicuri. Ciò che non si è verificato è solo nella mia reazione. Nel sogno, io ero felice di questa vita, soddisfatto dei miei traguardi di uomo maturo e sicuro della mia posizione. Certo del fatto che non l’avrei mai persa e che non avrebbe mai guardato nessun altro. Convinto che per lei nessuno fosse migliore di me. Non è così! Non riesco più a credere che possa essere così. Vivo nella perenne incertezza dell’idea che si è fatta di me. Non sono più in grado di capire quali emozioni provi quando stiamo insieme, sotto le coperte, in penombra, quando mi annullo in lei. Rivoglio la mia sicurezza, le emozioni che ho perso. Rivoglio il battito accelerato del cuore, le cose che non ho più fatto. Rivoglio i brividi lungo la schiena. Voglio sospirare, desiderare, sognare, guardare il cielo stellato, vivere con l’animo leggero. Vivere convinto del fatto che non la perderò mai, che non perderò mai il suo cuore. Non posso permettermi di perderla. Sono venuto meno alle mie responsabilità. Le ho mentito. Sono alcuni giorni mi chiede se va tutto bene. Per ferirmi di più, lo fa con aria innocente, lasciando trasparire il bisogno che ha di me, il bisogno che ha di quello che dovrebbe essere un marito. Mi ricorda della necessità che sente di avere accanto una persona che non riversi in lei tutte le sue paure. Vorrei urlare, vorrei che nessuno al mondo avesse bisogno di me. È una menzogna dire che si è liberi quando non si ha bisogno di nessuno. La vera libertà sta invece nel fatto che nessuno abbia bisogno di te. Soprattutto se si tratta di coloro che non vuoi ferire, oppure della persona alla quale hai chiesto di essere la tua compagna per la vita. Come perdonare se stessi per non aver avuto il coraggio di ammettere, di fronte a lei, di non essere perfetti quanto si credeva? Lo so, sono un codardo. Dovrei capire il mio malessere. Accettarlo e confessare le mie sensazioni. Devo darle almeno la possibilità di dimostrare che è in grado di comprendere, di porvi rimedio. E, se poi vorrà, potrà anche


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arrabbiarsi, prendermi a schiaffi, insultarmi, piangere. Insomma, avrà almeno riconosciuto il diritto di reagire, di essere consapevole della realtà che la circonda. Ciò che mi frena è la paura di ferirla. Temo di rompere quel sogno fatato in cui ci ha rinchiuso, di spezzare il piedistallo dove mi ha posto, di renderle evidente tutta la mia umana debolezza, di compromettere l’orgoglio che prova nell’essere mia moglie. Forse sto provando solo ciò che prova una persona innamorata. Una persona che vede in chi le sta accanto un elemento indispensabile nella propria vita, in chi le sta di fronte un possibile nemico. Quante volte non l’ho capito. Sono nel letto accanto a lei. Anche questa giornata è fuggita via, insieme con un’altra possibilità di affrontare a viso aperto le mie paure. Lei dorme serena accanto a me, ha il respiro leggero delle creature innocenti. La finestra della camera è aperta. L’aria è calda, siamo in primavera. Mi volto dall’altra parte, non voglio guardarla. Nella sua serenità vedo la mia paura che tutto ciò, prima o poi, possa terminare. Chiudo gli occhi, li stringo forte fino a provare dolore. Voglio cancellare l’immagine residua di lei che ancora rivive all’interno delle mie palpebre. All’improvviso un brivido. Cosa accade?! Una leggera brezza, come un soffio delicato raggiunge i miei sensi. Immediata la sensazione che ne deriva. Mi coglie una profonda emozione, una sensazione di sollievo. Il mio corpo e la mia mente sono ora leggeri e sgombri. Mi tornano alla mente in rapida serie le immagini del passato, dei momenti importanti, dei momenti profondi. Riconosco nell’intenso profumo che mi ha avvolto l’aria della primavera. L’insieme delle domande svanisce dietro risposte tanto limpide da non richiedere nessuna elaborazione. Mi giro verso di lei e, con l’animo libero, la stringo forte a me. Lei si lascia abbracciare. Vedo un dolce sorriso formarsi sulle sue labbra morbide di sonno. In un sussurro, come in un sogno, mi dice: «Bentornato amore mio». La bacio con delicatezza e spingo la faccia tra i suoi capelli e giù per il collo.


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Ritrovo in lei lo stesso odore della primavera, lo stesso odore che era sempre stato accanto a me, ma che non riuscivo piÚ a percepire. Questa notte dormirò profondamente e i miei sogni saranno la mia realtà .


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33 – LA MIA VITA (seconda parte)

Sono ancora nel corridoio. Cammino piano e penso alla felicità. Illusoria e sfuggente, segue un intricato e inaccessibile percorso, indipendente dagli sforzi che facciamo per agguantarla. La felicità non si può conquistare è costringere a se, non puoi chiederle di accompagnarti per tutta la vita. La felicità richiede consapevolezza, richiede capacità critica, richiede esperienza. Arriva e svanisce. Solo lei è stata in grado di condurmi a essa. Quando la guardo e vedo la mia immagine riflessa nei suoi occhi, ancora impreziositi da una luce intensa che non l’ha mai abbandonata, vedo il volto di un vecchio, sul quale posso con facilità contare le rughe che, una ad una, hanno conquistato un loro posto. Oggi, quando lungo la linea delle mie rughe ripercorro la vita insieme a lei, sono felice. Sono felice di una felicità consapevole, ricca di esperienza, di ricordi, di passato, di vissuto, di semplicità. Sento dei passi confusi e rapidi avvicinarsi alle mie spalle, sento risate allegre svolazzare eteree per la stanza, sento... quattro piccole mani che mi afferrano i pantaloni, in basso, all’altezza del ginocchio. Sento le voci più dolci e belle che esistono nel mio mondo. «Nonno! Nonno! Vieni a giocare con noi, facci vedere quel gioco che sai fare con le monetine ... dai, per favore! Nonno! Nonno!». Abbiamo avuto tre figli. Ricordo l’emozione di assistere alla nascita di una nuova vita, la prepotente consapevolezza di essere stato l’artefice di questo incredibile miracolo. Ricordo gli incontenibili battiti del cuore quando, da piccoli, mi gettavano le braccia al collo, quando immergevo il naso nel loro odore puro.


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Sono passati molti anni. Oggi i nostri figli sono diventati grandi. Quando penso a loro, mi sorprende l’evoluzione che ha avuto, nel corso degli anni, il nostro rapporto. I ricordi della mia vita hanno assunto una consistenza fluida e modellabile. Non sono più singolarmente individuabili, ma vivono in una mescolanza di cui si può solo percepire il retrogusto, come avviene quando si assaggia e si valuta un buon vino invecchiato. Mi guardo attorno in questa mattina di primavera, con i raggi del sole che entrano dalla finestra che da verso il mare, con il suo profumo sparso per la casa, con queste piccole mani desiderose delle mie attenzioni, con lei che mi sorride, appoggiata alla porta del soggiorno. La vita è stata di certo meno emozionante e avventurosa di come mi piaceva immaginarla, senza dubbio più banale e monotona di quella che leggevo di notte nelle stelle. A volte mi fermo a guardarla, mentre è indaffarata per la casa, mentre cura i nostri figli o i nostri nipoti, mente facciamo l’amore, certo con meno passione, ma con la consapevolezza del proprio posto nella vita dell’altro. La guardo e vorrei ringraziarla, ma una sensazione di chiusura alla gola mi impedisce di pronunciare una qualsiasi parola. Vorrei ringraziarla per essere sempre stata accanto a me, per non aver badato ai miei difetti, per avermi difeso tutte le volte in cui ne avessi bisogno, per aver mantenuto tutte le promesse fatte davanti a Dio, per la gioia di vivere accanto a lei. Vorrei ringraziarla per non essere perfetta, per avermi dato la possibilità di muoverle qualche critica, per le furibonde litigate, per le notti che ho dormito sul divano, per avermi dato modo di non sentirmi più piccolo e imperfetto di quello che sono. È primavera inoltrata e, come è stato per tutto il corso della mia vita, continuo ancora a sentire l’aria leggera della primavera, il suo dolce ondeggiare intorno a me, le appena percettibili reazioni chimiche che la rendono così unica e preziosa. Continuo a sentire il suo profumo e mi accorgo che non mi ha mai abbandonato, che è intriso nell’odore della mia casa, nell’odore dei miei vestiti, nell’odore dei capelli di quella splendida fanciulla nei cui occhi lucenti ripercorro le emozioni di tutta la mia vita.


RINGRAZIAMENTI

A mia moglie Claudia, per essere capace di donarmi tutte le emozioni necessarie al mio animo inquieto. A Giovanni, per il suo utile e generoso sostegno e per l’opera di revisione del testo. A Olga, per la tenera amicizia e per l’incoraggiamento.



UN AIUTO A COLPI DI PENNA &

IL CLUB DEI LETTORI Grazie! TI RINGRAZIAMO PER AVERE ACQUISTATO QUESTO LIBRO, con il quale hai contribuito ad aumentare il fondo di “UN AIUTO A COLPI DI PENNA”, che a fine anno sarà devoluto a scopo benefico a favore di ASSOCIAZIONE DYNAMO CAMP ONLUS terapia ricreativa per bambini con patologie gravi e croniche (www.dynamocamp.org) Vota! INOLTRE, SE VOTERAI ONLINE QUESTO LIBRO parteciperai gratuitamente al concorso IL CLUB DEI LETTORI (www.clubdeilettori.serviziculturali.org) Soddisfatto o “Sostituito” Se la lettura di questo libro non ti avrà soddisfatto, potrai sostituirlo con un altro libro che potrai scegliere dal nostro vastissimo catalogo. (informazioni su www.ilclubdeilettori.com)

Le iniziative sono promosse da: => Zerounoundici Edizioni (www.0111edizioni.com) => ASSOCIAZIONE SERVIZI CULTURALI, che promuove la letteratura italiana emergente ed esordiente (www.serviziculturali.org)



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